Dante Alighieri
Convivio
(trattato III, capp. X-XV)
TRATTATO III
Capitolo X
Partendomi da
questa disgressione, che mestiere è stata a vedere la veritade, ritorno al proposito e
dico che sì come li nostri occhi "chiamano", cioè giudicano, la stella talora
altrimenti che sia la vera sua condizione, così quella ballatetta considerò questa donna
secondo l'apparenza, discordante dal vero per infertade de l'anima, che di troppo disio
era passionata. E ciò manifesto quando dico: Ché l'anima temea, sì che fiero
mi parea ciò che vedea ne la sua presenza. Dov'è da sapere che quanto l'agente più al
paziente sé unisce, tanto più forte è però la passione, sì come per la sentenza del
Filosofo in quello De Generatione si può comprendere; onde, quanto la cosa desiderata
più appropinqua al desiderante, tanto lo desiderio è maggiore, e l'anima, più
passionata, più si unisce a la parte concupiscibile e più abbandona la ragione. Sì che
allora non giudica come uomo la persona, ma quasi come altro animale pur secondo
l'apparenza, non discernendo la veritade. E questo è quello per che lo sembiante, onesto
secondo lo vero, ne pare disdegnoso e fero; e secondo questo cotale sensuale giudicio
parlò quella ballatetta. E in ciò s'intende assai che questa canzone considera questa
donna secondo la veritade, per la discordanza che ha con quella. E non sanza cagione dico:
là 'v'ella mi senta, e non là dov'io la senta; ma in ciò voglio dare
a intendere la grande virtù che li suoi occhi aveano sopra me: ché, come s'io fosse
stato [diafano], così per ogni lato mi passava lo raggio loro. E quivi si potrebbero
ragioni naturali e sovranaturali assegnare; ma basti qui tanto avere detto: altrove
ragionerò più convenevolemente.
Poi quando dico: Così ti scusa, se
ti fa mestero, impongo a la canzone come per le ragioni assegnate "sé iscusi
là dov'è mestiero", cioè là dove alcuno dubitasse di questa contrarietade; che
non è altro a dire se non che qualunque dubitasse in ciò, che questa canzone da quella
ballatetta si discorda, miri in questa ragione che detta è. E questa cotale figura in
rettorica è molto laudabile, e anco necessaria, cioè quando le parole sono a una persona
e la 'ntenzione è a un'altra; però che l'ammonire è sempre laudabile e necessario, e
non sempre sta convenevolemente ne la bocca di ciascuno. Onde, quando lo figlio è
conoscente del vizio del padre, e quando lo suddito è conoscente del vizio del segnore, e
quando l'amico conosce che vergogna crescerebbe al suo amico quello ammonendo o
menomerebbe suo onore, o conosce l'amico suo non paziente ma iracundo a l'ammonizione,
questa figura è bellissima e utilissima, e puotesi chiamare "dissimulazione".
Ed è simigliante a l'opera di quello savio guerrero che combatte lo castello da uno lato
per levare la difesa da l'altro, che non vanno ad una parte la 'ntenzione de l'aiutorio e
la battaglia.
E impongo anche a costei che domandi
parola di parlare a questa donna di lei. Dove si puote intendere che l'uomo non dee essere
presuntuoso a lodare altrui, non ponendo bene prima mente s'elli è piacere de la persona
laudata; perché molte volte credendosi [a] alcuno dar loda, si dà biasimo, o per difetto
de lo dicitore o per difetto di quello che ode. Onde molta discrezione in ciò avere si
conviene; la qual discrezione è quasi uno domandare licenzia, per lo modo ch'io dico che
domandi questa canzone. E così termina tutta la litterale sentenza di questo trattato;
per che l'ordine de l'opera domanda a l'allegorica esposizione omai, seguendo la veritade,
procedere.
Capitolo XI
Sì come l'ordine
vuole ancora dal principio ritornando, dico che questa donna è quella donna de lo
'ntelletto che Filosofia si chiama. Ma però che naturalmente le lode danno desiderio di
conoscere la persona laudata; e conoscere la cosa sia sapere quello che ella è, in sé
considerata e per tutte le sue c[au]se, sì come dice lo Filosofo nel principio de la
Fisica; e ciò non dimostri lo nome, avvegna che ciò significhi, sì come dice nel quarto
de la Metafisica (dove si dice che la diffinizione è quella ragione che 'l nome
significa), conviensi qui, prima che più oltre si proceda per le sue laude mostrare, dire
che è questo che si chiama Filosofia, cioè quello che questo nome significa. E poi
dimostrata essa, più efficacemente si tratterà la presente allegoria. E prima dirò chi
questo nome prima diede; poi procederò a la sua significanza.
