Dante Alighieri
Convivio
(trattato III, capp. I-IV)
TRATTATO III
Canzone |
Amor che ne la mente
mi ragiona De la mia donna disiosamente, Move cose di lei meco sovente, Che lo 'ntelletto sovr'esse disvia. Lo suo parlar sì dolcemente sona, Che l'anima ch'ascolta e che lo sente Dice: "Oh me lassa! ch'io non son possente Di dir quel ch'odo de la donna mia! E certo e' mi conven lasciare in pria,
S'io vo' trattar di quel ch'odo di lei, Non vede il sol, che tutto 'l
mondo gira, Che 'nfonde sempre in lei la
sua vertute Sì come face in angelo che 'l
vede; In quella voce che lo fa sentire. Dico ne li occhi e nel suo dolce
riso, E rompon come trono Che questa donna che tanto umil
fai Ché l'anima temea, |
Capitolo I
Così come nel
precedente trattato si ragiona, lo mio secondo amore prese cominciamento da la
misericordiosa sembianza d'una donna. Lo quale amore poi, trovando la mia disposta vita al
suo ardore, a guisa di fuoco, di picciolo in grande fiamma s'accese; sì che non solamente
vegghiando, ma dormendo, lume di costei ne la mia testa era guidato. E quanto fosse grande
lo desiderio che Amore di vedere costei mi dava, né dire né intendere si potrebbe. E non
solamente di lei era così disidiroso, ma di tutte quelle persone che alcuna prossimitade
avessero a lei, o per familiaritade o per parentela alcuna. Oh quante notti furono, che li
occhi de l'altre persone chiusi dormendo si posavano, che li miei ne lo abitaculo del mio
amore fisamente miravano! E sì come lo multiplicato incendio pur vuole di fuori
mostrarsi, che stare ascoso è impossibile, volontade mi giunse di parlare d'amore, l[a]
quale del tutto tenere non potea. E avvegna che poca podestade io potesse avere di mio
consiglio, pure in tanto, o per volere d'Amore o per mia prontezza, ad esso m'accostai per
più fiate, che io deliberai e vidi che, d'amor parlando, più bello né più profittabile
sermone non era che quello nel quale si commendava la persona che s'amava.
E a questo deliberamento tre ragioni
m'informaro: de le quali l'una fu lo proprio amore di me medesimo, lo quale è principio
di tutti li altri, sì come vede ciascuno. Ché più licito né più cortese modo di fare
a se medesimo altri onore non è, che onorare l'amico. Ché con ciò sia cosa che intra
dissimili amistà essere non possa, dovunque amistà si vede similitudine s'intende; e
dovunque similitudine s'intende corre comune la loda e lo vituperio. E di questa ragione
due grandi ammaestramenti si possono intendere: l'uno si è di non volere che alcuno
vizioso si mostri amico, perché in ciò si prende oppinione non buona di colui cui amico
si fa; l'altro sì è, che nessuno dee l'amico suo biasimare palesemente, però che a se
medesimo dà del dito ne l'occhio, se ben si mira la predetta ragione. La seconda ragione
fu lo desiderio de la durazione di questa amistade. Onde è da sapere che, sì come dice
lo Filosofo nel nono de l'Etica, ne l'amistade de le persone dissimili di stato conviene,
a conservazione di quella, una proporzione essere intra loro che la dissimilitudine a
similitudine quasi reduca. Sì com'è intra lo signore e lo servo: ché, avvegna che lo
servo non possa simile beneficio rendere a lo signore quando da lui è beneficiato, dee
però rendere quello che migliore può con tanta sollicitudine di prontezza, che quello
che è dissimile per sé si faccia simile per lo mostramento de la buona volontade; la
quale manifesta, l'amistade si ferma e si conserva. Per che io, considerando me minore che
questa donna, e veggendo me beneficiato da lei, [proposi] di lei commendare secondo la mia
facultade, la quale, se non simile è per sé, almeno la pronta volontade mostra; ché, se
più potesse, più farei: e così si fa simile a quella di questa gentil donna. La terza
ragione fu uno argomento di provedenza; ché, sì come dice Boezio, "non basta di
guardare pur quello che è dinanzi a li occhi", cioè lo presente, e però n'è data
la provedenza che riguarda oltre, a quello che può avvenire. Dico che pensai che da
molti, di retro da me, forse sarei stato ripreso di levezza d'animo, udendo me essere dal
primo amore mutato; per che, a torre via questa riprensione, nullo migliore argomento era
che dire quale era quella donna che m'avea mutato. Ché, per la sua eccellenza manifesta,
avere si può considerazione de la sua virtude; e per lo 'ntendimento de la sua
grandissima virtù si può pensare ogni stabilitade d'animo essere a quella mutabile e
però me non giudicare lieve e non stabile. Impresi dunque a lodare questa donna, e se non
come si convenisse, almeno innanzi quanto io potesse; e cominciai a dire: Amor che ne
la mente mi ragiona.
