Dante Alighieri
Convivio
(trattato IV, capp. I-V)
TRATTATO IV
Canzone |
Le dolci rime d'amor
ch'i' solia Cercar ne' miei pensieri Convien ch'io lasci; non perch'io non speri Dd esse ritornare, Ma perché li atti disdegnosi e feri Che ne la donna mia Sono appariti m'han chiusa la via De l'usato parlare. E poi che tempo mi par d'aspettare, Diporrò giù lo mio soave stile, Ch'i' ho tenuto nel trattar d'amore; E dirò del valore, Per lo qual veramente omo è gentile, Con rima aspr' e sottile; Riprovando 'l giudicio falso e vile Di quei che voglion che di gentilezza Sia principio ricchezza. E, cominciando, chiamo quel signore Ch'a la mia donna ne li occhi dimora, Per ch'ella di se stessa s'innamora.
Tale imperò che gentilezza volse, Chi diffinisce: "Omo è
legno animato", Né voglion che vil uom
gentil divegna, Dico ch'ogni vertù
principalmente È gentilezza dovunqu'è
vertute, L'anima cui adorna esta
bontate Contra-li-erranti mia, tu te
n'andrai; |
Capitolo I
Amore,
secondo la concordevole sentenza de li savi di lui ragionanti, e secondo quello che per
esperienza continuamente vedemo, è che congiunge e unisce l'amante con la persona amata;
onde Pittagora dice: "Ne l'amistà si fa uno di più". E però che le cose
congiunte comunicano naturalmente intra sé le loro qualitadi, in tanto che talvolta è
che l'una torna del tutto ne la natura de l'altra, incontra che le passioni de la persona
amata entrano ne la persona amante, sì che l'amore de l'una si comunica ne l'altra, e
così l'odio e lo desiderio e ogni altra passione. Per che li amici de l'uno sono da
l'altro amati, e li nemici odiati; per che in greco proverbio è detto: "De li amici
essere deono tutte le cose comuni". Onde io, fatto amico di questa donna, di sopra ne
la verace esposizione nominata, cominciai ad amare e odiare secondo l'amore e l'odio suo.
Cominciai adunque ad amare li seguitatori de la veritade e odiare li seguitatori de lo
errore e de la falsitade, com'ella face. Ma però che ciascuna cosa per sé è da amare, e
nulla è da odiare se non per sopravenimento di malizia, ragionevole e onesto è, non le
cose, ma le malizie de le cose odiare e procurare da esse di partire. E a ciò s'alcuna
persona intende, la mia eccellentissima donna intende massimamente: a partire, dico, la
malizia de le cose, la qual cagione è d'odio; però che in lei è tutta ragione e in lei
è fontalemente l'onestade. Io, lei seguitando ne l'opera sì come ne la passione quanto
potea, li errori de la gente abominava e dispregiava, non per infamia o vituperio de li
erranti, ma de li errori; li quali biasimando credea far dispiacere, e, dispiaciuti,
partire da coloro che per essi eran da me odiati. Intra li quali errori uno io
massimamente riprendea, lo quale non solamente è dannoso e pericoloso a coloro che in
esso stanno, ma eziandio a li altri, che lui riprendano, porta dolore e danno. Questo è
l'errore de l'umana bontade in quanto in noi è da la natura seminata e che
"nobilitade" chiamare si dee; che per mala consuetudine e per poco intelletto
era tanto fortificato, che [l']oppinione, quasi di tutti, n'era falsificata; e de la falsa
oppinione nascevano li falsi giudicii, e de' falsi giudicii nascevano le non giuste
reverenze e vilipensioni; per che li buoni erano in villano dispetto tenuti, e li malvagi
onorati ed essaltati. La qual cosa era pessima confusione del mondo; sì come veder puote
chi mira quello che di ciò può seguitare, sottilmente. Per che, con ciò fosse cosa che
questa mia donna un poco li suoi dolci sembianti transmutasse a me, massimamente in quelle
parti dove io mirava e cercava se la prima materia de li elementi era da Dio intesa, - per
la qual cosa un poco dal frequentare lo suo aspetto mi sostenni -, quasi ne la sua
assenzia dimorando, entrai a riguardare col pensiero lo difetto umano intorno al detto
errore. E per fuggire oziositade, che massimamente di questa donna è nemica, e per
istinguere questo errore, che tanti amici le toglie, proposi di gridare a la gente che per
mal cammino andavano, acciò che per diritto calle si dirizzassero; e cominciai una
canzone nel cui principio dissi: Le dolci rime d'amor ch'i' solia. Ne la quale io
intendo riducer la gente in diritta via sopra la propia conoscenza de la verace
nobilitade; sì come per la conoscenza del suo testo, a la esposizione del quale ora
s'intende, vedere si potrà. E però che in questa canzone s'intese a rimedio così
necessario, non era buono sotto alcuna figura parlare, ma conveniesi per via tostana
questa medicina, acciò che fosse tostana la sanitade; la quale corrotta, a così laida
morte si correa.
