Dante Alighieri
Convivio
(trattato IV, capp. XVI-XX)
TRATTATO IV
Capitolo XVI
"Lo rege si
letificherà in Dio, e saranno lodati tutti quelli che giurano in lui, però che serrata
è la bocca di coloro che parlano le inique cose". Queste parole posso io qui
veramente proponere; però che ciascuno vero rege dee massimamente amare la veritade.
Ond'è scritto nel libro di Sapienza: "Amate lo lume di sapienza, voi che siete
dinanzi a li populi"; e lume di sapienza è essa veritade. Dico adunque che però si
rallegrerà ogni rege che riprovata è la falsissima e dannosissima oppinione de li
malvagi e ingannati uomini che di nobilitade hanno infino a ora iniquamente parlato.
Convienesi procedere al trattato de la
veritade, secondo la divisione fatta nel terzo capitolo di questo trattato. Questa seconda
parte adunque, che comincia: Dico ch'ogni vertù principalmente, intende
diterminare d'essa nobilitade secondo la veritade; e partesi questa parte in due: che ne
la prima s'intende mostrare che è questa nobilitade; ne la seconda s'intende mostrare
come conoscere si puote colui dov'ella è: e comincia questa parte seconda: L'anima
cui adorna esta bontate. La prima parte ha due parti ancora: che ne la prima si
cercano certe cose che sono mestiere a veder la diffinizione di nobilitade; ne la seconda
si cerca de la sua diffinizione: e comincia questa seconda parte: È gentilezza
dovunqu'è vertute.
A perfettamente entrare per lo trattato
è prima da vedere due cose: l'una, che per questo vocabulo "nobilitade"
s'intende, solo semplicemente considerato; l'altra è per che via sia da camminare a
cercare la prenominata diffinizione. Dico adunque che, se volemo riguardo avere de la
comune consuetudine di parlare, per questo vocabulo "nobilitade" s'intende
perfezione di propria natura in ciascuna cosa. Onde non pur de l'uomo è predicata, ma
eziandio di tutte cose - ché l'uomo chiama nobile pietra, nobile pianta, nobile cavallo,
nobile falcone - qualunque in sua natura si vede essere perfetta. E però dice Salomone ne
lo Ecclesiastes: "Beata la terra lo cui re è nobile", che non è altro a dire,
se non lo cui rege è perfetto, secondo la perfezione de l'animo e del corpo; e così
manifesta per quello che dice dinanzi quando dice: "Guai a te, terra, lo cui rege è
pargolo", cioè non perfetto uomo: e non è pargolo uomo pur per etade, ma per
costumi disordinati e per difetto di vita, sì come n'ammaestra lo Filosofo nel primo de
l'Etica. Bene sono alquanti folli che credono che per questo vocabulo "nobile"
s'intenda "essere da molti nominato e conosciuto", e dicono che viene da uno
verbo che sta per conoscere, cioè "nosco". E questo è falsissimo; ché, se
ciò fosse, quali cose più fossero nomate e conosciute in loro genere, più sarebbero in
loro genere nobili: e così la guglia di San Piero sarebbe la più nobile pietra del
mondo; e Asdente, lo calzolaio da Parma, sarebbe più nobile che alcuno suo cittadino; e
Albuino de la Scala sarebbe più nobile che Guido da Castello di Reggio: che ciascuna di
queste cose è falsissima. E però è falsissimo che "nobile" vegna da
"conoscere", ma viene da "non vile"; onde "nobile" è quasi
"non vile". Questa perfezione intende lo Filosofo nel settimo de la Fisica
quando dice: "Ciascuna cosa è massimamente perfetta quando tocca e aggiugne la sua
virtude propria, e allora è massimamente secondo sua natura; onde allora lo circulo si
può dicere perfetto quando veramente è circulo", cioè quando aggiugne la sua
propria virtude; e allora è in tutta sua natura, e allora si può dire nobile circulo. E
questo è quando in esso è uno punto lo quale equalmente distante sia da la
circunferenza, sua virtute part[icular]e; per[ò] lo circulo che ha figura d'uovo non è
nobile, né quello che ha figura di presso che piena luna, però che non è in quello sua
natura perfetta. E così manifestamente vedere si può che generalmente questo vocabulo,
cioè nobilitade, dice in tutte cose perfezione di loro natura: e questo è quello che
primamente si cerca, per meglio entrare nel trattato de la parte che esponere s'intende.