Dico adunque che anticamente in Italia,
quasi dal principio de la costituzione di Roma, che fu [sette]cento cinquanta anni
[innanzi], poco dal più al meno, che 'l Salvatore venisse, secondo che scrive Paulo
Orosio, nel tempo quasi che Numa Pompilio, secondo re de li Romani, vivea uno filosofo
nobilissimo, che si chiamò Pittagora. E che ello fosse in quel tempo, pare che ne tocchi
alcuna cosa Tito Livio ne la prima parte del suo volume incidentemente. E dinanzi da
costui erano chiamati li seguitatori di scienza non filosofi ma sapienti, sì come furono
quelli sette savi antichissimi, che la gente ancora nomina per fama: lo primo de li quali
ebbe nome Solon, lo secondo Chilon, lo terzo Periandro, lo quarto Cleobulo, lo quinto
Lindio, lo sesto Biante, e lo settimo Prieneo. Questo Pittagora, domandato se egli si
riputava sapiente, negò a sé questo vocabulo, e disse sé essere non sapiente, ma
amatore di sapienza. E quinci nacque poi, ciascuno studioso in sapienza che fosse
"amatore di sapienza" chiamato, cioè "filosofo"; ché tanto vale in
greco "philos" com'è a dire "amore" in latino, e quindi dicemo noi:
"philos" quasi amore, e "soph[os]" quasi sapien[te]. Per che vedere si
può che questi due vocabuli fanno questo nome di "filosofo", che tanto vale a
dire quanto "amatore di sapienza": per che notare si puote che non d'arroganza,
ma d'umilitade è vocabulo. Da questo nasce lo vocabulo del suo proprio atto, Filosofia,
sì come de lo amico nasce lo vocabulo del suo proprio atto, cioè Amicizia. Onde si può
vedere, considerando la significanza del primo e del secondo vocabulo, che Filosofia non
è altro che amistanza a sapienza, o vero a sapere; onde in alcuno modo si può dicere
catuno filosofo secondo lo naturale amore che in ciascuno genera lo desiderio di sapere.
Ma però che l'essenziali passioni sono
comuni a tutti, non si ragiona di quelle per vocabulo distinguente alcuno participante
quella essenza; onde non diciamo Gianni amico di Martino, intendendo solamente la naturale
amistade significare per la quale tutti a tutti semo amici, ma l'amistà sopra la naturale
generata, che è propria e distinta in singulari persone. Così non si dice filosofo
alcuno per lo comune amore [al sapere]. Ne la 'ntenzione d'Aristotile, ne l'ottavo de
l'Etica, quelli si dice amico la cui amistà non è celata a la persona amata e a cui la
persona amata è anche amica, sì che la benivolenza sia da ogni parte: e questo conviene
essere o per utilitade, o per diletto, o per onestade. E così, acciò che sia filosofo,
conviene essere l'amore a la sapienza, che fa l'una de le parti benivolente; conviene
essere lo studio e la sollicitudine, che fa l'altra parte anche benivolente: sì che
familiaritade e manifestamento di benivolenza nasce tra loro. Per che sanza amore e sanza
studio non si può dire filosofo, ma conviene che l'uno e l'altro sia. E sì come
l'amistà per diletto fatta, o per utilitade, non è vera amistà ma per accidente, sì
come l'Etica ne dimostra, così la filosofia per diletto o per utilitade non è vera
filosofia ma per accidente. Onde non si dee dicere vero filosofo alcuno che, per alcuno
diletto, con la sapienza in alcuna sua parte sia amico; sì come sono molti che si
dilettano in intendere canzoni ed istudiare in quelle, e che si dilettano studiare in
Rettorica o in Musica, e l'altre scienze fuggono e abbandonano, che sono tutte membra di
sapienza. Né si dee chiamare vero filosofo colui che è amico di sapienza per utilitade,
sì come sono li legisti, [li] medici e quasi tutti li religiosi, che non per sapere
studiano ma per acquistare moneta o dignitade; e chi desse loro quello che acquistare
intendono, non sovrastarebbero a lo studio. E sì come intra le spezie de l'amistà quella
che per utilitade è, meno amistà si può dicere, così questi cotali meno participano
del nome del filosofo che alcuna altra gente; per che, sì come l'amistà per onestade
fatta è vera e perfetta e perpetua, così la filosofia è vera e perfetta che è generata
per onestade solamente, sanza altro rispetto, e per bontade de l'anima amica, che è per
diritto appetito e per diritta ragione. Sì ch'om[ai] qui si può dire, come la vera
amistà de li uomini intra sé è che ciascuno ami tutto ciascuno, che 'l vero filosofo
ciascuna parte de la sua sapienza ama, e la sapienza ciascuna parte del filosofo, in
quanto tutto a sé lo riduce, e nullo suo pensiero ad altre cose lascia distendere. Onde
essa Sapienza dice ne li Proverbi di Salomone: "Io amo coloro che amano me". E
sì come la vera amistade, astratta de l'animo, solo in sé considerata, ha per subietto
la conoscenza de l'operazione buona, e per forma l'appetito di quella; così la filosofia,
fuori d'anima, in sé considerata, ha per subietto lo 'ntendere, e per forma uno quasi
divino amore a lo 'ntelletto. E sì come de la vera amistade è cagione efficiente la
vertude, così de la filosofia è cagione efficiente la veritade. E sì come fine de
l'amistade vera è la buona dilezione, che procede dal convivere secondo l'umanitade
propriamente, cioè secondo ragione, sì come pare sentire Aristotile nel nono de l'Etica;
così fine de la Filosofia è quella eccellentissima dilezione che non pate alcuna
intermissione o vero difetto, cioè vera felicitade che per contemplazione de la veritade
s'acquista. E così si può vedere chi è omai questa mia donna, per tutte le sue cagioni
e per la sua ragione, e perché Filosofia si chiama, e chi è vero filosofo, e chi è per
accidente.
