Dante Alighieri
Convivio
(trattato I, capp. XI-XV)
TRATTATO IV
Capitolo XI
Resta omai solamente a
provare come le divizie sono vili, e come disgiunte sono e lontane da nobilitade; e ciò
si pruova in due particulette del testo, a le quali si conviene al presente intendere. E
poi quelle esposte, sarà manifesto ciò che detto ho, cioè le divizie essere vili e
lontane da nobilitade; e per questo saranno le ragioni di sopra contra le divizie
perfettamente provate. Dico adunque: Che siano vili appare ed imperfette. E a
manifestare ciò che dire s'intende, è da sapere che la viltade di ciascuna cosa da la
imperfezione di quella si prende, e così la nobilitade da la perfezione: onde tanto
quanto la cosa è perfetta, tanto è in sua natura nobile; quanto imperfetta, tanto vile.
E però se le divizie sono imperfette, manifesto è che siano vili. E che elle siano
imperfette, brievemente pruova lo testo quando dice: Ché, quantunque collette, Non
posson quietar, ma dan più cura; in che non solamente la loro imperfezione è
manifesta, ma la loro condizione essere imperfettissima, e però essere quelle vilissime.
E ciò testimonia Lucano, quando dice, a quelle parlando: "Sanza contenzione periro
le leggi; e voi ricchezze, vilissima parte de le cose, moveste battaglia". Puotesi
brevemente la loro imperfezione in tre cose vedere apertamente: e prima, ne lo indiscreto
loro avvenimento; secondamente, nel pericoloso loro accrescimento; terziamente, ne la
dannosa loro possessione. E prima ch'io ciò dimostri, è da dichiarare un dubbio che pare
consurgere: che, con ciò sia cosa che l'oro, le margherite e li campi perfettamente forma
e atto abbiano in loro essere, non pare vero dicere che siano imperfette. E però si vuole
sapere che, quanto è per esse in loro considerate, cose perfette sono, e non sono
ricchezze, ma oro e margherite; ma in quanto sono ordinate a la possessione de l'uomo,
sono ricchezze, e per questo modo sono piene d'imperfezione. Ché non è inconveniente una
cosa, secondo diversi rispetti, essere perfetta e imperfetta.
Dico che la loro imperfezione primamente
si può notare ne la indiscrezione del loro avvenimento, nel quale nulla distributiva
giustizia risplende, ma tutta iniquitade quasi sempre, la quale iniquitade è proprio
effetto d'imperfezione. Che se si considerano li modi per li quali esse vegnono, tutti si
possono in tre maniere ricogliere: ché o vegnono da pura fortuna, sì come quando sanza
intenzione o speranza vegnono per invenzione alcuna non pensata; o vegnono da fortuna che
è da ragione aiutata, sì come per testamenti o per mutua successione; o vegnono da
fortuna aiutatrice di ragione, sì come quando per licito o per illicito procaccio: licito
dico, quando è per arte o per mercatantia o per servigio meritante; illicito dico, quando
è per furto o per rapina. E in ciascuno di questi tre modi si vede quella iniquitade che
io dico, ché più volte a li malvagi che a li buoni le celate ricchezze che si truovano o
che si ritruovano si rappresentano; e questo è sì manifesto, che non ha mestiere di
pruova. Veramente io vidi lo luogo, ne le coste d'un monte che si chiama Falterona, in
Toscana, dove lo più vile villano di tutta la contrada, zappando, più d'uno staio di
santalene d'argento finissimo vi trovò, che forse più di dumilia anni l'aveano
aspettato. E per vedere questa iniquitade, disse Aristotile che "quanto l'uomo più
subiace a lo 'ntelletto, tanto meno subiace a la fortuna". E dico che più volte a li
malvagi che a li buoni pervegnono li retaggi, legati e caduti; e di ciò non voglio recare
innanzi alcuna testimonianza, ma ciascuno volga li occhi per la sua vicinanza, e vedrà
quello che io mi taccio per non abominare alcuno. Così fosse piaciuto a Dio che quello
che addomandò lo Provenzale fosse stato, che chi non è reda de la bontade perdesse lo
retaggio de l'avere! E dico che più volte a li malvagi che a li buoni pervegnono a punto
li procacci; ché li non liciti a li buoni mai non pervegnono, però che li rifiutano. E
quale buono uomo mai per forza o per fraude procaccerà? Impossibile sarebbe ciò, ché
solo per la elezione de la illicita impresa più buono non sarebbe. E li liciti rade volte
pervegnono a li buoni, perché, con ciò sia cosa che molta sollicitudine quivi si
richeggia, e la sollicitudine del buono sia diritta a maggiori cose, rade volte
sofficientemente quivi lo buono è sollicito. Per che è manifesto in ciascuno modo quelle
ricchezze iniquamente avvenire; e però Nostro Segnore inique le chiamò, quando disse:
"Fatevi amici de la pecunia de la iniquitade", invitando e confortando li uomini
a liber[ali]tade di benefici, che sono generatori d'amici. E quanto fa bello cambio chi di
queste imperfettissime cose dà per avere e per acquistare cose perfette, sì come li
cuori de' valenti uomini! Lo cambio ogni die si può fare. Certo nuova mercatantia è
questa de l'altre, che, credendo comperare uno uomo per lo beneficio, mille e mille ne
sono comperati. E c[u]i non è ancora [ne]l cuore Alessandro per li suoi reali benefici?