Secondamente è da vedere come da
camminare è a trovare la diffinizione de l'umana nobilitade, a la quale intende lo
presente processo. Dico adunque che, con ciò sia cosa che in quelle cose che sono d'una
spezie, sì come sono tutti li uomini, non si può per li principii essenziali la loro
ottima perfezione diffinire, conviensi quella e diffinire e conoscere per li loro effetti.
E però si legge nel Vangelio di santo Matteo - quando dice Cristo: "Guardatevi da li
falsi profeti" -: "A li frutti loro conoscerete quelli". E per lo cammino
diritto è da vedere, questa diffinizione che cercando si vae, per li frutti: che sono
morali vertù e intellettuali, de le quali essa nostra nobilitade è seme, sì come ne la
sua diffinizione sarà pienamente manifesto. E queste sono quelle due cose che vedere si
convenia prima che ad altre si procedesse, sì come in questo capitolo di sopra si dice.
Capitolo XVII
Appresso che
vedute sono quelle due cose che parevano utili a vedere prima che sopra lo testo si
procedesse, ad esso esponere è da procedere. E dice e comincia adunque: Dico ch'ogni
vertù principalmente Vien da una radice: Vertute, dico, che fa l'uom felice In sua
operazione. E soggiungo: Questo è, secondo che l'Etica dice, Un abito eligente,
ponendo tutta la diffinizione de la morale virtù, secondo che nel secondo de l'Etica è
per lo Filosofo diffinito. In che due cose principalmente s'intende: l'una è che ogni
vertù vegna d'uno principio; l'altra sì è che queste ogni vertù siano le vertù
morali, di cui si parla; e ciò si manifesta quando dice: Questo è, secondo che
l'Etica dice. Dove è da sapere che propiissimi nostri frutti sono le morali vertudi,
però che da ogni canto sono in nostra podestade. E queste diversamente da diversi
filosofi sono distinte e numerate; ma però che in quella parte dove aperse la bocca la
divina sentenza d'Aristotile da lasciare mi pare ogni altrui sentenza, volendo dire quali
queste sono, brevemente secondo la sua sentenza trapasserò di quelle ragionando.
Queste sono undici vertudi dal detto
Filosofo nomate. La prima si chiama Fortezza, la quale è arme e freno a moderare
l'audacia e la timiditate nostra, ne le cose che sono corr[u]zione de la nostra vita. La
seconda è Temperanza, che è regola e freno de la nostra gulositade e de la nostra
soperchievole astinenza ne le cose che conservano la nostra vita. La terza si è
Liberalitade, la quale è moderatrice del nostro dare e del nostro ricevere le cose
temporali. La quarta si è Magnificenza, la quale è moderatrice de le grandi spese,
quelle facendo e sostenendo a certo termine. La quinta si è Magnanimitade, la quale è
moderatrice e acquistatrice de' grandi onori e fama. La sesta si è Amativa d'onore, la
quale è moderatrice e ordina noi a li onori di questo mondo. La settima si è
Mansuetudine, la quale modera la nostra ira e la nostra troppa pazienza contra li nostri
mali esteriori. L'ottava si è Affabilitade, la quale fa noi ben convenire con li altri.
La nona si è chiamata Veritade, la quale modera noi dal vantare noi oltre che siamo e da
lo diminuire noi oltre che siamo, in nostro sermone. La decima si è chiamata Eutrapelia,
la quale modera noi ne li sollazzi facendo, quelli usando debitamente. L'undecima si è
Giustizia, la quale ordina noi ad amare e operare dirittura in tutte cose. E ciascuna di
queste vertudi ha due inimici collaterali, cioè vizii, uno in troppo e un altro in poco;
e queste tutte sono li mezzi intra quelli, e nascono tutte da uno principio, cioè da
l'abito de la nostra buona elezione: onde generalmente si può dicere di tutte che siano
abito elettivo consistente nel mezzo. E queste sono quelle che fanno l'uomo beato, o vero
felice, ne la loro operazione, sì come dice lo Filosofo nel primo de l'Etica quando
diffinisce la Felicitade, dicendo che "Felicitade è operazione secondo virtude in
vita perfetta". Bene si pone Prudenza, cioè senno, per molti, essere morale virtude,
ma Aristotile dinumera quella intra le intellettuali; avvegna che essa sia conduttrice de
le morali virtù e mostri la via per ch'elle si compongono e sanza quella essere non
possono.
