Dante Alighieri
LA DIVINA COMMEDIA
INFERNO
sabato 9 aprile, prime ore | cerchio V, palude Stigia; mura della città di Dite | Flegias, demoni, Filippo Argenti | Iracondi e accidiosi; Virgilio parla coi demoni, che gli chiudono in faccia le porte della città. |
Comincia il canto ottavo dello 'Nferno. Nel quale l'autor mostra che, salito sopra la barca di Flegiàs, s'avventò alla banda di quella Filippo Argenti, e come, sospinto da Virgilio nell'acqua, fu straziato da altri spiriti; e appresso come, venuti alla porta di Dite, fu da' demoni serrata nel petto a Virgilio. |
Io dico, seguitando,
chassai prima che noi fossimo al piè de lalta torre, li occhi nostri nandar suso a la cima per due fiammette che i vedemmo porre e unaltra da lungi render cenno tanto cha pena il potea locchio tòrre. E io mi volsi al mar di tutto l senno; dissi: «Questo che dice? e che risponde quellaltro foco? e chi son quei che l fenno?». Ed elli a me: «Su per le sucide onde già scorgere puoi quello che saspetta, se l fummo del pantan nol ti nasconde». Corda non pinse mai da sé saetta che sì corresse via per laere snella, comio vidi una nave piccioletta venir per lacqua verso noi in quella, sotto l governo dun sol galeoto, che gridava: «Or se giunta, anima fella!». «Flegiàs, Flegiàs, tu gridi a vòto», disse lo mio segnore «a questa volta: più non ci avrai che sol passando il loto». Qual è colui che grande inganno ascolta che li sia fatto, e poi se ne rammarca, fecesi Flegiàs ne lira accolta. Lo duca mio discese ne la barca, e poi mi fece intrare appresso lui; e sol quandio fui dentro parve carca. Tosto che l duca e io nel legno fui, segando se ne va lantica prora de lacqua più che non suol con altrui. Mentre noi corravam la morta gora, dinanzi mi si fece un pien di fango, e disse: «Chi se tu che vieni anzi ora?». E io a lui: «Si vegno, non rimango; ma tu chi se, che sì se fatto brutto?». Rispuose: «Vedi che son un che piango». E io a lui: «Con piangere e con lutto, spirito maladetto, ti rimani; chi ti conosco, ancor sie lordo tutto». Allor distese al legno ambo le mani; per che l maestro accorto lo sospinse, dicendo: «Via costà con li altri cani!». Lo collo poi con le braccia mi cinse; basciommi l volto, e disse: «Alma sdegnosa, benedetta colei che n te sincinse! Quei fu al mondo persona orgogliosa; bontà non è che sua memoria fregi: così sè lombra sua qui furiosa. Quanti si tegnon or là sù gran regi che qui staranno come porci in brago, di sé lasciando orribili dispregi!». E io: «Maestro, molto sarei vago di vederlo attuffare in questa broda prima che noi uscissimo del lago». Ed elli a me: «Avante che la proda ti si lasci veder, tu sarai sazio: di tal disio convien che tu goda». Dopo ciò poco vidio quello strazio far di costui a le fangose genti, che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio. Tutti gridavano: «A Filippo Argenti!»; e l fiorentino spirito bizzarro in sé medesmo si volvea co denti. Quivi il lasciammo, che più non ne narro; ma ne lorecchie mi percosse un duolo, per chio avante locchio intento sbarro. Lo buon maestro disse: «Omai, figliuolo, sappressa la città cha nome Dite, coi gravi cittadin, col grande stuolo». E io: «Maestro, già le sue meschite là entro certe ne la valle cerno, vermiglie come se di foco uscite fossero». Ed ei mi disse: «Il foco etterno chentro laffoca le dimostra rosse, come tu vedi in questo basso inferno». Noi pur giugnemmo dentro a lalte fosse che vallan quella terra sconsolata: le mura mi parean che ferro fosse. Non sanza prima far grande aggirata, venimmo in parte dove il nocchier forte «Usciteci», gridò: «qui è lintrata». Io vidi più di mille in su le porte da ciel piovuti, che stizzosamente dicean: «Chi è costui che sanza morte va per lo regno de la morta gente?». E l savio mio maestro fece segno di voler lor parlar segretamente. Allor chiusero un poco il gran disdegno, e disser: «Vien tu solo, e quei sen vada, che sì ardito intrò per questo regno. Sol si ritorni per la folle strada: pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai che li ha iscorta sì buia contrada». Pensa, lettor, se io mi sconfortai nel suon de le