Dante Alighieri

Convivio

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(trattato IV, capp. XXI-XXV)

TRATTATO IV

Capitolo XXI

         Acciò che più perfettamente s'abbia conoscenza de la umana bontade, secondo che in noi è principio di tutto bene, la quale nobilitade si chiama, da chiarire è in questo speziale capitolo come questa bontade discende in noi; e prima per modo naturale, e poi per modo teologico, cioè divino e spirituale. In prima è da sapere che l'uomo è composto d'anima e di corpo; ma ne l'anima è quella; sì come detto è che è a guisa di semente de la virtù divina. Veramente per diversi filosofi de la differenza de le nostre anime fue diversamente ragionato: ché Avicenna e Algazel volsero che esse da loro e per loro principio fossero nobili e vili; e Plato e altri volsero che esse procedessero da le stelle, e fossero nobili e più e meno secondo la nobilitade de la stella. Pittagora volse che tutte fossero d'una nobilitade, non solamente le umane ma con le umane quelle de li animali bruti e de le piante, e le forme de le minere, e disse che tutta la differenza è de le corpora e de le forme. Se ciascuno fosse a difendere la sua oppinione, potrebbe essere che la veritade si vedrebbe essere in tutte; ma però che ne la prima faccia paiono un poco lontane dal vero, non secondo quelle procedere si conviene, ma secondo l'oppinione d'Aristotile e de li Peripatetici. E però dico che quando l'umano seme cade nel suo recettaculo, cioè ne la matrice, esso porta seco la vertù de l'anima generativa e la vertù del cielo e la vertù de li elementi legati, cioè la complessione; e matura e dispone la materia a la vertù formativa, la quale diede l'anima del generante; e la vertù formativa prepara li organi a la vertù celestiale, che produce de la potenza del seme l'anima in vita. La quale, incontanente produtta, riceve da la vertù del motore del cielo lo intelletto possibile; lo quale potenzialmente in sé adduce tutte le forme universali, secondo che sono nel suo produttore, e tanto meno quanto più dilungato da la prima Intelligenza è.
         Non si maravigli alcuno, s'io parlo sì che par forte ad intendere; ché a me medesimo pare maraviglia, come cotale produzione si può pur conchiudere e con lo intelletto vedere. Non è cosa da manifestare a lingua, lingua, dico, veramente volgare. Per che io voglio dire come l'Apostolo: "O altezza de le divizie de la sapienza di Dio, come sono incomprensibili li tuoi giudicii e investigabili le tue vie!". E però che la complessione del seme puote essere migliore e men buona, e la disposizione del seminante puote essere migliore e men buona, e la disposizione del Cielo a questo effetto puote essere buona, migliore e ottima (la quale si varia per le constellazioni, che continuamente si transmutano); incontra che de l'umano seme e di queste vertudi più pura [e men pura] anima si produce; e, secondo la sua puritade, discende in essa la vertude intellettuale possibile che detta è, e come detto è. E s'elli avviene che, per la puritade de l'anima ricevente, la intellettuale vertude sia bene astratta e assoluta da ogni ombra corporea, la divina bontade in lei multiplica, sì come in cosa sufficiente a ricevere quella, e quindi sì multiplica ne l'anima questa intelligenza, secondo che ricevere puote. E questo è quel seme di felicitade del quale al presente si parla. E ciò è concordevole a la sentenza di Tullio in quello De Senectute, che, parlando in persona di Catone, dice: "Imperciò celestiale anima discese in noi, de l'altissimo abitaculo venuta in loco lo quale a la divina natura e a la etternitade è contrario". E in questa cotale anima è la vertude sua propria, e la intellettuale, e la divina, cioè quella influenza che detta è: però è scritto nel libro de le Cagioni: "Ogni anima nobile ha tre operazioni, cioè animale, intellettuale e divina". E sono alcuni di tale oppinione che dicono, se tutte le precedenti vertudi s'accordassero sovra la produzione d'un'anima ne la loro ottima disposizione, che tanto discenderebbe in quella de la deitade, che quasi sarebbe un altro Iddio incarnato. E quasi questo è tutto ciò che per via naturale dicere si puote.
