Dante Alighieri
Convivio
(trattato III, capp. V-IX)
TRATTATO III
Capitolo V
Quando,
ragionando per la prima parte, aperta è la sentenza di quella, procedere si conviene a la
seconda; de la quale per meglio vedere, tre parti se ne vogliono fare, secondo che in tre
versi si comprende: che ne la prima parte io commendo questa donna interamente e
comunemente, sì ne l'anima come nel corpo; ne la seconda discendo a laude speziale de
l'anima; ne la terza a laude speziale del corpo. La prima parte comincia: Non vede il
sol, che tutto 'l mondo gira; la seconda comincia: In lei discende la virtù
divina; la terza comincia: Cose appariscon ne lo suo aspetto; e queste parti
secondo ordine sono da ragionare.
Dice adunque: Non vede il sol, che
tutto il mondo gira; dove è da sapere, a perfetta intelligenza avere, come lo mondo
dal sole è girato. Prima dico che per lo mondo io non intendo qui tutto 'l corpo de
l'universo, ma solamente questa parte del mare e de la terra, seguendo la volgare voce,
ché così s'usa chiamare: onde dice alcuno, "quelli hae tutto lo mondo veduto",
dicendo parte del mare e della terra. Questo mondo volse Pittagora - e li suoi seguaci -
dicere che fosse una de le stelle e che un'altra a lei fosse opposita, così fatta, e
chiamava quella Anticthona; e dicea ch'erano ambe in una spera che si volvea da occidente
in oriente, e per questa revoluzione si girava lo sole intorno a noi, e ora si vedea e ora
non si vedea. E dicea che 'l fuoco era nel mezzo di queste, ponendo quello essere più
nobile corpo che l'acqua e che la terra, e ponendo lo mezzo nobilissimo intra li luoghi de
li quattro corpi simplici: e però dicea che 'l fuoco, quando parea salire, secondo lo
vero al mezzo discendea. Platone fu poi d'altra oppinione, e scrisse in uno suo libro che
si chiama Timeo, che la terra col mare era bene lo mezzo di tutto, ma che 'l suo tondo
tutto si girava a torno al suo centro, seguendo lo primo movimento del cielo; ma tarda
molto per la sua grossa matera e per la massima distanza da quello. Queste oppinioni sono
riprovate per false nel secondo De Celo et Mundo da quello glorioso filosofo al quale la
natura più aperse li suoi segreti; e per lui quivi è provato, questo mondo, cioè la
terra, stare in sé stabile e fissa in sempiterno. E le sue ragioni, che Aristotile dice a
rompere costoro e affermare la veritade, non è mia intenzione qui narrare, perché assai
basta a la gente a cu' io parlo, per la sua grande autoritade sapere che questa terra è
fissa e non si gira, e che essa col mare è centro del cielo.
Questo cielo si gira intorno a questo
centro continuamente, sì come noi vedemo; ne la cui girazione conviene di necessitade
essere due poli fermi, e uno cerchio equalmente distante da quelli, che massimamente giri.
Di questi due poli, l'uno è manifesto quasi a tutta la terra discoperta, cioè questo
settentrionale; l'altro è quasi a tutta la discoperta terra celato, cioè lo meridionale.
Lo cerchio che nel mezzo di questi s'intende, si è quella parte del cielo sotto la quale
si gira lo sole quando va con l'Ariete e con la Libra. Onde è da sapere, che se una
pietra potesse cadere da questo nostro polo, ella cadrebbe là oltre nel mare Oceano, a
punto in su quel dosso del mare dove, se fosse uno uomo, la stella [li] sarebbe sempre in
sul mezzo del capo; - e credo che da Roma a questo luogo, andando diritto per tramontana,
sia spazio quasi di dumila secento miglia, o poco dal più al meno -. Imaginando adunque,
per meglio vedere, in questo luogo ch'io dissi sia una cittade e abbia nome Maria, dico
ancora che se da l'altro polo, cioè meridionale, cadesse una pietra, ch'ella caderebbe in
su quel dosso del mare Oceano ch'è a punto in questa palla opposito a Maria; - e credo
che da Roma là dove caderebbe questa seconda pietra, diritto andando per lo mezzogiorno,
sia spazio di settemila cinquecento miglia, o poco dal più al meno -. E qui imaginiamo
un'altra cittade, che abbia nome Lucia - ed è spazio, da qualunque lato si tira la corda,
di diecimila dugento miglia -: èli, tra l'una e l'altra, mezzo lo cerchio di tutta questa
palla, sì che li cittadini di Maria tengono le piante contra le piante di quelli di
Lucia. Imaginisi anco uno cerchio in su questa palla, che sia in ciascuna parte sua tanto
lungi da Maria quanto da Lucia. Credo che questo cerchio - secondo ch'io comprendo per le
sentenze de li astrologi, e per quella d'Alberto de la Magna nel libro de la Natura de'
luoghi e de le proprietadi de li elementi, e anco per la testimonianza di Lucano nel nono
suo libro - dividerebbe questa terra discoperta dal mare Oceano, là nel mezzodie, quasi
per tutta l'estremità del primo climate, dove sono intra l'altre genti li Garamanti, che
stanno quasi sempre nudi; a li quali venne Catone col popolo di Roma, la segnoria di
Cesare fuggendo.