Cui non è ancora lo buono re di Castella, o il Saladino, o il buono Marchese di
Monferrato, o il buono Conte di Tolosa, o Beltramo dal Bornio, o Galasso di Montefeltro?
Quando de le loro messioni si fa menzione, certo non solamente quelli che ciò farebbero
volentieri, ma quelli prima morire vorrebbero che ciò fare, amore hanno a la memoria di
costoro.
Capitolo XII
Come detto è,
la imperfezione de le ricchezze non solamente nel loro avvenimento si può comprendere, ma
eziandio nel pericoloso loro accrescimento; e però che in ciò più si può vedere di
loro difetto, solo di questo fa menzione lo testo, dicendo quelle, quantunque collette,
non solamente non quietare, ma dare più sete e rendere altri più defettivo e
insufficiente. E qui si vuole sapere che le cose defettive possono aver li loro difetti
per modo, che ne la prima faccia non paiono, ma sotto pretesto di perfezione la
imperfezione si nasconde; e possono avere quelli sì, che del tutto sono discoperti, sì
che apertamente ne la prima faccia si conosce la imperfezione. E quelle cose che prima non
mostrano li loro difetti sono più pericolose, però che di loro molte fiate prendere
guardia non si può; sì come vedemo nel traditore, che ne la faccia dinanzi si mostra
amico, sì che fa di sé fede avere, e sotto pretesto d'amistade chiude lo difetto de la
inimistade. E per questo modo le ricchezze pericolosamente nel loro accrescimento sono
imperfette, che, sommettendo ciò che promettono, apportano lo contrario. Promettono le
false traditrici sempre, in certo numero adunate, rendere lo raunatore pieno d'ogni
appagamento; e con questa promissione conducono l'umana volontade in vizio d'avarizia. E
per questo le chiama Boezio, in quello De Consolatione, pericolose, dicendo: "Ohmè!
chi fu quel primo che li pesi de l'oro coperto e le pietre che si voleano ascondere,
preziosi pericoli, cavoe?". Promettono le false traditrici, se bene si guarda, di
torre ogni sete e ogni mancanza, e apportare ogni saziamento e bastanza; e questo fanno
nel principio a ciascuno uomo, questa promissione in certa quantità di loro accrescimento
affermando: e poi che quivi sono adunate, in loco di saziamento e di refrigerio danno e
recano sete di casso febricante intollerabile; e in loco di bastanza recano nuovo termine,
cioè maggiore quantitade a desiderio, e, con questa, paura grande e sollicitudine sopra
l'acquisto. Sì che veramente non quietano, ma più danno cura, la qual prima sanza loro
non si avea. E però dice Tullio in quello De Paradoxo, abominando le ricchezze: "Io
in nullo tempo per fermo né le pecunie di costoro, né le magioni magnifiche, né le
ricchezze, né le signorie, né l'allegrezze de le quali massimamente sono astretti, tra
cose buone o desiderabili esser dissi; con ciò sia cosa che certo io vedesse li uomini ne
l'abondanza di queste cose massimamente desiderare quelle di che abondano. Però che in
nullo tempo si compie né si sazia la sete de la cupiditate; né solamente per desiderio
d'accrescere quelle cose che hanno si tormentano, ma eziandio tormento hanno ne la paura
di perdere quelle". E queste tutte parole sono di Tullio, e così giacciono in quello
libro che detto è. E a maggiore testimonianza di questa imperfezione, ecco Boezio in
quello De Consolatione dicente: "Se quanta rena volve lo mare turbato dal vento, se
quante stelle rilucono, la dea de la ricchezza largisca, l'umana generazione non cesserà
di piangere". E perché più testimonianza, a ciò ridurre per pruova, si conviene,
lascisi stare quanto contra esse Salomone e suo padre grida; quanto contra esse Seneca,
massimamente a Lucillo scrivendo; quanto Orazio, quanto Iuvenale e, brievemente, quanto
ogni scrittore, ogni poeta; e quanto la verace Scrittura divina chiama contra queste false
meretrici, piene di tutti defetti; e pongasi mente, per avere oculata fede, pur a la vita
di coloro che dietro a esse vanno, come vivono sicuri quando di quelle hanno raunate, come
s'appagano, come si riposano. E che altro cotidianamente pericola e uccide le cittadi, le
contrade, le singulari persone, tanto quanto lo nuovo raunamento d'avere appo alcuno? Lo
quale raunamento nuovi desiderii discuopre, a lo fine de li quali sanza ingiuria d'alcuno
venire non si può. E che altro intende di meditare l'una e l'altra Ragione, Canonica dico
e Civile, tanto quanto a riparare a la cupiditade che, raunando ricchezze, cresce? Certo
assai lo manifesta e l'una e l'altra Ragione, se li loro cominciamenti, dico de la loro
scrittura, si leggono. Oh com'è manifesto, anzi manifestissimo, quelle in accrescendo
essere del tutto imperfette, quando di loro altro che imperfezione nascere non può,
quanto che accolte siano! E questo è quello che lo testo dice.