         Per via teologica si può dire che, poi che la somma deitade, cioè Dio, vede apparecchiata la sua creatura a ricevere del suo beneficio, tanto largamente in quella ne mette quanto apparecchiata è a riceverne. E però che da ineffabile caritate vegnono questi doni, e la divina caritate sia appropriata a lo Spirito Santo, quindi è che chiamati sono doni di Spirito Santo. Li quali, secondo che li distingue Isaia profeta, sono sette, cioè Sapienza, Intelletto, Consiglio, Fortezza, Scienza, Pietade e Timore di Dio. Oh buone biade, e buona e ammirabile sementa! e oh ammirabile e benigno seminatore, che non attende se non che la natura umana li apparecchi la terra a seminare! e beati quelli che tale sementa coltivano come si conviene! Ove è da sapere che 'l primo e lo più nobile rampollo che germogli di questo seme, per essere fruttifero, si è l'appetito de l'animo, lo quale in greco è chiamato "hormen". E se questo non è bene culto e sostenuto diritto per buona consuetudine, poco vale la sementa, e meglio sarebbe non essere seminato. E però vuole santo Augustino, e ancora Aristotile nel secondo de l'Etica, che l'uomo s'ausi a ben fare e a rifrenare le sue passioni, acciò che questo tallo, che detto è, per buona consuetudine induri, e rifermisi ne la sua rettitudine, sì che possa fruttificare, e del suo frutto uscire la dolcezza de l'umana felicitade.

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Capitolo XXII

         Comandamento è de li morali filosofi che de li benefici hanno parlato, che l'uomo dee mettere ingegno e sollicitudine in porgere li suoi benefici quanto puote [utili] più al ricevitore; onde io, volendo a cotale imperio essere obediente, intendo questo mio Convivio per ciascuna de le sue parti rendere utile quanto più mi sarà possibile. E però che in questa parte occorre a me di potere alquanto ragionare [de l'umana felicitade, de la sua dolcezza ragionare] intendo; ché più utile ragionamento fare non si può a coloro che non la conoscono. Ché, sì come dice lo Filosofo nel primo de l'Etica e Tullio in quello del Fine de' Beni, male tragge al segno quelli che nol vede; e così male può ire a questa dolcezza chi prima non l'avvisa. Onde, con ciò sia cosa che essa sia finale nostro riposo, per lo quale noi vivemo e operiamo ciò che facemo, utilissimo e necessario è questo segno vedere, per dirizzare a quello l'arco de la nostra operazione. E massimamente è da gradire quelli che a coloro che non veggiano l'addita.
         Lasciando dunque stare l'oppinione che di quello ebbe Epicuro filosofo, e di quello ebbe Zenone, venire intendo sommariamente a la verace oppinione d'Aristotile e de li altri Peripatetici. Sì come detto è di sopra, de la divina bontade, in noi seminata e infusa dal principio de la nostra generazione, nasce uno rampollo, che li Greci chiamano "hormen", cioè appetito d'animo naturale. E sì come ne le biade che, quando nascono, dal principio hanno quasi una similitudine ne l'erba essendo, e poi si vengono per processo dissimigliando; così questo naturale appetito, che de la divina grazia surge, dal principio quasi si mostra non dissimile a quello che pur da natura nudamente viene, ma con esso, sì come l'erbate quasi di diversi biadi, si simiglia. E non pur ne li uomini, ma ne li uomini e ne le bestie ha similitudine; e ['n] questo appare, che ogni animale, sì come elli è nato, razionale come bruto, se medesimo ama, e teme e fugge quelle cose che a lui sono contrarie, e quelle odia. Procedendo poi, sì come detto è, comincia una dissimilitudine tra loro, nel procedere di questo appetito, ché l'uno tiene uno cammino e l'altro un altro. Sì come dice l'Apostolo: "Molti corrono al palio, ma uno è quelli che 'l prende", così questi umani appetiti per diversi calli dal principio se ne vanno, e uno solo calle è quello che noi mena a la nostra pace. E però, lasciando stare tutti li altri, col trattato è da tenere dietro a quello che bene comincia.
