Dante Alighieri
LA DIVINA COMMEDIA
INFERNO
sabato 9 aprile, fra l'una e le due pomeridiane | cerchio VIII, bolgia IX: Dante osserva la bolgia dal ponte e non descrive il luogo, impressionato dall'aspetto oscenamente sconcio dei dannati; cerchio VIII, bolgia X: anche questa non viene descritta | Geri del Bello, Griffolino d'Arezzo, Capocchio | seminatori di scandali e scismi: in lenta processione fanno eternamente il giro della bolgia e vengono orribilmente sconciati con la spada da un demonio quando gli passano davanti: ad ogni giro le ferite si rimarginano lentamente. alchimisti: falsari di metalli: stesi per terra, ammassati a mucchi o sostenendosi a fatica vicendevolmente, corrotti nel fisico dalle malattie (scabbia, lebbra, pustole ripugnanti e maleodoranti) e tormentati da un fastidioso prurito che li obbliga a straziarsi le carni in cerca di un illusorio sollievo. |
Comincia il canto vigesimonono dello 'Nferno. Nel quale l'autore, disceso nella decima bolgia, mostra primieramente come in quella, essendo maculati di rogna e di scabbia, si puniscano gli alchimisti; e quivi parla con Capocchio d'Arezzo; poi, più avanti, mostra con altre pene punirsi ogni falsario. |
La molta gente e le diverse piaghe avean le luci mie sì inebrïate, che de lo stare a piangere eran vaghe. Ma Virgilio mi disse: «Che pur guate? perché la vista tua pur si soffolge là giù tra lombre triste smozzicate? Tu non hai fatto sì a laltre bolge; pensa, se tu annoverar le credi, che miglia ventidue la valle volge. E già la luna è sotto i nostri piedi: lo tempo è poco omai che nè concesso, e altro è da veder che tu non vedi». «Se tu avessi», rispuosio appresso, «atteso a la cagion perchio guardava, forse mavresti ancor lo star dimesso». Parte sen giva, e io retro li andava, lo duca, già faccendo la risposta, e soggiugnendo: «Dentro a quella cava dovio tenea or li occhi sì a posta, credo chun spirto del mio sangue pianga la colpa che là giù cotanto costa». Allor disse l maestro: «Non si franga lo tuo pensier da qui innanzi sovrello. Attendi ad altro, ed ei là si rimanga; chio vidi lui a piè del ponticello mostrarti, e minacciar forte, col dito, e udi l nominar Geri del Bello. Tu eri allor sì del tutto impedito sovra colui che già tenne Altaforte, che non guardasti in là, sì fu partito». «O duca mio, la violenta morte che non li è vendicata ancor», dissio, «per alcun che de lonta sia consorte, fece lui disdegnoso; ondel sen gio sanza parlarmi, sì comio estimo: e in ciò mha el fatto a sé più pio». Così parlammo infino al loco primo che de lo scoglio laltra valle mostra, se più lume vi fosse, tutto ad imo. Quando noi fummo sor lultima chiostra di Malebolge, sì che i suoi conversi potean parere a la veduta nostra, lamenti saettaron me diversi, che di pietà ferrati avean li strali; ondio li orecchi con le man copersi. Qual dolor fora, se de li spedali, di Valdichiana tra l luglio e l settembre e di Maremma e di Sardigna i mali fossero in una fossa tutti nsembre, tal era quivi, e tal puzzo nusciva qual suol venir de le marcite membre. Noi discendemmo in su lultima riva del lungo scoglio, pur da man sinistra; e allor fu la mia vista più viva giù ver lo fondo, la ve la ministra de lalto Sire infallibil giustizia punisce i falsador che qui registra. Non credo cha veder maggior tristizia fosse in Egina il popol tutto infermo, quando fu laere sì pien di malizia, che li animali, infino al picciol vermo, cascaron tutti, e poi le genti antiche, secondo che i poeti hanno per fermo, si ristorar di seme di formiche; chera a veder per quella oscura valle languir li spirti per diverse biche. Qual sovra l ventre, e qual sovra le spalle lun de laltro giacea, e qual carpone si trasmutava per lo tristo calle. Passo passo andavam