Non sarà dunque mestiere ne la
esposizione di costei alcuna allegoria aprire, ma solamente la sentenza secondo la lettera
ragionare. Per mia donna intendo sempre quella che ne la precedente ragione è ragionata,
cioè quella luce virtuosissima, Filosofia, li cui raggi fanno ne li fiori rifronzire e
fruttificare la verace de li uomini nobilitade, de la quale trattare la proposta canzone
pienamente intende.
Capitolo II
Nel
principio de la impresa esposizione, per meglio dare a intendere la sentenza de la
proposta canzone, conviensi quella partire prima in due parti, che ne la prima parte
pr[oemi]almente si parla, ne la seconda si seguita lo trattato; e comincia la seconda
parte nel cominciamento del secondo verso, dove dice: Tale imperò che gentilezza
volse. La prima parte ancora in tre membra si può comprendere: nel primo si dice
perché da lo parlare usato mi parto; nel secondo dico quello che è di mia intenzione a
trattare; nel terzo domando aiutorio a quella cosa che più aiutare mi può, cioè a la
veritade. Lo secondo membro comincia: E poi che tempo mi par d'aspettare. Lo
terzo comincia: E, cominciando, chiamo quel signore.
Dico adunque che "a me conviene
lasciare le dolci rime d'amore le quali solieno cercare li miei pensieri"; e la
cagione assegno, perché dico che ciò non è per intendimento di più non rimare d'amore,
ma però che ne la donna mia nuovi sembianti sono appariti li quali m'hanno tolto materia
di dire al presente d'amore. Ov'è da sapere che non si dice qui li atti di questa donna
essere "disdegnosi e fieri" se non secondo l'apparenza; sì come nel decimo
capitolo del precedente trattato si può vedere come altra volta dico che l'apparenza de
la veritade si discordava. E come ciò può essere, che una medesima cosa sia dolce e paia
amara, o vero sia chiara e paia oscura, qui[vi] sufficientemente vedere si può.
Appresso, quando dico: E poi che
tempo mi par d'aspettare, dico, sì come detto è, questo che trattare intendo. E qui
non è da trapassare con piede secco ciò che si dice in "tempo aspettare",
imperò che potentissima cagione è de la mia mossa; ma da vedere è come ragionevolemente
quel tempo in tutte le nostre operazioni si dee attendere, e massimamente nel parlare. Lo
tempo, secondo che dice Aristotile nel quarto de la Fisica, è "numero di movimento,
secondo prima e poi"; e "numero di movimento celestiale", lo quale dispone
le cose di qua giù diversamente a ricevere alcuna informazione. Ché altrimenti è
disposta la terra nel principio de la primavera a ricevere in sé la informazione de
l'erbe e de li fiori, e altrimenti lo verno; e altrimenti è disposta una stagione a
ricevere lo seme che un'altra; e così la nostra mente in quanto ella è fondata sopra la
complessione del corpo, che a seguitare la circulazione del cielo altrimenti è disposto
un tempo e altrimenti un altro. Per che le parole, che sono quasi seme d'operazione, si
deono molto discretamente sostenere e lasciare, [sì] perché bene siano ricevute e
fruttifere vegnano, sì perché da la loro parte non sia difetto di sterilitade. E però
lo tempo è da provedere, sì per colui che parla come per colui che dee udire: ché se 'l
parladore è mal disposto, più volte sono le sue parole dannose; e se l'uditore è mal
disposto, mal sono quelle ricevute che buone siano. E però Salomone dice ne lo
Ecclesiaste: "Tempo è da parlare, e tempo è da tacere". Per che io sentendo in
me turbata disposizione, per la cagione che detta è nel precedente capitolo, a parlare
d'Amore, parve a me che fosse d'aspettare tempo, lo quale seco porta lo fine d'ogni
desiderio, e appresenta, quasi come donatore, a coloro a cui non incresce d'aspettare.