Veramente qui surge in dubbio una
questione, da non trapassare sanza farla e rispondere a quella. Potrebbe dire alcuno
calunniatore de la veritade che se, per crescere desiderio acquistando, le ricchezze sono
imperfette e però vili, che per questa ragione sia imperfetta e vile la scienza, ne
l'acquisto de la quale sempre cresce lo desiderio di quella; onde Seneca dice: "Se
l'uno de li piedi avesse nel sepulcro, apprendere vorrei". Ma non è vero che la
scienza sia vile per imperfezione: dunque, per la distruzione del consequente, lo crescere
desiderio non è cagione di viltade a le ricchezze. Che sia perfetta, è manifesto per lo
Filosofo nel sesto de l'Etica, che dice la scienza essere perfetta ragione di certe cose.
A questa questione brievemente è da
rispondere; ma prima è da vedere se ne l'acquisto de la scienza lo desiderio si sciampia
come ne la questione si pone, e se sia per ragione. Per che io dico che non solamente ne
l'acquisto de la scienza e de le ricchezze, ma in ciascuno acquisto l'umano desiderio si
sciampia, avvegna che per altro e altro modo. E la ragione è questa: che lo sommo
desiderio di ciascuna cosa, e prima da la natura dato, è lo ritornare a lo suo principio.
E però che Dio è principio de le nostre anime e fattore di quelle simili a sé (sì come
è scritto: "Facciamo l'uomo ad imagine e similitudine nostra"), essa anima
massimamente desidera di tornare a quello. E sì come peregrino che va per una via per la
quale mai non fue, che ogni casa che da lungi vede crede che sia l'albergo, e non trovando
ciò essere, dirizza la credenza a l'altra, e così di casa in casa, tanto che a l'albergo
viene; così l'anima nostra, incontanente che nel nuovo e mai non fatto cammino di questa
vita entra, dirizza li occhi al termine del suo sommo bene, e però, qualunque cosa vede
che paia in sé avere alcuno bene, crede che sia esso. E perché la sua conoscenza prima
è imperfetta, per non essere esperta né dottrinata, piccioli beni le paiono grandi, e
però da quelli comincia prima a desiderare. Onde vedemo li parvuli desiderare
massimamente un pomo; e poi, più procedendo, desiderare uno augellino; e poi, più oltre,
desiderare bel vestimento; e poi lo cavallo; e poi una donna; e poi ricchezza non grande,
e poi grande, e poi più. E questo incontra perché in nulla di queste cose truova quella
che va cercando, e credela trovare più oltre. Per che vedere si può che l'uno
desiderabile sta dinanzi a l'altro a li occhi de la nostra anima per modo quasi
piramidale, che 'l minimo li cuopre prima tutti, ed è quasi punta de l'ultimo
desiderabile, che è Dio, quasi base di tutti. Sì che, quanto da la punta ver la base
più si procede, maggiori appariscono li desiderabili; e questa è la ragione per che,
acquistando, li desiderii umani si fanno più ampii, l'uno appresso de l'altro. Veramente
così questo cammino si perde per errore come le strade de la terra. Che sì come d'una
cittade a un'altra di necessitade è una ottima e dirittissima via, e un'altra che sempre
se ne dilunga (cioè quella che va ne l'altra parte), e molte altre quale meno
allungandosi e quale meno appressandosi, così ne la vita umana sono diversi cammini, de
li quali uno è veracissimo e un altro è fallacissimo, e certi meno fallaci e certi meno
veraci. E sì come vedemo che quello che dirittissimo vae a la cittade, e compie lo
desiderio e dà posa dopo la fatica, e quello che va in contrario mai nol compie e mai
posa dare non può, così ne la nostra vita avviene: lo buono camminatore giugne a termine
e a posa; lo erroneo mai non l'aggiugne, ma con molta fatica del suo animo sempre con li
occhi gulosi si mira innanzi. Onde avvegna che questa ragione del tutto non risponda a la
questione mossa di sopra, almeno apre la via a la risposta, ché fa vedere non andare ogni
nostro desiderio dilatandosi per uno modo. Ma perché questo capitolo è alquanto
produtto, in capitolo nuovo a la questione è da rispondere, nel quale sia terminata tutta
la disputazione che fare s'intende al presente contra le ricchezze.
