Dante Alighieri

Il fiore

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Sonetti
CXXXIX-CLXI

                      SONETTO CXXXIX
              La Vec[c]hia e Falsembiante

         La Vec[c]hia sì rispuose san' tardare,
Ché 'l male e 'l ben sapea quantunque n'era:
"Vo' mi fate [co]sì dolze preghera
Ch'i' no lo vi saprei giamai vietare.
         Questi gioelli i' sì vo' ben portare
E dargli nella più bella maniera
Che io potrò; ma una lingua fiera,
Che quaentr'è, mi fa molto dottare,
         E·cciò è MalaBocca maldicente,
Che [con]truova ogne dì nuovi misfatti,
Né non riguarda amico né parente".
         "No'l ridottate più giamai a fatti,
Ché noi sì l'ab[b]iàn morto, quel dolente,
Sanza che 'n noi trovasse trieva o patti.

                 SONETTO CXL
       La Vec[c]hia e Falsembiante

         "Certanamente noi gli ab[b]iàn segata
La gola, e giace morto nel fossato:
E' nonn-à guar' che noi l'ab[b]iàn gittato,
E 'l diavol sì n'à l'anima portata".
         La Vec[c]hia sì rispuose: "Or è amendata
Nostra bisogna, po' ch'egli è sì andato.
Colui cu' vo' m'avete acomandato,
I' metterò in servirlo mia pensata.
         Dit'al valetto ch'i' ne parleròe:
Quando vedrò che 'l fatto sia ben giunto,
I' tutta sola a chieder sì·ll'andròe".
         Allor si parte, ed ivi fece punto,
E tutti quanti a Dio gli acomandòe.
Molto mi parve che 'l fatto sie 'n punto.

                 SONETTO CXLI
       La Vec[c]hia e Bellacoglienza

         Dritta a la camera a la donna mia
N'andò la Vec[c]hia, quanto può trot[t]ando,
E quella la trovò molto pensando,
Come se fosse d'una voglia ria.
         Crucciosa so ch'era, che non ridia:
Sì tosto al[l]or la va riconfortando,
E disse: "Figl[i]uola mia, io ti comando
Che·ttu nonn-entri già i·mmalinconia;
         E vê·cciò che tu' amico ti presenta".
Allor le mostra quelle gioielette,
Pregandola c[h]'a prenderl'aconsenta:
         "Reguarda com'elle son belle e nette".
E quell'a domandar non fu già lenta
Chi era colui che gliele tramette.

              SONETTO CXLII
                  La Vec[c]hia

         "Il bel valetto di cu' biasmo avesti
Giadisse, sì [è] colui che·lle ti manda,
E 'l rimanente c[h]'à è a tua comanda:
Unquanche uon più cortese non vedesti.
         E priegati, se mai ben gli volesti,
Che per l'amor di lui questa ghirlanda
Deg[g]ie portare, e sì sé racomanda
Del tutto a te: gran peccato faresti
         Se 'l su' presente tu gli rifusassi;
Ch'i' son certana ch'e' si disper[r]ebbe
Se·ttu così del tutto lo sfidassi;
         Ché, quanto ch'e' potesse, e' sì fareb[b]e
Per te, e sofferria che·llo 'ngaggiassi,
E, se 'l vendessi, sì gli piacereb[b]e".

              SONETTO CXLIII
     Bellacoglienza e la Vec[c]hia

         "Madonna, i' dotto tanto Gelosia
Ch'esto presente prender non osasse;
Che·sse domane ella mi domandasse:
"Chi 'l ti donò?", io come le diria?".
         "Risposta buona i' non ti celeria:
Che s'ogn'altra risposta ti fal[l]asse,
Sì dì almen ched i' la ti donasse,
Ed i' le dirò ben che così sia".
         Allor la Vec[c]hia la ghirlanda prese,
E 'n su le treccie bionde a la pulcella
La puose, e quella guar' non si contese;
         E po' prese lo spec[c]hio, e sì·ll'apella,
E disse: "Vien' qua, figl[i]uola cortese.
Riguàrdati se·ttu se' punto bella".

                SONETTO CXLIV
        Bellacoglienza e la Vec[c]hia

         Al[l]or Bellacoglienza più non tarda:
Immantenente lo spec[c]hi' eb[b]e i·mmano,
Sì vide il viso suo umile e piano;
Per molte volte nello spec[c]hio guarda.
         La Vec[c]hia, che·ll'avea presa en sua guarda,
Le giura e dice: "Per lo Dio sovrano,
Ch'unquanche Isotta, l'amica Tristano,
[...............................-arda]
         Come tu·sse', figl[i]uola mia gentile.
Or convien che·ttu ab[b]ie il mi' consiglio,
Che cader non potessi in luogo vile.
         Se non sai guari, no·mmi maraviglio,
Ché giovan uon non puot'esser sottile,
Chéd i', quanto più vivo, più asottiglio.