Onde dice santo Iacopo apostolo ne la sua Pistola: "Ecco lo agricola aspetta lo
prezioso frutto de la terra, pazientemente sostenendo infino che riceva lo temporaneo e lo
serotino". E tutte le nostre brighe, se bene veniamo a cercare li loro principii,
procedono quasi dal non conoscere l'uso del tempo.
Dico: "poi che da aspettare mi pare,
diporroe", cioè lascierò stare, "lo mio stilo", cioè modo,
"soave" che d'Amore parlando hoe tenuto; e dico di dicere di quello
"valore" per lo quale uomo è gentile veracemente. E avvegna che
"valore" intendere si possa per più modi, qui si prende "valore"
quasi potenza di natura, o vero bontade da quella data, sì come di sotto si vedrà. E
prometto di trattare di questa materia con rima aspr'e sottile. Per che sapere si
conviene che "rima" si può doppiamente considerare, cioè largamente e
strettamente: stretta[mente], s'intende pur per quella concordanza che ne l'ultima e
penultima sillaba far si suole; quando largamente, s'intende per tutto quel parlare che 'n
numeri e tempo regolato in rimate consonanze cade, e così qui in questo proemio prendere
e intendere si vuole. E però dice aspra quanto al suono de lo dittato, che a
tanta materia non conviene essere leno; e dice sottile quanto a la sentenza de le
parole, che sottilmente argomentando e disputando procedono. E soggiungo: Riprovando
'l giudicio falso e vile, ove si promette ancora di riprovare lo giudicio de la gente
piena d'errore; falso, cioè rimosso da la veritade, e vile, cioè da
viltà d'animo affermato e fortificato. Ed è da guardare a ciò, che in questo proemio
prima si promette di trattare lo vero, e poi di riprovare lo falso, e nel trattato si fa
l'opposito; ché prima si ripruova lo falso, e poi si tratta lo vero: che pare non
convenire a la promessione. Però è da sapere che tutto che a l'uno e a l'altro
s'intenda, al trattare lo vero s'intende principalmente; a riprovare lo falso s'intende in
tanto in quanto la veritade meglio si fa apparire. E qui prima si promette lo trattare del
vero, sì come principale intento, lo quale a l'anima de li auditori porta desiderio
d'udire: nel trattato prima si ripruova lo falso, acciò che, fugate le male oppinioni, la
veritade poi più liberamente sia ricevuta. E questo modo tenne lo maestro de l'umana
ragione, Aristotile, che sempre prima combatteo con li avversari de la veritade e poi,
quelli convinti, la veritade mostroe.
Ultimamente, quando dico: E,
cominciando, chiamo quel signore, chiamo la veritade che sia meco, la quale è quello
signore che ne li occhi, cioè ne le dimostrazioni de la filosofia dimora, e bene è
signore, ché a lei disposata l'anima è donna, e altrimenti è serva fuori d'ogni
libertade. E dice: Per ch'ella di se stessa s'innamora, però che essa filosofia,
che è, sì come detto è nel precedente trattato, amoroso uso di sapienza, se medesima
riguarda, quando apparisce la bellezza de li occhi suoi a lei; che altro non è a dire, se
non che l'anima filosofante non solamente contempla essa veritade, ma ancora contempla lo
suo contemplare medesimo e la bellezza di quello, rivolgendosi sovra se stessa e di se
stessa innamorando per la bellezza del suo primo guardare. E così termina ciò che
proemialmente per tre membri porta lo testo del presente trattato.