Segnati questi tre luoghi sopra questa
palla, leggiermente si può vedere come lo sole la gira. Dico adunque che 'l cielo del
sole si rivolge da occidente in oriente, non dirittamente contra lo movimento diurno,
cioè del die e de la notte, ma tortamente contra quello; sì che 'l suo mezzo cerchio,
che equalmente è 'ntra li suoi poli, nel quale è lo corpo del sole, sega in due parti
opposite lo [mezzo] cerchio de li due primi poli, cioè nel principio de l'Ariete e nel
principio de la Libra, e partesi per due archi da esso, uno ver settentrione e un altro
ver mezzogiorno. Li punti [di mezzo] de li quali archi si dilungano equalmente dal primo
cerchio, da ogni parte, per ventitrè gradi e uno punto più; e l'uno punto è lo
principio del Cancro, e l'altro è lo principio del Capricorno. Però conviene che Maria
veggia nel principio de l'Ariete, quando lo sole va sotto lo mezzo cerchio de li primi
poli, esso sole girar lo mondo intorno giù a la terra, o vero al mare, come una mola de
la quale non paia più che mezzo lo corpo suo; e questa veggia venire montando a guisa
d'una vite dintorno, tanto che compia novanta e una rota e poco più. E quando queste rote
sono compiute, lo suo montare è a Maria quasi tanto quanto esso monta a noi ne la mezza
terra, [quando] 'l giorno è de la mezza notte iguale; e se uno uomo fosse dritto in Maria
e sempre al sole volgesse lo viso, vederebbesi quello andare ver lo braccio destro. Poi
per la medesima via par discendere altre novanta e una rota e poco più, tanto ch'elli
gira intorno giù a la terra, o vero al mare, sé non tutto mostrando; e poi si cela, e
comincialo a vedere Lucia, lo quale montare e discendere intorno a sé allor vede con
altrettante rote quante vede Maria. E se uno uomo fosse in Lucia dritto, sempre che
volgesse la faccia in ver lo sole, vedrebbe quello andarsi nel braccio sinistro. Per che
si può vedere che questi luoghi hanno un dì l'anno di sei mesi; e una notte
d'altrettanto tempo; e quando l'uno ha lo giorno e l'altro ha la notte. Conviene anche che
lo cerchio dove sono li Garamanti, come detto è, in su questa palla, veggia lo sole a
punto sopra sé girare, non a modo di mola, ma di [rota]; la quale non può in alcuna
parte vedere se non mezza, quando va sotto l'Ariete. E poi lo vede partire da sé e venire
verso Maria novanta e uno die e poco più, e per altrettanti a sé tornare; e poi, quando
è tornato, va sotto la Libra, e anche si parte e va ver Lucia novanta e uno dì e poco
più, e in altrettanti ritorna. E questo luogo, lo quale tutta la palla cerchia, sempre ha
lo die iguale con la notte, o di qua o di là che 'l sole li vada; e due volte l'anno ha
la state grandissima di calore, e due piccioli verni.
Conviene anche che li due spazii, che
sono in mezzo de le due cittadi imaginate e lo [cerchio] del mezzo, veggiano lo sole
disvariatamente, secondo che sono remoti e propinqui questi luoghi; sì come omai, per
quello che detto è, puote vedere chi ha nobile ingegno, al quale è bello un poco di
fatica lasciare. Per che vedere omai si puote, che per lo divino provedimento lo mondo è
si ordinato che, volta la spera del sole e tornata a uno punto, questa palla dove noi
siamo in ciascuna parte di sé riceve tanto tempo di luce quanto di tenebre. O ineffabile
sapienza che così ordinasti, quanto è povera la nostra mente a te comprendere! E voi a
cui utilitade e diletto io scrivo, in quanta cechitade vivete, non levando li occhi suso a
queste cose, tenendoli fissi nel fango de la vostra stoltezza!
