Dante Alighieri

Convivio

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trattato II, capp. VII-XV

TRATTATO II

Capitolo VII

         Inteso può essere sofficientemente, per le prenarrate parole, de la litterale sentenza de la prima parte; per che a la seconda è da intendere, ne la quale si manifesta quello che dentro io sentia de la battaglia. E questa parte ha due divisioni: che in prima, cioè nel primo verso, narro la qualitade di queste diversitadi secondo la loro radice, ch'erano dentro a me; poi narro quello che dicea l'una e l'altra diversitade, e però, prima, quello che dicea la parte che perdea, cioè nel verso ch'è lo secondo di questa parte e lo terzo de la canzone.
         Ad evidenza dunque de la sentenza de la prima divisione, è da sapere che le cose deono essere denominate da l'ultima nobilitade de la loro forma; sì come l'uomo da la ragione, e non dal senso né d'altro che sia meno nobile. Onde, quando si dice l'uomo vivere, si dee intendere l'uomo usare la ragione, che è sua speziale vita e atto de la sua più nobile parte. E però chi da la ragione si parte, e usa pur la parte sensitiva, non vive uomo, ma vive bestia; sì come dice quello eccellentissimo Boezio: "Asino vive". Dirittamente dico, però che lo pensiero è propio atto de la ragione, perché le bestie non pensano, che non l'hanno: e non dico pur de le minori bestie, ma di quelle che hanno apparenza umana e spirito di pecora o d'altra bestia abominevole. Dico adunque che vita del mio core, cioè del mio dentro, suole essere un pensiero soave ("soave" è tanto quanto "suaso", cioè abbellito, dolce, piacente e dilettoso), questo pensiero, che se ne gia spesse volte a' piedi del sire di costoro a cu' io parlo, ch'è Iddio: ciò è a dire, che io pensando contemplava lo regno de' beati. E dico la final cagione incontanente per che là su io saliva pensando, quando dico: Ove una donna gloriar vedia; a dare a intendere ch'è perché io era certo, e sono, per sua graziosa revelazione, che ella era in cielo. Onde io pensando spesse volte come possibile m'era, me n'andava quasi rapito.
         Poi sussequentemente dico l'effetto di questo pensiero, a dare a intendere la sua dolcezza, la quale era tanta che mi facea disioso de la morte, per andare là dov'elli gia; e ciò dico quivi: Di cui parlava me sì dolcemente, Che l'anima dicea: Io men vo' gire. E questa è la radice de l'una de le diversitadi ch'era in me. Ed è da sapere, che qui si dice "pensiero" e non "anima", di quello che salia a vedere quella beata, perché era spezial pensiero a quello atto. L'anima s'intende, come detto è nel precedente capitolo, per lo generale pensiero col consentimento.
         Poi quando dico: Or apparisce chi lo fa fuggire, narro la radice de l'altra diversitade, dicendo, sì come questo pensiero di sopra suol esser vita di me, così un altro apparisce che fa quello cessare. E dico "fuggire", per mostrare quello essere contrario, ché naturalmente l'uno contrario fugge l'altro, e quello che fugge mostra per difetto di vertù di fuggire. E dico che questo pensiero, che di nuovo apparisce, è poderoso in prender me e in vincere l'anima tutta, dicendo che esso segnoreggia sì che 'l cuore, cioè lo mio dentro, triema, e lo mio di fuori lo dimostra in alcuna nuova sembianza.
Sussequentemente mostro la potenza di questo pensiero nuovo per suo effetto, dicendo che esso mi fa mirare una donna, e dicemi parole di lusinghe, cioè ragiona dinanzi a li occhi del mio intelligibile affetto per meglio inducermi, promettendomi che la vista de li occhi suoi è sua salute. E a meglio fare ciò credere a l'anima esperta, dice che non è da guardare ne li occhi di questa donna per persona che tema angoscia di sospiri. Ed è bel modo rettorico, quando di fuori pare la cosa disabbellirsi, e dentro veramente s'abbellisce. Più non potea questo novo pensero d'amore inducere la mia mente a consentire, che ['n] ragionare de la vertù de li occhi di costei profondamente.

