Dante Alighieri
Convivio
(trattato IV, capp. XXVI-XXX)
TRATTATO IV
Capitolo XXVI
Poi che sopra la
prima particola di questa parte, che mostra quello per che potemo conoscere l'uomo nobile
a li segni apparenti, è ragionato, da procedere è a la seconda parte, la quale comincia:
In giovinezza, temperata e forte. Dice adunque che sì come la nobile natura in
adolescenza ubidente, soave e vergognosa, e adornatrice de la sua persona si
mostra, così ne la gioventute si fa temperata, forte, amorosa, cortese e leale: le quali
cinque cose paiono, e sono, necessarie a la nostra perfezione, in quanto avemo rispetto a
noi medesimi. E intorno di ciò si vuole sapere che tutto quanto la nobile natura prepara
ne la prima etade, è apparecchiato e ordinato per provedimento di Natura universale, che
ordina la particulare a sua perfezione. Questa perfezione nostra si può doppiamente
considerare. Puotesi considerare secondo che ha rispetto a noi medesimi: e questa ne la
nostra gioventute si dee avere, che è colmo de la nostra vita. Puotesi considerare
secondo che ha rispetto ad altri; e però che prima conviene essere perfetto, e poi la sua
perfezione comunicare ad altri, convienesi questa secondaria perfezione avere appresso
questa etade, cioè ne la senettute, sì come di sotto si dicerà.
Qui adunque è da reducere a mente quello
che di sopra, nel ventiduesimo capitolo di questo trattato, si ragiona de lo appetito che
in noi dal nostro principio nasce. Questo appetito mai altro non fa che cacciare e
fuggire; e qualunque ora esso caccia quello che e quanto si conviene, e fugge quello che e
quanto si conviene, l'uomo è ne li termini de la sua perfezione. Veramente questo
appetito conviene essere cavalcato da la ragione; ché sì come uno sciolto cavallo,
quanto ch'ello sia di natura nobile, per sé, sanza lo buono cavalcatore, bene non si
conduce, così questo appetito, che irascibile e concupiscibile si chiama, quanto ch'ello
sia nobile, a la ragione obedire conviene, la quale guida quello con freno e con isproni,
come buono cavaliere. Lo freno usa quando elli caccia, e chiamasi quello freno temperanza,
la quale mostra lo termine infino al quale è da cacciare; lo sprone usa quando fugge, per
lui tornare a lo loco onde fuggire vuole, e questo sprone si chiama fortezza, o vero
magnanimitate, la quale vertute mostra lo loco dove è da fermarsi e da pugnare. E così
infrenato mostra Virgilio, lo maggiore nostro poeta, che fosse Enea, ne la parte de lo
Eneida ove questa etade si figura; la quale parte comprende lo quarto, lo quinto e lo
sesto libro de lo Eneida. E quanto raffrenare fu quello, quando, avendo ricevuto da Dido
tanto di piacere quanto di sotto nel settimo trattato si dicerà, e usando con essa tanto
di dilettazione, elli si partio, per seguire onesta e laudabile via e fruttuosa, come nel
quarto de l'Eneida scritto è! Quanto spronare fu quello, quando esso Enea sostenette solo
con Sibilla a intrare ne lo Inferno a cercare de l'anima di suo padre Anchise, contra
tanti pericoli, come nel sesto de la detta istoria si dimostra! Per che appare che, ne la
nostra gioventute, essere a nostra perfezione ne convegna "temperati e forti". E
questo fa e dimostra la buona natura, sì come lo testo dice espressamente.
Ancora è a questa etade, a sua
perfezione, necessario d'essere amorosa; però che ad essa si conviene guardare diretro e
dinanzi, sì come cosa che è nel meridionale cerchio: conviensi amare li suoi maggiori,
da li quali ha ricevuto ed essere e nutrimento e dottrina, sì che esso non paia ingrato;
conviensi amare li suoi minori, acciò che, amando quelli, dea loro de li suoi benefici,
per li quali poi ne la minore prosperitade esso sia da loro sostenuto e onorato. E questo
amore mostra che avesse Enea lo nomato poeta nel quinto libro sopra detto, quando lasciò
li vecchi Troiani in Cicilia raccomandati ad Aceste, e partilli da le fatiche; e quando
ammaestrò in questo luogo Ascanio, suo figliuolo, con li altri adolescentuli armeggiando.