Ma però che, per alcuno fervore d'animo,
talvolta l'uno e l'altro termine de li atti e de le passioni si chiamano e per lo vocabulo
de l'atto medesimo e de la passione (sì come fa Virgilio nel secondo de lo Eneidos, che
chiama Enea [a Ettore]: "O luce", ch'è atto, e "speranza de'
Troiani", che è passione, ché non era esso luce né speranza, ma era termine onde
venia loro la luce del consiglio, ed era termine in che si posava tutta la speranza de la
loro salute; e sì come dice Stazio nel quinto del Thebaidos, quando Isifile dice ad
Archimoro: "O consolazione de le cose e de la patria perduta, o onore del mio
servigio"; sì come cotidianamente dicemo, mostrando l'amico, "vedi l'amistade
mia", e 'l padre dice al figlio "amor mio"), per lunga consuetudine le
scienze ne le quali più ferventemente la Filosofia termina la sua vista, sono chiamate
per lo suo nome; sì come la Scienza Naturale, la Morale, e la Metafisica, la quale,
perché più necessariamente in quella termina lo suo viso e con più fervore, [Prima]
Filosofia è chiamata. Onde [vedere] si può come secondamente le scienze sono Filosofia
appellate.
Poi che è veduto come la primaia e vera
filosofia è in suo essere - la quale è quella donna di cu' io dico - e come lo suo
nobile nome per consuetudine è comunicato a le scienze, procederò oltre con le sue lode.
Capitolo XII
Nel primo
capitolo di questo trattato è sì compiutamente ragionata la cagione che mosse me a
questa canzone, che non è più mestiere di ragionare; ché assai leggermente a questa
esposizione ch'è detta ella si può riducere. E però secondo le divisioni fatte la
litterale sentenza transcorrerò, per questa volgendo lo senso de la lettera là dove
sarà mestiere.
Dico: Amor che ne la mente mi ragiona.
Per Amore intendo lo studio lo quale io mettea per acquistare l'amore di questa donna: ove
si vuole sapere che studio si può qui doppiamente considerare. E uno studio lo quale mena
l'uomo a l'abito de l'arte e de la scienza; e un altro studio lo quale ne l'abito
acquistato adopera, usando quello. E questo primo è quello ch'io chiamo qui Amore, lo
quale ne la mia mente informava continue, nuove e altissime considerazioni di questa donna
che di sopra è dimostrata: sì come suole fare lo studio che si mette in acquistare
un'amistade, che di quella amistade grandi cose prima considera, desiderando quella.
Questo è quello studio e quella affezione che suole procedere ne li uomini la generazione
de l'amistade, quando già da una parte è nato amore, e desiderasi e procurasi che sia da
l'altra; ché, sì come di sopra si dice, Filosofia è quando l'anima e la sapienza sono
fatte amiche, sì che l'una sia tutta amata da l'altra, per lo modo che detto è di sopra.
Né più è mestiere di ragionare per la presente esposizione questo primo verso, che
[per] proemio fu ne la litterale ragionato, però che per la prima sua ragione assai di
leggiero a questa seconda si può volgere lo 'ntendimento.