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Capitolo VIII

         Ora ch'è mostrato come e perché nasce amore, e la diversitade che mi combattea, procedere si conviene ad aprire la sentenza di quella parte ne la quale contendono in me diversi pensamenti. Dico che prima si conviene dire de la parte de l'anima, cioè de l'antico pensiero, e poi de l'altro, per questa ragione, che sempre quello che massimamente dire intende lo dicitore sì dee riservare di dietro; però che quello che ultimamente si dice, più rimane ne l'animo de lo uditore. Onde con ciò sia cosa che io intenda più a dire e a ragionare quello che l'opera di costoro a cu' io parlo fa, che quello che essa disfà, ragionevole fu prima dire e ragionare la condizione de la parte che si corrompea, e poi quella de l'altra che si generava.
         Veramente qui nasce un dubbio, lo qual non è da trapassare sanza dichiarare. Potrebbe dire alcuno: "Con ciò sia cosa che amore sia effetto di queste intelligenze a cu' io parlo, e quello di prima fosse amore così come questo di poi, perché la loro vertù corrompe l'uno e l'altro genera? con ciò sia cosa che innanzi dovrebbe quello salvare, per la ragione che ciascuna cagione ama lo suo effetto e, amando quello, salva quell'altro". A questa questione si può leggermente rispondere che lo effetto di costoro è amore, com'è detto; e però che salvare nol possono se non in quelli subietti che sono sottoposti a la loro circulazione, esso transmutano di quella parte che è fuori di loro podestade in quella che v'è dentro, cioè de l'anima partita d'esta vita in quella ch'è in essa. Sì come la natura umana transmuta, ne la forma umana, la sua conservazione di padre in figlio, perché non può in esso padre perpetualmente [ta]l suo effetto conservare. Dico "effetto", in quanto l'anima col corpo, congiunti, sono effetto di quella; ché [l'anima, poi che] è partita, perpetualmente dura in natura più che umana. E così è soluta la questione.
         Ma però che de la immortalità de l'anima è qui toccato, farò una digressione, ragionando di quella; perché, di quella ragionando, sarà bello terminare lo parlare di quella viva Beatrice beata, de la quale più parlare in questo libro non intendo per proponimento. Dico che intra tutte le bestialitadi quella è stoltissima, vilissima e dannosissima, chi crede dopo questa vita non essere altra vita; però che, se noi rivolgiamo tutte le scritture, sì de' filosofi come de li altri savi scrittori, tutti concordano in questo, che in noi sia parte alcuna perpetuale. E questo massimamente par volere Aristotile in quello de l'Anima; questo par volere massimamente ciascuno Stoico; questo par volere Tullio, spezialmente in quello libello de la Vegliezza; questo par volere ciascuno poeta che secondo la fede de' Gentili hanno parlato; questo vuole ciascuna legge, Giudei, Saracini, Tartari, e qualunque altri vivono secondo alcuna ragione. Che se tutti fossero ingannati, seguiterebbe una impossibilitade, che pure a ritraere sarebbe orribile. Ciascuno è certo che la natura umana è perfettissima di tutte l'altre nature di qua giù; e questo nullo niega, e Aristotile l'afferma quando dice nel duodecimo de li Animali che l'uomo è perfettissimo di tutti li animali. Onde con ciò sia cosa che molti che vivono interamente siano mortali, sì come animali bruti, e siano sanza questa speranza tutti mentre che vivono, cioè d'altra vita; se la nostra speranza fosse vana, maggiore sarebbe lo nostro difetto che di nullo altro animale, con ciò sia cosa che molti già sono stati che hanno data questa vita per quella; e così seguiterebbe che lo perfettissimo animale, cioè l'uomo, fosse imperfettissimo - ch'è impossibile -, e che quella parte, cioè la ragione, che è sua perfezione maggiore, fosse a lui cagione di maggiore difetto - che del tutto diverso pare a dire -. Ancora, seguiterebbe che la natura contra se medesima questa speranza ne la mente umana posta avesse, poi che detto è che molti a la morte del corpo sono corsi, per vivere ne l'altra vita; e questo è anche impossibile.
         Ancora, vedemo continua esperienza de la nostra immortalitade ne le divinazioni de' nostri sogni, le quali essere non potrebbono se in noi alcuna parte immortale non fosse; con ciò sia cosa che immortale convegna essere lo rivelante, [o corporeo] o incorporeo che sia, se bene si pensa sottilmente - e dico "corporeo o incorporeo" per le diverse oppinioni ch'io truovo di ciò -, e quello ch'è mosso o vero informato da informatore immediato debba proporzione avere a lo informatore, e da lo mortale a lo immortale nulla sia proporzione. Ancora, n'accerta la dottrina veracissima di Cristo, la quale è via, verità e luce: via, perché per essa sanza impedimento andiamo a la felicitade di quella immortalitade; verità, perché non soffera alcuno errore; luce, perché allumina noi ne la tenebra de la ignoranza mondana. Questa dottrina dico che ne fa certi sopra tutte altre ragioni, però che quello la n'hae data che la nostra immortalitade vede e misura. La quale noi non potemo perfettamente vedere mentre che 'l nostro immortale col mortale è mischiato; ma vedemolo per fede perfettamente, e per ragione lo vedemo con ombra d'oscuritade, la quale incontra per mistura del mortale con l'immortale. E ciò dee essere potentissimo argomento che in noi l'uno e l'altro sia; e io così credo, così affermo e così certo sono ad altra vita migliore dopo questa passare, là dove quella gloriosa donna vive de la quale fu l'anima mia innamorata quando contendea, come nel seguente capitolo si ragionerà.