Capitolo XIII
A la questione
rispondendo, dico che propriamente crescere lo desiderio de la scienza dire non si può,
avvegna che, come detto è, per alcuno modo si dilati. Ché quello che propriamente
cresce, sempre è uno: lo desiderio de la scienza non è sempre uno, ma è molti, e finito
l'uno, viene l'altro; sì che, propriamente parlando, non è crescere lo suo dilatare, ma
successione di picciola cosa in grande cosa. Che se io desidero di sapere li principii de
le cose naturali, incontanente che io so questi, è compiuto e terminato questo desiderio.
E se poi io desidero di sapere che cosa e com'è ciascuno di questi principii, questo è
un altro desiderio nuovo, né per l'avvenimento di questo non mi si toglie la perfezione a
la quale mi condusse l'altro; e questo cotale dilatare non è cagione d'imperfezione, ma
di perfezione maggiore. Quello veramente de la ricchezza è propriamente crescere, ché è
sempre pur uno, sì che nulla successione quivi si vede, e per nullo termine e per nulla
perfezione. E se l'avversario vuol dire che, sì come è altro desiderio quello di sapere
li principii de le cose naturali e altro di sapere che elli sono, così altro desiderio è
quello de le cento marche e altro è quello de le mille, rispondo che non è vero; che 'l
cento sì è parte del mille, e ha ordine ad esso come parte d'una linea a tutta linea, su
per la quale si procede per uno moto solo, e nulla successione quivi è né perfezione di
moto in parte alcuna. Ma conoscere che siano li principii de le cose naturali, e conoscere
quello che sia ciascheduno, non è parte l'uno de l'altro, e hanno ordine insieme come
diverse linee, per le quali non si procede per uno moto, ma, perfetto lo moto de l'una,
succede lo moto de l'altra. E così appare che, dal desiderio de la scienza, la scienza
non è da dire imperfetta, sì come le ricchezze sono da dire per lo loro, come la
questione ponea; ché nel desiderare de la scienza successivamente finiscono li desiderii
e viensi a perfezione, e in quello de la ricchezza no. Sì che la questione è soluta, e
non ha luogo.
Ben puote ancora calunniare l'avversario
dicendo che, avvegna che molti desiderii si compiano ne lo acquisto de la scienza, mai non
si viene a l'ultimo: che è quasi simile a la 'mperfezione di quello che non si termina e
che è pur uno. Ancora qui si risponde, che non è vero ciò che si oppone, cioè che mai
non si viene a l'ultimo: ché li nostri desiderii naturali, sì come di sopra nel terzo
trattato è mostrato, sono a certo termine discendenti; e quello de la scienza è
naturale, sì che certo termine quello compie, avvegna che pochi, per male camminare,
compiano la giornata. E chi intende lo Commentatore nel terzo de l'Anima, questo intende
da lui. E però dice Aristotile nel decimo de l'Etica, contra Simonide poeta parlando, che
"l'uomo si dee traere a le divine cose quanto può"; in che mostra che a certo
fine bada la nostra potenza. E nel primo de l'Etica dice che "'l disciplinato chiede
di sapere certezza ne le cose, secondo che [ne] la loro natura di certezza si
riceva"; in che mostra che non solamente da la parte de l'uomo desiderante, ma deesi
fine attendere da la parte de lo scibile desiderato. E però Paulo dice: "Non più
sapere che sapere si convegna, ma sapere a misura". Sì che, per qualunque modo lo
desiderare de la scienza si prende, o generalmente o particularmente, a perfezione viene.