Onde al secondo verso, lo quale è
cominciatore del trattato, è da procedere, là ove io dico: Non vede il sol, che
tutto 'l mondo gira. Qui è da sapere che sì come trattando di sensibile cosa per
cosa insensibile, si tratta convenevolemente, così di cosa intelligibile per cosa
inintelligibile trattare si conviene. E però sì come ne la litterale si parlava
cominciando dal sole corporale e sensibile, così ora è da ragionare per lo sole
spirituale e intelligibile, che è Iddio. Nullo sensibile in tutto lo mondo è più degno
di farsi essemplo di Dio che 'l sole. Lo quale di sensibile luce sé prima e poi tutte le
corpora celestiali e le elementali allumina: così Dio prima sé con luce intellettuale
allumina, e poi le [creature] celestiali e l'altre intelligibili. Lo sole tutte le cose
col suo calore vivifica, e se alcuna ne corrompe, non è de la 'ntenzione de la cagione,
ma è accidentale effetto: così Iddio tutte le cose vivifica in bontade, e se alcuna n'è
rea, non è de la divina intenzione, ma conviene quello per accidente essere [ne] lo
processo de lo inteso effetto. Che se Iddio fece li angeli buoni e li rei, non fece l'uno
e l'altro per intenzione, ma solamente li buoni. Seguitò poi fuori d'intenzione la
malizia de' rei, ma non sì fuori d'intenzione, che Dio non sapesse dinanzi in sé predire
la loro malizia; ma tanta fu l'affezione a producere la creatura spirituale, che la
prescienza d'alquanti che a malo fine doveano venire non dovea né potea Iddio da quella
produzione rimuovere. Ché non sarebbe da laudare la Natura se, sappiendo prima che li
fiori d'un'arbore in certa parte perdere si dovessero, non producesse in quella fiori, e
per li vani abbandonasse la produzione de li fruttiferi. Dico adunque che Iddio, che tutto
intende (ché suo "girare" è suo "intendere"), non vede tanto gentil
cosa quanto elli vede quando mira là dove è questa Filosofia. Ché avvegna che Dio, esso
medesimo mirando, veggia insiememente tutto; in quanto la distinzione de le cose è in lui
per [lo] modo che lo effetto è ne la cagione, vede quelle distinte. Vede adunque questa
nobilissima di tutte assolutamente, in quanto perfettissimamente in sé la vede e in sua
essenzia. Ché se a memoria si reduce ciò che detto è di sopra, filosofia è uno amoroso
uso di sapienza, lo quale massimamente è in Dio, però che in lui è somma sapienza e
sommo amore e sommo atto; che non può essere altrove, se non in quanto da esso procede.
E` adunque la divina filosofia de la divina essenza, però che in esso non può essere
cosa a la sua essenzia aggiunta; ed è nobilissima, però che nobilissima è la essenzia
divina; ed è in lui per modo perfetto e vero, quasi per etterno matrimonio. Ne l'altre
intelligenze è per modo minore, quasi come druda de la quale nullo amadore prende
compiuta gioia, ma nel suo aspetto contentan la loro vaghezza. Per che dire si può che
Dio non vede, cioè non intende, cosa alcuna tanto gentile quanto questa: dico cosa
alcuna, in quanto l'altre cose vede e distingue, come detto è, veggendosi essere cagione
di tutto. Oh nobilissimo ed eccellentissimo cuore che ne la sposa de lo Imperadore del
cielo s'intende, e non solamente sposa, ma suora e figlia dilettissima!
Capitolo XIII
Veduto
come, nel principio de le laude di costei, sottilmente si dice essa essere de la divina
sustanza, in quanto primieramente si considera, da procedere e da vedere è come
secondamente dico essa essere ne le causate intelligenze. Dico adunque: Ogni
Intelletto di là su la mira: dove è da sapere che "di là su" dico,
facendo relazione a Dio che dinanzi è menzionato; e per questo escludo le Intelligenze
che sono in essilio de la superna patria, le quali filosofare non possono, però che amore
in loro è del tutto spento, e a filosofare, come già detto è, è necessario amore. Per
che si vede che le infernali Intelligenze da lo aspetto di questa bellissima sono private.
E però che essa è beatitudine de lo 'ntelletto, la sua privazione è amarissima e piena
d'ogni tristizia.
Poi quando dico: E quella gente che
qui s'innamora, discendo a mostrare come ne l'umana intelligenza essa secondariamente
ancora vegna; de la quale filosofia umana seguito poi per lo trattato, essa commendando.