         Dico adunque che dal principio se stesso ama, avvegna che indistintamente; poi viene distinguendo quelle cose che a lui sono più amabili e meno, e più odibili [e meno], e seguita e fugge e più e meno, secondo la conoscenza distingue non solamente ne l'altre cose, che secondamente ama, ma eziandio distingue in sé, che ama principalmente. E conoscendo in sé diverse parti, quelle che in lui sono più nobili, più ama quelle; e con ciò sia cosa che più [nobile] parte de l'uomo sia l'animo che 'l corpo, quello più ama. E così, amando sé principalmente, e per sé l'altre cose, e amando di sé la migliore parte più, manifesto è che più ama l'animo che 'l corpo o che altra cosa: lo quale animo naturalmente più che altra cosa dee amare. Dunque, se la mente si dil[et]ta sempre ne l'uso de la cosa amata, che è frutto d'amore, [e] in quella cosa che massimamente è amata è l'uso massimamente dilettoso, l'uso del nostro animo è massimamente dilettoso a noi. E quello che massimamente è dilettoso a noi, quello è nostra felicitade e nostra beatitudine, oltre la quale nullo diletto è maggiore, né nullo altro pare; sì come veder si puote, chi bene riguarda la precedente ragione.
         E non dicesse alcuno che ogni appetito sia animo; ché qui s'intende animo solamente quello che spetta a la parte razionale, cioè la volontade e lo intelletto; sì che se volesse chiamare animo l'appetito sensitivo, qui non ha luogo, né instanza puote avere, ché nullo dubita che l'appetito razionale non sia più nobile che 'l sensuale, e però più amabile: e così è questo di che ora si parla. Veramente l'uso del nostro animo è doppio, cioè pratico e speculativo (pratico è tanto quanto operativo), l'uno e l'altro dilett[os]issimo, avvegna che quello del contemplare sia più, sì come di sopra è narrato. Quello del pratico si è operare per noi virtuosamente, cioè onestamente, con prudenza, con temperanza, con fortezza e con giustizia; quello de lo speculativo si è non operare per noi, ma considerare l'opere di Dio e de la natura. E questo [come] quell'altro è nostra beatitudine e somma felicitade, sì come vedere si può; la quale è la dolcezza del sopra notato seme, sì come omai manifestamente appare, a la quale molte volte cotale seme non perviene per male essere coltivato, e per essere disviata la sua pullulazione. E similemente puote essere per molta corr[e]zione e cultura; ché là dove questo seme dal principio non cade, si puote inducere [n]el suo processo, sì che perviene a questo frutto; ed è uno modo quasi d'insetare l'altrui natura sopra diversa radice. E però nullo è che possa essere scusato; ché se da sua naturale radice uomo non ha questa sementa, ben la puote avere per via d'insetazione. Così fossero tanti quelli di fatto che s'insetassero, quanti sono quelli che da la buona radice si lasciano disviare!
         Veramente di questi usi l'uno è più pieno di beatitudine che l'altro; sì come è lo speculativo, lo quale sanza mistura alcuna è uso de la nostra nobilissima parte, la quale, per lo radicale amore che detto è, massimamente è amabile, sì com'è lo 'ntelletto. E questa parte in questa vita perfettamente lo suo uso avere non puote - lo quale [è] [ved]ere [in] [s]é Iddio ch'è sommo intelligibile -, se non in quanto considera lui e mira lui per li suoi effetti. E che noi domandiamo questa beatitudine per somma, e non altra, cioè quella de la vita attiva, n'ammaestra lo Vangelio di Marco, se bene quello volemo guardare. Dice Marco che Maria Maddalena e Maria Iacobi e Maria Salomè andaro per trovare lo Salvatore al monimento, e quello non trovaro; ma trovaro uno giovane vestito di bianco che disse loro: "Voi domandate lo Salvatore, e io vi dico che non è qui; e però non abbiate temenza, ma ite, e dite a li discepoli suoi e a Piero che elli li precederà in Galilea; e quivi lo vedrete, sì come vi disse". Per queste tre donne si possono intendere le tre sette de la vita attiva, cioè li Epicurei, li Stoici e li Peripatetici, che vanno al monimento, cioè al mondo presente che è recettaculo di corruttibili cose, e domandano lo Salvatore, cioè la beatitudine, e non la truovano; ma uno giovane truovano in bianchi vestimenti, lo quale, secondo la testimonianza di Matteo e anche de li altri, era angelo di Dio. E però Matteo disse: "L'angelo di Dio discese di cielo, e vegnendo volse la pietra e sedea sopra essa. E 'l suo aspetto era come folgore, e le sue vestimenta erano come neve". Questo angelo è questa nostra nobilitade che da Dio viene, come detto è, che ne la nostra ragione parla, e dice a ciascuna di queste sette, cioè a qualunque va cercando beatitudine ne la vita attiva, che non è qui; ma vada, e dicalo a li discepoli e a Piero, cioè a coloro che 'l vanno cercando, e a coloro che sono sviati, sì come Piero che l'avea negato, che in Galilea li precederà: cioè che la beatitudine precederà noi in Galilea, cioè ne la speculazione. Galilea è tanto a dire quanto bianchezza. Bianchezza è uno colore pieno di luce corporale più che nullo altro; e così la contemplazione è più piena di luce spirituale che altra cosa che qua giù sia. E dice: "Elli precederà"; e non dice: "Elli sarà con voi": a dare a intendere che ne la nostra contemplazione Dio sempre precede, né mai lui giugnere potemo qui, lo quale è nostra beatitudine somma. E dice: "Quivi lo vedrete, sì come disse": cioè quivi avrete de la sua dolcezza, cioè de la felicitade, sì come a voi è promesso qui; cioè, sì come stabilito è che voi avere possiate. E così appare che nostra beatitudine (questa felicitade di cui si parla) prima trovare potemo quasi imperfetta ne la vita attiva, cioè ne le operazioni de le morali virtudi, e poi perfetta quasi ne le operazioni de le intellettuali. Le quali due operazioni sono vie espedite e dirittissime a menare a la somma beatitudine, la quale qui non si puote avere, come appare pur per quello che detto è.