Per che appare a questa etade necessario essere amare, come lo testo dice.
Ancora è necessario a questa etade
essere cortese; ché, avvegna che a ciascuna etade sia bello l'essere di cortesi costumi,
a questa è massimamente necessario; però che [lievemente merita perdono l'adolescenza,
se di cortesia manchi, per minoranza d'etade, e però che, ] nel contrario, non la puote
avere la senettute, per la gravezza sua e per la severitade che a lei si richiede; e così
lo senio maggiormente. E questa cortesia mostra che avesse Enea questo altissimo poeta,
nel sesto sopra detto, quando dice che Enea rege, per onorare lo corpo di Miseno morto,
che era stato trombatore d'Ettore e poi s'era raccomandato a lui, s'accinse e prese la
scure ad aiutare tagliare le legne per lo fuoco che dovea ardere lo corpo morto, come era
di loro costume. Per che bene appare questa essere necessaria a la gioventute, e però la
nobile anima in quella la dimostra, come detto è.
Ancora è necessario a questa etade
essere leale. Lealtade è seguire e mettere in opera quello che le leggi dicono, e ciò
massimamente si conviene a lo giovane: però che lo adolescente, come detto è, per
minoranza d'etade lievemente merita perdono; lo vecchio per più esperienza dee essere
giusto, e non essaminatore di legge, se non in quanto lo suo diritto giudicio e la legge
è tutto uno quasi e, quasi sanza legge alcuna, dee giustamente sé guidare: che non può
fare lo giovane. E basti che esso seguiti la legge, e in quella seguitare si diletti: sì
come dice lo predetto poeta, nel predetto quinto libro, che fece Enea, quando fece li
giuochi in Cicilia ne l'anniversario del padre; che ciò che promise per le vittorie,
lealmente diede poi a ciascuno vittorioso, sì come era di loro lunga usanza, che era loro
legge. Per che è manifesto che a questa etade lealtade, cortesia, amore, fortezza e
temperanza siano necessarie, sì come dice lo testo che al presente è ragionato; e però
la nobile anima tutte le dimostra.
Capitolo XXVII
Veduto e
ragionato è assai sofficientemente sopra quella particola che 'l testo pone, mostrando
quelle probitadi che a la gioventute presta la nobile anima; per che da intendere pare a
la terza parte che comincia: è ne la sua senetta, ne la quale intende lo testo
mostrare quelle cose che la nobile natura mostra e dee avere ne la terza etade, cioè
senettude. E dice che l'anima nobile ne la senetta sì è prudente, sì è giusta,
sì è larga, e allegra di dir bene in prode d'altrui e d'udire quello, cioè che è
affabile. E veramente queste quattro vertudi a questa etade sono convenientissime. E a
ciò vedere, è da sapere che, sì come dice Tullio in quello De Senectute, "certo
corso ha la nostra buona etade, e una via semplice è quella de la nostra buona natura; e
a ciascuna parte de la nostra etade è data stagione a certe cose". Onde sì come a
l'adolescenza dato è, com'è detto di sopra, quello per che a perfezione e a maturitade
venire possa, così a la gioventute è data la perfezione, e [a la senettute] la
maturitade acciò che la dolcezza del suo frutto e a sé e ad altrui sia profittabile;
ché, sì come Aristotile dice, l'uomo è animale civile, per che a lui si richiede non
pur a sé ma altrui essere utile. Onde si legge di Catone che non a sé, ma a la patria e
a tutto lo mondo nato esser credea. Dunque appresso la propria perfezione, la quale
s'acquista ne la gioventute, conviene venire quella che alluma non pur sé ma li altri; e
conviensi aprire l'uomo quasi com'una rosa che più chiusa stare non puote, e l'odore che
dentro generato è spandere: e questo conviene essere in questa terza etade, che per mano
corre. Conviensi adunque essere prudente, cioè savio: e a ciò essere si richiede buona
memoria de le vedute cose, buona conoscenza de le presenti e buona provedenza de le
future. E, sì come dice lo Filosofo nel sesto de l'Etica, "impossibile è essere
savio chi non è buono", e però non è da dire savio chi con sottratti e con inganni
procede, ma è da chiamare astuto; ché sì come nullo dicerebbe savio quelli che si
sapesse bene trarre de la punta d'uno coltello ne la pupilla de l'occhio, così non è da
dire savio quelli che ben sa una malvagia cosa fare, la quale facendo, prima sé sempre
che altrui offende.