sanza sermone, guardando e ascoltando li ammalati, che non potean levar le lor persone. Io vidi due sedere a sé poggiati, coma scaldar si poggia tegghia a tegghia, dal capo al piè di schianze macolati; e non vidi già mai menare stregghia a ragazzo aspettato dal segnorso, né a colui che mal volontier vegghia, come ciascun menava spesso il morso de lunghie sopra sé per la gran rabbia del pizzicor, che non ha più soccorso; e sì traevan giù lunghie la scabbia, come coltel di scardova le scaglie o daltro pesce che più larghe labbia. «O tu che con le dita ti dismaglie», cominciò l duca mio a lun di loro, «e che fai desse talvolta tanaglie, dinne salcun Latino è tra costoro che son quincentro, se lunghia ti basti etternalmente a cotesto lavoro». «Latin siam noi, che tu vedi sì guasti qui ambedue», rispuose lun piangendo; «ma tu chi se che di noi dimandasti?». E l duca disse: «I son un che discendo con questo vivo giù di balzo in balzo, e di mostrar lo nferno a lui intendo». Allor si ruppe lo comun rincalzo; e tremando ciascuno a me si volse con altri che ludiron di rimbalzo. Lo buon maestro a me tutto saccolse, dicendo: «Dì a lor ciò che tu vuoli»; e io incominciai, poscia chei volse: «Se la vostra memoria non simboli nel primo mondo da lumane menti, ma sella viva sotto molti soli, ditemi chi voi siete e di che genti; la vostra sconcia e fastidiosa pena di palesarvi a me non vi spaventi». «Io fui dArezzo, e Albero da Siena», rispuose lun, «mi fé mettere al foco; ma quel per chio mori qui non mi mena. Vero è chi dissi lui, parlando a gioco: "I mi saprei levar per laere a volo"; e quei, chavea vaghezza e senno poco, volle chi li mostrassi larte; e solo perchio nol feci Dedalo, mi fece ardere a tal che lavea per figliuolo. Ma nell ultima bolgia de le diece me per lalchìmia che nel mondo usai dannò Minòs, a cui fallar non lece». E io dissi al poeta: «Or fu già mai gente sì vana come la sanese? Certo non la francesca sì dassai!». Onde laltro lebbroso, che mintese, rispuose al detto mio: «Tramene Stricca che seppe far le temperate spese, e Niccolò che la costuma ricca del garofano prima discoverse ne lorto dove tal seme sappicca; e trane la brigata in che disperse Caccia dAscian la vigna e la gran fonda, e lAbbagliato suo senno proferse. Ma perché sappi chi sì ti seconda contra i Sanesi, aguzza ver me locchio, sì che la faccia mia ben ti risponda: sì vedrai chio son lombra di Capocchio, che falsai li metalli con lalchìmia; e te dee ricordar, se ben tadocchio, comio fui di natura buona scimia». |
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sabato 9 aprile, tra l'una e le due pomeridiane. | cerchio VIII, bolgia X: anche questa non viene descritta | Capocchio, Griffolino d'Arezzo, Maestro Adamo, Sinone, Gianni Schicchi, Mirra moglie di Putifarre | falsari di persona: costretti a correre
e, in preda a una furiosa smania, addentano gli altri dannati; falsari di moneta: restano sempre immobili, colpiti dall'idropisia che li deforma ingrossandone il ventre a dismisura; falsari di parola: sono arsi da una febbre così alta che il loro corpo emana vapore e ripugnante puzza di unto bruciato. |
Comincia il canto trigesimo dello 'Nferno. Nel quale l'autore, continuando nella predetta bolgia, ne nomina alquanti, e tra gli altri Maestro Adamo, discrivendo la riotta stata tra 'l maestro Adamo e Sinon greco in sua presenza. |
Nel tempo che Iunone era