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Capitolo IX

         Tornando al proposito, dico che in questo verso che comincia: Trova contraro tal che lo distrugge, intendo manifestare quello che dentro a me l'anima mia ragionava, cioè l'antico pensiero contra lo nuovo. E prima brievemente manifesto la cagione del suo lamentevole parlare, quando dico: Trova contraro tal che lo distrugge L'umil pensero, che parlar mi sole D'un'angela che 'n cielo è coronata. Questo è quello speziale pensiero, del quale detto è di sopra che solea esser vita de lo cor dolente. Poi quando dico: L'anima piange, sì ancor len dole, manifesto l'anima mia essere ancora da la sua parte, e con tristizia parlare: e dico che dice parole lamentandosi, quasi come si maravigliasse de la subita transmutazione, dicendo: Oh lassa a me, come si fugge Questo piatoso che m'ha consolata! Ben può dire "consolata", ché ne la sua grande perdita questo pensiero, che in cielo salia, le avea data molta consolazione. Poi appresso, ad iscusa di sé dico che si volge tutto lo mio pensiero, cioè l'anima, de la quale dico questa affannata, e parla contra gli occhi; e questo si manifesta quivi: De li occhi miei dice questa affannata. E dico ch'ella dice di loro e contra loro tre cose. La prima è che bestemmia l'ora che questa donna li vide. E qui si vuol sapere che avvegna che più cose ne l'occhio a un'ora possano venire, veramente quella che viene per retta linea ne la punta de la pupilla, quella veramente si vede, e ne la imaginativa si suggella solamente. E questo è però che 'l nervo per lo quale corre lo spirito visivo, è diritto a quella parte; e però veramente l'occhio l'altro occhio non può guardare, sì che esso non sia veduto da lui; ché, sì come quello che mira riceve la forma ne la pupilla per retta linea, così per quella medesima linea la sua forma se ne va in quello ch'ello mira: e molte volte, nel dirizzare di questa linea, discocca l'arco di colui al quale ogni arme è leggiere. Però quando dico che tal donna li vide, è tanto a dire quanto che li occhi suoi e li miei si guardaro.
         La seconda cosa che dice, si è che riprende la sua disobedienza, quando dice: E perché non credeano a me di lei? Poi procede a la terza cosa, e dice che non dee sé riprendere di provvedimento, ma loro di non ubbidire; però che dice che alcuna volta, di questa donna ragionando, dicesse: Ne li occhi di costei doverebbe esser virtù sopra me, se ella avesse aperta la via di venire; e questo dice quivi: Io dicea: Ben ne li occhi di costei. E ben si dee credere che l'anima mia conoscea la sua disposizione atta a ricevere l'atto di questa donna, e però ne temea; ché l'atto de l'agente si prende nel disposto paziente, sì come dice lo Filosofo nel secondo de l'Anima. E però se la cera avesse spirito da temere, più temerebbe di venire a lo raggio del sole che non farebbe la pietra, però che la sua disposizione riceve quello per più forte operazione.
         Ultimamente manifesta l'anima nel suo parlare la presunzione loro pericolosa essere stata, quando dice: E non mi valse ch'io ne fossi accorta Che non mirasser tal, ch'io ne son morta. Non là mirasser, dice, colui di cui prima detto avea: Colui che le mie pari ancide. E così termina le sue parole, a le quali risponde lo novo pensiero, sì come nel seguente capitolo si dichiarerà.

