Dante Alighieri

Il fiore

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Sonetti
CCVIII-CCXXXII

             SONETTO CCVIII
        Lo Schifo e Franchez[z]a

         La lancia a pez[z]i a pez[z]i à dispez[z]ata,
E po' avisa un colpo ismisurato,
Sì che tutto lo scudo à squartellato:
Franchez[z]a sì è in terra rovesciata.
         E que' de' colpi fa gran dimenata,
E la bella merzé gli à domandato,
Sì c[h]'a Pietà ne prese gran peccato:
Verso il villan sì·ss'è adiriz[z]ata;
         E con uno spunton lo gì pungendo,
E di lagrime tuttora il bagnava,
Sì che 'l vlllan si venia rendendo,
         C[h]'aviso gli era ched egli afogava.
Allor Vergogna vi venne cor[r]endo
Perché lo Schifo "Socorso!" gridava.

            SONETTO CCIX
                    [............]

         Vergogna sì venne contra Pietate,
E molto fortemente la minaccia;
E quella, che dottava sua minaccia,
Sì s'aparec[c]hia a mostrar sua bontate,
         Ché ben conosce sua diversitate.
Vergogna a una spada la man caccia,
Sì disse: "I' vo' ben che ciaschedun saccia
Ched i' te pagherò di tue der[r]ate".
         Allora alza la spada a·llei fedire;
Ma Diletto sì venne a·llei atare,
E di suo scudo la sep[p]e coprire;
         E poi si torna per lei vendicare:
Ma Vergogna sapea sì lo schermire
Che que' no·lla potea magagnare.

            SONETTO CCX
                   [............]

         Vergogna mise allor man a la spada
E sì se ne vien dritta ver' Diletto.
Inmantenente lo scudo eb[b]e al petto,
E disse: "Come vuole andar, sì vada,
         Ched i' te pur farò votar la strada,
O tu farai di piana terra letto".
Allor lo fie' co·molto gran dispetto,
Come colei ch'a uc[c]iderlo bada;
         Sì che lo mise giù tutto stenduto,
E sì l'avreb[b]e fesso insino a' denti;
Ma, quando Ben-Celar l'eb[b]e veduto,
         Perciò ch'egli eran distretti parenti,
Inmantenente sì gli fece aiuto.
Vergogna disse: "I' vi farò dolenti".

            SONETTO CCXI
                     [............]

         Molt'era buon guer[r]ier quel Ben-Celare:
Alzò la spada, e sì fiede Vergogna
Sì gran colpo ched ella tutta ingrogna,
E poco ne fallì d'a terra andare.
         E poi la cominciò a predicare,
E disse: "Tu non devi aver vergogna
Di me, chéd e' nonn-à di qui a Bologna
Nessun c[h]'un fatto saccia me' celare
         Che saprò io, e perciò porto il nome".
Vergogna sì non sep[p]e allor che dire.
Paura la sgridò: "Cugina, come?
         A`' tu perduto tutto tuo ardire?
Or veg[g]h'i' ben che vita troppo dura,
Quando tu ài paura di morire".

             SONETTO CCXII
                      [............]

         A la sua spada mise man Paura
Per soccor[r]er Vergogna sua vicina:
A Ben-Celar diè per sì grande aina
Ched e' fu de la vita inn-aventura.
         Contra lei battaglia poco dura:
Ardimento s'occorse a la miccina
Con una spada molto chiara e fina,
E sì·lle fece molto gran paura.
         Ma tuttavia Paura si conforta
E prese cuore in far sua difensione
E disse c[h]'ameria me' d'esser morta
         C[h]'Ardimento le tolga sua ragione:
Allora in testa gli diè tal iscorta
Ched ella 'l mise giù in terra boccone.

              SONETTO CCXIII
                         [.............]

         Quando Sicurtà vide c[h]'Ardimento
Contra Paura avea tutto perduto,
Sì corse là per dargli il su' aiuto
E cominciò il su' torniamento.
         Ma contra lei non eb[b]e duramento:
Paura quello stormo eb[b]e vincuto,
E anche un altro, s'e' vi fosse essuto.
Ma Sicurtà sì eb[b]e acorgimento:
         Ispada e scudo gittò tosto in terra,
E·mantenente con ambo le mani
A le tempie a Paura sì s'aferra.
         E gli altri, ch'eran tutti lassi e vani,
Ciascun si levò suso, e sì s'aterra
A quella zuffa, com'e' fosser cani.

          SONETTO CCXIV
                  [.............]