parole maladette, ché non credetti ritornarci mai. «O caro duca mio, che più di sette volte mhai sicurtà renduta e tratto dalto periglio che ncontra mi stette, non mi lasciar», dissio, «così disfatto; e se l passar più oltre ci è negato, ritroviam lorme nostre insieme ratto». E quel segnor che lì mavea menato, mi disse: «Non temer; ché l nostro passo non ci può tòrre alcun: da tal nè dato. Ma qui mattendi, e lo spirito lasso conforta e ciba di speranza buona, chi non ti lascerò nel mondo basso». Così sen va, e quivi mabbandona lo dolce padre, e io rimagno in forse, che sì e no nel capo mi tenciona. Udir non potti quello cha lor porse; ma ei non stette là con essi guari, che ciascun dentro a pruova si ricorse. Chiuser le porte que nostri avversari nel petto al mio segnor, che fuor rimase, e rivolsesi a me con passi rari. Li occhi a la terra e le ciglia avea rase dogne baldanza, e dicea ne sospiri: «Chi mha negate le dolenti case!». E a me disse: «Tu, perchio madiri, non sbigottir, chio vincerò la prova, qual cha la difension dentro saggiri. Questa lor tracotanza non è nova; ché già lusaro a men segreta porta, la qual sanza serrame ancor si trova. Sovressa vedestù la scritta morta: e già di qua da lei discende lerta, passando per li cerchi sanza scorta, tal che per lui ne fia la terra aperta». |
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sabato 9 aprile, prime ore del mattino | cerchio VI, eretici, vasta pianura | Furie, Messo celeste, demoni | eretici: sepolti nelle arche infuocate, divisi in gruppi a seconda della setta di appartenenza |
Comincia il canto nono dello 'Nferno. Nel quale, poi che Virgilio ha detto che altra volta fece quel cammino, gli mostra le tre Furie, e chiudegli gli occhi, accioché non vegga il Gorgone. E appresso scrive come messo di Dio fece aprir la porta, ed essi entraron dentro, e trovâro l'arche affocate degli eretici. |
Quel color che viltà di
fuor mi pinse veggendo il duca mio tornare in volta, più tosto dentro il suo novo ristrinse. Attento si fermò comuom chascolta; ché locchio nol potea menare a lunga per laere nero e per la nebbia folta. «Pur a noi converrà vincer la punga», cominciò el, «se non... Tal ne sofferse. Oh quanto tarda a me chaltri qui giunga!». I vidi ben sì comei ricoperse lo cominciar con laltro che poi venne, che fur parole a le prime diverse; ma nondimen paura il suo dir dienne, perchio traeva la parola tronca forse a peggior sentenzia che non tenne. «In questo fondo de la trista conca discende mai alcun del primo grado, che sol per pena ha la speranza cionca?». Questa question fecio; e quei «Di rado incontra», mi rispuose, «che di noi faccia il cammino alcun per qual io vado. Ver è chaltra fiata qua giù fui, congiurato da quella Eritón cruda che richiamava lombre a corpi sui. Di poco era di me la carne nuda, chella mi fece intrar dentra quel muro, per trarne un spirto del cerchio di Giuda. Quellè l più basso loco e l più oscuro, e l più lontan dal ciel che tutto gira: ben so l cammin; però ti fa sicuro. Questa palude che l gran puzzo spira cigne dintorno la città dolente, u non potemo intrare omai sanzira». E altro disse, ma non lho a mente; però che locchio mavea tutto tratto ver lalta torre a la cima rovente, dove in un punto furon dritte ratto tre furie infernal di sangue tinte, che membra feminine avieno e atto, e con idre verdissime eran cinte; serpentelli e ceraste avien per crine, onde le fiere tempie erano avvinte. E quei, che ben conobbe le meschine de la regina de letterno pianto, «Guarda», mi disse, «le feroci Erine. Questè Megera dal sinistro canto; quella che piange dal destro è Aletto; Tesifón è nel mezzo»; e tacque a tanto. Con lunghie si fendea ciascuna il petto; battiensi a palme, e gridavan sì alto, chi mi strinsi al poeta per sospetto. «Vegna Medusa: sì l farem di smalto», dicevan tutte riguardando in giuso; «mal non vengiammo in Teseo lassalto». «Volgiti n dietro e tien lo viso chiuso; ch se l Gorgón si mostra e tu l vedessi, nulla sarebbe di tornar mai suso». Così disse l maestro; ed elli stessi mi volse, e non si tenne a le mie mani, che con le sue ancor non mi chiudessi. O