crucciata per Semelè contra l sangue tebano, come mostrò una e altra fiata, Atamante divenne tanto insano, che veggendo la moglie con due figli andar carcata da ciascuna mano, gridò: «Tendiam le reti, sì chio pigli la leonessa e leoncini al varco»; e poi distese i dispietati artigli, prendendo lun chavea nome Learco, e rotollo e percosselo ad un sasso; e quella sannegò con laltro carco. E quando la fortuna volse in basso laltezza de Troian che tutto ardiva, sì che nsieme col regno il re fu casso, Ecuba trista, misera e cattiva, poscia che vide Polissena morta, e del suo Polidoro in su la riva del mar si fu la dolorosa accorta, forsennata latrò sì come cane; tanto il dolor le fé la mente torta. Ma né di Tebe furie né troiane si vider mai in alcun tanto crude, non punger bestie, nonché membra umane, quantio vidi in due ombre smorte e nude, che mordendo correvan di quel modo che l porco quando del porcil si schiude. Luna giunse a Capocchio, e in sul nodo del collo lassannò, sì che, tirando, grattar li fece il ventre al fondo sodo. E lAretin che rimase, tremando mi disse: «Quel folletto è Gianni Schicchi, e va rabbioso altrui così conciando». «Oh!», dissio lui, «se laltro non ti ficchi li denti a dosso, non ti sia fatica a dir chi è, pria che di qui si spicchi». Ed elli a me: «Quellè lanima antica di Mirra scellerata, che divenne al padre fuor del dritto amore amica. Questa a peccar con esso così venne, falsificando sé in altrui forma, come laltro che là sen va, sostenne, per guadagnar la donna de la torma, falsificare in sé Buoso Donati, testando e dando al testamento norma». E poi che i due rabbiosi fuor passati sovra cu io avea locchio tenuto, rivolsilo a guardar li altri mal nati. Io vidi un, fatto a guisa di leuto, pur chelli avesse avuta languinaia tronca da laltro che luomo ha forcuto. La grave idropesì, che sì dispaia le membra con lomor che mal converte, che l viso non risponde a la ventraia, facea lui tener le labbra aperte come letico fa, che per la sete lun verso l mento e laltro in sù rinverte. «O voi che sanzalcuna pena siete, e non so io perché, nel mondo gramo», disselli a noi, «guardate e attendete a la miseria del maestro Adamo: io ebbi vivo assai di quel chi volli, e ora, lasso!, un gocciol dacqua bramo. Li ruscelletti che di verdi colli del Casentin discendon giuso in Arno, faccendo i lor canali freddi e molli, sempre mi stanno innanzi, e non indarno, ché limagine lor vie più masciuga che l male ondio nel volto mi discarno. La rigida giustizia che mi fruga tragge cagion del loco ovio peccai a metter più li miei sospiri in fuga. Ivi è Romena, là dovio falsai la lega suggellata del Batista; per chio il corpo sù arso lasciai. Ma sio vedessi qui lanima trista di Guido o dAlessandro o di lor frate, per Fonte Branda non darei la vista. Dentro cè luna già, se larrabbiate ombre che vanno intorno dicon vero; ma che mi val, cho le membra legate? Sio fossi pur di tanto ancor leggero chi potessi in centanni andare unoncia, io sarei messo già per lo sentiero, cercando lui tra questa gente sconcia, con tutto chella volge undici miglia, e men dun mezzo di traverso non ci ha. Io son per lor tra sì fatta famiglia: e mindussero a batter li fiorini chavevan tre carati di mondiglia». E io a lui: «Chi son li due tapini che fumman come man bagnate l verno, giacendo stretti a tuoi destri confini?». «Qui li trovai - e poi volta non dierno - », rispuose, «quando piovvi in questo greppo, e non credo che dieno in sempiterno. Luna è la falsa chaccusò Gioseppo; laltrè l falso Sinon greco di Troia: per febbre aguta gittan tanto leppo». E lun di lor, che si recò a noia forse desser nomato sì oscuro, col pugno li percosse lepa croia. Quella sonò come fosse un tamburo; e mastro Adamo li percosse il volto col braccio suo, che non parve men duro, dicendo a lui: «Ancor che mi sia tolto lo muover per le membra che son gravi, ho io il braccio a tal mestiere sciolto». Ondei rispuose: «Quando tu andavi al fuoco, non lavei tu così presto; ma sì e più lavei quando coniavi». E lidropico: «Tu di ver di questo: ma tu non fosti sì ver testimonio