Dico adunque che la gente che s'innamora "qui", cioè in questa vita, la sente
nel suo pensiero, non sempre, ma quando Amore fa de la sua pace sentire. Dove sono da
vedere tre cose che in questo testo sono toccate. La prima si è quando si dice: la
gente che qui s'innamora, per che pare farsi distinzione ne l'umana generazione. E di
necessitate far si conviene, ché, secondo che manifestamente appare, e nel seguente
trattato per intenzione si ragionerà, grandissima parte de li uomini vivono più secondo
lo senso che secondo ragione; e quelli che secondo lo senso vivono di questa innamorare è
impossibile, però che di lei avere non possono alcuna apprensione. La seconda si è
quando dice: Quando Amor fa sentire, dove si par fare distinzione di tempo. La
qual cosa anco [far si conviene, ché, ] avvegna che le intelligenze separate questa donna
mirino continuamente, la umana intelligenza ciò fare non può; però che l'umana natura -
fuori de la speculazione, de la quale s'appaga lo 'ntelletto e la ragione - abbisogna di
molte cose a suo sustentamento: per che la nostra sapienza è talvolta abituale solamente,
e non attuale, che non incontra ciò ne l'altre intelligenze, che solo di natura
intellettiva sono perfette. Onde quando l'anima nostra non hae atto di speculazione, non
si può dire veramente che sia in filosofia, se non in quanto ha l'abito di quella e la
potenza di poter lei svegliare; e però tal volta è con quella gente che qui s'innamora,
e tal volta no. La terza è quando dice l'ora che quella gente è con essa, cioè quando
Amore de la sua pace fa sentire; che non vuole altro dire se non quando l'uomo è in
ispeculazione attuale, però che de la pace di questa donna non fa lo studio [sentire] se
non ne l'atto de la speculazione. E così si vede come questa è donna primamente di Dio e
secondariamente de l'altre intelligenze separate, per continuo sguardare; e appresso de
l'umana intelligenza per riguardare discontinuato. Veramente, sempre è l'uomo che ha
costei per donna da chiamare filosofo, non ostante che tuttavia non sia ne l'ultimo atto
di filosofia, però che da l'abito maggiormente è altri da denominare. Onde dicemo alcuno
virtuoso, non solamente virtute operando, ma l'abito de la virtù avendo; e dicemo l'uomo
facundo eziandio non parlando, per l'abito de la facundia, cioè del bene parlare. E di
questa filosofia in quanto da l'umana intelligenza è participata, saranno omai le
seguenti commendazioni, a mostrare come grande parte del suo bene a l'umana natura è
conceduto.
Dico dunque appresso: "Suo essere
piace tanto a chi liele dà" (dal quale, sì come da fonte primo, si diriva),
"che [in lei la sua virtute infonde] sempre, oltra la capacitade de la nostra
natura", la quale fa bella e virtuosa. Onde, avvegna che a l'abito di quella per
alquanti si vegna, non vi si viene sì per alcuno, che propriamente abito dire si possa;
però che 'l primo studio, cioè quello per lo quale l'abito si genera, non puote quella
perfettamente acquistare. E qui si vede s'umil è sua loda; che, perfetta e imperfetta,
nome di perfezione non perde. E per questa sua dismisuranza si dice che l'anima de la
filosofia lo manifesta in quel ch'ella conduce, cioè che Iddio mette sempre in
lei del suo lume. Dove si vuole a memoria reducere che di sopra è detto che amore è
forma di Filosofia, e però qui si chiama anima di lei. Lo quale amore manifesto è nel
viso de la Sapienza, ne lo quale esso conduce mirabili bellezze, cioè contentamento in
ciascuna condizione di tempo e dispregiamento di quelle cose che li altri fanno loro
signori. Per che avviene che li altri miseri che ciò mirano, ripensando lo loro difetto,
dopo lo desiderio de la perfezione caggiono in fatica di sospiri; e questo è quello che
dice: Che li occhi di color dov'ella luce Ne mandan messi al cor pien di desiri, Che
prendon aire e diventan sospiri.
Capitolo XIV
Sì
come ne la litterale esposizione dopo le generali laude a le speziali si discende, prima
da la parte de l'anima, poi da la parte del corpo, così ora intende lo testo, dopo le
generali commendazioni, a speziali discendere. Sì come detto è di sopra, Filosofia per
subietto materiale qui ha la sapienza, e per forma ha amore, e per composto de l'uno e de
l'altro l'uso di speculazione. Onde in questo verso che seguentemente comincia: In lei
discende la virtù divina, io intendo commendare l'amore, che è parte de la
filosofia. Ove è da sapere che discender la virtude d'una cosa in altra non è altro che
ridurre quella in sua similitudine; sì come ne li agenti naturali vedemo manifestamente
che, discendendo la loro virtù ne le pazienti cose, recano quelle a loro similitudine
tanto quanto possibili sono a venire. Onde vedemo lo sole che, discendendo lo raggio suo
qua giù, reduce le cose a sua similitudine di lume, quanto esse per loro disposizione
possono da la [sua] virtude lume ricevere. Così dico che Dio questo amore a sua
similitudine reduce, quanto esso è possibile a lui assimigliarsi. E ponsi la qualitade de
la reduzione, dicendo: Sì come face in angelo che 'l vede. Ove ancora è da
sapere che lo primo agente, cioè Dio, pinge la sua virtù in cose per modo di diritto
raggio, e in cose per modo di splendore reverberato; onde ne le Intelligenze raggia la
divina luce sanza mezzo, ne l'altre si ripercuote da queste Intelligenze prima illuminate.