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Capitolo XXIII

         Poi che dimostrata sufficientemente pare la diffinizione di nobilitade, e quella per le sue parti, come possibile è stato, è dichiarata, sì che vedere si puote omai che è lo nobile uomo, da procedere pare a la parte del testo che comincia: L'anima cui adorna esta bontate; ne la quale si mostrano li segni per li quali conoscere si puote il nobile uomo che detto è. E dividesi questa parte in due: che ne la prima s'afferma che questa nobilitade luce e risplende per tutta la vita del nobile, manifestamente; ne la seconda si dimostra specificamente ne li suoi splendori, e comincia questa seconda parte: Ubidente, soave e vergognosa.
         Intorno de la prima è da sapere che questo seme divino, di cui parlato è di sopra, ne la nostra anima incontanente germoglia, mettendo e diversificando per ciascuna potenza de l'anima, secondo la essigenza di quella. Germoglia dunque per la vegetativa, per la sensitiva e per la razionale; e dibrancasi per le vertuti di quelle tutte, dirizzando quelle tutte a le loro perfezioni, e in quelle sostenendosi sempre infino al punto che, con quella parte de la nostra anima che mai non muore, a l'altissimo e gloriosissimo seminadore al cielo ritorna. E questo dice per quella prima che detta è. Poi quando comincia: Ubidente, soave e vergognosa, mostra quello per che potemo conoscere l'uomo nobile a li segni apparenti, che sono, di questa bontade divina, operazione; e partesi questa parte in quattro, secondo che per quattro etadi diversamente adopera, sì come per l'adolescenza, per la gioventute, per la senettute e per lo senio. E comincia la seconda parte: In giovinezza, temperata e forte; la terza comincia: E ne la sua senetta; la quarta comincia: Poi ne la quarta parte de la vita. In quest[o] è la sentenza di questa parte in generale. Intorno a la quale si vuole sapere che ciascuno effetto, in quanto effetto è, riceve la similitudine de la sua cagione, quanto è più possibile di ritenere. Onde, con ciò sia cosa che la nostra vita, sì come detto è, ed ancora d'ogni vivente qua giù, sia causata dal cielo, e lo cielo a tutti questi cotali effetti, non per cerchio compiuto, ma per parte di quello a loro si scuopra; e così conviene che 'l suo movimento sia sopra essi come uno arco quasi, [e] tutte le [terrene] vite (e dico [terrene], sì de li [uomini] come de li altri viventi), [mon]tando e volgendo, convengono essere quasi ad imagine d'arco assimiglianti. Tornando dunque a la nostra, sola de la quale al presente s'intende, sì dico ch'ella procede a imagine di questo arco, montando e discendendo.