Capitolo III
Veduta
la sentenza del proemio, è da seguire lo trattato; e per meglio quello mostrare, partire
si conviene per le sue parti principali, che sono tre: che ne la prima si tratta de la
nobilitade secondo oppinioni d'altri; ne la seconda si tratta di quella secondo la propria
oppinione; ne la terza si volge lo parlare a la canzone, ad alcuno adornamento di ciò che
detto è. La seconda parte comincia: Dico ch'ogni vertù principalmente. La terza
comincia: Contra-li-erranti mia, tu te n'andrai. E appresso queste tre parti
generali, e altre divisioni fare si convegnono, a bene prender lo 'ntelletto che mostrare
s'intende. Però nullo si maravigli se per molte divisioni si procede, con ciò sia cosa
che grande e alta opera sia per le mani al presente e da li autori poco cercata, e che
lungo convegna essere lo trattato e sottile, nel quale per me ora s'entra, a distrigare lo
testo perfettamente secondo la sentenza che esso porta.
Dunque dico che ora questa prima parte si
divide in due: che ne la prima si pongono le oppinioni altrui, ne la seconda si ripruovano
quelle; e comincia questa seconda parte: Chi diffinisce: "Omo è legno
animato". Ancora la prima parte che rimane sì ha due membri: lo primo è la
narrazione de l'oppinione de lo imperadore; lo secondo è la narrazione de l'oppinione de
la gente volgare, che è d'ogni ragione ignuda. E comincia questo secondo membro: E
altri fu di più lieve savere. Dico dunque: Tale imperò, cioè tale usò
l'officio imperiale: dov'è da sapere che Federigo di Soave, ultimo imperadore de li
Romani - ultimo dico per rispetto al tempo presente, non ostante che Ridolfo e Andolfo e
Alberto poi eletti siano, appresso la sua morte e de li suoi discendenti -, domandato che
fosse gentilezza, rispuose ch'era antica ricchezza e belli costumi. E dico che altri
fu di più lieve savere: che, pensando e rivolgendo questa diffinizione in ogni
parte, levò via l'ultima particula, cioè li belli costumi, e tennesi a la prima, cioè a
l'antica ricchezza; e, secondo che lo testo pare dubitare, forse per non avere li belli
costumi non volendo perdere lo nome di gentilezza, diffinio quella secondo che per lui
facea, cioè possessione d'antica ricchezza. E dico che questa oppinione è quasi di
tutti, dicendo che dietro da costui vanno tutti coloro che fanno altrui gentile per essere
di progenie lungamente stata ricca, con ciò sia cosa che quasi tutti così latrano.
Queste due oppinioni - avvegna che l'una, come detto è, del tutto sia da non curare - due
gravissime ragioni pare che abbiano in aiuto: la prima è che dice lo Filosofo che quello
che pare a li più, impossibile è del tutto essere falso; la seconda ragione è
l'autoritade de la diffinizione de lo imperadore. E perché meglio si veggia poi la
vertude de la veritade, che ogni autoritade convince, ragionare intendo quanto l'una e
l'altra di queste ragioni aiutatrice e possente è. E, prima, [poi che] de la imperiale
autoritade sapere non si può se non si ritruovano le sue radici, di quelle per intenzione
in capitolo speziale è da trattare.