Capitolo VI
Nel precedente
capitolo è mostrato per che modo lo sole gira; sì che omai si puote procedere a
dimostrare la sentenza de la parte a la quale s'intende. Dico adunque che in questa parte
prima comincio a commendare questa donna per comparazione a l'altre cose; e dico che 'l
sole, girando lo mondo, non vede alcuna cosa così gentile come costei: per che segue che
questa sia, secondo le parole, gentilissima di tutte le cose che 'l sole allumina. E dice:
in quell'ora; onde è da sapere che "ora" per due modi si prende da li
astrologi. L'uno si è, che del die e de la notte fanno ventiquattr'ore, cioè dodici del
die e dodici de la notte, quanto che 'l die sia grande o picciolo; e queste ore si fanno
picciole e grandi nel dì e ne la notte, secondo che il dì e la notte cresce e menoma. E
queste ore usa la Chiesa, quando dice Prima, Terza, Sesta e Nona, e chiamansi ore
temporali. L'altro modo si è, che faccendo del dì e de la notte ventiquattr'ore, tal
volta ha lo die le quindici ore, e la notte le nove; tal volta ha la notte le sedici e lo
die le otto, secondo che cresce e menoma lo die e la notte: e chiamansi ore equali. E ne
lo equinozio sempre queste e quelle che temporali si chiamano sono una cosa; però che,
essendo lo dì equale de la notte, conviene così avvenire.
Poi quando dico: Ogni Intelletto di
là su la mira, commendo lei, non avendo rispetto ad altra cosa. E dico che le
Intelligenze del cielo la mirano, e che la gente di qua giù gentile pensano di costei,
quando più hanno di quello che loro diletta. E qui è da sapere che ciascuno Intelletto
di sopra, secondo ch'è scritto nel libro de le Cagioni, conosce quello che è sopra sé e
quello che è sotto sé. Conosce adunque Iddio sì come sua cagione, conosce quello che è
sotto sé sì come suo effetto; e però che Dio è universalissima cagione di tutte le
cose, conoscendo lui, tutte le cose conosce in sé, secondo lo modo de la Intelligenza.
Per che tutte le Intelligenze conoscono la forma umana in quanto ella è per intenzione
regolata ne la divina mente; e massimamente conoscono quella le Intelligenze motrici,
però che sono spezialissime cagioni di quella e d'ogni forma generata, e conoscono quella
perfettissima, tanto quanto essere puote, sì come loro regola ed essemplo. E se essa
umana forma, essemplata e individuata, non è perfetta, non è manco de lo detto essemplo,
ma de la materia la quale individua. Però quando dico: Ogni Intelletto di là su la
mira, non voglio altro dire se non ch'ella è così fatta come l'essemplo
intenzionale che de la umana essenzia è ne la divina mente e, per quella, in tutte
l'altre, massimamente in quelle menti angeliche che fabbricano col cielo queste cose di
qua giuso.
E a questo affermare, soggiungo quando
dico: E quella gente che qui s'innamora. Dove è da sapere che ciascuna cosa
massimamente desidera la sua perfezione, e in quella si queta ogni suo desiderio, e per
quella ogni cosa è desiderata: e questo è quello desiderio che sempre ne fa parere ogni
dilettazione manca; ché nulla dilettazione è si grande in questa vita che a l'anima
nostra possa torre la sete, che sempre lo desiderio che detto è non rimagna nel pensiero.
E però che questa è veramente quella perfezione, dico che quella gente che qua giù
maggiore diletto riceve quando più hanno di pace, allora rimane questa ne' loro pensieri,
per questa, dico, tanto essere perfetta quanto sommamente essere puote l'umana essenzia.
Poi quando dico: Suo esser tanto a Quei che lel dà piace, mostro che non
solamente questa donna è perfettissima ne la umana generazione, ma più che perfettissima
in quanto riceve de la divina bontade oltre lo debito umano. Onde ragionevolmente si puote
credere che, sì come ciascuno maestro ama più la sua opera ottima che l'altre, così Dio
ama più la persona umana ottima che tutte l'altre; e però che la sua larghezza non si
stringe da necessitade d'alcuno termine, non ha riguardo lo suo amore al debito di colui
che riceve, ma soperchia quello in dono e in beneficio di vertù e di grazia. Onde dico
qui che esso Dio, che dà l'essere a costei, per caritade de la sua perfezione infonde in
essa de la sua bontade oltre li termini del debito de la nostra natura.
Poi quando dico: La sua anima pura,
pruovo ciò che detto è per sensibile testimonianza. Ove è da sapere che, sì come dice
lo Filosofo nel secondo de l'Anima, l'anima è atto del corpo: e se ella è suo atto, è
sua cagione; e però che, sì come è scritto nel libro allegato de le Cagioni, ogni
cagione infonde nel suo effetto de la bontade che riceve da la cagione sua, infonde e
rende al corpo suo de la bontade de la cagione sua, ch'è Dio. Onde, con ciò sia cosa che
in costei si veggiano, quanto è da la parte del corpo, maravigliose cose, tanto che fanno
ogni guardatore disioso di quelle vedere, manifesto è che la sua forma, cioè la sua
anima, che lo conduce sì come cagione propria, riceva miracolosamente la graziosa bontade
di Dio. E così [si] pruova, per questa apparenza, che è oltre lo debito de la natura
nostra (la quale in lei è perfettissima come detto è di sopra) questa donna da Dio
beneficiata e fatta nobile cosa. E questa è tutta la sentenza litterale de la prima parte
de la seconda parte principale.