E però la scienza ha perfetta e nobile perfezione, e per suo desiderio sua perfezione non
perde, come le maladette ricchezze.
Le quali come ne la loro possessione
siano dannose, brievemente è da mostrare, che è la terza nota de la loro imperfezione.
Puotesi vedere la loro possessione essere dannosa per due ragioni: l'una, che è cagione
di male; l'altra, che è privazione di bene. Cagione è di male, ché fa, pur vegliando,
lo possessore timido e odioso. Quanta paura è quella di colui che appo sé sente
ricchezza, in camminando, in soggiornando, non pur vegliando ma dormendo, non pur di
perdere l'avere ma la persona per l'avere! Ben lo sanno li miseri mercatanti che per lo
mondo vanno, che le foglie che 'l vento fa menare, li fa tremare, quando seco ricchezze
portano; e quando sanza esse sono, pieni di sicurtade cantando e sollazzando fanno loro
cammino più brieve. E però dice lo Savio: "Se voto camminatore entrasse ne lo
cammino, dinanzi a li ladroni canterebbe". E ciò vuol dire Lucano nel quinto libro,
quando commenda la povertà di sicuranza, dicendo: "Oh sicura facultà de la povera
vita! oh stretti abitaculi e masserizie! oh non ancora intese ricchezze de li Iddei! A
quali tempii o a quali muri poteo questo avvenire, cioè non temere con alcuno tumulto,
bussando la mano di Cesare?" E quello dice Lucano quando ritrae come Cesare di notte
a la casetta del pescatore Amiclas venne, per passare lo mare Adriano. E quanto odio è
quello che ciascuno al possessore de la ricchezza porta, o per invidia o per desiderio di
prendere quella possessione! Certo tanto è, che molte volte contra la debita pietade lo
figlio a la morte del padre intende: e di questo grandissime e manifestissime esperienze
possono avere li Latini, e da la parte di Po e da la parte di Tevero! E però Boezio nel
secondo de la sua Consolazione dice: "Per certo l'avarizia fa li uomini odiosi".
Anche è privazione di bene la loro
possessione. Ché, possedendo quelle, larghezza non si fa, che è vertude ne la quale è
perfetto bene e la quale fa li uomini splendienti e amati; che non può essere possedendo
quelle, ma quelle lasciando di possedere. Onde Boezio nel medesimo libro dice:
"Allora è buona la pecunia, quando, transmutata ne li altri per uso di larghezza,
più non si possiede". Per che assai è manifesto la loro viltade per tutte le sue
note. E però l'uomo di diritto appetito e di vera conoscenza quelle mai non ama, e, non
amandole, non si unisce ad esse, ma quelle sempre di lungi da sé essere vuole, se non in
quanto ad alcuno necessario servigio sono ordinate. Ed è cosa ragionevole, però che lo
perfetto con lo imperfetto non si può congiugnere; onde vedemo che la torta linea con la
diritta non si congiunge mai, e se alcuno congiungimento v'è, non è da linea a linea, ma
da punto a punto. E però seguita che l'animo che è diritto, cioè d'appetito, e
verace, cioè di conoscenza, per loro perdita non si disface; sì come lo testo
pone nel fine di questa parte. E per questo effetto intende di provare lo testo che elle
siano fiume corrente di lungi da la diritta torre de la ragione, o vero di nobilitade; e
per questo, che esse divizie non possono torre la nobilitade a chi l'ha. E per questo modo
disputasi e ripruovasi contra le ricchezze per la presente canzone.
Capitolo XIV
Riprovato
l'altrui errore quanto è in quella parte che a le ricchezze s'appoggiava, [seguita che si
riprovi quanto è] in quella parte, che tempo diceva essere cagione di nobilitade, dicendo
antica ricchezza. E questa riprovagione si fa in quella parte che comincia: Né
voglion che vil uom gentil divegna. E in prima si ripruova ciò per una ragione di
costoro medesimi che così errano; poi, a maggiore loro confusione, questa loro ragione
anche si distrugge: e ciò si fa quando dice: Ancor, segue di ciò che innanzi ho
messo. Ultimamente conchiude manifesto essere lo loro errore, e però essere tempo
d'intendere a la veritade: e ciò si fa quando dice: Perché a 'ntelletti sani.