Capitolo IV
Lo
fondamento radicale de la imperiale maiestade, secondo lo vero, è la necessità de la
umana civilitade, che a uno fine è ordinata, cioè a vita felice; a la quale nullo per
sé è sufficiente a venire sanza l'aiutorio d'alcuno, con ciò sia cosa che l'uomo
abbisogna di molte cose, a le quali uno solo satisfare non può. E però dice lo Filosofo
che l'uomo naturalmente è compagnevole animale. E sì come un uomo a sua sufficienza
richiede compagnia dimestica di famiglia, così una casa a sua sufficienza richiede una
vicinanza: altrimenti molti difetti sosterrebbe che sarebbero impedimento di felicitade. E
però che una vicinanza [a] sé non può in tutto satisfare, conviene a satisfacimento di
quella essere la cittade. Ancora la cittade richiede a le sue arti e a le sue difensioni
vicenda avere e fratellanza con le circavicine cittadi; e però fu fatto lo regno. Onde,
con ciò sia cosa che l'animo umano in terminata possessione di terra non si queti, ma
sempre desideri gloria d'acquistare, sì come per esperienza vedemo, discordie e guerre
conviene surgere intra regno e regno, le quali sono tribulazioni de le cittadi, e per le
cittadi de le vicinanze, e per le vicinanze de le case, [e per le case] de l'uomo; e così
s'impedisce la felicitade. Il perché, a queste guerre e le loro cagioni torre via,
conviene di necessitade tutta la terra, e quanto a l'umana generazione a possedere è
dato, essendo Monarchia, cioè uno solo principato, e uno prencipe avere; lo quale, tutto
possedendo e più desiderare non possendo, li regi tegna contenti ne li termini de li
regni, sì che pace intra loro sia, ne la quale si posino le cittadi, e in questa posa le
vicinanze s'amino, in questo amore le case prendano ogni loro bisogno, lo qual preso,
l'uomo viva felicemente; che è quello per che esso è nato. E a queste ragioni si possono
reducere parole del Filosofo ch'egli ne la Politica dice, che quando più cose ad uno fine
sono ordinate, una di quelle conviene essere regolante, o vero reggente, e tutte l'altre
rette e regolate. Sì come vedemo in una nave, che diversi offici e diversi fini di quella
a uno solo fine sono ordinati, cioè a prendere loro desiderato porto per salutevole via:
dove, sì come ciascuno officiale ordina la propria operazione nel proprio fine, così è
uno che tutti questi fini considera, e ordina quelli ne l'ultimo di tutti; e questo è lo
nocchiero, a la cui voce tutti obedire deono. Questo vedemo ne le religioni, ne li
esserciti, in tutte quelle cose che sono, come detto è, a fine ordinate. Per che
manifestamente vedere si può che a perfezione de la universale religione de la umana
spezie conviene essere uno, quasi nocchiero, che, considerando le diverse condizioni del
mondo, a li diversi e necessari offici ordinare abbia del tutto universale e inrepugnabile
officio di comandare. E questo officio per eccellenza Imperio è chiamato, sanza nulla
addizione, però che esso è di tutti li altri comandamenti comandamento. E così chi a
questo officio è posto è chiamato Imperadore, però che di tutti li comandamenti elli è
comandatore, e quello che esso dice a tutti è legge, e per tutti dee essere obedito e
ogni altro comandamento da quello di costui prendere vigore e autoritade. E così si
manifesta la imperiale maiestade e autoritade essere altissima ne l'umana compagnia.
Veramente potrebbe alcuno gavillare
dicendo che, tutto che al mondo officio d'imperio si richeggia, non fa ciò l'autoritade
de lo romano principe ragionevolemente somma, la quale s'intende dimostrare; però che la
romana potenzia non per ragione né per decreto di convento universale fu acquistata, ma
per forza, che a la ragione pare esser contraria. A ciò si può lievemente rispondere,
che la elezione di questo sommo officiale convenia primieramente procedere da quello
consiglio che per tutti provede, cioè Dio; altrimenti sarebbe stata la elezione per tutti
non iguale; con ciò sia cosa che, anzi l'officiale predetto, nullo a bene di tutti
intendea. E però che più dolce natura [in] segnoreggiando, e più forte in sostenendo, e
più sottile in acquistando né fu né fia che quella de la gente latina - sì come per
esperienza si può vedere - e massimamente [di] quello popolo santo nel quale l'alto
sangue troiano era mischiato, cioè Roma, Dio quello elesse a quello officio. Però che,
con ciò sia cosa che a quello ottenere non sanza grandissima vertude venire si potesse, e
a quello usare grandissima e umanissima benignitade si richiedesse, questo era quello
popolo che a ciò più era disposto. Onde non da forza fu principalmente preso per la
romana gente, ma da divina provedenza, che è sopra ogni ragione. E in ciò s'accorda
Virgilio nel primo de lo Eneida, quando dice, in persona di Dio parlando: "A costoro
- cioè a li Romani - né termine di cose né di tempo pongo; a loro ho dato imperio sanza
fine". La forza dunque non fu cagione movente, sì come credeva chi gavillava, ma fu
cagione instrumentale, sì come sono li colpi del martello cagione del coltello, e l'anima
del fabbro è cagione efficiente e movente; e così non forza, ma ragione, [e] ancora
divina, [conviene] essere stata principio del romano imperio. E che ciò sia, per due
apertissime ragioni vedere si può, le quali mostrano quella civitade imperatrice, e da
Dio avere spezial nascimento, e da Dio avere spezial processo. Ma però che in questo
capitolo sanza troppa lunghezza ciò trattare non si potrebbe, e li lunghi capitoli sono
inimici de la memoria, farò ancora digressione d'altro capitolo per le toccate ragioni
mostrare; che non ha sanza utilitade e diletto grande.