Questa canzone principalmente ha tre
parti. La prima è tutto lo primo verso, nel quale proemialmente si parla. La seconda sono
tutti e tre li versi seguenti, ne li quali si tratta quello che dire s'intende, cioè la
loda di questa gentile; lo primo de li quali comincia: Non vede il sol, che tutto 'l
mondo gira. La terza parte è lo quinto e l'ultimo verso, nel quale, dirizzando le
parole a la canzone, purgo lei d'alcuna dubitanza. E di queste tre parti per ordine è da
ragionare.
Capitolo II
Faccendomi
dunque da la prima parte, che proemio di questa canzone fu ordinata, dico che dividere in
tre parti si conviene. Che prima si tocca la ineffabile condizione di questo tema;
secondamente si narra la mia insufficienza a questo perfettamente trattare: e comincia
questa seconda parte: E certo e' mi convien lasciare in pria; ultimamente mi
scuso da insufficienza, ne la quale non si dee porre a me colpa: e questo comincio quando
dico: Però, se le mie rime avran difetto.
Dice adunque: Amor che ne la mente mi
ragiona; dove principalmente è da vedere chi è questo ragionatore, e che è questo
loco nel quale dico esso ragionare. Amore, veramente pigliando e sottilmente considerando,
non è altro che unimento spirituale de l'anima e de la cosa amata; nel quale unimento di
propia sua natura l'anima corre tosto e tardi, secondo che è libera o impedita. E la
ragione di questa naturalitade può essere questa. Ciascuna forma sustanziale procede da
la sua prima cagione, la quale è Iddio, sì come nel libro Di Cagioni è scritto, e non
ricevono diversitade per quella, che è semplicissima, ma per le secondarie cagioni e per
la materia in che discende. Onde nel medesimo libro si scrive, trattando de la infusione
de la bontà divina: "E fanno[si] diverse le bontadi e li doni per lo concorrimento
de la cosa che riceve". Onde, con ciò sia cosa che ciascuno effetto ritegna de la
natura de la sua cagione - sì come dice Alpetragio quando afferma che quello che è
causato da corpo circulare ne ha in alcuno modo circulare essere -, ciascuna forma ha
essere de la divina natura in alcun modo: non che la divina natura sia divisa e comunicata
in quelle, ma da quelle è participata per lo modo quasi che la natura del sole è
participata ne l'altre stelle. E quanto la forma è più nobile, tanto più di questa
natura tiene; onde l'anima umana, che è forma nobilissima di queste che sotto lo cielo
sono generate, più riceve de la natura divina che alcun'altra. E però che naturalissimo
è in Dio volere essere - però che, sì come ne lo allegato libro si legge, "prima
cosa è l'essere, e anzi a quello nulla è" -, l'anima umana essere vuole
naturalmente con tutto desiderio; e però che 'l suo essere dipende da Dio e per quello si
conserva, naturalmente disia e vuole essere a Dio unita per lo suo essere fortificare. E
però che ne le bontadi de la natura [e] de la ragione si mostra la divina, viene che
naturalmente l'anima umana con quelle per via spirituale si unisce, tanto più tosto e
più forte quanto quelle più appaiono perfette: lo quale apparimento è fatto secondo che
la conoscenza de l'anima è chiara o impedita. E questo unire è quello che noi dicemo
amore, per lo quale si può conoscere quale è dentro l'anima, veggendo di fuori quelli
che ama. Questo amore, cioè l'unimento de la mia anima con questa gentil donna, ne la
quale de la divina luce assai mi si mostrava, è quello ragionatore del quale io dico; poi
che da lui continui pensieri nasceano, miranti e esaminanti lo valore di questa donna che
spiritualmente fatta era con la mia anima una cosa.