voi chavete li ntelletti sani, mirate la dottrina che sasconde sotto l velame de li versi strani. E già venia su per le torbide onde un fracasso dun suon, pien di spavento, per cui tremavano amendue le sponde, non altrimenti fatto che dun vento impetuoso per li avversi ardori, che fier la selva e sanzalcun rattento li rami schianta, abbatte e porta fori; dinanzi polveroso va superbo, e fa fuggir le fiere e li pastori. i occhi mi sciolse e disse: «Or drizza il nerbo del viso su per quella schiuma antica per indi ove quel fummo è più acerbo». Come le rane innanzi a la nimica biscia per lacqua si dileguan tutte, fin cha la terra ciascuna sabbica, vidio più di mille anime distrutte fuggir così dinanzi ad un chal passo passava Stige con le piante asciutte. Dal volto rimovea quellaere grasso, menando la sinistra innanzi spesso; e sol di quellangoscia parea lasso. Ben maccorsi chelli era da ciel messo, e volsimi al maestro; e quei fé segno chi stessi queto ed inchinassi ad esso. Ahi quanto mi parea pien di disdegno! Venne a la porta, e con una verghetta laperse, che non vebbe alcun ritegno. «O cacciati del ciel, gente dispetta», cominciò elli in su lorribil soglia, «ondesta oltracotanza in voi salletta? Perché recalcitrate a quella voglia a cui non puote il fin mai esser mozzo, e che più volte vha cresciuta doglia? Che giova ne le fata dar di cozzo? Cerbero vostro, se ben vi ricorda, ne porta ancor pelato il mento e l gozzo». Poi si rivolse per la strada lorda, e non fé motto a noi, ma fé sembiante domo cui altra cura stringa e morda che quella di colui che li è davante; e noi movemmo i piedi inver la terra, sicuri appresso le parole sante. Dentro li ntrammo sanzalcuna guerra; e io, chavea di riguardar disio la condizion che tal fortezza serra, comio fui dentro, locchio intorno invio; e veggio ad ogne man grande campagna piena di duolo e di tormento rio. Sì come ad Arli, ove Rodano stagna, sì coma Pola, presso del Carnaro chItalia chiude e suoi termini bagna, fanno i sepulcri tuttil loco varo, così facevan quivi dogne parte, salvo che l modo vera più amaro; ché tra gli avelli fiamme erano sparte, per le quali eran sì del tutto accesi, che ferro più non chiede verunarte. Tutti li lor coperchi eran sospesi, e fuor nuscivan sì duri lamenti, che ben parean di miseri e doffesi. E io: «Maestro, quai son quelle genti che, seppellite dentro da quellarche, si fan sentir coi sospiri dolenti?». Ed elli a me: «Qui son li eresiarche con lor seguaci, dogne setta, e molto più che non credi son le tombe carche. Simile qui con simile è sepolto, e i monimenti son più e men caldi». E poi cha la man destra si fu vòlto, passammo tra i martiri e li alti spaldi. |
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sabato 9 aprile, verso le 4 del mattino | cerchio VI, eretici, vasta pianura | Farinata degli Uberti, Cavalcante de' Cavalcanti, Federico II, Ottaviano degli Ubertini | eretici: sepolti nelle arche infuocate a seconda della setta di appartenenza |
Comincia il canto decimo dello 'Nferno. Nel quale l'autor parla con Farinata, il quale alcuna cosa gli predice, e solvegli alcun dubbio. |
Ora sen va per un secreto
calle, tra l muro de la terra e li martìri, lo mio maestro, e io dopo le spalle. «O virtù somma, che per li empi giri mi volvi», cominciai, «coma te piace, parlami, e sodisfammi a miei disiri. La gente che per li sepolcri giace potrebbesi veder? già son levati tutti coperchi, e nessun guardia face». E quelli a me: «Tutti saran serrati quando di Iosafàt qui torneranno coi corpi che là sù hanno lasciati. Suo cimitero da questa parte hanno con Epicuro tutti suoi seguaci, che lanima col corpo morta fanno. Però a la dimanda che mi faci quincentro satisfatto sarà tosto, e al disio ancor che tu mi taci». E io: «Buon duca, non tegno riposto a te mio cuor se non per dicer poco, e tu mhai non pur mo a ciò disposto». «O Tosco che per la città del foco vivo ten vai così parlando onesto, piacciati di restare in questo loco. La tua loquela ti fa manifesto di quella nobil patria natio a la qual forse fui troppo molesto». Subitamente questo suono uscìo duna de larche; però