Se bene si mira, da la prudenza vegnono
li buoni consigli, li quali conducono sé e altri a buono fine ne le umane cose e
operazioni; e questo è quello dono che Salomone, veggendosi al governo del populo essere
posto, chiese a Dio, sì come nel terzo libro de li Regi è scritto. Né questo cotale
prudente non attende [chi] li domandi "Consigliami", ma proveggendo per lui,
sanza richesta colui consiglia; sì come la rosa, che non pur a quelli che va a lei per lo
suo odore rende quello, ma eziandio a qualunque appresso lei va. Potrebbe qui dire alcuno
medico o legista: "Dunque porterò io lo mio consiglio e darollo eziandio che non mi
sia chesto, e de la mia arte non averò frutto?" Rispondo, sì come dice nostro
Signore: "A grado riceveste, a grado e date". Dico dunque, messer lo legista,
che quelli consigli che non hanno rispetto a la tua arte e che procedono solo da quel
buono senno che Dio ti diede (che è prudenza, de la quale si parla), tu non li dei
vendere a li figli di Colui che te l'ha dato: quelli che hanno rispetto a l'arte, la quale
hai comperata, vendere puoi; ma non sì che non si convegnano alcuna volta decimare e dare
a Dio, cioè a quelli miseri a cui solo lo grado divino è rimaso. Conviensi anche a
questa etade essere giusto, acciò che li suoi giudicii e la sua autoritade sia un lume e
una legge a li altri. E perché questa singulare vertù, cioè giustizia, fue veduta per
li antichi filosofi apparire perfetta in questa etade, lo reggimento de le cittadi
commisero in quelli che in questa etade erano; e però lo collegio de li rettori fu detto
Senato. Oh misera, misera patria mia! quanta pietà mi stringe per te, qual volta leggo,
qual volta scrivo cosa che a reggimento civile abbia rispetto! Ma però che di giustizia
nel penultimo trattato di questo volume si tratterà, basti qui al presente questo poco
avere toccato di quella.
Conviensi anche a questa etade essere
largo; però che allora si conviene la cosa quando più satisface al debito de la sua
natura, né mai a lo debito de la larghezza non si può satisfacere così come in questa
etade. Che se volemo bene mirare al processo d'Aristotile nel quarto de l'Etica, e a
quello di Tullio in quello de li Offici, la larghezza vuole essere a luogo e a tempo, tale
che lo largo non noccia a sé né ad altrui. La quale cosa avere non si puote sanza
prudenza e sanza giustizia; le quali virtudi anzi a questa etade avere perfette per via
naturale è impossibile. Ahi malestrui e malnati, che disertate vedove e pupilli, che
rapite a li men possenti, che furate e occupate l'altrui ragioni; e di quelle corredate
conviti, donate cavalli e arme, robe e denari, portate le mirabili vestimenta, edificate
li mirabili edifici, e credetevi larghezza fare! E che è questo altro a fare che levare
lo drappo di su l'altare e coprire lo ladro la sua mensa? Non altrimenti si dee ridere,
tiranni, de le vostre messioni, che del ladro che menasse a la sua casa li convitati, e la
tovaglia furata di su l'altare, con li segni ecclesiastici ancora, ponesse in su la mensa
e non credesse che altri se n'accorgesse. Udite, ostinati, che dice Tullio contro a voi
nel libro de li Offici: "Sono molti, certo desiderosi d'essere apparenti e gloriosi,
che tolgono a li altri per dare a li altri, credendosi buoni essere tenuti, [se li]
arricchiscono per qual ragione essere voglia. Ma ciò tanto è contrario a quello che far
si conviene, che nulla è più".
Conviensi anche a questa etade essere
affabile, ragionare lo bene, e quello udire volontieri: imperò che allora è buono
ragionare lo bene, quando esso è ascoltato. E questa etade pur ha seco un'ombra
d'autoritade, per la quale più pare che lei l'uomo ascolti che nulla più tostana etade,
e più belle e buone novelle pare dover savere per la lunga esperienza de la vita. Onde
dice Tullio in quello De Senectute, in persona di Catone vecchio: "A me è
ricresciuto e volontà e diletto di stare in colloquio più ch'io non solea".