Capitolo V
Non
è maraviglia se la divina provedenza, che del tutto l'angelico e lo umano accorgimento
soperchia, occultamente a noi molte volte procede, con ciò sia cosa che spesse volte
l'umane operazioni a li uomini medesimi ascondono la loro intenzione; ma da maravigliare
è forte, quando la essecuzione de lo etterno consiglio tanto manifesto procede c[on] la
nostra ragione. E però io nel cominciamento di questo capitolo posso parlare con la bocca
di Salomone, che in persona de la Sapienza dice ne li suoi Proverbi: "Udite: però
che di grandi cose io debbo parlare".
Volendo la 'nmensurabile bontà divina
l'umana creatura a sé riconformare, che per lo peccato de la prevaricazione del primo
uomo da Dio era partita e disformata, eletto fu in quello altissimo e congiuntissimo
consistorio de la Trinitade, che 'l Figliuolo di Dio in terra discendesse a fare questa
concordia. E però che ne la sua venuta nel mondo, non solamente lo cielo, ma la terra
convenia essere in ottima disposizione; e la ottima disposizione de la terra sia quando
ella è monarchia, cioè tutta ad uno principe, come detto è di sopra; ordinato fu per lo
divino provedimento quello popolo e quella cittade che ciò dovea compiere, cioè la
gloriosa Roma. E però [che] anche l'albergo dove il celestiale rege intrare dovea
convenia essere mondissimo e purissimo, ordinata fu una progenie santissima, de la quale
dopo molti meriti nascesse una femmina ottima di tutte l'altre, la quale fosse camera del
Figliuolo di Dio: e questa progenie fu quella di David, del qual nasce[tt]e la baldezza e
l'onore de l'umana generazione, cioè Maria. E però è scritto in Isaia: "Nascerà
virga de la radice di Iesse, e fiore de la sua radice salirà"; e Iesse fu padre del
sopra detto David. E tutto questo fu in uno temporale, che David nacque e nacque Roma,
cioè che Enea venne di Troia in Italia, che fu origine de la cittade romana, sì come
testimoniano le scritture. Per che assai è manifesto la divina elezione del romano
imperio per lo nascimento de la santa cittade che fu contemporaneo a la radice de la
progenie di Maria. E incidentemente è da toccare che, poi che esso cielo cominciò a
girare, in migliore disposizione non fu che allora quando di là su discese Colui che l'ha
fatto e che 'l governa; sì come ancora per virtù di loro arti li matematici possono
ritrovare. Né 'l mondo mai non fu né sarà sì perfettamente disposto come allora che a
la voce d'un solo, principe del roman popolo e comandatore, fu ordinato, sì come
testimonia Luca evangelista. E però [che] pace universale era per tutto, che mai, più,
non fu né fia, la nave de l'umana compagnia dirittamente per dolce cammino a debito porto
correa. Oh ineffabile e incomprensibile sapienza di Dio che a una ora, per la tua venuta,
in Siria suso e qua in Italia tanto dinanzi ti preparasti! E oh stoltissime e vilissime
bestiuole che a guisa d'uomo voi pascete, che presummete contra nostra fede parlare e
volete sapere, filando e zappando, ciò che Iddio, che con tanta prudenza hae ordinato!
Maladetti siate voi, e la vostra presunzione, e chi a voi crede!