Ma però che qui è fatta menzione di luce e di splendore, a perfetto intendimento
mostrerò differenza di questi vocabuli, secondo che Avicenna sente. Dico che l'usanza de'
filosofi è di chiamare "luce" lo lume, in quanto esso è nel suo fontale
principio; di chiamare "raggio", in quanto esso è per lo mezzo, dal principio
al primo corpo dove si termina; di chiamare "splendore", in quanto esso è in
altra parte alluminata ripercosso. Dico adunque che la divina virtù sanza mezzo questo
amore tragge a sua similitudine. E ciò si può fare manifesto massimamente in ciò, che
sì come lo divino amore è tutto etterno, così conviene che sia etterno lo suo obietto
di necessitate, sì che etterne cose siano quelle che esso ama; e così face a questo
amore amare; ché la sapienza, ne la quale questo amore fere, etterna è. Ond'è scritto
di lei: "Dal principio dinanzi da li secoli creata sono, e nel secolo che dee venire
non verrò meno"; e ne li Proverbi di Salomone essa Sapienza dice:
"Etternalmente ordinata sono"; e nel principio di Giovanni, ne l'Evangelio, si
può la sua etternitade apertamente notare. E quinci nasce che là dovunque questo amore
splende, tutti li altri amori si fanno oscuri e quasi spenti, imperò che lo suo obietto
etterno improporzionalmente li altri obietti vince e soperchia. Per che li filosofi
eccellentissimi ne li loro atti apertamente lo ne dimostraro, per li quali sapemo essi
tutte l'altre cose, fuori che la sapienza, avere messe a non calere. Onde Democrito, de la
propria persona non curando, né barba né capelli né unghie si togliea; Platone, de li
beni temporali non curando, la reale dignitade mise a non calere, che figlio di re fue;
Aristotile, d'altro amico non curando, contra lo suo migliore amico, fuori di quella,
combatteo, sì come contra lo nomato Platone. E perché di questi parliamo, quando
troviamo li altri che per questi pensieri la loro vita disprezzaro, sì come Zeno,
Socrate, Seneca, e molti altri? E però è manifesto che la divina virtù, a guisa [che
in] angelo, in questo amore ne li uomini discende. E per dare esperienza di ciò, grida
sussequentemente lo testo: E qual donna gentil questo non crede, Vada con lei e miri.
Per donna gentile s'intende la nobile anima d'ingegno e libera ne la sua propia potestate,
che è la ragione. Onde l'altre anime dire non si possono donne, ma ancille, però che non
per loro sono ma per altrui; e lo Filosofo dice, nel secondo de la Metafisica, che quella
cosa è libera che per sua cagione è, non per altrui.
Dice: Vada con lei e miri li atti sui,
cioè accompagnisi di questo amore, e guardi a quello che dentro da lui troverà. E in
parte ne tocca, dicendo: Quivi dov'ella parla, si dichina, cioè, dove la
filosofia è in atto, si dichina un celestial pensiero, nel quale si ragiona questa essere
più che umana operazione: e dice "del cielo" a dare a intendere che non
solamente essa, ma li pensieri amici di quella sono astratti da le basse e terrene cose.
Poi sussequentemente dice com'ell'avvalora e accende amore dovunque ella si mostra, con la
suavitade de li atti, ché sono tutti li suoi sembianti onesti, dolci e sanza soverchio
alcuno. E sussequentemente, a maggiore persuasione de la sua compagnia fare, dice: Gentile
è in donna ciò che in lei si trova, E bello è tanto quanto lei simiglia. Ancora
soggiugne: E puossi dir che 'l suo aspetto giova: dove è da sapere che lo
sguardo di questa donna fu a noi così largamente ordinato, non pur per la faccia che ella
ne dimostra vedere, ma per le cose che ne tiene celate desiderare ed acquistare. Onde, sì
come per lei molto di quello si vede per ragione, e per consequente essere per ragione,
che sanza lei pare maraviglia, così per lei si crede [ch']ogni miracolo in più alto
intelletto puote avere ragione, e per consequente può essere. Onde la nostra buona fede
ha sua origine; da la quale viene la speranza, de lo proveduto desiderare; e per quella
nasce l'operazione de la caritade. Per le quali tre virtudi si sale a filosofare a quelle
Atene celestiali, dove gli Stoici e Peripatetici e Epicurii, per la l[uc]e de la veritade
etterna, in uno volere concordevolemente concorrono.