E che tutte e quattro queste cose
convegnono a questa etade, n'ammaestra Ovidio nel settimo Metamorfoseos, in quella favola
dove scrive come Cefalo d'Atene venne ad Eaco re per soccorso, ne la guerra che Atene ebbe
con Creti. Mostra che Eaco vecchio fosse prudente, quando, avendo per pestilenza di
corrompimento d'aere quasi tutto lo popolo perduto, esso saviamente ricorse a Dio e a lui
domandò lo ristoro de la morta gente; e per lo suo senno, che a pazienza lo tenne e a Dio
tornare lo fece, lo suo popolo ristorato li fu maggiore che prima. Mostra che esso fosse
giusto, quando dice che esso fu partitore a nuovo popolo e distributore de la terra
diserta sua. Mostra che fosse largo, quando disse a Cefalo dopo la dimanda de lo aiuto:
"O Atene, non domandate a me aiutorio, ma toglietevelo; e non dite a voi dubitose le
forze che ha questa isola. E tutto questo è [lo] stato de le mie cose: forze non ci
menomano, anzi ne sono a noi di soperchio; e lo avversario è grande, e lo tempo da dare
è, bene avventuroso e sanza escusa". Ahi quante cose sono da notare in questa
risposta! Ma a buono intenditore basti essere posto qui come Ovidio lo pone. Mostra che
fosse affabile, quando dice e ritrae per lungo sermone a Cefalo la istoria de la
pestilenza del suo popolo diligentemente, e lo ristoramento di quello. Per che assai è
manifesto a questa etade essere quattro cose convenienti; per che la nobile natura in essa
le mostra, sì come lo testo dice. E perché più memorabile sia l'essemplo che detto è,
dice di Eaco re che questi fu padre di Telamon, [di Peleus] e di Foco, del quale Telamon
nacque Aiace, e di Peleus Achilles.
Capitolo XXVIII
Appresso de la
ragionata particola è da procedere a l'ultima, cioè a quella che comincia: Poi ne la
quarta parte de la vita; per la quale lo testo intende mostrare quello che fa la
nobile anima ne l'ultima etade, cioè nel senio. E dice ch'ella fa due cose: l'una, che
ella ritorna a Dio, sì come a quello porto onde ella si partio quando venne ad intrare
nel mare di questa vita; l'altra si è che ella benedice lo cammino che ha fatto, però
che è stato diritto e buono e sanza amaritudine di tempesta. E qui è da sapere che, sì
come dice Tullio in quello De Senectute, la naturale morte è quasi a noi porto di lunga
navigazione e riposo. Ed è così: [ché], come lo buono marinaio, come esso appropinqua
al porto, cala le sue vele, e soavemente, con debile conducimento, entra in quello; così
noi dovemo calare le vele de le nostre mondane operazioni e tornare a Dio con tutto nostro
intendimento e cuore, sì che a quello porto si vegna con tutta soavitade e con tutta
pace. E in ciò avemo da la nostra propria natura grande ammaestramento di soavitade, ché
in essa cotale morte non è dolore né alcuna acerbitate, ma sì come uno pomo maturo
leggiermente e sanza violenza si dispicca dal suo ramo, così la nostra anima sanza doglia
si parte dal corpo ov'ella è stata. Onde Aristotile in quello De Iuventute et Senectute
dice che "sanza tristizia è la morte ch'è ne la vecchiezza". E sì come a
colui che viene di lungo cammino, anzi ch'entri ne la porta de la sua cittade li si fanno
incontro li cittadini di quella, così a la nobile anima si fanno incontro, e deono fare,
quelli cittadini de la etterna vita; e così fanno per le sue buone operazioni e
contemplazioni: ché, già essendo a Dio renduta e astrattasi da le mondane cose e
cogitazioni, vedere le pare coloro che appresso di Dio crede che siano. Odi che dice
Tullio, in persona di Catone vecchio: "A me pare già vedere e levomi in grandissimo
studio di vedere li vostri padri, che io amai, e non pur quelli [che io stesso conobbi],
ma eziandio quelli di cui udi' parlare". Rendesi dunque a Dio la nobile anima in
questa etade, e attende lo fine di questa vita con molto desiderio e uscir le pare de
l'albergo e ritornare ne la propria mansione, uscir le pare di cammino e tornare in
cittade, uscir le pare di mare e tornare a porto. O miseri e vili che con le vele alte
correte a questo porto, e là ove dovereste riposare, per lo impeto del vento rompete, e
perdete voi medesimi là dove tanto camminato avete! Certo lo cavaliere Lancelotto non
volse entrare con le vele alte, né lo nobilissimo nostro latino Guido montefeltrano. Bene
questi nobili calaro le vele de le mondane operazioni, che ne la loro lunga etade a
religione si rendero, ogni mondano diletto e opera disponendo. E non si puote alcuno
escusare per legame di matrimonio, che in lunga etade lo tegna; ché non torna a religione
pur quelli che a santo Benedetto, a santo Augustino, a santo Francesco e a santo Domenico
si fa d'abito e di vita simile, ma eziandio a buona e vera religione si può tornare in
matrimonio stando, ché Dio non volse religioso di noi se non lo cuore. E però dice santo
Paulo a li Romani: "Non quelli ch'è manifestamente, è Giudeo, né quella ch'è
manifesta in carne è circuncisione; ma quelli ch'è in ascoso, è Giudeo, e la
circuncisione del cuore, in ispirito non in littera, è circuncisione; la loda de la quale
è non da li uomini, ma da Dio".