         Ed è da sapere che questo arco [di giù, come l'arco] di su sarebbe eguale, se la materia de la nostra seminale complessione non impedisse la regola de la umana natura. Ma però che l'umido radicale [è] meno e più, e di migliore qualitade [e men buona], e più ha durare [in uno] che in uno altro effetto - lo qual è subietto e nutrimento del calore, che è nostra vita -, avviene che l'arco de la vita d'un uomo è di minore e di maggiore tesa che quello de l'altro. E alcuna morte è violenta, o vero per accidentale infertade affrettata; ma solamente quella che naturale è chiamata dal vulgo, e che è, è quel termine del quale si dice per lo Salmista: "Ponesti termine, lo quale passare non si può". E però che lo maestro de la nostra vita Aristotile s'accorse di questo arco di che ora si dice, parve volere che la nostra vita non fosse altro che uno salire e uno scendere: però dice in quello dove tratta di Giovinezza e di Vecchiezza, che giovinezza non è altro se non accrescimento di quella. Là dove sia lo punto sommo di questo arco, per quella disaguaglianza che detta è di sopra, è forte da sapere; ma ne li più io credo tra il trentesimo e quarantesimo anno, e io credo che ne li perfettamente naturati esso ne sia nel trentacinquesimo anno. E muovemi questa ragione: che ottimamente naturato fue lo nostro salvatore Cristo, lo quale volle morire nel trentaquattresimo anno de la sua etade; ché non era convenevole la divinitade stare [in] cos[a] in discresc[er]e, né da credere è ch'elli non volesse dimorare in questa nostra vita al sommo, poi che stato c'era nel basso stato de la puerizia. E ciò manifesta l'ora del giorno de la sua morte, ché volle quella consimigliare con la vita sua; onde dice Luca che era quasi ora sesta quando morio, che è a dire lo colmo del die. Onde si può comprendere per quello "quasi" che al trentacinquesimo anno di Cristo era lo colmo de la sua etade.
         Veramente questo arco non pur per mezzo si distingue da le scritture; ma, seguendo le quattro combina[zioni] de le contrarie qualitadi che sono ne la nostra composizione, a le quali pare essere appropriata, dico a ciascuna, una parte de la nostra etade, in quattro parti si divide, e chiamansi quattro etadi. La prima è Adolescenza, che s'appropria al caldo e a l'umido; la seconda si è Gioventute, che s'appropria al caldo e al secco; la terza si è Senettute, che s'appropria al freddo e al secco; la quarta si è Senio, che s'appropria al freddo e a l'umido, secondo che nel quarto de la Metaura scrive Alberto. E queste parti si fanno simigliantemente ne l'anno, in primavera, in estate, in autunno e in inverno; e nel die, ciò è infino a la terza, e poi infino a la nona (lasciando la sesta, nel mezzo di questa parte, per la ragione che si discerne), e poi infino al vespero e dal vespero innanzi. E però li gentili, cioè li pagani, diceano che 'l carro del sole avea quattro cavalli: lo primo chiamavano Eoo, lo secondo Pirroi, lo terzo Eton, lo quarto Flegon, secondo che scrive Ovidio nel secondo del Metamorfoseos. Intorno a le parti del giorno è brievemente da sapere che, sì come detto è di sopra nel sesto del terzo trattato, la Chiesa usa, ne la distinzione de le ore, [le ore] del dì temporali, che sono in ciascuno die dodici, o grandi o piccole, secondo la quantitade del sole; e però che la sesta ora, cioè lo mezzo die, è la più nobile di tutto lo die e la più virtuosa, li suoi offici appressa quivi da ogni parte, cioè da prima e di poi, quanto puote. E però l'officio de la prima parte del die, cioè la terza, si dice in fine di quella; e quello de la terza parte e de la quarta si dice ne li principii. E però si dice mezza terza, prima che suoni per quella parte; e mezza nona, poi che per quella parte è sonato; e così mezzo vespero. E però sappia ciascuno che, ne la diritta nona, sempre dee sonare nel cominciamento de la settima ora del die: e questo basti a la presente digressione.

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Capitolo XXIV

         Ritornando al proposito, dico che la umana vita si parte per quattro etadi. La prima si chiama Adolescenzia, cioè "accrescimento di vita"; la seconda si chiama Gioventute, cioè "etate che puote giovare", cioè perfezione dare, e così s'intende perfetta - ché nullo puote dare se non quello ch'elli ha -; la terza si chiama Senettute; la quarta si chiama Senio, sì come di sopra detto è.
         De la prima nullo dubita, ma ciascuno savio s'accorda ch'ella dura in fino al venticinquesimo anno; e però che infino a quel tempo l'anima nostra intende a lo crescere e a lo abbellire del corpo, onde molte e grandi transmutazioni sono ne la persona, non puote perfettamente la razionale parte discernere. Per che la Ragione vuole che dinanzi a quella etade l'uomo non possa certe cose fare sanza curatore di perfetta etade.