Veramente è da sapere che noi potemo
avere in questa vita due felicitadi, secondo due diversi cammini, buono e ottimo, che a
ciò ne menano: l'una è la vita attiva, e l'altra la contemplativa; la quale, avvegna che
per l'attiva si pervegna, come detto è, a buona felicitade, ne mena ad ottima felicitade
e beatitudine, secondo che pruova lo Filosofo nel decimo de l'Etica. E Cristo l'afferma
con la sua bocca, nel Vangelio di Luca, parlando a Marta, e rispondendo a quella:
"Marta, Marta, sollicita se' e turbiti intorno a molte cose: certamente una cosa è
necessaria", cioè "quello che fai". E soggiugne: "Maria ottima parte
ha eletta, la quale non le sarà tolta". E Maria, secondo che dinanzi è scritto a
queste parole del Vangelio, a' piedi di Cristo sedendo, nulla cura del ministerio de la
casa mostrava; ma solamente le parole del Salvatore ascoltava. Che se moralemente ciò
volemo esponere, volse lo nostro Segnore in ciò mostrare che la contemplativa vita fosse
ottima, tutto che buona fosse l'attiva: ciò è manifesto a chi ben vuole porre mente a le
evangeliche parole. Potrebbe alcuno però dire, contra me argomentando: "Poiché la
felicitade de la vita contemplativa è più eccellente che quella de l'attiva, e l'una e
l'altra possa essere e sia frutto e fine di nobilitade, perché non anzi si procedette per
la via de le virtù intellettuali che de le morali?" A ciò si può brievemente
rispondere che in ciascuna dottrina si dee avere rispetto a la facultà del discente, e
per quella via menarlo che più a lui sia lieve. Onde, perciò che le virtù morali paiano
essere e siano più comuni e più sapute e più richieste che l'altre e [im]itate ne lo
aspetto di fuori, utile e convenevole fu più per quello cammino procedere che per
l'altro; ché così bene [non] si verrebbe a la conoscenza de le api per lo frutto de la
cera ragionando come per lo frutto del mele, tutto che l'uno e l'altro da loro procede.
Capitolo XVIII
Nel precedente
capitolo è diterminato come ogni vertù morale viene da uno principio, cioè buona e
abituale elezione; e ciò importa lo testo presente infino a quella parte che comincia: Dico
che nobiltate in sua ragione. In questa parte adunque si procede per via probabile a
sapere che ogni sopra detta virtude, singularmente o ver generalmente presa, proceda da
nobilitade sì come effetto da sua cagione. E fondasi sopra una proposizione filosofica,
che dice che quando due cose si truovano convenire in una, che ambo queste si deono
riducere ad alcuno terzo, o vero l'una a l'altra, sì come effetto a cagione; però che
una cosa avuta prima e per sé non può essere se non da uno: e se quelle non fossero
ambedue effetto d'un terzo, o vero l'una de l'altra, ambedue avrebbero quella cosa prima e
per sé, ch'è impossibile. Dice adunque che nobilitade e vertute cotale, cioè
morale, convegnono in questo, che l'una e l'altra importa loda di colui di cui si dice; e
dico ciò quando dice: Per che in medesmo detto Convegnono ambedue, ch'e[n] d'uno
effetto, cioè lodare e rendere pregiato colui cui esser si dicono. E poi conchiude
prendendo la vertude de la sopra notata proposizione, e dice che però conviene l'una
procedere da l'altra, o vero ambe da un terzo; e soggiunge che più tosto è da presummere
l'una venire da l'altra, che ambe da terzo, s'elli appare che l'una vaglia quanto l'altra,
e più ancora; e ciò dice: Ma se l'una val ciò che l'altra vale. Ove è da
sapere che qui non si procede per necessaria dimostrazione, sì come sarebbe a dire, se lo
freddo è generativo de l'acqua, e noi vedemo li nuvoli [generare acqua, che lo freddo è
generativo de li nuvoli]; sì di bella e convenevole induzione, che se in noi sono più
cose laudabili, [e] in noi è lo principio de le nostre lodi, ragionevole è queste a
questo principio riducere; e quello che comprende più cose, più ragionevolemente si dee
dire principio di quelle, che quelle principio di lui. Ché lo piè de l'albero, che tutti
li altri rami comprende, si dee principio dire e cagione di quelli, e non quelli di lui; e
così nobilitade, [che] comprende ogni vertude, sì come cagione effetto comprende, [e]
molte altre nostre operazioni laudabili, si dee avere per tale, che la vertude sia da
ridurre ad essa prima che ad altro terzo che in noi sia.
Ultimamente dice, che quello ch'è detto
(cioè, che ogni vertù morale vegna da una radice, e che vertù cotale e nobilitade
convegnano in una cosa, come detto è di sopra; e che però si convegna l'una reducere a
l'altra, o vero ambe ad uno terzo; e che se l'una vale quello che l'altra e più, di
quella [questa] proceda maggiormente che d'altro terzo), tutto sia per [so]pposto,
cioè ordito e apparecchiato a quello che per innanzi s'intende. E così termina questo
verso e questa presente parte.