E benedice anco la nobile anima in questa
etade li tempi passati; e bene li può benedicere, però che, per quelli rivolvendo la sua
memoria, essa si rimembra de le sue diritte operazioni, sanza le quali al porto, ove
s'appressa, venire non si potea con tanta ricchezza né con tanto guadagno. E fa come lo
buono mercatante, che, quando viene presso al suo porto, essamina lo suo procaccio e dice:
"Se io non fosse per cotal cammino passato, questo tesoro non avre'io, e non avrei di
ch'io godesse ne la mia cittade, a la quale io m'appresso"; e però benedice la via
che ha fatta. E che queste due cose convegnano a questa etade, ne figura quello grande
poeta Lucano nel secondo de la sua Farsalia, quando dice che Marzia tornò a Catone e
richiese lui e pregollo che la dovesse riprendere [g]ua[s]ta: per la quale Marzia
s'intende la nobile anima. E potemo così ritrarre la figura a veritade. Marzia fu
vergine, e in quello stato si significa l'adolescenza; [poi si maritò] a Catone, e in
quello stato si significa la gioventute; fece allora figli, per li quali si significano le
vertudi che di sopra si dicono a li giovani convenire; e partissi da Catone, e maritossi
ad Ortensio, per che [si] significa che si partì la gioventute e venne la senettute; fece
figli di questo anche, per che si significano le vertudi che di sopra si dicono convenire
a la senettute. Morì Ortensio; per che si significa lo termine de la senettute; e vedova
fatta - per lo quale vedovaggio si significa lo senio - tornò Marzia dal principio del
suo vedovaggio a Catone, per che si significa la nobile anima dal principio del senio
tornare a Dio. E quale uomo terreno più degno fu di significare Iddio, che Catone? Certo
nullo.
E che dice Marzia a Catone? "Mentre
che in me fu lo sangue", cioè la gioventute, "mentre che in me fu la maternale
vertute", cioè la senettute, che bene è madre de l'alte [vertu]di, sì come di
sopra è mostrato, "io" dice Marzia "feci e compiei li tuoi
comandamenti", cioè a dire che l'anima stette ferma a le civili operazioni. Dice:
"E tolsi due mariti", cioè a due etadi fruttifera sono stata. "Ora"
dice Marzia "che 'l mio ventre è lasso, e che io sono per li parti vota, a te mi
ritorno, non essendo più da dare ad altro sposo"; cioè a dire che la nobile anima,
cognoscendosi non avere più ventre da frutto, cioè li suoi membri sentendosi a debile
stato venuti, torna a Dio, colui che non ha mestiere de le membra corporali. E dice
Marzia: "Dammi li patti de li antichi letti, dammi lo nome solo del maritaggio";
che è a dire che la nobile anima dice a Dio: "Dammi, Signor mio, omai lo riposo di
te; dammi, almeno, che io in questa tanta vita sia chiamata tua". E dice Marzia:
"Due ragioni mi muovono a dire questo: l'una si è che dopo me si dica ch'io sia
morta moglie di Catone; l'altra, che dopo me si dica che tu non mi scacciasti, ma di buono
animo mi maritasti". Per queste due cagioni si muove la nobile anima; e vuole partire
d'esta vita sposa di Dio, e vuole mostrare che graziosa fosse a Dio la sua [oper]azione.