                SONETTO CXLV
                    La Vec[c]hia

         "Figl[i]uola mia cortese ed insegnata,
La tua gran gioia sì è ancor a venire.
Or me convien me pianger e languire,
Ché·lla mia sì se n'è tutta passata
         Né non fie mai per me più ritrovata,
Chéd ella mi giurò di non reddire.
Or vo' consigliar te, che dé' sentire
In caldo del brandon, che sie avisata
         Che non facessi sì come fec'io:
De ch'i' son trista quand'e' me'n rimembra,
Ch'i' non posso tornare a·lavorio.
         Per ch'i' te dico ben ched e' mi sembra:
Se·ttu creder vor[r]à' 'l consiglio mio,
Tu sì non perderai aver né membra.

                SONETTO CXLVI
                     La Vec[c]hia

         "Se del giuoco d'amor i' fosse essuta
Ben sag[g]ia quand'i' era giovanella,
I' sare' ric[c]a più che damigella
O donna che·ttu ag[g]ie og[g]i veduta:
         Ch'i' fu' sì trapiacente in mia venuta
Che per tutto cor[r]ea la novella
Com'i' era cortese e gente e bella;
Ma·cciò mi pesa, ch'i' non fu' saputa.
         Or sì mi doglio quand'i' mi rimiro
Dentro a lo spec[c]hio, ed i' veg[g]o invec[c]hiarmi:
Molto nel mi[o] cuore me n'adiro.
         Ver è ched i' di ciò non posso atarmi,
Sì che per molte volte ne sospiro
Quand'i' veg[g]io biltate abandonarmi.

             SONETTO CXLVII
                  La Vec[c]hia

         "Per tutto 'l mondo i' era ricordata,
Com'io t'ò detto, de la mia bieltate,
E molte zuffe ne fur cominciate,
E molta gente alcun'ora piagata;
         Ché que' che mi crede' aver più legata,
Assà' mostrav'i' più di duritate:
Le mie promesse gli venian fallate,
C[h]'altre persone m'avieno inarrata.
         Per molte volte m'era l'uscio rotto
E tentennato, quand'io mi dormia;
Ma già per ciò io non facea lor motto,
         Perciò ched i' avea altra compagnia,
A cui intender facea che 'l su' disdotto
Mi piacea più che null'altro che·ssia.

               SONETTO CXLVIII
                     La Vec[c]hia

         "I' era bella e giovane e folletta,
Ma non era a la scuola de l'amore
Istata; ma i' so or ben per cuore
La pratica la qual ti fie qui detta.
         Usanza me n'à fatta sì savietta
Ched i' non dotterei nessun lettore
Che di ciò mi facesse desinore,
Ma' ched i' fosse bella e giovanetta:
         Chéd egli è tanto ched i' non finai
Che·lla scienza i' ò nel mi' coraggio;
Sed e' ti piace, tu l'ascolterai,
         Ma i' no l'eb[b]i sanza gran damag[g]io:
Molta pen'e travaglio vi durai;
Ma pur almen sen[n]'è [re]mas'e usag[g]io.

               SONETTO CXLIX
                   La Vec[c]hia

         "Molti buon'uomini i' ò già 'ngannati,
Quand'i' gli tenni ne' mie' lacci presi:
Ma prima fu' 'ngannata tanti mesi
Che' più de' mie' sollaz[z]i eran passati.
         Centomilia cotanti barattati
N'avrei, s'i' a buon'or gli avesse tesi,
E conti e cavalieri e gran borgesi,
Che molti fiorin' d'oro m'avrian dati.
         Ma quand'i' me n'avidi, egli era tardi,
Chéd i' era già fuor di giovanez[z]a,
Ed eranmi falliti i dolzi isguardi,
         Perché 'n sua bàlia mi tenea vec[c]hiez[z]a.
Or convien, figlia mia, che tu ti guardi
Che·ttu non ti conduchi a tale strez[z]a.