Capitolo XIX
Poi che ne la
precedente parte sono pertrattate certe cose e diterminate, ch'erano necessarie a vedere
come diffinire si possa questa buona cosa di che si parla, procedere si conviene a la
seguente parte, che comincia: È gentilezza dovunqu'è vertute. E questa si vuole
in due parti reducere: ne la prima si pruova certa cosa che dinanzi è toccata e lasciata
non provata; ne la seconda, conchiudendo, si truova questa diffinizione che cercando si
va. E comincia questa seconda parte: Dunque verrà, come dal nero il perso.
Ad evidenza de la prima parte, da
reducere a memoria è che di sopra si dice che se nobilitade vale e si stende più che
vertute, [vertute] più tosto procederà da essa. La qual cosa ora in questa parte pruova,
cioè che nobilitade più si stenda; e rende essemplo del cielo, dicendo che dovunque è
vertude, quivi è nobilitade. E quivi si vuole sapere che, sì come scritto è in Ragione
e per regola di Ragione si tiene, in quelle cose che per sé sono manifeste non è
mestiere di pruova; e nulla n'è più manifesta che nobilitade essere dove è vertude, e
ciascuna cosa volgarmente vedemo, in sua natura [virtuosa], nobile esser chiamata. Dice
dunque: Sì com'è 'l cielo dovunqu'è la stella, e non è questo vero e
converso, cioè rivolto, che dovunque è cielo sia la stella, così è nobilitade
dovunque è vertude, e non vertude dovunque nobilitade: e con bello e convenevole
essemplo, ché veramente è cielo ne lo quale molte e diverse stelle rilucono. Riluce in
essa le intellettuali e le morali virtudi; riluce in essa le buone disposizioni da natura
date, cioè pietade e religione, e le laudabili passioni, cioè vergogna e misericordia e
altre molte; riluce in essa le corporali bontadi, cioè bellezza, fortezza e quasi
perpetua valitudine. E tante sono le sue stelle, che [n]el cielo si stendono, che certo
non è da maravigliare se molti e diversi frutti fanno ne la umana nobilitade; tante sono
le nature e le potenze di quella, in una sotto una semplice sustanza comprese e adunate,
ne le quali sì come in diversi rami fruttifica diversamente. Certo da dovvero ardisco a
dire che la nobilitade umana, quanto è da la parte di molti suoi frutti, quella de
l'angelo soperchia, tutto che l'angelica in sua unitade sia più divina. Di questa
nobilitade nostra, che in tanti e tali frutti fruttificava, s'accorse lo Salmista, quando
fece quel Salmo che comincia: "Segnore nostro Iddio, quanto è ammirabile lo nome tuo
ne l'universa terra!", là dove commenda l'uomo, quasi maravigliandosi del divino
affetto in essa umana creatura, dicendo: "Che cosa è l'uomo, che tu, Dio, lo visiti?
Tu l'hai fatto poco minore che li angeli, di gloria e d'onore l'hai coronato, e posto lui
sopra l'opere de le mani tue". Veramente dunque bella e convenevole comparazione fu
del cielo a l'umana nobilitade.
Poi quando dice: E noi in donna e in
età novella, pruova ciò che dico, mostrando che la nobilitade si stenda in parte
dove virtù non sia. E dice poi: vedem questa salute: e tocca nobilitade, che
bene è vera salute, essere là dove è vergogna, cioè tema di disnoranza, sì come è ne
le donne e ne li giovani, dove la vergogna è buona e laudabile; la qual vergogna non è
virtù, ma certa passione buona. E dice: E noi in donna e in età novella, cioè
in giovani; però che, secondo che vuole lo Filosofo nel quarto de l'Etica, "vergogna
non è laudabile né sta bene ne li vecchi e ne li uomini studiosi", però che a loro
si conviene di guardare da quelle cose che a vergogna li conducano. A li giovani e a le
donne non è tanto richesto di c[au]tela, e però in loro è laudabile la paura del
disnore ricevere per la colpa; che da nobilitade viene, e nobilitade si puote credere e in
loro chiamare, sì come viltade e ignobilitade la sfacciatezza. Onde buono e ottimo segno
di nobilitade è ne li pargoli e imperfetti d'etade, quando dopo lo fallo nel viso loro
vergogna si dipinge, che è allora frutto di vera nobilitade.