maccostai, temendo, un poco più al duca mio. Ed el mi disse: «Volgiti! Che fai? Vedi là Farinata che sè dritto: da la cintola in sù tutto l vedrai». Io avea già il mio viso nel suo fitto; ed el sergea col petto e con la fronte comavesse linferno a gran dispitto. E lanimose man del duca e pronte mi pinser tra le sepulture a lui, dicendo: «Le parole tue sien conte». Comio al piè de la sua tomba fui, guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso, mi dimandò: «Chi fuor li maggior tui?». Io chera dubidir disideroso, non gliel celai, ma tutto glielapersi; ondei levò le ciglia un poco in suso; poi disse: «Fieramente furo avversi a me e a miei primi e a mia parte, sì che per due fiate li dispersi». «Sei fur cacciati, ei tornar dogne parte», rispuosio lui, «luna e laltra fiata; ma i vostri non appreser ben quellarte». Allor surse a la vista scoperchiata unombra, lungo questa, infino al mento: credo che sera in ginocchie levata. Dintorno mi guardò, come talento avesse di veder saltri era meco; e poi che l sospecciar fu tutto spento, piangendo disse: «Se per questo cieco carcere vai per altezza dingegno, mio figlio ovè? e perché non è teco?». E io a lui: «Da me stesso non vegno: colui chattende là, per qui mi mena forse cui Guido vostro ebbe a disdegno». Le sue parole e l modo de la pena mavean di costui già letto il nome; però fu la risposta così piena. Di subito drizzato gridò: «Come? dicesti "elli ebbe"? non vivelli ancora? non fiere li occhi suoi lo dolce lume?». Quando saccorse dalcuna dimora chio facea dinanzi a la risposta, supin ricadde e più non parve fora. Ma quellaltro magnanimo, a cui posta restato mera, non mutò aspetto, né mosse collo, né piegò sua costa: e sé continuando al primo detto, «Selli han quellarte», disse, «male appresa, ciò mi tormenta più che questo letto. Ma non cinquanta volte fia raccesa la faccia de la donna che qui regge, che tu saprai quanto quellarte pesa. E se tu mai nel dolce mondo regge, dimmi: perché quel popolo è sì empio incontra miei in ciascuna sua legge?». Ondio a lui: «Lo strazio e l grande scempio che fece lArbia colorata in rosso, tal orazion fa far nel nostro tempio». Poi chebbe sospirando il capo mosso, «A ciò non fu io sol», disse, «né certo sanza cagion con li altri sarei mosso. Ma fu io solo, là dove sofferto fu per ciascun di tòrre via Fiorenza, colui che la difesi a viso aperto». «Deh, se riposi mai vostra semenza», prega io lui, «solvetemi quel nodo che qui ha nviluppata mia sentenza. El par che voi veggiate, se ben odo, dinanzi quel che l tempo seco adduce, e nel presente tenete altro modo». «Noi veggiam, come quei cha mala luce, le cose», disse, «che ne son lontano; cotanto ancor ne splende il sommo duce. Quando sappressano o son, tutto è vano nostro intelletto; e saltri non ci apporta, nulla sapem di vostro stato umano. Però comprender puoi che tutta morta fia nostra conoscenza da quel punto che del futuro fia chiusa la porta». Allor, come di mia colpa compunto, dissi: «Or direte dunque a quel caduto che l suo nato è covivi ancor congiunto; e si fui, dianzi, a la risposta muto, fate i saper che l fei perché pensava già ne lerror che mavete soluto». E già l maestro mio mi richiamava; per chi pregai lo spirto più avaccio che mi dicesse chi con lu istava. Dissemi: «Qui con più di mille giaccio: qua dentro è l secondo Federico, e l Cardinale; e de li altri mi taccio». Indi sascose; e io inver lantico poeta volsi i passi, ripensando a quel parlar che mi parea nemico. Elli si mosse; e poi, così andando, mi disse: «Perché se tu sì smarrito?». E io li sodisfeci al suo dimando. «La mente tua conservi quel chudito hai contra te», mi comandò quel saggio. «E ora attendi qui», e drizzò l dito: «quando sarai dinanzi al dolce raggio di quella il cui bellocchio tutto vede, da lei saprai di tua vita il viaggio». Appresso mosse a man sinistra il piede: lasciammo il muro e gimmo inver lo mezzo per un sentier cha una valle fiede, che nfin là sù facea spiacer suo lezzo. |
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© 1997 - by prof. Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 07 febbraio, 1998