Capitolo VII
Commendata questa
donna comunemente, sì secondo l'anima come secondo lo corpo, io procedo a commendare lei
spezialmente secondo l'anima; e prima la commendo secondo che 'l suo bene è grande in
sé, poi la commendo secondo che 'l suo bene è grande in altrui e utile al mondo. E
comincia questa parte seconda quando dico: Di costei si può dire. Dunque dico
prima: In lei discende la virtù divina. Ove è da sapere che la divina bontade
in tutte le cose discende, e altrimenti essere non potrebbero; ma avvegna che questa
bontade si muova da simplicissimo principio, diversamente si riceve, secondo più e meno,
da le cose riceventi. Onde scritto è nel libro de le Cagioni: "La prima bontade
manda le sue bontadi sopra le cose con uno discorrimento". Veramente ciascuna cosa
riceve da quello discorrimento secondo lo modo de la sua vertù e de lo suo essere; e di
ciò sensibile essemplo avere potemo dal sole. Vedemo la luce del sole, la quale è una,
da uno fonte derivata, diversamente da le corpora essere ricevuta; sì come dice Alberto
in quello libro che fa de lo Intelletto. Ché certi corpi, per molta chiaritade di diafano
avere in sé mista, tosto che 'l sole li vede diventano tanto luminosi, che per
multiplicamento di luce in quelle e ne lo loro aspetto, rendono a li altri di sé grande
splendore, sì come è l'oro e alcuna pietra. Certi sono che, per esser del tutto diafani,
non solamente ricevono la luce, ma quella non impediscono, anzi rendono lei del loro
colore colorata ne l'altre cose. E certi sono tanto vincenti ne la purità del diafano,
che divengono sì raggianti, che vincono l'armonia de l'occhio, e non si lasciano vedere
sanza fatica del viso, sì come sono li specchi. Certi altri sono tanto sanza diafano, che
quasi poco de la luce ricevono, si com'è la terra. Così la bontà di Dio è ricevuta
altrimenti da le sustanze separate, cioè da li Angeli, che sono sanza grossezza di
materia, quasi diafani per la purità de la loro forma, e altrimenti da l'anima umana,
che, avvegna che da una parte sia da materia libera, da un'altra è impedita, sì come
l'uomo ch'è tutto ne l'acqua fuor del capo, del quale non si può dire che tutto sia ne
l'acqua né tutto fuor da quella; e altrimenti da li animali, la cui anima tutta in
materia è compresa, ma alquanto è nobilitata; e altrimenti da le piante, e altrimenti da
le minere; e altrimenti da la terra che da li altri [elementi], però che è
materialissima, e però remotissima e improporzionalissima a la prima simplicissima e
nobilissima vertude, che sola è intellettuale, cioè Dio.
E avvegna che posti siano qui gradi
generali, nondimeno si possono porre gradi singulari; cioè che quella riceve, de l'anime
umane, altrimenti una che un'altra. E però che ne l'ordine intellettuale de l'universo si
sale e discende per gradi quasi continui da la infima forma a l'altissima [e da
l'altissima] a la infima, sì come vedemo ne l'ordine sensibile; e tra l'angelica natura,
che è cosa intellettuale, e l'anima umana non sia grado alcuno, ma sia quasi l'uno a
l'altro continuo per li ordini de li gradi, e tra l'anima umana e l'anima più perfetta de
li bruti animali ancor mezzo alcuno non sia; e noi veggiamo molti uomini tanto vili e di
sì bassa condizione, che quasi non pare essere altro che bestia; e così è da porre e da
credere fermamente, che sia alcuno tanto nobile e di sì alta condizione che quasi non sia
altro che angelo: altrimenti non si continuerebbe l'umana spezie da ogni parte, che esser
non può. E questi cotali chiama Aristotile, nel settimo de l'Etica, divini; e cotale dico
io che è questa donna, sì che la divina virtude, a guisa che discende ne l'angelo,
discende in lei.