Lo loco nel quale dico esso ragionare sì
è la mente; ma per dire che sia la mente, non si prende di ciò più intendimento che di
prima, e però è da vedere che questa mente propriamente significa. Dico adunque che lo
Filosofo nel secondo de l'Anima, partendo le potenze di quella, dice che l'anima
principalmente hae tre potenze, cioè vivere, sentire e ragionare: e dice anche muovere;
ma questa si può col sentire fare una, però che ogni anima che sente, o con tutti i
sensi o con alcuno solo, si muove; sì che muovere è una potenza congiunta col sentire. E
secondo che esso dice, è manifestissimo che queste potenze sono intra sé per modo che
l'una è fondamento de l'altra; e quella che è fondamento puote per sé essere partita,
ma l'altra, che si fonda sopra essa, non può da quella essere partita. Onde la potenza
vegetativa, per la quale si vive, è fondamento sopra 'l quale si sente, cioè vede, ode,
gusta, odora e tocca; e questa vegetativa potenza per sé puote essere anima, sì come
vedemo ne le piante tutte. La sensitiva sanza quella essere non puote, e non si truova in
alcuna cosa che non viva; e questa sensitiva potenza è fondamento de la intellettiva,
cioè de la ragione: e però ne le cose animate mortali la ragionativa potenza sanza la
sensitiva non si truova, ma la sensitiva si truova sanza questa, sì come ne le bestie, ne
li uccelli, ne' pesci e in ogni animale bruto vedemo. E quella anima che tutte queste
potenze comprende, [e] è perfettissima di tutte l'altre, è l'anima umana, la quale con
la nobilitade de la potenza ultima, cioè ragione, participa de la divina natura a guisa
di sempiterna intelligenzia; però che l'anima è tanto in quella sovrana potenza
nobilitata e dinudata da materia, che la divina luce, come in angelo, raggia in quella: e
però è l'uomo divino animale da li filosofi chiamato. In questa nobilissima parte de
l'anima sono più vertudi, sì come dice lo Filosofo massimamente nel sesto de l'[Etica];
dove dice che in essa è una vertù che si chiama scientifica, e una che si chiama
ragionativa, o vero consigliativa: e con quest[e] sono certe vertudi - sì come in quello
medesimo luogo Aristotile dice - sì come la vertù inventiva e giudicativa. E tutte
queste nobilissime vertudi, e l'altre che sono in quella eccellentissima potenza, sì
chiama insieme con questo vocabulo del quale si volea sapere che fosse, cioè mente. Per
che è manifesto che per mente s'intende questa ultima e nobilissima parte de l'anima.
E che ciò fosse lo 'ntendimento, si
vede: ché solamente de l'uomo e de le divine sustanze questa mente si predica, sì come
per Boezio si puote apertamente vedere, che prima la predica de li uomini, ove dice a la
Filosofia: "Tu e Dio, che ne la mente te de li uomini mise"; poi la predica di
Dio, quando dice a Dio: "Tutte le cose produci da lo superno essemplo, tu,
bellissimo, bello mondo ne la mente portante". Né mai d'animale bruto predicata fue,
anzi di molti uomini, che de la parte perfettissima paiono defettivi, non pare potersi né
doversi predicare; e però quelli cotali sono chiamati ne la gramatica "amenti"
e "dementi", cioè sanza mente. Onde si puote omai vedere che è mente: che è
quella fine e preziosissima parte de l'anima che è deitade. E questo è il luogo dove
dico che Amore mi ragiona de la mia donna.
Capitolo III
Non sanza cagione
dico che questo amore ne la mente mia fa la sua operazione; ma ragionevolemente ciò si
dice, a dare a intendere quale amore è questo, per lo loco nel quale adopera. Onde è da
sapere che ciascuna cosa, come detto è di sopra, per la ragione di sopra mostrata ha 'l
suo speziale amore. Come le corpora simplici hanno amore naturato in sé a lo luogo
proprio, e però la terra sempre discende al centro; lo fuoco ha [amore a] la
circunferenza di sopra, lungo lo cielo de la luna, e però sempre sale a quello. Le
corpora composte prima, sì come sono le minere, hanno amore a lo luogo dove la loro
generazione è ordinata, e in quello crescono e acquistano vigore e potenza; onde vedemo
la calamita sempre da la parte de la sua generazione ricevere vertù. Le piante, che sono
prima animate, hanno amore a certo luogo più manifestamente, secondo che la complessione
richiede; e però vedemo certe piante lungo l'acque quasi can[s]arsi, e certe sopra li
gioghi de le montagne, e certe ne le piagge e dappiè monti: le quali se si transmutano, o
muoiono del tutto o vivono quasi triste, sì come cose disgiunte dal loro amico. Li
animali bruti hanno più manifesto amore non solamente a li luoghi, ma l'uno l'altro
vedemo amare. Li uomini hanno loro proprio amore a le perfette e oneste cose. E però che
l'uomo, avvegna che una sola sustanza sia tutta [sua] forma, per la sua nobilitade ha in
sé natura di tutte queste cose, tutti questi amori puote avere e tutti li ha.