Dico adunque: Né voglion che vil uom
gentil divegna. Dove è da sapere che oppinione di questi erranti è che uomo prima
villano mai gentile uomo dicer non si possa; né uomo che figlio sia di villano
similemente dicere mai non si possa gentile. E ciò rompe la loro sentenza medesima,
quando dicono che tempo si richiede a nobilitade, ponendo questo vocabulo
"antico"; però ch'è impossibile per processo di tempo venire a la generazione
di nobilitade per questa loro ragione che detta è, la quale toglie via che villano uomo
mai possa esser gentile per opera che faccia, o per alcuno accidente, e toglie via la
mutazione di villano padre in gentile figlio. Che se lo figlio del villano è pur villano,
e lo figlio fia pur figlio di villano e così fia anche villano, e anche suo figlio, e
così sempre, e mai non s'avrà a trovare là dove nobilitade per processo di tempo si
cominci. E se l'avversario, volendosi difendere, dicesse che la nobilitade si comincerà
in quel tempo che si dimenticherà lo basso stato de li antecessori, rispondo che ciò ha
contra loro medesimi, che pur di necessitade quivi sarà transmutazione di viltade in
gentilezza, d'un uomo in altro o di padre a figlio, ch'è contra ciò che essi pongono.
E se l'avversario pertinacemente si
difendesse, dicendo che bene vogliono questa transmutazione potersi fare quando lo basso
stato de li antecessori corre in oblivione, avvegna che 'l testo ciò non curi, degno è
che la chiosa a ciò risponda. E però rispondo così: che di ciò che dicono seguitano
quattro grandissimi inconvenienti, sì che buona ragione essere non può. L'uno si è che
quanto la natura umana fosse migliore tanto sarebbe più malagevole e più tarda
generazione di gentilezza; che è massimo inconveniente, con ciò sia cosa, com'ho
no[t]ato, che la cosa quanto è migliore tanto è più cagione di bene; e nobilitade intra
li beni sia commemorata. E che ciò fosse così si pruova. Se la gentilezza o ver
nobilitade, che per una cosa intendo, si generasse per oblivione, più tosto sarebbe
generata la nobilitade quanto li uomini fossero più smemorati, [ché] tanto più tosto
ogni oblivione verrebbe. Dunque, quanto li uomini smemorati più fossero, più tosto
sarebbero nobili; e per contrario, quanto con più buona memoria, tanto più tardi nobili
si farebbero.
Lo secondo si è, che 'n nulla cosa,
fuori de li uomini, questa distinzione si potrebbe fare, cioè nobile o vile; che è molto
inconveniente, con ciò sia cosa che in ciascuna spezie di cose veggiamo l'imagine di
nobilitade e di viltade: onde spesse volte diciamo uno nobile cavallo e uno vile, e uno
nobile falcone e uno vile, e una nobile margherita e una vile. E che non si potesse fare
questa distinzione, così si pruova. Se l'oblivione de li bassi antecessori è cagione di
nobilitade, e là ovunque bassezza d'antecessori mai non fu, non può essere l'oblivione
di quelli - con ciò sia cosa che l'oblivione sia corruzione di memoria, e in questi altri
animali e piante e minere bassezza e altezza non si noti, però che in uno sono naturati
solamente ed iguale stato -, in loro generazione di nobilitade essere non può; e così
né viltade, con ciò sia cosa che l'una e l'altra si guardi come abito e privazione, che
sono ad uno medesimo subietto possibili; e però in loro de l'una e de l'altra non
potrebbe essere distinzione. E se l'avversario volesse dicere che ne l'altre cose
nobilità s'intende per la bontà de la cosa, ma ne li uomini s'intende perché di sua
bassa condizione non è memoria, rispondere si vorrebbe non con le parole ma col coltello
a tanta bestialitade, quanta è dare a la nobilitade de l'altre cose bontade per cagione,
e a quella de li uomini principio di dimenticanza.
Lo terzo si è che molte volte verrebbe
prima lo generato che lo generante; che è del tutto impossibile; e ciò si può così
mostrare. Pognamo che Gherardo da Cammino fosse stato nepote del più vile villano che mai
bevesse del Sile o del Cagnano, e la oblivione ancora non fosse del suo avolo venuta: chi
sarà oso di dire che Gherardo da Cammino fosse vile uomo? e chi non parlerà meco,
dicendo quello essere stato nobile? Certo nullo, quanto vuole sia presuntuoso, però che
egli fu, e fia sempre la sua memoria. E se la oblivione del suo basso antecessore non
fosse venuta, sì come si suppone, ed ello fosse grande di nobilitade e la nobilitade in
lui si vedesse così apertamente come aperta si vede, prima sarebbe stata in lui che 'l
generante suo fosse stato: e questo è massimamente impossibile.