Oh sventurati e male nati, che innanzi volete partirvi d'esta vita sotto lo titolo
d'Ortensio che di Catone! Nel nome di cui è bello terminare ciò che de li segni de la
nobilitade ragionare si convenia, però che in lui essa nobilitade tutti li dimostra per
tutte etadi.
Capitolo XXIX
Poi che mostrato
[ha] lo testo quelli segni li quali per ciascuna etade appaiono nel nobile uomo e per li
quali conoscere si puote, e sanza li quali essere non puote, come lo sole sanza luce e lo
fuoco sanza caldo, grida lo testo a la gente, a l'ultimo di ciò che di nobilità è
ritratto, e dice: "O voi che udito m'avete, vedete quanti sono coloro che sono
ingannati!": cioè coloro che, per essere di famose e antiche generazioni e per
essere discesi di padri eccellenti, credono essere nobili, nobilitade non avendo in loro.
E qui surgono due quistioni, a le quali ne la fine di questo trattato è bello intendere.
Potrebbe dire ser Manfredi da Vico che ora Pretore si chiama e Prefetto: "Come che io
mi sia, io reduco a memoria e rappresento li miei maggiori, che per loro nobilitade
meritaro l'officio de la Prefettura, e meritaro di porre mano a lo coronamento de lo
Imperio, meritaro di ricevere la rosa dal romano Pastore: onore deggio ricevere e
reverenza da la gente". E questa è l'una questione. L'altra è, che potrebbe dire
quelli da Santo Nazzaro di Pavia, e quelli de li Piscitelli da Napoli: "Se la
nobilitade è quello che detto è, cioè seme divino ne la umana anima graziosamente
posto, e le progenie, o vero schiatte, non hanno anima, sì come è manifesto, nulla
progenie, o vero schiatta, nobile dicere si potrebbe: e questo è contra l'oppinione di
coloro che le nostre progenie dicono essere nobilissime in loro cittadi". A la prima
questione risponde Giovenale ne l'ottava satira, quando comincia quasi esclamando:
"Che fanno queste onoranze che rimangono da li antichi, se per colui che di quelle si
vuole ammantare male si vive? se per colui che de li suoi antichi ragiona e mostra le
grandi e mirabili opere, s'intende a misere e vili operazioni?" Avvegna [che,
"chi dicerà"], dice esso poeta satiro, "nobile per la buona generazione
quelli che de la buona generazione degno non è? Questo non è altro che chiamare lo nano
gigante". Poi appresso, a questo cotale dice: "Da te a la statua fatta in
memoria del tuo antico non ha dissimilitudine altra, se non che la sua testa è di marmo,
e la tua vive". E in questo, con reverenza lo dico, mi discordo dal Poeta, ché la
statua di marmo, di legno o di metallo, rimasa per memoria d'alcuno valente uomo, si
dissimiglia ne lo effetto molto dal malvagio discendente. Però che la statua sempre
afferma la buona oppinione in quelli che hanno udito la buona fama di colui cui è la
statua, e ne li altri genera: lo ma[l]estr[u]o figlio o nepote fa tutto lo contrario, ché
l'oppinione di coloro che hanno udito bene de li suoi maggiori, fa più debile; ché dice
alcuno loro pensiero: "Non può essere che de li maggiori di costui sia tanto quanto
si dice, poi che de la loro semenza sì fatta pianta si vede". Per che non onore, ma
disonore dee ricevere quelli che a li buoni mala testimonianza porta. E però dice Tullio
che "lo figlio del valente uomo dee procurare di rendere al padre buona
testimonianza". Onde, al mio giudicio, così come chi uno valente uomo infama è
degno d'essere fuggito da la gente e non ascoltato, così lo ma[l]estr[u]o disceso de li
buoni maggiori è degno d'essere da tutti scacciato, e de' si lo buono uomo chiudere li
occhi per non vedere quello vituperio vituperante de la bontade, che in sola la memoria è
rimasa. E questo basti, al presente, a la prima questione che si movea.