                  SONETTO CL
                   La Vec[c]hia

         "Molto mi dolea il cuor quand'i' vedea
Che·ll'uscio mio stava in tal sog[g]iorno,
Che vi solea aver tal pressa 'ntorno
Che tutta la contrada ne dolea.
         Ma, quanto a me, e' no·me ne calea,
Ché troppo più piacea loro quel torno,
Ch'i' era allora di sì grande attorno
Che tutto quanto il mondo mi' parea.
         Or convenia che di dolor morisse
Quand'i' vedea que' giovani passare,
E ciaschedun parea che mi schernisse.
         Vec[c]hia increspata mi facean chiamare
A colù' solamente che giadisse
Più carnalmente mi solea amare.

                SONETTO CLI
                  La Vec[c]hia

         "Ancora d'altra parte cuore umano
Non pensereb[b]e il gran dolor ch'i' sento
Tratutte l'ore ch'i' ò pensamento
De' be' basciar' che m'ànno dato mano.
         Ogni sollaz[z]o m'è og[g]i lontano,
Ma non ira e dolori e gran tormento:
Costor sì ànno fatto saramento
Ch'i' non uscirò lor mai di tra mano.
         Or puo' veder com'i' son arivata,
Né al mi' mal nonn-à altra cagione
Se non ched i' fu' troppo tosto nata.
         Ma sap[p]ie ched io ò ferma intenzione
Ch'i' sarò ancor[a] per te vendicata,
Se·ttu ben riterrai la mia lezione.

                  SONETTO CLII
                     La Vec[c]hia

         "Non ne pos[s]'altrementi far vengianza
Se non per insegnarti mia dottrina,
Perciò che·llo me' cor sì m'indovina
Che·ttu darai lor ancor gran micianza,
         A que' ribaldi che tanta viltanza
Me diceano da sera e da mattina:
Tutti gli met[t]erai anche a la china,
Se·ttu sa' ben tener la tua bilanza.
         Ché sie certana, s'i' fosse dell'ag[g]io,
Figl[i]uola mia, che tu·sse' or presente,
Ch'i' gli pagherè' ben di lor oltrag[g]io,
         Sì che ciascuno farè' star dolente:
Già tanto non sareb[b]e pro' né sag[g]io
Ched i' non ne facesse panchiedente.

              SONETTO CLIII
                 La Vec[c]hia

         "In gran povertà tutti gli met[t]esse,
Sì come t'ò di sopra sermonato,
E sì sareb[b]e il primo dispogliato
Colui che più cara mi tenesse.
         Di nessun mai pietà no·mi'n prendesse,
Ché ciaschedun vorrè' aver disertato:
Ché sie certana ch'e' nonn-è peccato
Punir la lor malatia, chi potesse.
         Ma e' non dottan guari mia minac[c]ia
Né non fan forza di cosa ch'i' dica,
Perciò ch'ò troppo crespa la mia fac[c]ia.
         Figliuola mia, se Dio ti benedica,
I' non so chi vendetta me ne faccia
Se non tu, ch'i' per me son troppo antica.

                 SONETTO CLIV
                    La Vec[c]hia

         "Molte volte mi disse quel ribaldo
Per cu' i' eb[b]i tanta pena e male,
Ched e' ver[r]eb[b]e ancor tal temporale
Ched i' avrei spesso fredo e caldo.
         Ben disse ver, quel conto ò i' ben saldo;
Ma, per l'agio ch'i' eb[b]i, tanto e tale
Che tutto quanto il cuor mi ne trasale,
Quand'i' rimembro, sì ritorna baldo.
         Giovane donna nonn-è mai oziosa,
Sed ella ben al fatto si ripensa
Per ch'ella sti' a menar vita gioiosa:
         Ma' ch'ella pensi a chieder sua dispensa,
Sì ch'ella non si truovi sofrattosa
Quando vec[c]hiez[z]a vien poi che·ll'ade[n]sa.

                SONETTO CLV
                    La Vec[c]hia

         "Or ti dirò, figl[i]uola mia cortese,
Po' che parlar possiamo per ligire
E più arditamente, ver vo' dire,
Che·nnoi non solavàn (quest'è palese):
         Tu sì sa' ben ch'i' son di stran paese,
E sì son messa qui per te nodrire;
Sì ti priego, figl[i]uola, che·tt'atire
In saper guadagnar ben tue spese.
         Non ch'i' te dica ch'i' voglia pensare
Che·ttu d'amor per me sie 'nviluppata;
Ma tuttor sì te voglio ricontare
         La via ond'io dovrè' esser andata,
E 'n che maniera mi dovea menare
Anzi che mia bieltà fosse passata.