là ve del ver fosti a Troia richesto». «Sio dissi falso, e tu falsasti il conio», disse Sinon; «e son qui per un fallo, e tu per più chalcun altro demonio!». «Ricorditi, spergiuro, del cavallo», rispuose quel chavea infiata lepa; «e sieti reo che tutto il mondo sallo!». «E te sia rea la sete onde ti crepa», disse l Greco, «la lingua, e lacqua marcia che l ventre innanzi a li occhi sì tassiepa!». Allora il monetier: «Così si squarcia la bocca tua per tuo mal come suole; ché si ho sete e omor mi rinfarcia, tu hai larsura e l capo che ti duole, e per leccar lo specchio di Narcisso, non vorresti a nvitar molte parole». Ad ascoltarli erio del tutto fisso, quando l maestro mi disse: «Or pur mira, che per poco che teco non mi risso!». Quandio l senti a me parlar con ira, volsimi verso lui con tal vergogna, chancor per la memoria mi si gira. Qual è colui che suo dannaggio sogna, che sognando desidera sognare, sì che quel chè, come non fosse, agogna, tal mi fecio, non possendo parlare, che disiava scusarmi, e scusava me tuttavia, e nol mi credea fare. «Maggior difetto men vergogna lava», disse l maestro, «che l tuo non è stato; però dogne trestizia ti disgrava. E fa ragion chio ti sia sempre allato, se più avvien che fortuna taccoglia dove sien genti in simigliante piato: ché voler ciò udire è bassa voglia». |
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sabato 9 aprile, fra le tre e le quattro del pomeriggio | pozzo dei giganti, che si trova fra l'ottavo cerchio dei fraudolenti e il nono dei traditori. | Nembrot, Fialte, Briàreo, Anteo, Tizio, Tifo. | costretti all'immobilità e al silenzio assoluti, sono nel pozzo dall'ombelico in giù ed emergono come torri enormi: solo Anteo, per un attimo, si muove per depositare Dante e Virgilio nella prima zona del nono cerchio |
Comincia il canto trigesimoprimo dello 'Nferno. Nel quale l'autore dimostra sé esser pervenuto al pozzo dello abisso, e quello essere intorniato di giganti, e sé con Virgilio essere da Anteo disposti nel nono ed ultimo cerchio dello 'nferno. |
Una medesma lingua pria
mi morse, sì che mi tinse luna e laltra guancia, e poi la medicina mi riporse; così odio che solea far la lancia dAchille e del suo padre esser cagione prima di trista e poi di buona mancia. Noi demmo il dosso al misero vallone su per la ripa che l cinge dintorno, attraversando sanza alcun sermone. Quivera men che notte e men che giorno, sì che l viso mandava innanzi poco; ma io senti sonare un alto corno, tanto chavrebbe ogne tuon fatto fioco, che, contra sé la sua via seguitando, dirizzò li occhi miei tutti ad un loco. Dopo la dolorosa rotta, quando Carlo Magno perdé la santa gesta, non sonò sì terribilmente Orlando. Poco portai in là volta la testa, che me parve veder molte alte torri; ondio: «Maestro, di, che terra è questa?». Ed elli a me: «Però che tu trascorri per le tenebre troppo da la lungi, avvien che poi nel maginare abborri. Tu vedrai ben, se tu là ti congiungi, quanto l senso singanna di lontano; però alquanto più te stesso pungi». Poi caramente mi prese per mano, e disse: «Pria che noi siamo più avanti, acciò che l fatto men ti paia strano, sappi che non son torri, ma giganti, e son nel pozzo intorno da la ripa da lumbilico in giuso tutti quanti». Come quando la nebbia si dissipa, lo sguardo a poco a poco raffigura ciò che cela l vapor che laere stipa, così forando laura grossa e scura, più e più appressando ver la sponda, fuggiemi errore e cresciemi paura; però che come su la cerchia tonda Montereggion di torri si corona, così la proda che l pozzo circonda torreggiavan di mezza la persona li orribili giganti, cui minaccia Giove del cielo ancora quando tuona. E io scorgeva già dalcun la faccia, le spalle e l petto e del ventre