         De la seconda, la quale veramente è colmo de la nostra vita, diversamente è preso lo tempo da molti. Ma, lasciando ciò che ne scrivono li filosofi e li medici, e tornando a la ragione propria, dico che ne li più, ne li quali prendere si puote e dee ogni naturale giudicio, quella etade è venti anni. E la ragione che ciò mi dà si è che, se 'l colmo del nostro arco è ne li trentacinque, tanto quanto questa etade ha di salita tanto dee avere di scesa; e quella salita e quella scesa è quasi lo tenere de l'arco, nel quale poco di flessione si discerne. Avemo dunque che la gioventute nel quarantacinquesimo anno si compie. E sì come l'adolescenzia è in venticinque anni che precede, montando, a la gioventute, così lo discendere, cioè la senettute, è [in] altrettanto tempo che succede a la gioventute; e così si termina la senettute nel settantesimo anno. Ma però che l'adolescenza non comincia dal principio de la vita, pigliandola per lo modo che detto è, ma presso a otto anni dopo quell[o]; e però che la nostra natura si studia di salire, e a lo scendere raffrena, però che lo caldo naturale è menomato, e puote poco, e l'umido è ingrossato (non per[ò] in quantitade, ma p[ur] in qualitade, sì ch'è meno vaporabile e consumabile), avviene che oltre la senettute rimane de la nostra vita forse in quantitade di diece anni, o poco più o poco meno: e questo tempo si chiama senio. Onde avemo di Platone, del quale ottimamente si può dire che fosse naturato e per la sua perfezione e per la fisonomia che di lui prese Socrate quando prima lo vide, che esso vivette ottantuno anno, secondo che testimonia Tullio in quello De Senectute. E io credo che se Cristo fosse stato non crucifisso, e fosse vivuto lo spazio che la sua vita poteva secondo natura trapassare, elli sarebbe a li ottantuno anno di mortale corpo in etternale transmutato.
         Veramente, sì come di sopra detto è, queste etadi possono essere più lunghe e più corte secondo la complessione nostra e la composizione; ma, come elle siano in questa proporzione, come detto è, in tutti mi pare da servare, cioè di fare l'etadi in quelli cotali e più lunghe e meno secondo la integritade di tutto lo tempo de la naturale vita. Per queste tutte etadi questa nobilitade, di cui si parla, diversamente mostra li suoi effetti ne l'anima nobilitata; e questo è quello che questa parte, sopra la quale al presente si scrive, intende a dimostrare. Dov'è da sapere che la nostra buona e diritta natura ragionevolmente procede in noi, sì come vedemo procedere la natura de le piante in quelle; e però altri costumi e altri portamenti sono ragionevoli ad una etade più che ad altra, ne li quali l'anima nobilitata ordinatamente procede per una semplice via, usando li suoi atti ne li loro tempi ed etadi sì come a l'ultimo suo frutto sono ordinati. E Tullio in ciò s'accorda in quello De Senectute. E lasciando lo figurato che di questo diverso processo de l'etadi tiene Virgilio ne lo Eneida, e lasciando stare quello che Egidio eremita ne dice ne la prima parte de lo Reggimento de' Principi, e lasciando stare quello che ne tocca Tullio in quello de li Offici, e seguendo solo quello che la ragione per sé ne puote vedere, dico che questa prima etade è porta e via per la quale s'entra ne la nostra buona vita. E questa entrata conviene avere di necessitade certe cose, le quali la buona natura, che non viene meno ne le cose necessarie, ne dà; sì come vedemo che dà a la vite le foglie per difensione del frutto, e li vignuoli con li quali difende e lega la sua imbecillitade, sì che sostiene lo peso del suo frutto.