              SONETTO CLVI
                 La Vec[c]hia

         "Figl[i]uola mia, chi vuol gioir d'Amore,
Convien ch'e' sap[p]ia i suo' comandamenti.
Ver è ched e' ve n'à due dispiacenti:
Chi se ne 'mbriga, sì fa gran follore.
         L'un dice che 'n un sol luogo il tu' cuore
Tu metta, sanza farne partimenti;
L'altro vuol che·ssie largo in far presenti:
Chi di ciò 'l crede, falleria ancore.
         I·nulla guisa, figlia, vo' sia larga,
Né che 'l tu' cuor tu metti in un sol loco;
Ma, se mi credi, in più luoghi lo larga.
         Se dài presenti, fa che vaglian poco:
Che s'e' ti dona Lucca, dàgli Barga;
Così sarai tuttor donna del g[i]uoco.

            SONETTO CLVII
                 La Vec[c]hia

         "Donar di femina si è gran follia,
Sed e' non s'è un poco a genti atrare
Là dov'ella si creda su' pro fare,
E che 'l su' don radoppiato le sia.
         Quella non tengh'i' già per villania:
Ben ti consento quel cotal donare,
Ché·ttu non vi puo' se non guadagnare;
Gran senn'è a far tal mercatantia.
         Agl[i] uomini lasciàn far la larghez[z]a,
Ché Natura la ci à, pez[z]'è, vietata:
Dunque a femina farla si è sempiez[z]a;
         Avegna che ciascun'è sì afetata
Che volontier di lei fanno stranez[z]a,
Sed e' non s'è alcuna disperata.

             SONETTO CLVIII
                  La Vec[c]hia

         "I' lodo ben, se·ttu vuo' far amico,
Che 'l bel valletto, che tant'è piacente,
Che de le gioie ti fece presente
E àtti amata di gran tempo antico,
         Che·ttu sì·ll'ami; ma tuttor ti dico
Che·ttu no·ll'ami troppo fermamente,
Ma fa che degli altr'ami sag[g]iamente,
Ché 'l cuor che·nn'ama un sol, non val un fico.
         Ed io te ne chiedrò degl[i] altri assai,
Sì che d'aver sarai tuttor guernita,
Ed e' n'andranno con pene e con guai.
         Se·ttu mi credi, e Cristo ti dà vita,
Tu·tti fodrai d'ermine e di vai,
E la tua borsa fia tuttor fornita.

                SONETTO CLIX
                     La Vec[c]hia

         "Buon acontar fa uon c[h]'ab[b]ia danari,
Ma' ched e' sia chi ben pelar li saccia:
Con quel cotal fa buon intrar in caccia,
Ma' ched e' no·gli tenga troppo cari.
         L'acontanza a color che·sson avari
Sì par c[h]'a Dio e al mondo dispiaccia:
Non dar mangiar a que' cotali in taccia,
Ché ' pagamenti lor son troppo amari.
         Ma fa pur ch'e' ti paghi inanzi mano:
Ché, quand'e' sarà ben volonteroso,
Per la fé ched i' dô a san Germano,
         E' non potrà tener nulla nascoso,
Già tanto non fia sag[g]io né certano,
Sed e' sarà di quel disideroso.

               SONETTO CLX
                   La Vec[c]hia

         "E quando sol'a sol con lui sarai,
Sì fa che·ttu gli facci saramenti
Che·ttu per suo danar non ti consenti,
Ma sol per grande amor che·ttu in lui ài.
         Se fosser mille, a ciascun lo dirai,
E sì 'l te crederanno, que' dolenti;
E saccie far sì che ciascuno adenti
Insin c[h]'a povertà gli metterai.
         Che·ttu·sse' tutta loro, dé' giurare;
Se·tti spergiuri, non vi metter piato,
Ché Dio non se ne fa se non ghignare:
         Ché sie certana ch'e' non è peccato,
Chi si spergiura per voler pelare
Colui che fie di te così ingannato.

                SONETTO CLXI
                    La Vec[c]hia

         "A gran pena può femina venire
A buon capo di questa gente rea.
Dido non potte ritenere Enea
Ched e' non si volesse pur fug[g]ire,
         Che mise tanta pena in lui servire.
Or che fece Gesono de Medea,
Che, per gl'incantamenti che sapea,
El[l]a 'l sep[p]e di morte guarentire,
         E po' sì la lasciò, quel disleale?
Und'è c[he] ' figl[i]uoli ched ella avea
Di lui, gli mise a morte, e fece male;
         Ma era tanto il ben ch'ella volea,
Ch'ella lasciò tutta pietà carnale
Per crucciar que' che tanto le piacea.

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© 1999 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 11 giugno 1999