         Molto durò tra·llor quella battaglia,
Che ciascun roba e carni vi si straccia.
L'un l'altro abatte per forza di braccia.
Non fu veduta mai tal rapresaglia,
         Che que' d'entro facien troppo gran taglia
Di que' di fuor; Amor allor procaccia
Che tra lor una trieva sì si faccia
Di venti dì, o di più, che me' vaglia:
         Ch'e' vede ben che mai quella fortez[z]a,
Se·lla madre non v'è, non prendereb[b]e.
Allor la manda a chieder per Franchez[z]a.
         Contra colei sa ben non si ter[r]eb[b]e:
Che s'ella il su' brandon ver' lor adrez[z]a,
Imantenente tutti gli ardereb[b]e.

              SONETTO CCXV
                      [.............]

         Franchez[z]a sì s'è de l'oste partita,
E Amor sì·ll'à ben incaricato
Che·lli dica a la madre ogne su' stato,
Com'egli è a gran rischio de la vita,
         E che sua forza è molto infiebolita:
Ch'ella faccia che per lei si' aiutato.
Allor Franchez[z]a sì à cavalcato,
E dritto a Ceceron sì se n'è ita,
         Credendo che vi fosse la diessa:
Ma el[l]'er'ita in bosco per cacciare,
Sì che Franchez[z]a n'andò dritt'a essa.
         Sott'una quercia la trovò ombreare:
Quella sì tosto in ginoc[c]hie s'è messa,
E dolzemente l'eb[b]e a salutare.

             SONETTO CCXVI
                      [.............]

         "Molte salute, madonna, v'aporto
Dal vostro figlio: e' priegavi per Dio
Che 'l socor[r]iate, od egli è in punto rio,
Ché Gelosia gli fa troppo gran torto;
         Ch' e' nonn-à guar ched e' fu quasi morto
'N una battaglia, nella qual fu' io.
Ancor si par ben nel visag[g]io mio,
Che molto mi vi fu strett'ed atorto".
         Allor Venusso fu molto crucciata,
E disse ben che·lla fortez[z]a fia
Molto tosto per lei tutta 'mbraciata;
         Ed a malgrado ancor di Gelosia
Ella serà per terra rovesciata:
No·lle varrà già guardia che vi sia.

           SONETTO CCXVII
                    [.............]

         Venusso sì montò sus'un ronzino
Corsiere, ch'era buon da cacciagione,
E con sua gente n'andò a Cicerone:
Sì comanda che sia prest'al matino
         Il carro suo, ch'era d'oro fino.
Imantenente fu messo i·limone
E presto tutto, sì ben per ragione
Che, quando vuol, puote entrar in camino.
         Ma non volle caval per limoniere
Né per tirare il car[r]o, anzi fe' trare
Cinque colombi d'un su' colombiere:
         A corde di fil d'or gli fe' legare.
Non bisognava avervi carettiere,
Ché·lla dea gli sapea ben guidare.

           SONETTO CCXVIII
                       [............]

         Di gran vantag[g]io fu 'l carro prestato.
Venusso ben matin v'è su salita,
E sì sacciate ch'ell'era guernita
E d'arco e di brandon ben impennato;
         E seco porta fuoco temperato.
Così da Ciceron sì s'è partita,
E dritta all'oste del figl[i]uol n'è ita
Con suo' colombi che 'l car[r]'àn tirato.
         Lo Dio d'Amor sì avea rotte le trieve
Prima che Veno vi fosse arivata,
Ché troppo gli parea l'atender grieve.
         Venus[so] dritta a lui sì se n'è andata,
Sì disse: "Figl[i]uol, non dottar, ché 'n brieve
Questa fortez[z]a no' avremo ater[r]ata.

                  SONETTO CCXIX
                           [............]

         "Figl[i]uol mi', tu farai un saramento,
E io d'altra parte sì 'l faròe,
Che castitate i' ma' non lascieròe
In femina che ag[g]ia intendimento,
         Né tu in non che·tti si' a piacimento.
Ed i' te dico ben ch'i' lavorròe
Col mi' brandone: sì gli scalderòe
Che ciaschedun verrà a comandamento".
         Per far le saramenta sì aportaro,
En luogo di relique e di messale,
Brandoni e archi e saette; sì giuraro
         Di suso, e dis[s]er c[h]'altrettanto vale.
Color de l'oste ancor vi s'acordaro,
Ché ciaschedun sapea le Dicretale.

            SONETTO CCXX
                      [............]