         Dà adunque la buona natura a questa etade quattro cose, necessarie a lo entrare ne la cittade del bene vivere. La prima si è obedienza; la seconda soavitade; la terza vergogna; la quarta adornezza corporale, sì come dice lo testo ne la prima particola. E` dunque da sapere, che sì come quello che mai non fosse stato in una cittade, non saprebbe tenere le vie sanza insegnamento di colui che l'hae usata; così l'adolescente, che entra ne la selva erronea di questa vita, non saprebbe tenere lo buono cammino, se da li suoi maggiori non li fosse mostrato. Né lo mostrare varrebbe, se a li loro comandamenti non fosse obediente; e però fu a questa etade necessaria la obedienza. Ben potrebbe alcuno dire così: dunque potrà essere detto quelli obediente che crederà li malvagi comandamenti, come quelli che crederà li buoni? Rispondo che non ha quella obedienza, ma transgressione: ché se lo re comanda una via e lo servo ne comanda un'altra, non è da obedire lo servo; ché sarebbe disobedire lo re, e così sarebbe transgressione. E però dice Salomone, quando intende correggere suo figlio (e questo è lo primo suo comandamento): "Audi, figlio mio, l'ammaestramento del tuo padre". E poi lo rimuove incontanente da l'altrui reo consiglio e ammaestramento, dicendo: "Non ti possano quello fare di lusinghe né di diletto li peccatori, che tu vadi con loro". Onde, sì come, nato, tosto lo figlio a la tetta de la madre s'apprende, così tosto, come alcuno lume d'animo in esso appare, si dee volgere a la correzione del padre, e lo padre lui ammaestrare. E guardisi che non li dea di sé essemplo ne l'opera, che sia contrario a le parole de la correzione: ché naturalmente vedemo ciascuno figlio più mirare a le vestigie de li paterni piedi che a l'altre. E però dice e comanda la Legge, che a ciò provede, che la persona del padre sempre santa e onesta dee apparere a li suoi figli; e così appare che la obedienza fue necessaria in questa etade. E però scrive Salomone ne li Proverbi, che quelli che umilemente e obedientemente sostiene dal correttore le sue corrett[iv]e riprensioni, "sarà glorioso"; e dice "sarà", a dare ad intendere che elli parla a lo adolescente, che non puote essere, ne la presente etade. E se alcuno calunniasse: "Ciò che detto è, è pur del padre e non d'altri", dico che al padre si dee riducere ogni altra obedienza. Onde dice l'Apostolo a li Colossensi: "Figliuoli, obedite a li vostri padri per tutte cose, per ciò che questo vuole Iddio". E se non è in vita lo padre, riducere si dee a quelli che per lo padre è ne l'ultima volontade in padre lasciato; e se lo padre muore intestato, riducere si dee a colui cui la Ragione commette lo suo governo. E poi deono essere obediti maestri e maggiori, c[ui] in alcuno modo pare dal padre, o da quelli che loco paterno tiene, essere commesso. Ma però che lungo è stato lo capitolo presente per le utili digressioni che contiene, per l'altro capitolo l'altre cose sono da ragionare.

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Capitolo XXV

         Non solamente questa anima e natura buona in adolescenza è obediente, ma eziandio soave; la quale cosa è l'altra ch'è necessaria in questa etade a bene intrare ne la porta de la gioventute. Necessaria è, poi che noi non potemo perfetta vita avere sanza amici, sì come ne l'ottavo de l'Etica vuole Aristotile; e la maggiore parte de l'amistadi si paiono seminare in questa etade prima, però che in essa comincia l'uomo ad essere grazioso, o vero lo contrario: la quale grazia s'acquista per soavi reggimenti, che sono dolce e cortesemente parlare, dolce e cortesemente servire e operare. E però dice Salomone a lo adolescente figlio: "Li schernidori Dio li schernisce, e a li mansueti Dio darà grazia". E altrove dice: "Rimuovi da te la mala bocca, e li altri atti villani siano di lungi da te". Per che appare, che necessaria sia questa soavitade, come detto è.