Ché per la natura del simplice corpo,
che ne lo subietto signoreggia, naturalmente ama l'andare in giuso; e però quando in su
muove lo suo corpo, più s'affatica. Per la natura seconda, del corpo misto, ama lo luogo
de la sua generazione, e ancora lo tempo; e però ciascuno naturalmente è di più
virtuoso corpo ne lo luogo dove è generato e nel tempo de la sua generazione che in
altro. Onde si legge ne le storie d'Ercule, e ne l'Ovidio Maggiore e in Lucano e in altri
poeti, che combattendo con lo gigante che si chiamava Anteo, tutte volte che lo gigante
era stanco, e elli ponea lo suo corpo sopra la terra disteso o per sua volontà o per
forza d'Ercule, forza e vigore interamente de la terra in lui resurgea, ne la quale e de
la quale era esso generato. Di che accorgendosi Ercule, a la fine prese lui; e stringendo
quello e levatolo da la terra, tanto lo tenne sanza lasciarlo a la terra ricongiugnere,
che lo vinse per soperchio e uccise. E questa battaglia fu in Africa, secondo le
testimonianze de le scritture.
E per la natura terza, cioè de le
piante, ha l'uomo amore a certo cibo, non in quanto è sensibile, ma in quanto è
notribile, e quello cotale cibo fa l'opera di questa natura perfettissima, e l'altro non
così, ma falla imperfetta. E però vedemo certo cibo fare li uomini formosi e membruti e
bene vivacemente colorati, e certi fare lo contrario di questo. E per la natura quarta, de
li animali, cioè sensitiva, hae l'uomo altro amore, per lo quale ama secondo la sensibile
apparenza, sì come bestia; e questo amore ne l'uomo massimamente ha mestiere di rettore
per la sua soperchievole operazione, ne lo diletto massimamente del gusto e del tatto. E
per la quinta e ultima natura, cioè vera umana o, meglio dicendo, angelica, cioè
razionale, ha l'uomo amore a la veritade e a la vertude; e da questo amore nasce la vera e
perfetta amistade, de l'onesto tratta, de la quale parla lo Filosofo ne l'ottavo de
l'Etica, quando tratta de l'amistade.
Onde, acciò che questa natura si chiama
mente, come di sopra è mostrato, dissi "Amore ragionare ne la mente", per dare
ad intendere che questo amore era quello che in quella nobilissima natura nasce, cioè di
veritade e di vertude, e per ischiudere ogni falsa oppinione da me, per la quale fosse
sospicato lo mio amore essere per sensibile dilettazione. Dico poi disiosamente,
a dare ad intendere la sua continuanza e lo suo fervore. E dico "move sovente cose
che fanno disviare lo 'ntelletto". E veramente dico; però che li miei pensieri, di
costei ragionando, molte fiate voleano cose conchiudere di lei che io non le potea
intendere, e smarrivami, sì che quasi parea di fuori alienato: come chi guarda col viso
con[tra] una retta linea, prima vede le cose prossime chiaramente; poi, procedendo, meno
le vede chiare; poi, più oltre, dubita; poi, massimamente oltre procedendo, lo viso
disgiunto nulla vede.
E quest'è l'una ineffabilitade di quello
che io per tema ho preso; e consequentemente narro l'altra, quando dico: Lo suo
parlare. E dico che li miei pensieri - che sono parlare d'Amore - "sonan sì
dolci", che la mia anima, cioè lo mio affetto, arde di potere ciò con la lingua
narrare; e perché dire nol posso, dico che l'anima se ne lamenta dicendo: lassa!
ch'io non son possente. E questa è l'altra ineffabilitade; cioè che la lingua non
è di quello che lo 'ntelletto vede compiutamente seguace. E dico l'anima ch'ascolta e
che lo sente: "ascoltare", quanto a le parole, e "sentire",
quanto a la dolcezza del suono.
Capitolo IV
Quando ragionate
sono le due ineffabilitadi di questa matera, conviensi procedere a ragionare le parole che
narrano la mia insufficienza. Dico adunque che la mia insufficienza procede doppiamente,
sì come doppiamente trascende l'altezza di costei, per lo modo che detto è. Ché a me
conviene lasciare per povertà d'intelletto molto di quello che è vero di lei, e che
quasi ne la mia mente raggia, la quale come corpo diafano riceve quello, non terminando: e
questo dico in quella seguente particula: E certo e' mi conven lasciare in pria.