Capitolo XV
Ne
lo precedente capitolo questa gloriosa donna è commendata secondo l'una de le sue parti
componenti, cioè amore. Ora in questo, ne lo quale io intendo esponere quel verso che
comincia: Cose appariscon ne lo suo aspetto, si conviene trattare commendando
l'altra parte sua, cioè sapienza. Dice adunque lo testo "che ne la faccia di costei
appariscono cose che mostrano de' piaceri di Paradiso"; e distingue lo loco dove ciò
appare, cioè ne li occhi e ne lo riso. E qui si conviene sapere che li occhi de la
Sapienza sono le sue demonstrazioni, con le quali si vede la veritade certissimamente; e
lo suo riso sono le sue persuasioni, ne le quali si dimostra la luce interiore de la
Sapienza sotto alcuno velamento: e in queste due cose si sente quel piacere altissimo di
beatitudine, lo quale è massimo bene in Paradiso. Questo piacere in altra cosa di qua
giù essere non può, se non nel guardare in questi occhi e in questo riso. E la ragione
è questa: che, con ciò sia cosa che ciascuna cosa naturalmente disia la sua perfezione,
sanza quella essere non può [l'uomo] contento, che è essere beato; ché quantunque
l'altre cose avesse, sanza questa rimarrebbe in lui desiderio; lo quale essere non può
con la beatitudine, acciò che la beatitudine sia perfetta cosa e lo desiderio sia cosa
defettiva; ché nullo desidera quello che ha, ma quello che non ha, che è manifesto
difetto. E in questo sguardo solamente l'umana perfezione s'acquista, cioè la perfezione
de la ragione, de la quale, sì come di principalissima parte, tutta la nostra essenza
depende; e tutte l'altre nostre operazioni - sentire, nutrire, e tutto - sono per quella
sola, e questa è per sé, e non per altri; sì che, perfetta sia questa, perfetta è
quella, tanto cioè che l'uomo, in quanto ello è uomo, vede terminato ogni desiderio, e
così è beato. E però si dice nel libro di Sapienza: "Chi gitta via la sapienza e
la dottrina, è infelice": che è privazione de l'essere felice. Per l'abito de la
sapienza seguita che s'acquista e[ssere] felice - [che] è essere contento - secondo la
sentenza del Filosofo. Dunque si vede come ne l'aspetto di costei de le cose di Paradiso
appaiono. E però si legge nel libro allegato di Sapienza, di lei parlando: "Essa è
candore de la etterna luce e specchio sanza macula de la maestà di Dio".
Poi, quando si dice: Elle soverchian
lo nostro intelletto, escuso me di ciò, che poco parlar posso di quelle, per la loro
soperchianza. Dov'è da sapere che in alcuno modo queste cose nostro intelletto
abbagliano, in quanto certe cose [si] affermano essere che lo intelletto nostro guardare
non può, cioè Dio e la etternitate e la prima materia; che certissimamente si veggiono,
e con tutta fede si credono essere, e per quello che sono intendere noi non potemo; [e
nullo] se non cose negando si può appressare a la sua conoscenza, e non altrimenti.
Veramente può qui alcuno forte dubitare come ciò sia, che la sapienza possa fare l'uomo
beato, non potendo a lui perfettamente certe cose mostrare; con ciò sia cosa che 'l
naturale desiderio sia a l'uomo di sapere, e sanza compiere lo desiderio beato essere non
possa. A ciò si può chiaramente rispondere che lo desiderio naturale in ciascuna cosa è
misurato secondo la possibilitade de la cosa desiderante: altrimenti andrebbe in contrario
di se medesimo, che impossibile è; e la Natura l'avrebbe fatto indarno, che è anche
impossibile. In contrario andrebbe: ché, desiderando la sua perfezione, desiderrebbe la
sua imperfezione; imperò che desiderrebbe sé sempre desiderare e non compiere mai suo
desiderio (e in questo errore cade l'avaro maladetto, e non s'accorge che desidera sé
sempre desiderare, andando dietro al numero impossibile a giugnere). Avrebbelo anco la
Natura fatto indarno, però che non sarebbe ad alcuno fine ordinato. E però l'umano
desiderio è misurato in questa vita a quella scienza che qui avere si può, e quello
punto non passa se non per errore, lo quale è di fuori di naturale intenzione. E così è
misurato ne la natura angelica, e terminato in quanto [a] quella sapienza che la natura di
ciascuno può apprendere. E questa è la ragione per che li Santi non hanno tra loro
invidia, però che ciascuno aggiugne lo fine del suo desiderio, lo quale desiderio è con
la bontà de la natura misurato. Onde, con ciò sia cosa che conoscere di Dio e di certe
altre cose quello esse sono non sia possibile a la nostra natura, quello da noi
naturalmente non è desiderato di sapere. E per questo è la dubitazione soluta.