         Anche è necessaria a questa etade la passione de la vergogna; e però la buona e nobile natura in questa etade la mostra, sì come lo testo dice. E però che la vergogna è apertissimo segno in adolescenza di nobilitade, perché quivi è massimamente necessaria al buono fondamento de la nostra vita, a lo quale la nobile natura intende, di quella è alquanto con diligenza da parlare. Dico che per vergogna io intendo tre passioni necessarie al fondamento de la nostra vita buona: l'una si è stupore; l'altra si è pudore; la terza si è verecundia; avvegna che la volgare gente questa distinzione non discerna. E tutte e tre queste sono necessarie a questa etade per questa ragione: a questa etade è necessario d'essere reverente e disidiroso di sapere; a questa etade è necessario d'essere rifrenato, sì che non transvada; a questa etade è necessario d'essere penitente del fallo, sì che non s'ausi a fallare. E tutte queste cose fanno le passioni sopra dette, che vergogna volgarmente sono chiamate. Ché lo stupore è uno stordimento d'animo per grandi e maravigliose cose vedere o udire o per alcuno modo sentire: che, in quanto paiono grandi, fanno reverente a sé quelli che le sente; in quanto paiono mirabili, fanno voglioso di sapere di quelle. E però li antichi regi ne le loro magioni faceano magnifici lavorii d'oro e di pietre e d'artificio, acciò che quelli che le vedessero divenissero stupidi, e però reverenti, e domandatori de le condizioni onore voli de lo rege. E però dice Stazio, lo dolce poeta, nel primo de la Tebana Istoria, che quando Adrasto, rege de li Argi, vide Polinice coverto d'un cuoio di leone, e vide Tideo coverto d'un cuoio di porco selvatico, e ricordossi del risponso che Apollo dato avea per le sue figlie, che esso divenne stupido; e però più reverente e più disideroso di sapere.
         Lo pudore è uno ritraimento d'animo da laide cose, con paura di cadere in quelle; sì come vedemo ne le vergini e ne le donne buone e ne li adolescenti, che tanto sono pudici, che non solamente là dove richesti o tentati sono di fallare, ma dove pure alcuna imaginazione di venereo compimento avere si puote, tutti si dipingono ne la faccia di palido o di rosso colore. Onde dice lo sopra notato poeta ne lo allegato libro primo di Tebe, che quando Aceste, nutrice d'Argia e di Deifile, figlie d'Adrasto rege, le menò dinanzi da li occhi del santo padre ne la presenza de li due peregrini, cioè Polinice e Tideo, le vergini palide e rubicunde si fecero, e li loro occhi fuggiro da ogni altrui sguardo, e solo ne la paterna faccia, quasi come sicuri, si tennero. Oh quanti falli rifrena esto pudore! quante disoneste cose e dimande fa tacere! quante disoneste cupiditati raffrena! quante male tentazioni non pur ne la pudica persona diffida, ma eziandio in quello che la guarda! quante laide parole ritene! Ché, sì come dice Tullio nel primo de li Offici: Nullo atto è laido, che non sia laido quello nominare; e però lo pudico e nobile uomo mai non parla sì, che ad una donna non fossero oneste le sue parole. Ahi quanto sta male a ciascuno nobile uomo che onore vada cercando, menzionare cose che ne la bocca d'ogni donna stean male!
         La verecundia è una paura di disonoranza per fallo commesso; e di questa paura nasce un pentimento del fallo, lo quale ha in sé una amaritudine che è gastigamento a più non fallire. Onde dice questo medesimo poeta, in quella medesima parte, che quando Polinice fu domandato da Adrasto rege del suo essere, ch'elli dubitò prima di dicere, per vergogna del fallo che contra lo padre fatto avea, e ancora per li falli d'Edippo suo padre, ché paiono rimanere in vergogna del figlio; e non nominò suo padre, ma li antichi suoi e la terra e la madre. Per che bene appare, vergogna essere necessaria in quella etade.
         E non pure obedienza, soavitade e vergogna la nobile natura in questa etade dimostra, ma dimostra bellezza e snellezza nel corpo; sì come dice lo testo quando dice: E sua persona adorna. E questo "adorna" è verbo e non nome: verbo, dico, indicativo del tempo presente in terza persona. Ove è da sapere che anco è necessaria questa opera a la nostra buona vita; ché la nostra anima conviene grande parte de le sue operazioni operare con organo corporale, e allora opera bene che 'l corpo è bene per le sue parti ordinato e disposto. E quando elli è bene ordinato e disposto, allora è bello per tutto e per le parti; ché l'ordine debito de le nostre membra rende uno piacere non so di che armonia mirabile, e la buona disposizione, cioè la sanitade, getta sopra quelle uno colore dolce a riguardare. E così dicere che la nobile natura lo suo corpo abbellisca e faccia conto e accorto, non è altro a dire se non che l'acconcia a perfezione d'ordine, e, co[sì] [questa come l']altre cose che ragionate sono, appare essere necessarie a l'adolescenza: le quali la nobile anima, cioè la nobile natura, [dà, e] ad esse primamente intende, sì come cosa che, come detto è, da la divina provedenza è seminata.

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Ultimo aggiornamento: 15 giugno 1999