Giovanni Boccaccio
Decameron
Conclusioni dell'Autore
QUI FINISCE LA DECIMA E ULTIMA GIORNATA DEL LIBRO CHIAMATO DECAMERON, COGNOMINATO PRENCIPE GALEOTTO
Nobilissime giovani, a consolazion delle quali io a
così lunga fatica messo mi sono, io mi credo, aiutantemi la divina grazia, sì come io
avviso, per li vostri pietosi prieghi, non già per li miei meriti, quello compiutamente
aver fornito che io nel principio della presente opera promisi di dover fare; per la qual
cosa Iddio primieramente, e appresso voi ringraziando, è da dare alla penna e alla man
faticata riposo. Il quale prima che io le conceda, brievemente ad alcune cosette, le quali
forse alcuna di voi o altri potrebbe dire (con ciò sia cosa che a me paia esser
certissimo queste non dovere avere spezial privilegio più che l'altre cose, anzi non
averlo mi ricorda nel principio della quarta giornata aver mostrato), quasi a tacite
quistioni mosse, di rispondere intendo.
Saranno per avventura alcune di voi che diranno che io
abbia nello scriver queste novelle troppa licenzia usata, sì come fare alcuna volta dire
alle donne e molte spesso ascoltare cose non assai convenienti né a dire né ad ascoltare
ad oneste donne. La qual cosa io nego, per ciò che niuna sì disonesta n'è, che, con
onesti vocaboli dicendola, si disdica ad alcuno; il che qui mi pare assai convenevolmente
bene aver fatto. Ma presupponiamo che così sia (ché non intendo di piatir con voi, che
mi vincereste), dico, a rispondere perché io abbia ciò fatto, assai ragioni vengon
prontissime. Primieramente se alcuna cosa in alcuna n'è, la qualità delle novelle
l'hanno richesta, le quali se con ragionevole occhio da intendente persona fien
riguardate, assai aperto sarà conosciuto (se io quelle della lor forma trar non avessi
voluto) altramenti raccontar non poterle. E se forse pure alcuna particella è in quelle,
alcuna paroletta più liberale che forse a spigolistra donna non si conviene, le quali
più le parole pesano che'fatti e più d'apparer s'ingegnano che d'esser buone, dico che
più non si dee a me esser disdetto d'averle scritte, che generalmente si disdica agli
uomini e alle donne di dir tutto dì foro e caviglia e mortaio
e pestello e salciccia e mortadello, e tutto pieno di
simiglianti cose. Senza che alla mia penna non dee essere meno d'autorità conceduta che
sia al pennello del dipintore, il quale senza alcuna riprensione, o almen giusta, lasciamo
stare che egli faccia a san Michele ferire il serpente con la spada o con la lancia, e a
san Giorgio il dragone dove gli piace; ma egli fa Cristo maschio ed Eva femina, e a Lui
medesimo che volle per la salute della umana generazione sopra la croce morire, quando con
un chiovo e quando con due i piè gli conficca in quella. Appresso assai ben si può
cognoscere queste cose non nella chiesa, delle cui cose e con animi e con vocaboli
onestissimi si convien dire (quantunque nelle sue istorie d'altramenti fatte, che le
scritte da me, si truovino assai), né ancora nelle scuole de'filosofanti, dove l'onestà
non meno che in altra par te è richesta, dette sono, né tra'cherici né tra'filosofi in
alcun luogo, ma ne'giardini, in luogo di sollazzo, tra persone giovani, benché mature e
non pieghevoli per novelle, in tempo nel quale andar con le brache in capo per iscampo di
sé era alli più onesti non disdicevole, dette sono. Le quali, chenti che elle si sieno,
e nuocere e giovar possono, sì come possono tutte l'altre cose, avendo riguardo allo
ascoltatore. Chi non sa ch'è il vino ottima cosa a'viventi, secondo Cinciglione e Scolaio
e assai altri, e a colui che ha la febbre è nocivo? Direm noi, per ciò che nuoce
a'febricitanti, che sia malvagio? Chi non sa che 'l fuoco è utilissimo, anzi necessario
a'mortali? Direm noi, per ciò che egli arde le case e le ville e le città, che sia
malvagio? L'arme similmente la salute difendon di coloro che pacificamente di viver
disiderano, e anche uccidon gli uomini molte volte, non per malizia di loro, ma di coloro
che malvagiamente l'adoperano. Niuna corrotta mente intese mai sanamente parola; e così
come le oneste a quella non giovano, così quelle che tanto oneste non sono la ben
disposta non posson contaminare, se non come il loto i solari raggi o le terrene brutture
le bellezze del cielo. Quali libri, quali parole, quali lettere son più sante, più
degne, più riverende, che quelle della divina Scrittura? E sì sono egli stati assai che,
quelle perversamente intendendo, sé e altrui a perdizione hanno tratto. Ciascuna cosa in
sé medesima è buona ad alcuna cosa, e male adoperata può essere nociva di molte; e
così dico delle mie novelle. Chi vorrà da quelle malvagio consiglio o malvagia operazion
trarre, elle nol vieteranno ad alcuno, se forse in sé l'hanno, e torte e tirate fieno ad
averlo; e chi utilità e frutto ne vorrà, elle nol negheranno, né sarà mai che altro
che utili e oneste sien dette o tenute, se a que'tempi o a quelle persone si leggeranno,
per cui s e pe'quali state sono raccontate. Chi ha a dir paternostri o a fare il
migliaccio o la torta al suo divoto, lascile stare: elle non correranno di dietro a niuna
a farsi leggere; benché e le pinzochere altressì dicono e anche fanno delle cosette otta
per vicenda.