Poi quando dico: E qual donna gentil
questo non crede, pruovo questo per la esperienza che aver di lei si può in quelle
operazioni che sono proprie de l'anima razionale, dove la divina luce più espeditamente
raggia; cioè nel parlare e ne li atti che reggimenti e portamenti sogliono essere
chiamati. Onde è da sapere che solamente l'uomo intra li animali parla, e ha reggimenti e
atti che si dicono razionali però che solo elli ha in sé ragione. E se alcuno volesse
dire contra, dicendo che alcuno uccello parli, sì come pare di certi, massimamente de la
gazza e del pappagallo, e che alcuna bestia fa atti o vero reggimenti, sì come pare de la
scimia e d'alcuno altro, rispondo che non è vero che parlino né che abbiano reggimenti,
però che non hanno ragione, da la quale queste cose convegnono procedere; né è in loro
lo principio di queste operazioni, né conoscono che sia ciò, né intendono per quello
alcuna cosa significare, ma solo quello che veggiono e odono ripresentare. Onde, secondo
la imagine de le corpora in alcuno corpo lucido si ripresenta, sì come ne lo specchio, e
si la imagine corporale che lo specchio dimostra non è vera; così la imagine de la
ragione, cioè li atti e lo parlare [che] l'anima bruta ripresenta, o vero dimostra, non
è vera.
Dico che "qual donna gentile non
crede quello ch'io dico, che vada con lei, e miri li suoi atti" - non dico "qual
uomo", però che più onestamente [di donna] per le donne si prende esperienza che
per l'uomo -; e dico quello che di lei colei sentirà, dicendo quello che fa lo suo
parlare, e che fanno li suoi reggimenti. Ché il suo parlare, per l'altezza e per la
dolcezza sua, genera ne la mente di chi l'ode uno pensiero d'amore, lo quale io chiamo
spirito celestiale, però che là su è lo principio e di là su viene la sua sentenza,
sì come di sopra è narrato; del qual pensiero si procede in ferma oppinione che questa
sia miraculosa donna di vertude. E suoi atti, per la loro soavitade e per la loro misura,
fanno amore disvegliare e risentire là dovunque è de la sua potenza seminata per buona
natura. La quale natural semenza si fa come nel sequente trattato si mostra.
Poi quando dico: Di costei si può
dire, intendo narrare come la bontà e la vertù de la sua anima è a li altri buona
e utile. E prima, com'ella è utile a l'altre donne, dicendo: Gentile è in donna ciò
che in lei si trova, dove manifesto essemplo rendo a le donne, nel quale mirando
possano [sé] far parere gentili, quello seguitando. Secondamente narro come ella è utile
a tutte le genti, dicendo che l'aspetto suo aiuta la nostra fede, la quale più che tutte
l'altre cose è utile a tutta l'umana generazione, sì come quella per la quale campiamo
da etternale morte e acquistiamo etternale vita. E la nostra fede aiuta; però che, con
ciò sia cosa che principalissimo fondamento de la fede nostra siano miracoli fatti per
colui che fu crucifisso - lo quale creò la nostra ragione, e volle che fosse minore del
suo potere -, e fatti poi nel nome suo per li santi suoi; e molti siano sì ostinati che
di quelli miracoli per alcuna nebbia siano dubbiosi, e non possano credere miracolo alcuno
sanza visibilmente avere di ciò esperienza; e questa donna sia una cosa visibilmente
miraculosa, de la quale li occhi de li uomini cotidianamente possono esperienza avere, ed
a noi faccia possibili li altri; manifesto è che questa donna, col suo mirabile aspetto,
la nostra fede aiuta. E però ultimamente dico che da etterno, cioè
etternamente, fu ordinata ne la mente di Dio in testimonio de la fede a coloro
che in questo tempo vivono. E così termina la seconda parte [de la seconda parte],
secondo la litterale sentenza.
Capitolo VIII
Intra li effetti de la
divina sapienza l'uomo è mirabilissimo, considerato come in una forma la divina virtute
tre nature congiunse, e come sottilmente armoniato conviene esser lo corpo suo, a cotal
forma essendo organizzato per tutte quasi sue vertudi. Per che, per la molta concordia che
'ntra tanti organi conviene a bene rispondersi, pochi perfetti uomini in tanto numero
sono. E se così è mirabile questa creatura, certo non pur con le parole è da temere di
trattare di sue condizioni, ma eziandio col pensiero, secondo quelle parole de lo
Ecclesiastico: "La sapienza di Dio, precedente tutte le cose, chi cercava?", e
quelle altre dove dice: "Più alte cose di te non dimanderai e più forti cose di te
non cercherai; ma quelle cose che Dio ti comandò, pensa, e in più sue opere non sie
curioso", cioè sollicito. Io adunque, che in questa terza particola d'alcuna
condizione di cotal creatura parlare intendo, in quanto nel suo corpo, per bontade de
l'anima, sensibile bellezza appare, temorosamente non sicuro comincio, intendendo, e se
non a pieno, almeno alcuna cosa di tanto nodo disnodare. Dico adunque che, poi che aperta
è la sentenza di quella particola ne la quale questa donna è commendata da la parte de
l'anima, da procedere e da vedere è come, quando dico Cose appariscon ne lo suo
aspetto, io commendo lei da la parte del corpo. E dico che ne lo suo aspetto
appariscono cose le quali dimostrano de' piaceri [di Paradiso]. E intra li altri di quelli
lo più nobile e quello che è [inizio] e fine di tutti li altri, sì è contentarsi, e
questo si è essere beato; e questo piacere è veramente, avvegna che per altro modo, ne
l'aspetto di costei. Ché, guardando costei, la gente si contenta, tanto dolcemente ciba
la sua bellezza li occhi de' riguardatori; ma per altro modo che per lo contentare in
Paradiso [che] è perpetuo, ché non può ad alcuno essere questo.