A la seconda questione si può
rispondere, che una progenie per sé non hae anima, e ben è vero che nobile si dice ed è
per certo modo. Onde è da sapere che ogni tutto si fa de le sue parti. E` alcuno tutto
che ha una essenza simplice con le sue parti, sì come in uno uomo è una essenza di tutto
e di ciascuna parte sua; e ciò che si dice ne la parte, per quello medesimo modo si dice
essere in tutto. Un altro tutto è che non ha essenza comune con le parti, sì come una
massa di grano; ma è la sua una essenza secondaria che resulta da molti grani, che vera e
prima essenza in loro hanno. E in questo tutto cotale si dicono essere le qualitadi de le
parti così secondamente come l'essere; onde si dice una bianca massa, perché li grani
onde è la massa sono bianchi. Veramente questa bianchezza è pur ne li grani prima, e
secondariamente resulta in tutta la massa, e così secondariamente bianca dicere si può;
e per cotale modo si può dicere nobile una schiatta, o vero una progenie. Onde è da
sapere che, sì come a fare una [bianca] massa convegnono vincere li bianchi grani, così
a fare una nobile progenie convegnono in essa li nobili uomini [vincere] (dico
"vincere" essere più che li altri), sì che la bontade con la sua grida oscuri
e celi lo contrario che dentro è. E sì come d'una massa bianca di grano si potrebbe
levare a grano a grano lo formento, e a grano [a grano] restituire meliga rossa, e tutta
la massa finalmente cangerebbe colore; così de la nobile progenie potrebbero li buoni
morire a uno a uno e nascere in quella li malvagi, tanto che cangerebbe lo nome, e non
nobile ma vile da dire sarebbe. E così basti a la seconda questione essere risposto.
Capitolo XXX
Come di sopra
nel terzo capitolo di questo trattato si dimostra, questa canzone ha tre parti principali.
Per che, ragionate le due (de le quali la prima cominciò nel capitolo predetto, e la
seconda nel sestodecimo; sicché la prima per tredici e la seconda per quattordici è
determinata, sanza lo proemio del trattato de la canzone, che in due capitoli si
comprese), in questo trentesimo e ultimo capitolo, de la terza parte principale
brievemente è da ragionare, la quale per tornata di questa canzone fatta fu ad alcuno
adornamento, e comincia: Contra-li-erranti mia, tu te n'andrai. E qui primamente
si vuole sapere che ciascuno buono fabricatore, ne la fine del suo lavoro, quello
nobilitare e abbellire dee in quanto puote, acciò che più celebre e più prezioso da lui
si parta. E questo intendo, non come buono fabricatore ma come seguitatore di quello, fare
in questa parte.
Dico adunque: Contra-li-erranti mia.
Questo Contra-li-erranti è tutto una par[ola], e è nome d'esta canzone, tolto
per essemplo del buono frate Tommaso d'Aquino, che a uno suo libro, che fece a confusione
di tutti quelli che disviano da nostra Fede, puose nome ContraliGentili. Dico adunque che
"tu andrai": quasi dica: "Tu se' omai perfetta, e tempo è di non stare
ferma, ma di gire, ché la tua impresa è grande"; e quando tu sarai In parte
dove sia la donna nostra, dille lo tuo mestiere. Ove è da notare che, sì come dice
nostro Signore, non si deono le margarite gittare innanzi a li porci, però che a loro non
è prode, e a le margarite è danno; e, come dice Esopo poeta ne la prima Favola, più è
prode al gallo uno grano che una margarita, e però questa lascia e quello coglie. E in
ciò considerando, a cautela di ciò comando a la canzone che suo mestiere discuopra là
dove questa donna, cioè la filosofia, si troverà. Allora si troverà questa donna
nobilissima quando si truova la sua camera, cioè l'anima in cui essa alberga. Ed essa
filosofia non solamente alberga pur ne li sapienti, ma eziandio, come provato è di sopra
in altro trattato, essa è dovunque alberga l'amore di quella. E a questi cotali dico che
manifesti lo suo mestiere, perché a loro sarà utile la sua sentenza, e da loro ricolta.
E dico ad essa: Dì a questa donna,
"Io vo parlando de l'amica vostra". Bene è sua amica nobilitate; ché
tanto l'una con l'altra s'ama, che nobilitate sempre la dimanda, e filosofia non volge lo
sguardo suo dolcissimo a l'altra parte. Oh quanto e come bello adornamento è questo che
ne l'ultimo di questa canzone si dà ad essa, chiamandola amica di quella la cui propria
ragione è nel secretissimo de la divina mente!
© 1999 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 15 giugno 1999