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Capitolo X

         Dimostrata è la sentenza di quella parte ne la qual parla l'anima, cioè l'antico pensiero che si corruppe. Ora seguentemente si dee mostrare la sentenza de la parte ne la qual parla lo pensiero nuovo avverso; e questa parte si contiene tutta nel verso che comincia: Tu non se' morta. La qual parte, a bene intendere, si vuole in due partire: che ne la prima [lo pensiero avverso riprende l'anima di viltade; e appresso comanda quello che far dee quest'anima ripresa, cioè ne la seconda] parte, che comincia: Mira quant'ell'è pietosa.
         Dice adunque, continuandosi a l'ultime sue parole: Non è vero che tu sie morta; ma la cagione per che morta ti pare essere, si è uno smarrimento nel quale se' caduta vilmente per questa donna che è apparita: - e qui è da notare che, sì come dice Boezio ne la sua Consolazione, "ogni subito movimento di cose non avviene sanza alcuno discorrimento d'animo" -; e questo vuol dire lo riprendere di questo pensiero. Lo quale si chiama "spiritello d'amore" a dare a intendere che lo consentimento mio piegava inver di lui; e così si può questo intendere maggiormente, e conoscere la sua vittoria, quando dice già "anima nostra", facendosi familiare di quella. Poi, com'è detto, comanda quello che far dee quest'anima ripresa per venir lei a sé, e lei dice: Mira quant'ell'è pietosa e umile; ché sono proprio rimedio a la temenza, de la qual parea l'anima passionata, due cose, e sono queste che, massimamente congiunte, fanno de la persona bene sperare, e massimamente la pietade, la quale fa risplendere ogni altra bontade col lume suo. Per che Virgilio, d'Enea parlando, in sua maggiore loda pietoso lo chiama. E non è pietade quella che crede la volgar gente, cioè dolersi de l'altrui male, anzi è questo uno suo speziale effetto, che si chiama misericordia ed è passione; ma pietade non è passione, anzi è una nobile disposizione d'animo, apparecchiata di ricevere amore, misericordia e altre caritative passioni.
         Poi dice: Mira anco quanto è saggia e cortese ne la sua grandezza. Or dice tre cose, le quali, secondo quelle che per noi acquistar si possono, massimamente fanno la persona piacente. Dice "saggia": or che è più bello in donna che savere? Dice "cortese": nulla cosa sta più bene in donna che cortesia. E non siano li miseri volgari anche di questo vocabulo ingannati, che credono che cortesia non sia altro che larghezza; e larghezza è una speziale, e non generale, cortesia! Cortesia e onestade è tutt'uno: e però che ne le corti anticamente le vertudi e li belli costumi s'usavano, sì come oggi s'usa lo contrario, si tolse quello vocabulo da le corti, e fu tanto a dire cortesia quanto uso di corte. Lo qual vocabulo se oggi si togliesse da le corti, massimamente d'Italia, non sarebbe altro a dire che turpezza. Dice ne la sua grandezza. La grandezza temporale, de la quale qui s'intende, massimamente sta bene accompagnata con le due predette bontadi, però ch'ell'apre lume che mostra lo bene e l'altro de la persona chiaramente. E quanto savere e quanto abito virtuoso non si pare per questo lume non avere! e quanta matteria e quanti vizii si discernono per aver questo lume! Meglio sarebbe a li miseri grandi, matti, stolti e viziosi, essere in basso stato, ché né in mondo né dopo la vita sarebbero tanto infamati. Veramente per costoro dice Salomone ne lo Ecclesiaste: "E un'altra infermitade pessima vidi sotto lo sole, cioè ricchezze conservate in male del loro signore". Poi sussequentemente impone a lei, cioè a l'anima mia, che chiami omai costei sua donna, promettendo a lei che di ciò assai si contenterà, quando ella sarà de le sue adornezze accorta; e questo dice quivi: Ché se tu non t'inganni, tu vedrai. Né altro dice infino a la fine di questo verso. E qui termina la sentenza litterale di tutto quello che in questa canzone dico, parlando a quelle intelligenze celestiali.

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Capitolo XI

         Ultimamente, secondo che di sopra disse la littera di questo commento quando partio le parti principali di questa canzone, io mi rivolgo con la faccia del mio sermone a la canzone medesima, e a quella parlo. E acciò che questa parte più pienamente sia intesa, dico che generalmente si chiama in ciascuna canzone "tornata", però che li dicitori che prima usaro di farla, fenno quella perché, cantata la canzone, con certa parte del canto ad essa si ritornasse. Ma io rade volte a quella intenzione la feci, e, acciò che altri se n'accorgesse, rade volte la puosi con l'ordine de la canzone, quanto è a lo numero che a la nota è necessario; ma fecila quando alcuna cosa in adornamento de la canzone era mestiero a dire, fuori de la sua sentenza, sì come in questa e ne l'altre veder si potrà. E però dico al presente che la bontade e la bellezza di ciascuno sermone sono intra loro partite e diverse; ché la bontade è ne la sentenza, e la bellezza è ne l'ornamento de le parole; e l'una e l'altra è con diletto, avvegna che la bontade sia massimamente dilettosa. Onde con ciò sia cosa che la bontade di questa canzone fosse malagevole a sentire per le diverse persone che in essa s'inducono a parlare, dove si richeggiono molte distinzioni, e la bellezza fosse agevole a vedere, parvemi mestiero a la canzone che per li altri si ponesse più mente a la bellezza che a la bontade. E questo è quello che dico in questa parte.
         Ma però che molte fiate avviene che l'ammonire pare presuntuoso, per certe condizioni suole lo rettorico indirettamente parlare altrui, dirizzando le sue parole non a quello per cui dice, ma verso un altro. E questo modo si tiene qui veramente; ché a la canzone vanno le parole, e a li uomini la 'ntenzione. Dico adunque: Io credo, canzone, che radi sono, cioè pochi, quelli che intendano te bene. E dico la cagione, la quale è doppia. Prima: però che faticosa parli - "faticosa" dico per la cagione che detta è -; poi: però che forte parli - "forte" dico quanto a la novitade de la sentenza -. Ora appresso ammonisco lei e dico: Se per avventura incontra che tu vadi là dove persone siano che dubitare ti paiano ne la tua ragione, non ti smarrire, ma dì loro: Poi che non vedete la mia bontade, ponete mente almeno la mia bellezza. Che non voglio in ciò altro dire, secondo ch'è detto di sopra, se non: O uomini, che vedere non potete la sentenza di questa canzone, non la rifiutate però; ma ponete mente la sua bellezza, ch'è grande sì per construzione, la quale si pertiene a li gramatici, sì per l'ordine del sermone, che si pertiene a li rettorici, sì per lo numero de le sue parti, che si pertiene a li musici. Le quali cose in essa si possono belle vedere, per chi ben guarda. E questa è tutta la litterale sentenza de la prima canzone, che è per prima vivanda intesa innanzi
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Capitolo XII