Lo quarto si è che tale uomo sarebbe
tenuto nobile morto che non fu nobile vivo; che più inconveniente essere non potrebbe; e
ciò così si mostra. Pognamo che ne la etade di Dardano de' suoi antecessori bassi fosse
memoria, e pognamo che ne la etade di Laomedonte questa memoria fosse disfatta, e venuta
l'oblivione. Secondo l'oppinione avversa, Laomedonte fu gentile e Dardano fu villano in
loro vita. Noi, a li quali la memoria de li loro anticessori, dico di là da Dardano,
[anche non è rimasa, dir dovremmo che Dardano] vivendo fosse villano e morto sia nobile.
E non è contro a ciò, che si dice Dardano esser stato figlio di Giove, ché ciò è
favola, de la quale, filosoficamente disputando, curare non si dee; e pur se volesse a la
favola fermare l'avversario, di certo quello che la favola cuopre disfà tutte le sue
ragioni. E così è manifesto, la ragione che ponea la oblivione causa di nobilitade
essere falsa ed erronea.
Capitolo XV
Da poi che, per
la loro medesima sentenza, la canzone ha riprovato tempo non richiedersi a nobilitade,
incontanente seguita a confondere la premessa loro oppinione, acciò che di loro false
ragioni nulla ruggine rimagna ne la mente che a la verità sia disposta; e questo fa
quando dice: Ancor, segue di ciò che innanzi ho messo. Ove è da sapere che, se
uomo non si può fare di villano gentile o di vile padre non può nascere gentile figlio,
sì come messo è dinanzi per loro oppinione, che de li due inconvenienti l'uno seguire
conviene: l'uno sì è che nulla nobilitade sia; l'altro sì è che 'l mondo sempre sia
stato con più uomini, sì che da uno solo la umana generazione discesa non sia. E ciò si
può mostrare. Se nobilitade non si genera di nuovo, sì come più volte è detto che la
loro oppinione vuole (non generandosi di vile uomo in lui medesimo, né di vile padre in
figlio), sempre è l'uomo tale quale nasce, e tale nasce quale è lo padre; e così questo
processo d'una condizione è venuto infino dal primo parente: per che tale quale fu lo
primo generante, cioè Adamo, conviene essere tutta l'umana generazione, ché da lui a li
moderni non si puote trovare per quella ragione alcuna transmutanza. Dunque, se esso Adamo
fu nobile, tutti siamo nobili, e se esso fu vile, tutti siamo vili; che non è altro che
torre via la distinzione di queste condizioni, e così è torre via quelle. E questo dice,
che di quello ch'è messo dinanzi seguita che siam tutti gentili o ver villani. E se
questo non è, [e] pur alcuna gente è da dire nobile e alcuna è da dir vile, di
necessitade, da poi che la transmutazione di viltade in nobilitade è tolta via, conviene
l'umana generazione da diversi principii essere discesa cioè da uno nobile e da uno vile.
E ciò dice la canzone, quando dice: O che non fosse ad uom cominciamento, cioè
uno solo: non dice "cominciamenti". E questo è falsissimo appo lo Filosofo,
appo la nostra Fede che mentire non puote, appo la legge e credenza antica de li Gentili.
Ché, avvegna che 'l Filosofo non pogna lo processo da uno primo uomo, pur vuole una sola
essenza essere in tutti li uomini, la quale diversi principii avere non puote; e Plato
vuole che tutti li uomini da una sola Idea dependano, e non da più, che è dare loro uno
solo principio. E sanza dubbio forte riderebbe Aristotile udendo fare spezie due de
l'umana generazione, sì come de li cavalli e de li asini; che, perdonimi Aristotile,
asini ben si possono dire coloro che così pensano. Che appo la nostra fede, la quale del
tutto è da conservare, sia falsissimo, per Salomone si manifesta, che là dove
distinzione fa di tutti li uomini a li animali bruti, chiama quelli tutti figli d'Adamo; e
ciò fa quando dice: "Chi sa se li spiriti de li figliuoli d'Adamo vadano suso, e
quelli de le bestie vadano giuso?". E che appo li Gentili falso fosse, ecco la
testimonianza d'Ovidio nel primo del suo Metamorfoseos, dove tratta la mondiale
constituzione secondo la credenza pagana, o vero de li Gentili, dicendo: "Nato è
l'uomo" - non disse "li uomini"; disse "nato" e
"l'uomo" -, "o vero che questo l'artefice de le cose di seme divino fece, o
vero che la recente terra, di poco dipartita dal nobile corpo sottile e diafano, li semi
del cognato cielo ritenea. La quale, mista con l'acqua del fiume, lo figlio di Iapeto,
cioè Prometeus, compuose in imagine de li Dei, che tutto governano". Dove
manifestamente pone lo primo uomo uno solo essere stato. E però dice la canzone: Ma
ciò io non consento, cioè che cominciamento ad uomo non fosse. E soggiugne la
canzone: Ned ellino altressì, se son cristiani: e dice "cristiani" e
non "filosofi" o vero "Gentili", [de li quali] le sentenze anco [non]
sono in contro, però che la cristiana sentenza è di maggiore vigore, ed è rompitrice
d'ogni calunnia mercé de la somma luce del cielo che quella allumina.