Capitolo XX
Quando appresso
seguita: Dunque verrà, come dal nero il perso, procede lo testo a la
diffinizione di nobilitade, la qual si cerca, e per la quale si potrà vedere che è
questa nobilitade di che tanta gente erroneamente parla. Dice dunque, conchiudendo da
quello che dinanzi detto è: dunque ogni vertude, o vero il gener loro, cioè
l'abito elettivo consistente nel mezzo, verrà da questa, cioè nobilitade. E rende
essemplo ne li colori, dicendo: sì come lo perso dal nero discende, così questa, cioè
vertude, discende da nobilitade. Lo perso è uno colore misto di purpureo e di nero, ma
vince lo nero, e da lui si dinomina; e così la vertù è una cosa mista di nobilitade e
di passione; ma perché la nobilitade vince in quella, è la vertù dinominata da essa, e
appellata bontade. Poi appresso argomenta, per quello che detto è, che nessuno, per poter
dire: "Io sono di cotale schiatta", non dee credere essere con essa, se questi
frutti non sono in lui. E rende incontanente ragione, dicendo che quelli che hanno questa grazia,
cioè questa divina cosa, sono quasi come dèi, sanza macula di vizio; e
ciò dare non può se non Iddio solo, appo cui non è scelta di persone, sì come le
divine Scritture manifestano. E non paia troppo alto dire ad alcuno, quando si dice: Ch'elli
son quasi dèi; ché, sì come di sopra nel settimo capitolo del terzo trattato si
ragiona, così come uomini sono vilissimi e bestiali, così uomini sono nobilissimi e
divini, e ciò pruova Aristotile nel settimo de l'Etica per lo testo d'Omero poeta. Sì
che non dica quelli de li Uberti di Fiorenza, né quelli de li Visconti da Melano:
"Perch'io sono di cotale schiatta, io sono nobile"; ché 'l divino seme non cade
in ischiatta, cioè in istirpe, ma cade ne le singulari persone, e, sì come di sotto si
proverà, la stirpe non fa le singulari persone nobili, ma le singulari persone fanno
nobile la stirpe.
Poi, quando dice: Ché solo Iddio a
l'anima la dona, ragione è del suscettivo, cioè del subietto dove questo divino
dono discende: ch'è bene divino dono, secondo la parola de l'Apostolo: "Ogni ottimo
dato e ogni dono perfetto di suso viene, discendendo dal Padre de' lumi". Dice
adunque che Dio solo porge questa grazia a l'anima di quelli cui vede stare perfettamente
ne la sua persona, acconcio e disposto a questo divino atto ricevere. Ché, secondo dice
lo Filosofo nel secondo de l'Anima, "le cose convengono essere disposte a li loro
agenti, e a ricevere li loro atti"; onde se l'anima è imperfettamente posta, non è
disposta a ricevere questa benedetta e divina infusione: sì come se una pietra margarita
è male disposta, o vero imperfetta, la vertù celestiale ricever non può, sì come disse
quel nobile Guido Guinizzelli in una sua canzone, che comincia: Al cor gentil ripara
sempre Amore. Puote adunque l'anima stare non bene ne la persona per manco di
complessione, o forse per manco di temporale: e in questa cotale questo raggio divino mai
non risplende. E possono dire questi cotali, la cui anima è privata di questo lume, che
essi siano sì come valli volte ad aquilone, o vero spelunche sotterranee, dove la luce
del sole mai non discende, se non ripercussa da altra parte da quella illuminata.
Ultimamente conchiude, e dice che, per
quello che dinanzi detto è (cioè che le vertudi sono frutto di nobilitade, e che Dio
questa metta ne l'anima che ben siede), che ad alquanti, cioè a quelli che hanno
intelletto, che sono pochi, è manifesto che nobilitade umana non sia altro che "seme
di felicitade", messo da Dio ne l'anima ben posta, cioè lo cui corpo è
d'ogni parte disposto perfettamente. Ché se le vertudi sono frutto di nobilitade, e
felicitade è dolcezza [per quelle] comparata, manifesto è essa nobilitade essere semente
di felicitade, come detto è. E se bene si guarda, questa diffinizione tutte e quattro le
cagioni, cioè materiale, formale, efficiente e finale, comprende: materiale in quanto
dice: ne l'anima ben posta, che è materia e subietto di nobilitade; formale in
quanto dice che è seme; efficiente in quanto dice: Messo da Dio ne l'anima;
finale in quanto dice: di felicità. E così è diffinita questa nostra bontade,
la quale in noi similemente discende da somma e spirituale Virtude, come virtude in pietra
da corpo nobilissimo celestiale.
© 1999 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 15 giugno 1999