Poi quando dico: E di quel che s'intende, dico che non pur a quello che lo mio
intelletto non sostiene, ma eziandio a quello che io intendo sufficiente [non sono], però
che la lingua mia non è di tanta facundia che dire potesse ciò che nel pensiero mio se
ne ragiona; per che è da vedere che, a rispetto de la veritade, poco fia quello che
dirà. E ciò risulta in grande loda di costei, se bene si guarda, ne la quale
principalmente s'intende; e quella orazione si può dir bene che vegna da la fabrica del
rettorico, ne la quale ciascuna parte pone mano a lo principale intento. Poi quando dice: Però,
se le mie rime avran difetto, escusomi da una colpa de la quale non deggio essere
colpato, veggendo altri le mie parole essere minori che la dignitade di questa; e dico che
se difetto fia ne le mie rime, cioè ne le mie parole che a trattare di costei sono
ordinate, di ciò è da biasimare la debilitade de lo 'ntelletto e la cortezza del nostro
parlare, lo quale per lo pensiero è vinto, sì che seguire lui non puote a pieno,
massimamente là dove lo pensiero nasce da amore, perché quivi l'anima profondamente più
che altrove s'ingegna.
Potrebbe dire alcuno: "tu scusi [e
accusi] te insiememente". Ché argomento di colpa è, non purgamento, in quanto la
colpa si dà a lo 'ntelletto e al parlare che è mio; ché, sì come, s'elli è buono, io
deggio di ciò essere lodato in quanto così [è, così, ] s'elli è defettivo, deggio
essere biasimato. A ciò si può brievemente rispondere che non m'accuso, ma iscuso
veramente. E però è da sapere, secondo la sentenza del Filosofo nel terzo de l'Etica,
che l'uomo è degno di loda e di vituperio solo in quelle cose che sono in sua podestà di
fare o di non fare; ma in quelle ne le quali non ha podestà non merita né vituperio né
loda, però che l'uno e l'altro è da rendere ad altrui, avvegna che le cose siano parte
de l'uomo medesimo. Onde noi non dovemo vituperare l'uomo perché sia del corpo da sua
nativitade laido, però che non fu in sua podestà farsi bello; ma dovemo vituperare la
mala disposizione de la materia onde esso è fatto, che fu principio del peccato de la
natura. E così non dovemo lodare l'uomo per biltade che abbia da sua nativitade ne lo suo
corpo, ché non fu ello di ciò fattore, ma dovemo lodare l'artefice, cioè la natura
umana, che tanta bellezza produce ne la sua materia quando impedita da essa non è. E
però disse bene lo prete a lo 'mperadore, che ridea e schernia la laidezza del suo corpo:
"Dio è segnore: esso fece noi e non essi noi"; e sono queste parole del
Profeta, in uno verso del Saltero scritte né più né meno come ne la risposta del prete.
E però veggiano li cattivi malnati che pongono lo studio loro in azzimare la loro
[persona, e non in adornare la loro] operazione, che dee essere tutta con onestade, che
non è altro a fare che ornare l'opera d'altrui e abbandonare la propria.
Tornando adunque al proposito, dico che
nostro intelletto, per difetto de la vertù da la quale trae quello ch'el vede, che è
virtù organica, cioè la fantasia, non puote a certe cose salire (però che la fantasia
nol puote aiutare, ché non ha lo di che), sì come sono le sustanze partite da materia;
de le quali se alcuna considerazione di quella avere potemo, intendere non le potemo né
comprendere perfettamente. E di ciò non è l'uomo da biasimare, ché non esso, dico, fue
di questo difetto fattore, anzi fece ciò la natura universale, cioè Iddio, che volse in
questa vita privare noi da questa luce; che, perché elli lo si facesse, presuntuoso
sarebbe a ragionare. Sì che, se la mia considerazione mi transportava in parte dove la
fantasia venia meno a lo 'ntelletto, se io non potea intendere non sono da biasimare.
Ancora, è posto fine al nostro ingegno, a ciascuna sua operazione, non da noi ma da
l'universale natura; e però è da sapere che più ampi sono li termini de lo 'ngegno [a
pensare] che a parlare, e più ampi a parlare che ad accennare. Dunque se 'l pensiero
nostro, non solamente quello che a perfetto intelletto non viene ma eziandio quello che a
perfetto intelletto si termina, è vincente del parlare, non semo noi da biasimare, però
che non semo di ciò fattori. E però manifesto me veramente scusare quando dico: Di
ciò si biasimi il debole intelletto E 'l parlar nostro, che non ha valore Di ritrar tutto
ciò che dice Amore; ché assai si dee chiaramente vedere la buona volontade, a la
quale aver si dee rispetto ne li meriti umani. E così omai s'intenda la prima parte
principale di questa canzone, che corre mo per mano.
© 1999 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 14 giugno 1999