         Venus[so], che d'assalire era presta,
Sì comanda a ciascun ched e' s'arenda
O che la mercé ciascheduno atenda,
Ch'ella la guarda lor tratutta presta.
         E sì lor à giurato, per sua testa,
Ched e' non fia nessun che si difenda,
Ch'ella de la persona no·gli afenda:
E così ciaschedun sì amonesta.
         Vergogna sì respuose: "I' non vi dotto.
Se nel castel non fosse se non io,
Non crederei che fosse per voi rotto.
         Quando vi piace intrare a·lavorio,
Già per minaccie no·mi 'ntrate sotto,
Né vo' né que' che d'amor si fa dio".

              SONETTO CCXXI
                      [.............]

         Quando Venùs intese che Vergogna
Parlò sì arditamente contr'a·llei,
Sì gl[i] à giurato per tutti gli dèi
Ch'ella le farà ancor gran vergogna;
         E poi villanamente la rampogna,
Dicendo: "Garza, poco pregerei
Il mi' brandon, sed i' te non potrei
Farti ricoverare in una fogna.
         Già tanto non se' figlia di Ragione,
Che sempre co' figl[i]uoi m'à guer[r]eg[g]iato,
Ch'i' non ti metta fuoco nel groppone".
         Ed a Paura ancor da l'altro lato:
"Ben poco varrà vostra difensione,
Quand'i' v'avrò il fornel ben riscaldato".

             SONETTO CCXXII
                      [.............]

         Molto le va Venus[so] minacciando,
Dicendo, se no·rendono il castello,
Ched ella metterà fuoco al fornello,
Sì che per forza le n'andrà cacciando.
         E disse: "A mille diavol' v'acomando,
Chi amor fug[g]e, e fosse mi' fratello!
Perdio, i' le farò tener bordello,
Color che l'amor vanno sì schifando:
         Chéd e' non è più gioia che ben amare.
Rendetemi il castel, o veramente
I' 'l farò imantenente giù versare;
         E poi avremo il fior certanamente,
E sì 'l faremo in tal modo sfogliare
Che poi non fia vetato a nulla gente".

           SONETTO CCXXIII
                      [............]

         Venus[so] la sua roba à socorciata,
Crucciosa per sembianti molto e fiera;
Verso 'l castel tenne sua caminiera,
E ivi sì s'è un poco riposata;
         E riposando sì eb[b]e avisata,
Come cole' ch'era sottil archiera,
Tra due pilastri una balestriera,
La qual Natura v'avea compas[s]ata.
         In su' pilastri una image avea asisa;
D'argento fin sembiava, sì lucea:
Trop[p]'era ben tagl[i]ata a gran divisa.
         Di sotto un santuaro sì avea:
D'un drap[p]o era coperto, sì in ta' guisa
Che 'l santuaro punto non parea.

              SONETTO CCXXIV
                        [............]

         Troppo avea quel[l]'imagine 'l [vi]saggio
Tagliato di tranobile faz[z]one:
Molto pensai d'andarvi a processione
E di fornirvi mie pelligrinag[g]io;
         E sì no·mi saria paruto oltrag[g]io
Di starvi un dì davanti ginoc[c]hione,
E poi di notte es[s]ervi su boccone,
E di donarne ancor ben gran logag[g]io.
         Ched i' era certan, sed i' toccasse
L'erlique che di sotto eran riposte,
Che ogne mal ch'i' avesse mi sanasse;
         E fosse mal di capo, o ver di coste,
Od altra malatia, che mi gravasse,
A tutte m'avria fatto donar soste.

             SONETTO CCXXV
                       [............]

         Venùs allora già più non atende,
Però ched ella sì vuol ben mostrare
A ciaschedun ciò ched ella sa fare:
Imantenente l'arco su' sì tende,
         E poi prende il brandone e sì l'ac[c]ende;
Sì no·lle parve pena lo scoc[c]are,
E per la balestriera il fe' volare,
Sì che 'l castel ma' più non si difende.
         Imantenente il fuoco sì s'aprese:
Per lo castello ciascun si fug[g]ìo,
Sì che nessun vi fece più difese.
         Lo Schifo disse: "Qui no·sto più io";
Vergogna si fug[g]ì in istran paese,
Paura a gra·fatica si partìo.

               SONETTO CCXXVI
                         [............]

         Quando 'l castello fu così imbrasciato
E che·lle guardie fur fug[g]ite via,
Alor sì v'entrò entro Cortesia
Per la figl[i]uola trar di quello stato;
         E Franchez[z]'e Pietà da l'altro lato
Sì andaron co·llei in compagnia.
Cortesia sì·lle disse: "Figlia mia,
Molt'ò avuto di te il cuor crucciato,
         Ché stata se' gran tempo impregionata.
La Gelosia ag[g]i'or mala ventura,
Quando tenuta t'à tanto serrata.
         Lo Schifo e Vergogna con Paura
Se son fug[g]iti, e la gol'à tagliata
Ser Mala-Bocca per sua disventura.