Saranno similmente di quelle che diranno qui esserne
alcune, che non essendoci sarebbe stato assai meglio. Concedasi: ma io non poteva né
doveva scrivere se non le raccontate, e per ciò esse che le dissero le dovevan dir belle,
e io l'avrei scritte belle. Ma se pur presupporre si volesse che io fossi stato di quelle
e lo 'nventore e lo scrittore (che non fui), dico che io non mi vergognerei che tutte
belle non fossero per ciò che maestro alcun non si truova, da Dio in fuori, che ogni cosa
faccia bene e compiutamente; e Carlo Magno, che fu il primo facitore de'Paladini, non ne
seppe tanti creare che esso di lor soli potesse fare oste. Conviene nella moltitudine
delle cose, diverse qualità di cose trovarsi. Niun campo fu mai sì ben coltivato, che in
esso o ortica o triboli o alcun pruno non si trovasse mescolato tra l'erbe migliori. Senza
che, ad avere a favellare a semplici giovinette come voi il più siete, sciocchezza
sarebbe stata l'andar cercando e faticandosi in trovar cose molto esquisite, e gran cura
porre di molto misuratamente parlare. Tuttavia chi va tra queste leggendo, lasci star
quelle che pungono, e quelle che dilettano legga. Esse, per non ingannare alcuna personar
tutte nella fronte portan segnato quello che esse dentro dal loro seno nascoso tengono.
E ancora, credo, sarà tal che dirà che ce ne son di
troppo lunghe. Alle quali ancora dico, che chi ha altra cosa a fare, follia fa a queste
leggere, eziandio se brievi fossero. E come che molto tempo passato sia da poi che io a
scriver cominciai, infino a questa ora che io al fine vengo della mia fatica, non m'è per
ciò uscito di mente me avere questo mio affanno offerto alle oziose e non all'altre; e a
chi per tempo passar legge, niuna cosa puote esser lunga, se ella quel fa per che egli
l'adopera. Le cose brievi si convengon molto meglio agli studianti, li quali non per
passare ma per utilmente adoperare il tempo faticano, che a voi, donne, alle quali tanto
del tempo avanza quanto negli amorosi piaceri non ispendete. E oltre a questo, per ciò
che né ad Atene né a Bologna o a Parigi alcuna di voi non va a studiare, più
distesamente parlar vi si conviene che a quegli che hanno negli studi gl'ingegni
assottigliati.
Né dubito punto che non sien di quelle ancor che diranno
le cose dette esser troppo piene e di motti e di ciance e mal convenirsi ad uno uom pesato
e grave aver così fattamente scritto. A queste son io tenuto di render grazie e rendo,
per ciò che, da buon zelo movendosi, tenere son della mia fama. Ma così alla loro
opposizione vo'rispondere: io confesso d'esser pesato, e molte volte de'miei dì essere
stato; e per ciò, parlando a quelle che pesato non m'hanno, affermo che io non son grave,
anzi son io sì lieve che io sto a galla nell'acqua; e considerato che le prediche fatte
da'frati, per rimorder delle lor colpe gli uomini, il più oggi piene di motti e di ciance
e di scede [sono], estimai che quegli medesimi non stesser male nelle mie novelle, scritte
per cacciar la malinconia delle femine. Tuttavia, se troppo per questo ridessero, il
lamento di Geremia, la passione del Salvatore e il ramarichio della Maddalena ne le potrà
agevolmente guerire.
E chi starà in pensiero che di quelle ancor non si
truovino che diranno che io abbia mala lingua e velenosa, per ciò che in alcun luogo
scrivo il ver de' frati? A queste che così diranno si vuol perdonare, per ciò che non è
da credere che altra che giusta cagione le muova, per ciò che i frati son buone persone e
fuggono il disagio per l'amor di Dio, e macinano a raccolta e nol ridicono; e se non che
di tutti un poco viene del caprino, troppo sarebbe più piacevole il piato loro. Confesso
nondimeno le cose di questo mondo non avere stabilità alcuna, ma sempre essere in
mutamento, e così potrebbe della mia lingua esser intervenuto; la quale, non credendo io
al mio giudicio (il quale a mio potere io fuggo nelle mie cose) non ha guari mi disse una
mia vicina che io l'aveva la migliore e la più dolce del mondo; e in verità, quando
questo fu, egli erano poche a scrivere delle soprascritte novelle. E per ciò che
animosamente ragionan quelle cotali, voglio che quello che è detto basti lor per
risposta.
E lasciando omai a ciascheduna e dire e credere come le
pare, tempo è da por fine alle parole, Colui umilmente ringraziando che dopo sì lunga
fatica col suo aiuto n'ha al desiderato fine condotto. E voi, piacevoli donne, con la sua
grazia in pace vi rimanete, di me ricordandovi, se ad alcuna forse alcuna cosa giova
l'averle lette.
QUI FINISCE LA DECIMA E ULTIMA GIORNATA
DEL LIBRO CHIAMATO DECAMERON,
COGNOMINATO PRENCIPE GALEOTTO
© 1997 - by prof. Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 08 febbraio 1998