         Poi che la litterale sentenza è sufficientemente dimostrata, è da procedere a la esposizione allegorica e vera. E però, principiando ancora da capo, dico che, come per me fu perduto lo primo diletto de la mia anima, de la quale fatta è menzione di sopra, io rimasi di tanta tristizia punto, che conforto non mi valeva alcuno. Tuttavia, dopo alquanto tempo, la mia mente, che si argomentava di sanare, provide, poi che né 'l mio né l'altrui consolare valea, ritornare al modo che alcuno sconsolato avea tenuto a consolarsi; e misimi a leggere quello non conosciuto da molti libro di Boezio, nel quale, cattivo e discacciato, consolato s'avea. E udendo ancora che Tullio scritto avea un altro libro, nel quale, trattando de l'Amistade, avea toccate parole de la consolazione di Lelio, uomo eccellentissimo, ne la morte di Scipione amico suo, misimi a leggere quello. E avvegna che duro mi fosse ne la prima entrare ne la loro sentenza, finalmente v'entrai tanto entro, quanto l'arte di gramatica ch'io avea e un poco di mio ingegno potea fare; per lo quale ingegno molte cose, quasi come sognando, già vedea, sì come ne la Vita Nuova si può vedere. E sì come essere suole che l'uomo va cercando argento e fuori de la 'ntenzione truova oro, lo quale occulta cagione presenta, non forse sanza divino imperio; io, che cercava di consolarme, trovai non solamente a le mie lagrime rimedio, ma vocabuli d'autori e di scienze e di libri: li quali considerando, giudicava bene che la filosofia, che era donna di questi autori, di queste scienze e di questi libri, fosse somma cosa. E imaginava lei fatta come una donna gentile, e non la poteva imaginare in atto alcuno se non misericordioso; per che sì volontieri lo senso di vero la mirava, che appena lo potea volgere da quella. E da questo imaginare cominciai ad andare là dov'ella si dimostrava veracemente, cioè ne le scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti. Sì che in picciol tempo, forse di trenta mesi, cominciai tanto a sentire de la sua dolcezza, che lo suo amore cacciava e distruggeva ogni altro pensiero. Per che io, sentendomi levare dal pensiero del primo amore a la virtù di questo, quasi maravigliandomi apersi la bocca nel parlare de la proposta canzone, mostrando la mia condizione sotto figura d'altre cose: però che de la donna di cu' io m'innamorava non era degna rima di volgare alcuna palesemente po[e]tare; né li uditori erano tanto bene disposti, che avessero sì leggiere le [non] fittizie parole apprese; né sarebbe data loro fede a la sentenza vera, come a la fittizia, però che di vero si credea del tutto che disposto fosse a quello amore, che non si credeva di questo. Cominciai dunque a dire: Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete. E perché, sì come detto è, questa donna figlia di Dio, regina di tutto, nobilissima e bellissima Filosofia, è da vedere chi furono questi movitori, e questo terzo cielo. E prima del cielo, secondo l'ordine trapassato. E non è qui mestiere di procedere dividendo, e a littera esponendo; ché, volta la parola fittizia di quello ch'ella suona in quello ch'ella 'ntende, per la passata sposizione questa sentenza ha sufficientemente palese.