Poi quando dice: Sua bieltà piove
fiammelle di foco, discende ad un altro piacere di Paradiso, cioè de la felicitade
secondaria a questa prima, la quale de la sua biltade procede. Dove è da sapere che la
moralitade è bellezza de la filosofia; ché così come la bellezza del corpo resulta da
le membra in quanto sono debitamente ordinate, così la bellezza de la sapienza, che è
corpo di Filosofia come detto è, resulta da l'ordine de le virtudi morali, che fanno
quella piacere sensibilmente. E però dico che sua biltà, cioè moralitade, piove
fiammelle di foco, cioè appetito diritto, che s'ingenera nel piacere de la morale
dottrina: lo quale appetito ne diparte eziandio da li vizii naturali, non che da li altri.
E quinci nasce quella felicitade, la quale diffinisce Aristotile nel primo de l'Etica,
dicendo che è operazione secondo vertù in vita perfetta. E quando dice: Però qual
donna sente sua bieltate, procede in loda di costei, gridando a la gente che la
seguiti dicendo loro lo suo beneficio, cioè che per seguitare lei diviene ciascuno buono.
Però dice: qual donna, cioè quale anima, sente sua biltate biasimare per non
parere quale parere si conviene, miri in questo essemplo.
Ove è da sapere che li costumi sono
beltà de l'anima, cioè le vertudi massimamente, le quali tal volta per vanitadi o per
superbia si fanno men belle e men gradite, sì come ne l'ultimo trattato vedere si potrà.
E però dico che, a fuggire questo, si guardi in costei, cioè colà dov'ella è essemplo
d'umiltà; cioè in quella parte di sé che morale filosofia si chiama. E soggiungo che,
mirando costei - dico la sapienza - in questa parte, ogni viziato tornerà diritto e
buono; e però dico: Questa è colei ch'umilia ogni perverso, cioè volge
dolcemente chi fuori di debito ordine è piegato. Ultimamente, in massima laude di
sapienza, dico lei essere di tutto madre [e di moto] qualunque principio, dicendo che con
lei Iddio cominciò lo mondo e spezialmente lo movimento del cielo, lo quale tutte le cose
genera e dal quale ogni movimento è principiato e mosso, dicendo: Costei pensò chi
mosse l'universo. Ciò è a dire che nel divino pensiero, ch'è esso intelletto, essa
era quando lo mondo fece; onde seguita che ella lo facesse. E però disse Salomone in
quello de' Proverbi in persona de la Sapienza: "Quando Iddio apparecchiava li cieli,
io era presente; quando con certa legge e con certo giro vallava li abissi, quando suso
fermava [l'etera] e suspendeva le fonti de l'acque, quando circuiva lo suo termine al mare
e poneva legge a l'acque che non passassero li suoi confini, quando elli appendeva li
fondamenti de la terra, con lui e io era, disponente tutte le cose, e dilettavami per
ciascuno die".
O peggio che morti che l'amistà di
costei fuggite, aprite li occhi vostri e mirate: che, innanzi che voi foste, ella fu
amatrice di voi, acconciando e ordinando lo vostro processo; e, poi che fatti foste, per
voi dirizzare, in vostra similitudine venne a voi. E se tutti al suo conspetto venire non
potete, onorate lei ne' suoi amici e seguite li comandamenti loro, sì come [quelli] che
nunziano la volontà di questa etternale imperadrice - non chiudete li orecchi a Salomone
che ciò vi dice, dicendo che "la via de' giusti è quasi luce splendiente, che
procede e cresce infino al die de la beatitudine" -; andando loro dietro, mirando le
loro operazioni, che essere debbono a voi luce nel cammino di questa brevissima vita.
E qui si può terminare la vera sentenza
de la presente canzone. Veramente l'ultimo verso, che per tornata è posto, per la
litterale esposizione assai leggermente qua si può ridurre, salvo in tanto quanto dice
che io [s]ì chiamai questa donna fera e disdegnosa. Dove è da sapere che dal
principio essa filosofia pareva a me, quanto da la parte del suo corpo, cioè sapienza,
fiera, ché non mi ridea, in quanto le sue persuasioni ancora non intendea; e disdegnosa,
ché non mi volgea l'occhio, cioè ch'io non potea vedere le sue dimostrazioni: e di tutto
questo lo difetto era dal mio lato. E per questo, e per quello che ne la sentenza
litterale è dato, è manifesta l'allegoria de la tornata; sì che tempo è, per più
oltre procedere, di porre fine a questo trattato.
© 1999 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 14 giugno 1999