E però che potrebbe alcuno aver
domandato dove questo mirabile piacere appare in costei, distinguo ne la sua persona due
parti, ne le quali l'umana piacenza e dispiacenza più appare. Onde è da sapere che in
qualunque parte l'anima più adopera del suo officio, che a quella più fissamente intende
ad adornare, e più sottilmente quivi adopera. Onde vedemo che ne la faccia de l'uomo, là
dove fa più del suo officio che in alcuna parte di fuori, tanto sottilmente intende, che,
per sottigliarsi quivi tanto quanto ne la sua materia puote, nullo viso ad altro viso è
simile; perché l'ultima potenza de la materia, la qual è in tutti quasi dissimile, quivi
si riduce in atto. E però che ne la faccia massimamente in due luoghi opera l'anima -
però che in quelli due luoghi quasi tutte e tre le nature de l'anima hanno giurisdizione
- cioè ne li occhi e ne la bocca, quelli massimamente adorna e quivi pone lo 'ntento
tutto a fare bello, se puote. E in questi due luoghi dico io che appariscono questi
piaceri dicendo: ne li occhi e nel suo dolce riso. Li quali due luoghi, per bella
similitudine, si possono appellare balconi de la donna che nel dificio del corpo abita,
cioè l'anima; però che quivi, avvegna che quasi velata, spesse volte si dimostra.
Dimostrasi ne li occhi tanto manifesta, che conoscer si può la sua presente passione, chi
bene là mira. Onde, con ciò sia cosa che sei passioni siano propie de l'anima umana, de
le quali fa menzione lo Filosofo ne la sua Rettorica, cioè grazia, zelo, misericordia,
invidia, amore e vergogna, di nulla di queste puote l'anima essere passionata che a la
finestra de li occhi non vegna la sembianza, se per grande vertù dentro non si chiude.
Onde alcuno già si trasse li occhi, perché la vergogna d'entro non paresse di fuori; sì
come dice Stazio poeta del tebano Edipo, quando dice che "con etterna notte solvette
lo suo dannato pudore". Dimostrasi ne la bocca, quasi come colore dopo vetro. E che
è ridere se non una corruscazione de la dilettazione de l'anima, cioè uno lume apparente
di fuori secondo sta dentro? E però si conviene a l'uomo, a dimostrare la sua anima ne
l'allegrezza moderata, moderatamente ridere, con onesta severitade e con poco movimento de
la sua [f]accia; sì che donna, che allora si dimostra come detto è, paia modesta e non
dissoluta. Onde ciò fare ne comanda lo Libro de le quattro vertù cardinali: "Lo tuo
riso sia sanza cachinno", cioè sanza schiamazzare come gallina. Ahi mirabile riso de
la mia donna, di cui io parlo, che mai non si sentia se non de l'occhio!
E dico che Amore le reca queste cose
quivi, sì come a luogo suo; dove si può amore doppiamente considerare. Prima l'amore de
l'anima, speziale a questi luoghi; secondamente l'amore universale che le cose dispone ad
amare e ad essere amate, che ordina l'anima ad adornare queste parti. Poi quando dico: Elle
soverchian lo nostro intelletto, escuso me di ciò, che di tanta eccellenza di
biltade poco pare che io tratti sovrastando a quella; e dico che poco ne dico per due
ragioni. L'una si è che queste cose che paiono nel suo aspetto soverchiano lo 'ntelletto
nostro, cioè umano: e dico come questo soverchiare è fatto, che è fatto per lo modo che
soverchia lo sole lo fragile viso, non pur lo sano e forte; l'altra si è che fissamente
in ess[e] guardare non può, perché quivi s'inebria l'anima, sì che incontanente, dopo
di sguardare, disvia in ciascuna sua operazione.
Poi quando dico: Sua bieltà piove
fiammelle di foco, ricorro a ritrattare del suo effetto, poi che di lei trattare
interamente non si può. Onde è da sapere che di tutte quelle cose che lo 'ntelletto
nostro vincono, sì che non può vedere quello che sono, convenevolissimo trattare è per
li loro effetti: onde di Dio, e de le sustanze separate, e de la prima materia, così
trattando, potemo avere alcuna conoscenza. E però dico che la biltade di quella piove
fiammelle di foco, cioè ardore d'amore e di caritade; animate d'un spirito
gentile, cioè informato ardore d'un gentile spirito, cioè diritto appetito, per lo
quale e del quale nasce origine di buono pensiero. E non solamente fa questo, ma disfà e
distrugge lo suo contrario - de li buoni pensieri -, cioè li vizii innati, li quali
massimamente sono di buoni pensieri nemici. E qui è da sapere che certi vizii sono ne
l'uomo a li quali naturalmente elli è disposto - sì come certi per complessione
collerica sono ad ira disposti -, e questi cotali vizii sono innati, cioè connaturali.