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Capitolo XIII

         A vedere quello che per lo terzo cielo s'intende, prima si vuol vedere che per questo solo vocabulo "cielo" io voglio dire; e poi si vedrà come e perché questo terzo cielo ci fu mestiere. Dico che per cielo io intendo la scienza e per cieli le scienze, per tre similitudini che li cieli hanno con le scienze massimamente; e per l'ordine e numero in che paiono convenire, sì come trattando quello vocabulo, cioè "terzo", si vedrà.
         La prima similitudine si è la revoluzione de l'uno e de l'altro intorno a uno suo immobile. Ché ciascuno cielo mobile si volge intorno al suo centro, lo quale, quanto per lo suo movimento, non si muove; e così ciascuna scienza si muove intorno al suo subietto, lo quale essa non muove, però che nulla scienza dimostra lo proprio subietto, ma suppone quello. La seconda similitudine si è lo illuminare de l'uno e de l'altro; ché ciascuno cielo illumina le cose visibili, e così ciascuna scienza illumina le intelligibili. E la terza similitudine si è lo inducere perfezione ne le disposte cose. De la quale induzione, quanto a la prima perfezione, cioè de la generazione sustanziale, tutti li filosofi concordano che li cieli siano cagione, avvegna che diversamente questo pongano: quali da li motori, sì come Plato, Avicenna e Algazel; quali da esse stelle, spezialmente l'anime umane, sì come Socrate, e anche Plato e Dionisio Academico; e quali da vertude celestiale che è nel calore naturale del seme, sì come Aristotile e li altri Peripatetici. Così de la induzione de la perfezione seconda le scienze sono cagione in noi; per l'abito de le quali potemo la veritade speculare, che è ultima perfezione nostra, sì come dice lo Filosofo nel sesto de l'Etica, quando dice che 'l vero è lo bene de lo intelletto. Per queste, con altre similitudini molte, si può la scienza "cielo" chiamare. Ora perché "terzo" cielo si dica è da vedere. A che è mestiere fare considerazione sovra una comparazione che è ne l'ordine de li cieli a quello de le scienze. Sì come adunque di sopra è narrato, li sette cieli primi a noi sono quelli de li pianeti; poi sono due cieli sopra questi, mobili, e uno sopra tutti, quieto. A li sette primi rispondono le sette scienze del Trivio e del Quadruvio, cioè Gramatica, Dialettica, Rettorica, Arismetrica, Musica, Geometria e Astrologia. A l'ottava spera, cioè a la stellata, risponde la scienza naturale, che Fisica si chiama, e la prima scienza, che si chiama Metafisica; a la nona spera risponde la scienza morale; ed al cielo quieto risponde la scienza divina, che è Teologia appellata. E ragione per che ciò sia, brievemente è da vedere.
         Dico che 'l cielo de la Luna con la Gramatica si somiglia [per due proprietadi], per che ad esso si può comparare. Che se la Luna si guarda bene, due cose si veggiono in essa proprie, che non si veggiono ne l'altre stelle: l'una sì è l'ombra che è in essa, la quale non è altro che raritade del suo corpo, a la quale non possono terminare li raggi del sole e ripercuotersi così come ne l'altre parti; l'altra si è la variazione de la sua luminositade, che ora luce da uno lato, e ora luce da un altro, secondo che lo sole la vede. E queste due proprietadi hae la Gramatica: ché, per la sua infinitade, li raggi de la ragione in essa non si terminano, in parte spezialmente de li vocabuli; e luce or di qua or di là in tanto quanto certi vocabuli, certe declinazioni, certe construzioni sono in uso che già non furono, e molte già furono che ancor saranno: sì come dice Orazio nel principio de la Poetria quando dice: "Molti vocabuli rinasceranno che già caddero".
         E lo cielo di Mercurio si può comparare a la Dialettica per due proprietadi: che Mercurio è la più picciola stella del cielo, ché la quantitade del suo diametro non è più che di dugento trentadue miglia, secondo che pone Alfagrano, che dice quello essere de le ventotto parti una del diametro de la terra, lo quale è sei milia cinquecento miglia: l'altra proprietade si è che più va velata de li raggi del Sole che null'altra stella. E queste due proprietadi sono ne la Dialettica: ché la Dialettica è minore in suo corpo che null'altra scienza, ché perfettamente è compilata e terminata in quello tanto testo che ne l'Arte vecchia e ne la Nuova si truova; e va più velata che nulla scienza, in quanto procede con più sofistici e probabili argomenti più che altra.
         E lo cielo di Venere si può comparare a la Rettorica per due proprietadi: l'una sì è la chiarezza del suo aspetto, che è soavissima a vedere più che altra stella; l'altra sì è la sua apparenza, or da mane or da sera. E queste due proprietadi sono ne la Rettorica: ché la Rettorica è soavissima di tutte le altre scienze, però che a ciò principalmente intende; e appare da mane, quando dinanzi al viso de l'uditore lo rettorico parla, appare da sera, cioè retro, quando da lettera, per la parte remota, si parla per lo rettorico.