gran parte, e per le coste giù ambo le braccia. Natura certo, quando lasciò larte di sì fatti animali, assai fé bene per tòrre tali essecutori a Marte. E sella delefanti e di balene non si pente, chi guarda sottilmente, più giusta e più discreta la ne tene; ché dove largomento de la mente saggiugne al mal volere e a la possa, nessun riparo vi può far la gente. La faccia sua mi parea lunga e grossa come la pina di San Pietro a Roma, e a sua proporzione eran laltre ossa; sì che la ripa, chera perizoma dal mezzo in giù, ne mostrava ben tanto di sovra, che di giugnere a la chioma tre Frison saverien dato mal vanto; però chi ne vedea trenta gran palmi dal loco in giù dovomo affibbia l manto. «Raphél maì amèche zabì almi», cominciò a gridar la fiera bocca, cui non si convenia più dolci salmi. E l duca mio ver lui: «Anima sciocca, tienti col corno, e con quel ti disfoga quandira o altra passion ti tocca! Cércati al collo, e troverai la soga che l tien legato, o anima confusa, e vedi lui che l gran petto ti doga». Poi disse a me: «Elli stessi saccusa; questi è Nembrotto per lo cui mal coto pur un linguaggio nel mondo non susa. Lasciànlo stare e non parliamo a vòto; ché così è a lui ciascun linguaggio come l suo ad altrui, cha nullo è noto». Facemmo adunque più lungo viaggio, vòlti a sinistra; e al trar dun balestro, trovammo laltro assai più fero e maggio. A cigner lui qual che fosse l maestro, non so io dir, ma el tenea soccinto dinanzi laltro e dietro il braccio destro duna catena che l tenea avvinto dal collo in giù, sì che n su lo scoperto si ravvolgea infino al giro quinto. «Questo superbo volle esser esperto di sua potenza contra l sommo Giove», disse l mio duca, «ondelli ha cotal merto. Fialte ha nome, e fece le gran prove quando i giganti fer paura a dèi; le braccia chel menò, già mai non move». E io a lui: «Sesser puote, io vorrei che de lo smisurato Briareo esperienza avesser li occhi miei». Ondei rispuose: «Tu vedrai Anteo presso di qui che parla ed è disciolto, che ne porrà nel fondo dogne reo. Quel che tu vuo veder, più là è molto, ed è legato e fatto come questo, salvo che più feroce par nel volto». Non fu tremoto già tanto rubesto, che scotesse una torre così forte, come Fialte a scuotersi fu presto. Allor temettio più che mai la morte, e non vera mestier più che la dotta, sio non avessi viste le ritorte. Noi procedemmo più avante allotta, e venimmo ad Anteo, che ben cinque alle, sanza la testa, uscia fuor de la grotta. «O tu che ne la fortunata valle che fece Scipion di gloria reda, quandAnibàl co suoi diede le spalle, recasti già mille leon per preda, e che, se fossi stato a lalta guerra detuoi fratelli, ancor par che si creda chavrebber vinto i figli de la terra; mettine giù, e non ten vegna schifo, dove Cocito la freddura serra. Non ci fare ire a Tizio né a Tifo: questi può dar di quel che qui si brama; però ti china, e non torcer lo grifo. Ancor ti può nel mondo render fama, chel vive, e lunga vita ancor aspetta se nnanzi tempo grazia a sé nol chiama». Così disse l maestro; e quelli in fretta le man distese, e prese l duca mio, ondErcule sentì già grande stretta. Virgilio, quando prender si sentio, disse a me: «Fatti qua, sì chio ti prenda»; poi fece sì chun fascio era elli e io. Qual pare a riguardar la Carisenda sotto l chinato, quando un nuvol vada sovressa sì, ched ella incontro penda; tal parve Anteo a me che stava a bada di vederlo chinare, e fu tal ora chi avrei voluto ir per altra strada. Ma lievemente al fondo che divora Lucifero con Giuda, ci sposò; né sì chinato, lì fece dimora, e come albero in nave si levò. |
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© 1997 - by prof. Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 14 febbraio, 1998