Altri sono vizii consuetudinarii, a li quali non ha colpa la complessione ma la
consuetudine, sì come la intemperanza, e massimamente del vino: e questi vizii si fuggono
e si vincono per buona consuetudine, e fassi l'uomo per essa virtuoso, sanza fatica avere
ne la sua moderazione, sì come dice lo Filosofo nel secondo de l'Etica. Veramente questa
differenza è intra le passioni connaturali e le consuetudinarie, che le consuetudinarie
per buona consuetudine del tutto vanno via; però che lo principio loro, cioè la mala
consuetudine, per lo suo contrario si corrompe; ma le connaturali, lo principio de le
quali è la natura del passionato, tutto che molto per buona consuetudine si facciano
lievi, del tutto non se ne vanno quanto al primo movimento, ma vannosene bene del tutto
quanto a durazione; però che la consuetudine non è equabile a la natura, ne la quale è
lo principio di quelle. E però è più laudabile l'uomo che dirizza sé e regge sé mal
naturato contra l'impeto de la natura, che colui che ben naturato si sostiene in buono
reggimento o disviato si rinvia; sì come è più laudabile uno mal cavallo reggere che un
altro non reo. Dico adunque che queste fiammelle che piovono da la sua biltade, come detto
è, rompono li vizii innati, cioè connaturali, a dare a intendere che la sua bellezza ha
podestade in rinnovare natura in coloro che la mirano; ch'è miracolosa cosa. E questo
conferma quello che detto è di sopra ne l'altro capitolo, quando dico ch'ella è
aiutatrice de la fede nostra.
Ultimamente quando dico: Però qual
donna sente sua bieltate, conchiudo, sotto colore d'ammonire altrui, lo fine a che
fatta fue tanta biltade; e dico che qual donna sente per manco la sua biltade biasimare,
guardi in questo perfettissimo essemplo. Dove s'intende che non pur a migliorare lo bene
è fatta, ma eziandio a fare de la mala cosa buona cosa. E soggiugne in fine: Costei
pensò chi mosse l'universo, cioè Dio, per dare a intendere che per divino
proponimento la natura cotale effetto produsse. E così termina tutta la seconda parte
principale di questa canzone.
Capitolo IX
L'ordine del
presente trattato richiede - poi che le due parti di questa canzone per me sono, secondo
che fu la mia intenzione, ragionate - che a la terza si proceda, ne la quale io intendo
purgare la canzone da una riprensione, la quale a lei potrebbe essere istata contraria, e
a questo che [io parlo. Ché] io, prima che a la sua composizione venisse, parendo a me
questa donna fatta contra me fiera e superba alquanto, feci una ballatetta ne la quale
chiamai questa donna orgogliosa e dispietata: che pare esser contra quello che qui si
ragiona di sopra. E però mi volgo a la canzone, e sotto colore d'insegnare a lei come
scusare la conviene, scuso quella: ed è una figura questa, quando a le cose inanimate si
parla, che si chiama da li rettorici prosopopeia; e usanla molto spesso li poeti. [E
comincia questa parte terza:] Canzone, e' par che tu parli contraro. Lo
'ntelletto de la quale a più agevolmente dare a intendere, mi conviene in tre particole
dividere: che prima si propone a che la scusa fa mestiere; poi si produce con la scusa,
quando dico: Tu sai che 'l cielo; ultimamente parlo a la canzone sì come a
persona ammaestrata di quello che dee fare, quando dico: Così ti scusa, se ti fa
mestero.