         E lo cielo del Sole si può comparare a l'Arismetrica per due proprietadi: l'una si è che del suo lume tutte l'altre stelle s'informano; l'altra si è che l'occhio nol può mirare. E queste due proprietadi sono ne l'Arismetrica: ché del suo lume tutte s'illuminano le scienze, però che li loro subietti sono tutti sotto alcuno numero considerati, e ne le considerazioni di quelli sempre con numero si procede. Sì come ne la scienza naturale è subietto lo corpo mobile, lo quale corpo mobile ha in sé ragione di continuitade, e questa ha in sé ragione di numero infinito; e la sua considerazione principalissima è considerare li principii de le cose naturali, li quali sono tre, cioè materia, privazione e forma, ne li quali si vede questo numero. Non solamente in tutti insieme, ma ancora in ciascuno è numero, chi ben considera sottilmente; per che Pittagora, secondo che dice Aristotile nel primo de la Fisica, poneva li principii de le cose naturali lo pari e lo dispari, considerando tutte le cose esser numero. L'altra proprietade del Sole ancor si vede nel numero, del quale è l'Arismetrica: che l'occhio de lo 'ntelletto nol può mirare; però che 'l numero, quant'è in sé considerato, è infinito, e questo non potemo noi intendere.
         E lo cielo di Marte si può comparare a la Musica per due proprietadi: l'una si è la sua più bella relazione, ché, annumerando li cieli mobili, da qualunque si comincia o da l'infimo o dal sommo, esso cielo di Marte è lo quinto, esso è lo mezzo di tutti, cioè de li primi, de li secondi, de li terzi e de li quarti. L'altra si è che esso Marte, [sì come dice Tolomeo nel Quadripartito], dissecca e arde le cose, perché lo suo calore è simile a quello del fuoco; e questo è quello per che esso pare affocato di colore, quando più e quando meno, secondo la spessezza e raritade de li vapori che 'l seguono: li quali per lor medesimi molte volte s'accendono, sì come nel primo de la Metaura è diterminato. E però dice Albumasar che l'accendimento di questi vapori significa morte di regi e transmutamento di regni; però che sono effetti de la segnoria di Marte. E Seneca dice però, che ne la morte d'Augusto imperadore vide in alto una palla di fuoco; e in Fiorenza, nel principio de la sua destruzione, veduta fu ne l'aere, in figura d'una croce, grande quantità di questi vapori seguaci de la stella di Marte. E queste due proprietadi sono ne la Musica, la quale è tutta relativa, sì come si vede ne le parole armonizzate e ne li canti, de' quali tanto più dolce armonia resulta, quanto più la relazione è bella: la quale in essa scienza massimamente è bella, perché massimamente in essa s'intende. Ancora, la Musica trae a sé li spiriti umani, che quasi sono principalmente vapori del cuore, sì che quasi cessano da ogni operazione: sì è l'anima intera, quando l'ode, e la virtù di tutti quasi corre a lo spirito sensibile che riceve lo suono.
         E lo cielo di Giove si può comparare a la Geometria per due proprietadi: l'una sì è che muove tra due cieli repugnanti a la sua buona temperanza, sì come quello di Marte e quello di Saturno; onde Tolomeo dice, ne lo allegato libro, che Giove è stella di temperata complessione, in mezzo de la freddura di Saturno e de lo calore di Marte; l'altra sì è che intra tutte le stelle bianca si mostra, quasi argentata. E queste cose sono ne la scienza de la Geometria. La Geometria si muove intra due repugnanti a essa, sì come 'l punto e lo cerchio - e dico "cerchio" largamente ogni ritondo, o corpo o superficie -; ché, sì come dice Euclide, lo punto è principio di quella, e, secondo che dice, lo cerchio è perfettissima figura in quella, che conviene però avere ragione di fine. Sì che tra 'l punto e lo cerchio sì come tra principio e fine si muove la Geometria, e questi due a la sua certezza repugnano; ché lo punto per la sua indivisibilitade è immensurabile, e lo cerchio per lo suo arco è impossibile a quadrare perfettamente, e però è impossibile a misurare a punto. E ancora la Geometria è bianchissima, in quanto è sanza macula d'errore e certissima per sé e per la sua ancella, che si chiama Perspettiva.
         E lo cielo di Saturno hae due proprietadi per le quali si può comparare a l'Astrologia: l'una sì è la tardezza del suo movimento per li dodici segni, ché ventinove anni e più, secondo le scritture de li astrologi, vuole di tempo lo suo cerchio; l'altra sì è che sopra tutti li altri pianeti esso è alto. E queste due proprietadi sono ne l'Astrologia: ché nel suo cerchio compiere, cioè ne lo apprendimento di quella, volge grandissimo spazio di tempo, sì per le sue [dimostrazioni], che sono più che d'alcuna de le sopra dette scienze, sì per la esperienza che a ben giudicare in essa si conviene. E ancora è altissima di tutte le altre, però che, sì come dice Aristotile nel cominciamento de l'Anima, la scienza è alta di nobilitade per la nobilitade del suo subietto e per la sua certezza; e questa più che alcuna de le sopra dette è nobile e alta per nobile e alto subietto, ch'è de lo movimento del cielo; e alta e nobile per la sua certezza, la quale è sanza ogni difetto, sì come quella che da perfettissimo e regolatissimo principio viene. E se difetto in lei si crede per alcuno, non è da la sua parte, ma, sì come dice Tolomeo, è per la negligenza nostra, e a quella si dee imputare.