Poi quando dico: Per che a 'ntelletti
sani È manifesto i lor diri esser vani, conchiudo lo loro errore essere confuso, e
dico che tempo è d'aprire li occhi a la veritade; questo dice quando dico: E dicer voglio
omai, sì com'io sento. Dico adunque che, per quello che detto è, è manifesto a li sani
intelletti che i detti di costoro sono vani, cioè sanza midolla di veritade. E dico sani
non sanza cagione. Onde è da sapere che lo nostro intelletto si può dir sano e infermo:
e dico intelletto per la nobile parte de l'anima nostra, che con uno vocabulo
"mente" si può chiamare. Sano dire si può, quando per malizia d'animo o di
corpo impedito non è ne la sua operazione; che è conoscere quello che le cose sono, sì
come vuole Aristotile nel terzo de l'Anima. Ché, secondo la malizia de l'anima, tre
orribili infermitadi ne la mente de li uomini ho vedute. L'una è di naturale [jat]tanza
causata: ché sono molti tanto presuntuosi, che si credono tutto sapere, e per questo le
non certe cose affermano per certe; lo qual vizio Tullio massimamente abomina nel primo de
li Offici e Tommaso nel suo ContraliGentili dicendo: "Sono molti tanto di suo ingegno
presuntuosi, che credono col suo intelletto poter misurare tutte le cose, estimando tutto
vero quello che a loro pare, falso quello che a loro non pare". E quinci nasce che
mai a dottrina non vegnono; credendo da sé sufficientemente essere dottrinati, mai non
domandano, mai non ascoltano, disiano essere domandati e, anzi la domandagione compiuta,
male rispondono. E per costoro dice Salomone ne li Proverbii: "Vedesti l'uomo ratto a
rispondere? di lui stoltezza, più che correzione, è da [sperare]". L'altra è di
naturale pusillanimitade causata: ché sono molti tanto vilmente ostinati, che non possono
credere che né per loro né per altrui si possano le cose sapere; e questi cotali mai per
loro non cercano né ragionano, mai quello che altri dice non curano. E contra costoro
Aristotile parla nel primo de l'Etica, dicendo quelli essere insufficienti uditori de la
morale filosofia. Costoro sempre come bestie in grossezza vivono, d'ogni dottrina
disperati. La terza è da levitade di natura causata: ché sono molti di sì lieve
fantasia che in tutte le loro ragioni transvanno, e anzi che silogizzino hanno conchiuso,
e di quella conclusione vanno transvolando ne l'altra, e pare loro sottilissimamente
argomentare, e non si muovono da neuno principio, e nulla cosa veramente veggiono vera nel
loro imaginare. E di costoro dice lo Filosofo che non è da curare né da avere con essi
faccenda, dicendo nel primo de la Fisica, che "contra quelli che niega li principii
disputare non si conviene". E di questi cotali sono molti idioti che non saprebbero
l'a.b.c., e vorrebbero disputare in geometria, in astrologia e in fisica.
E secondo malizia, o vero difetto di
corpo, può essere la mente non sana: quando per difetto d'alcuno principio da la
nativitade, sì come [ne'] mentecatti; quando per l'alterazione del cerebro, sì come sono
frenetici. E di questa infertade de la mente intende la legge, quando lo Inforzato dice:
"In colui che fa testamento, di quel tempo nel quale lo testamento fa, sanitade di
mente, non di corpo, è a domandare". Per che a quelli intelletti che per malizia
d'animo o di corpo infermi non sono, liberi, espediti e sani a la luce de la veritade,
dico essere manifesto l'oppinione de la gente, che detto è, essere vana, cioè sanza
valore.
Appresso soggiugne, che io così li
giudico falsi e vani, e così li ripruovo; e ciò si fa quando si dice: E io così per
falsi li riprovo. E appresso dico che da venire è a la veritade mostrare; e dico che
mostrare [è] quello, cioè che cosa è gentilezza, e come si può conoscere l'uomo in cui
essa è. E ciò dico quivi: E dicer voglio omai, sì com'io sento.
© 1999 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 15 giugno 1999