Dico dunque in prima: "O canzone,
che parli di questa donna cotanta loda, e' par che tu sii contraria ad una tua
sorella". Per similitudine dico "sorella"; ché sì come sorella è detta
quella femmina che da uno medesimo generante è generata, così puote l'uomo dire
"sorella" de l'opera che da uno medesimo operante è operata; ché la nostra
operazione in alcuno modo è generazione. E dico che par che parli contrara a quella,
dicendo: tu fai costei umile, e quella la fa superba, cioè fera e disdegnosa,
che tanto vale. Proposta questa accusa, procedo a la scusa per essemplo, ne lo quale,
alcuna volta, la veritade si discorda da l'apparenza, e, altra, per diverso rispetto si
puote tra[nsmu]tare. Dico: Tu sai che 'l ciel sempr'è lucente e chiaro, cioè
sempr'è con chiaritade; ma per alcuna cagione alcuna volta è licito di dire quello
essere tenebroso. Dove è da sapere che, propriamente, è visibile lo colore e la luce,
sì come Aristotile vuole nel secondo de l'Anima, e nel libro del Senso e Sensato. Ben è
altra cosa visibile, ma non propriamente, però che [anche] altro senso sente quello, si
che non si può dire che sia propriamente visibile, né propriamente tangibile; sì come
è la figura, la grandezza, lo numero, lo movimento e lo stare fermo, che sensibili
[comuni] si chiamano: le quali cose con più sensi comprendiamo. Ma lo colore e la luce
sono propriamente; perché solo col viso comprendiamo ciò, e non con altro senso. Queste
cose visibili, sì le proprie come le comuni in quanto sono visibili, vengono dentro a
l'occhio - non dico le cose, ma le forme loro - per lo mezzo diafano, non realmente ma
intenzionalmente, sì quasi come in vetro transparente. E ne l'acqua ch'è ne la pupilla
de l'occhio, questo discorso, che fa la forma visibile per lo mezzo, sì si compie,
perché quell'acqua è terminata - quasi come specchio, che è vetro terminato con piombo
-, sì che passar più non può, ma quivi, a modo d'una palla, percossa si ferma; sì che
la forma, che nel mezzo transparente non pare, [ne l'acqua pare] lucida e terminata. E
questo è quello per che nel vetro piombato la imagine appare, e non in altro. Di questa
pupilla lo spirito visivo, che si continua da essa, a la parte del cerebro dinanzi, dov'è
la sensibile virtude sì come in principio fontale, subitamente sanza tempo la ripresenta,
e cosa vedemo. Per che, acciò che la visione sia verace, cioè cotale qual è la cosa
visibile in sé, conviene che lo mezzo per lo quale a l'occhio viene la forma sia sanza
ogni colore, e l'acqua de la pupilla similemente: altrimenti si macolerebbe la forma
visibile del color del mezzo e di quello de la pupilla. E però coloro che vogliono far
parere le cose ne lo specchio d'alcuno colore, interpongono di quello colore tra 'l vetro
e 'l piombo, sì che 'l vetro ne rimane compreso. Veramente Plato e altri filosofi dissero
che 'l nostro vedere non era perché lo visibile venisse a l'occhio, ma perché la virtù
visiva andava fuori al visibile: e questa oppinione è riprovata per falsa dal Filosofo in
quello del Senso e Sensato.
Veduto questo modo de la vista, vedere si
può leggermente che, avvegna che la stella sempre sia d'un modo chiara e lucente, e non
riceva mutazione alcuna se non di movimento locale, sì come in quello De Celo et Mundo è
provato, per più cagioni puote parere non chiara e non lucente. Però puote parere così
per lo mezzo che continuamente si transmuta. Transmutasi questo mezzo di molta luce in
poca luce, sì come a la presenza del sole e a la sua assenza; e a la presenza lo mezzo,
che è diafano, è tanto pieno di lume che è vincente de la stella, e però [non] pare
più lucente. Transmutasi anche questo mezzo di sottile in grosso, di secco in umido, per
li vapori de la terra che continuamente salgono: lo quale mezzo, così transmutato,
transmuta la immagine de la stella che viene per esso, per la grossezza in oscuritade, e
per l'umido e per lo secco in colore. Però puote anche parere così per l'organo visivo,
cioè l'occhio, lo quale per infertade e per fatica si transmuta in alcuno coloramento e
in alcuna debilitade; sì come avviene molte volte che per essere la tunica de la pupilla
sanguinosa molto, per alcuna corruzione d'infertade, le cose paiono quasi tutte rubicunde,
e però la stella ne pare colorata. E per essere lo viso debilitato, incontra in esso
alcuna disgregazione di spirito, sì che le cose non paiono unite ma disgregate, quasi a
guisa che fa la nostra lettera in su la carta umida: e questo è quello per che molti,
quando vogliono leggere, si dilungano le scritture da li occhi, perché la imagine loro
vegna dentro più lievemente e più sottile; e in ciò più rimane la lettera discreta ne
la vista. E però puote anche la stella parere turbata: e io fui esperto di questo l'anno
medesimo che nacque questa canzone, che per affaticare lo viso molto, a studio di leggere,
in tanto debilitai li spiriti visivi che le stelle mi pareano tutte d'alcuno albore
ombrate. E per lunga riposanza in luoghi oscuri e freddi, e con affreddare lo corpo de
l'occhio con l'acqua chiara, riuni' sì la vertù disgregata che tornai nel primo buono
stato de la vista. E così appaiono molte cagioni, per le ragioni notate, per che la
stella puote parere non com'ella è.
© 1999 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 14 giugno 1999