E, come detto è di sopra nel fine del
precedente [capitolo del presente] trattato, non solamente speziale nascimento, ma
speziale processo ebbe da Dio; ché brievemente, da Romolo incominciando, che fu di quella
primo padre, infino a la sua perfettissima etade, cioè al tempo del predetto suo
imperadore, non pur per umane ma per divine operazioni andò lo suo processo. Che se
consideriamo li sette regi che prima la governaro, cioè Romolo, Numa, Tullo, Anco e li re
Tarquini, che furono quasi baiuli e tutori de la sua puerizia, noi trovare potremo per le
scritture de le romane istorie, massimamente per Tito Livio, coloro essere stati di
diverse nature, secondo l'opportunitade del pr[o]cedente tempo. Se noi consideriamo poi
[quella] per la maggiore adolescenza sua, poi che da la reale tutoria fu emancipata, da
Bruto primo consolo infino a Cesare primo prencipe sommo, noi troveremo lei essaltata non
con umani cittadini, ma con divini, ne li quali non amore umano, ma divino era inspirato
in amare lei. E ciò non potea né dovea essere se non per ispeziale fine, da Dio inteso
in tanta celestiale infusione. E chi dirà che fosse sanza divina inspirazione, Fabrizio
infinita quasi moltitudine d'oro rifiutare, per non volere abbandonare sua patria? Curio,
da li Sanniti tentato di corrompere, grandissima quantità d'oro per carità de la patria
rifiutare, dicendo che li romani cittadini non l'oro, ma li possessori de l'oro possedere
voleano? e Muzio la sua mano propria incendere, perché fallato avea lo colpo che per
liberare Roma pensato avea? Chi dirà di Torquato, giudicatore del suo figliuolo a morte
per amore del publico bene, sanza divino aiutorio ciò avere sofferto? e Bruto predetto
similemente? Chi dirà de li Deci e de li Drusi, che puosero la loro vita per la patria?
Chi dirà del cattivato Regolo, da Cartagine mandato a Roma per commutare li presi
cartaginesi a sé e a li altri presi romani, avere contra sé per amore di Roma, dopo la
legazione ritratta, consigliato, solo da [umana, e non da] divina natura mosso? Chi dirà
di Quinzio Cincinnato, fatto dittatore e tolto da lo aratro, e dopo lo tempo de l'officio,
spontaneamente quello rifiutando a lo arare essere ritornato? Chi dirà di Cammillo,
bandeggiato e cacciato in essilio, essere venuto a liberare Roma contra li suoi nimici, e
dopo la sua liberazione, spontaneamente essere ritornato in essilio per non offendere la
senatoria autoritade, sanza divina istigazione? O sacratissimo petto di Catone, chi
presummerà di te parlare? Certo maggiormente di te parlare non si può che tacere, e
seguire Ieronimo quando nel proemio de la Bibbia, là dove di Paolo tocca, dice che meglio
è tacere che poco dire. Certo e manifesto esser dee, rimembrando la vita di costoro e de
li altri divini cittadini, non sanza alcuna luce de la divina bontade, aggiunta sopra la
loro buona natura, essere tante mirabili operazioni state; e manifesto esser dee, questi
eccellentissimi essere stati strumenti con li quali procedette la divina provedenza ne lo
romano imperio, dove più volte parve esse braccia di Dio essere presenti. E non puose
Iddio le mani proprie a la battaglia dove li Albani con li Romani, dal principio, per lo
capo del regno combattero, quando uno solo Romano ne le mani ebbe la franchigia di Roma?
Non puose Iddio le mani proprie, quando li Franceschi, tutta Roma presa, prendeano di
furto Campidoglio di notte, e solamente la voce d'una oca fé ciò sentire? E non puose
Iddio le mani, quando, per la guerra d'Annibale avendo perduti tanti cittadini che tre
moggia d'anella in Africa erano portati, li Romani volsero abbandonare la terra, se quel
benedetto Scipione giovane non avesse impresa l'andata in Africa per la sua franchezza? E
non puose Iddio le mani quando uno nuovo cittadino di picciola condizione, cioè Tullio,
contra tanto cittadino quanto era Catellina la romana libertà difese? Certo sì. Per che
più chiedere non si dee, a vedere che spezial nascimento e spezial processo, da Dio
pensato e ordinato, fosse quello de la santa cittade. Certo di ferma sono oppinione che le
pietre che ne le mura sue stanno siano degne di reverenzia, e lo suolo dov'ella siede sia
degno oltre quello che per li uomini è predicato e approvato.
© 1999 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 15 giugno 1999