              SONETTO CCXXVII
                          [............]

         "Figl[i]uola mia, per Dio e per merzede,
Ag[g]ie pietà di quel leal amante,
Che per te à soferte pene tante
Che dir no'l ti poria, in buona fede.
         In nessun altro idio che·tte non crede,
E tuttora a·cciò è stato fermo e stante:
Figl[i]uola mia, or gli fa tal sembiante
Ch'e' sia certano di ciò c[h]'or non vede".
         Bellacoglienza disse: "I' gli abandono
E me e 'l fiore e ciò ch'i' ò 'n podere,
E ched e' prenda tutto quanto in dono.
         Per altre volte avea alcun volere,
Ma nonn-era sì agiata com'or sono:
Or ne può fare tutto 'l su' piacere".

             SONETTO CCXXVIII
                        [............]

         Quand'i' udì' quel buon risposto fino
Che·lla gentil rispuose, [m'inviai]
Ed a balestriera m'adriz[z]ai,
Ché quel sì era il mi' dritto camino;
         E sì v'andai come buon pellegrino,
Ch'un bordon noderuto v'aportai,
E la scarsella non dimenticai,
La qual v'apiccò buon mastro divino.
         Tutto mi' arnese, tal chent'i' portava,
Se di condurl'al port'ò in mia ventura,
Di toccarne l'erlique i' pur pensava.
         Nel mi' bordon non avea fer[r]atura,
Ché giamai contra pietre no·ll'urtava;
La scarsella sì era san' costura.

              SONETTO CCXXIX
                        [.............]

         Tant'andai giorno e notte caminando,
Col mi' bordon che non era ferrato,
Che 'ntra' duo be' pilastri fu' arivato:
Molto s'andò il mi' cuor riconfortando.
         Dritt'a l'erlique venni apressimando,
E·mantenente mi fu' inginoc[c]hiato
Per adorar quel [bel] corpo beato;
Po' venni la coverta solevando.
         E poi provai sed i' potea il bordone,
In quella balestriera ch'i' v'ò detto,
Metterlo dentro tutto di randone;
         Ma i' non potti, ch'ell'era sì stretto
L'entrata, che 'l fatto andò in falligione.
La prima volta i' vi fu' ben distretto.

            SONETTO CCXXX
                    [.............]

         Pe·più volte fallì' a·llui ficcare,
Perciò che 'n nulla guisa vi capea;
E·lla scarsella c[h]'al bordon pendea,
Tuttor di sotto la facea urtare,
         Credendo il bordon me' far entrare;
Ma già nessuna cosa mi valea.
Ma a la fine i' pur tanto scotea
Ched i' pur lo facea oltre passare:
         Sì ch'io allora il fior tutto sfogl[i]ai,
E la semenza ch'i' avea portata,
Quand'eb[b]i arato, sì·lla seminai.
         La semenza del fior v'era cascata:
Amendue insieme sì·lle mescolai,
Che molta di buon'erba n'è po' nata.

          SONETTO CCXXXI
                  [.............]

         Quand'i' mi vidi in così alto grado,
Tutti i mie' benfattori ringraziai,
E più gli amo og[g]i ch'i' non feci mai,
Che molto si penâr di far mi' grado.
         Al Die d'Amor ed a la madre i' bado,
E a' baron' de l'oste chiamo assai
D'esser lor[o] fedele a sempremai
E di servirgli e non guardar ma' guado.
         Al buono Amico e a Bellacoglienza
Rendé' grazie mille e mille volte;
Ma di Ragion non eb[b]i sovenenza,
         Che·lle mie gioie mi credette aver tolte.
Ma contra lei i' eb[b]i provedenza,
Sì ch'i' l'ò tutte quante avute e colte.

              SONETTO CCXXXII
                         [.............]

         Malgrado di Ric[c]hez[z]a la spietata,
Ch'unquanche di pietà non seppe usare,
Che del camin c[h]'à nome Troppo-Dare
Le pia[c]que di vietarmene l'entrata!
         Ancor di Gelosia, ch'è·ssì spietata
Che dagli amanti vuole il fior guardare!
Ma pure 'l mio non sep[p]'ella murare,
Ched i' non vi trovasse alcuna entrata;
         Ond'io le tolsi il fior ch'ella guardava:
E sì ne stava in sì gran sospez[z]one
Che·lla sua gente tuttor inveg[g]hiava.
         Bellacoglienza ne tenne in pregione,
Perch'ella punto in lei non si fidava:
E sì n'er'ella don[n]a di ragione.

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© 1999 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 11 giugno 1999