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Capitolo XIV

         Appresso le comparazioni fatte de li sette primi cieli, è da procedere a li altri, che sono tre, come più volte s'è narrato. Dico che lo Cielo stellato si puote comparare a la Fisica per tre proprietadi, e a la Metafisica per altre tre: ch'ello ci mostra di sé due visibili cose, sì come le molte stelle, e sì come la Galassia, cioè quello bianco cerchio che lo vulgo chiama la Via di Sa'Iacopo; e mostraci l'uno de li poli, e l'altro tiene ascoso; e mostraci uno suo movimento, da oriente ad occidente, e un altro, che fa da occidente ad oriente, quasi ci tiene ascoso. Per che per ordine è da vedere prima la comparazione de la Fisica, e poi quella de la Metafisica.
         Dico che lo Cielo stellato ci mostra molte stelle: ché, secondo che li savi d'Egitto hanno veduto, infino a l'ultima stella che appare loro in meridie, mille ventidue corpora di stelle pongono, di cui io parlo. Ed in questo ha esso grandissima similitudine con la Fisica, se bene si guardano sottilmente questi tre numeri, cioè due e venti e mille. Ché per lo due s'intende lo movimento locale, lo quale è da uno punto ad un altro di necessitade. E per lo venti significa lo movimento de l'alterazione; ché, con ciò sia cosa che, dal diece in su, non si vada se non esso diece alterando con gli altri nove e con se stesso, e la più bella alterazione che esso riceva sia la sua di se medesimo, e la prima che riceve sia venti, ragionevolemente per questo numero lo detto movimento significa. E per lo mille significa lo movimento del crescere; ché in nome, cioè questo "mille", è lo maggiore numero, e più crescere non si può se non questo multiplicando. E questi tre movimenti soli mostra la Fisica, sì come nel quinto del primo suo libro è provato.
         E per la Galassia ha questo cielo similitudine grande con la Metafisica. Per che è da sapere che di quella Galassia li filosofi hanno avute diverse oppinioni. Ché li Pittagorici dissero che 'l Sole alcuna fiata errò ne la sua via e, passando per altre parti non convenienti al suo fervore, arse lo luogo per lo quale passò, e rimasevi quella apparenza de l'arsura: e credo che si mossero da la favola di Fetonte, la quale narra Ovidio nel principio del secondo di Metamorfoseos. Altri dissero, sì come fu Anassagora e Democrito, che ciò era lume di sole ripercusso in quella parte, e queste oppinioni con ragioni dimostrative riprovaro. Quello che Aristotile si dicesse non si può bene sapere di ciò, però che la sua sentenza non si truova cotale ne l'una translazione come ne l'altra. E credo che fosse lo errore de li translatori; ché ne la Nuova pare dicere che ciò sia uno ragunamento di vapori sotto le stelle di quella parte, che sempre traggono quelli: e questo non pare avere ragione vera. Ne la Vecchia dice che la Galassia non è altro che moltitudine di stelle fisse in quella parte, tanto picciole che distinguere di qua giù non le potemo, ma di loro apparisce quello albore, lo quale noi chiamiamo Galassia: e puote essere, ché lo cielo in quella parte è più spesso, e però ritiene e ripresenta quello lume. E questa oppinione pare avere, con Aristotile, Avicenna e Tolomeo. Onde, con ciò sia cosa che la Galassia sia uno effetto di quelle stelle le quali non potemo vedere, se non per lo effetto loro intendiamo quelle cose, e la Metafisica tratti de le prime sustanzie, le quali noi non potemo simigliantemente intendere se non per li loro effetti, manifesto è che 'l Cielo stellato ha grande similitudine con la Metafisica.
         Ancora: per lo polo che vedemo significa le cose sensibili, de le quali, universalmente pigliandole, tratta la Fisica; e per lo polo che non vedemo significa le cose che sono sanza materia, che non sono sensibili, de le quali tratta la Metafisica: e però ha lo detto cielo grande similitudine con l'una scienza e con l'altra. Ancora: per li due movimenti significa queste due scienze. Ché per lo movimento ne lo quale ogni die si rivolve, e fa nova circulazione di punto a punto, significa le cose naturali corruttibili, che cotidianamente compiono loro via, e la loro materia si muta di forma in forma; e di queste tratta la Fisica. E per lo movimento quasi insensibile che fa da occidente in oriente per uno grado in cento anni, significa le cose incorruttibili, le quali ebbero da Dio cominciamento di creazione e non averanno fine: e di queste tratta la Metafisica. Però dice che questo movimento significa quelle, che essa circulazione cominciò e non averebbe fine; ché fine de la circulazione è redire ad uno medesimo punto, al quale non tornerà questo cielo, secondo questo movimento. Ché dal cominciamento del mondo poco più de la sesta parte è volto; e noi siamo già ne l'ultima etade del secolo, e attendemo veracemente la consummazione del celestiale movimento. E così è manifesto che lo Cielo stellato, per molte proprietadi, si può comparare a la Fisica e a la Metafisica.
         Lo Cielo cristallino, che per Primo Mobile dinanzi è contato, ha comparazione assai manifesta a la Morale Filosofia; ché Morale Filosofia, secondo che dice Tommaso sopra lo secondo de l'Etica, ordina noi a l'altre scienze. Ché, sì come dice lo Filosofo nel quinto de l'Etica, "la giustizia legale ordina le scienze ad apprendere, e comanda, perché non siano abbandonate, quelle essere apprese e ammaestrate"; e così lo detto cielo ordina col suo movimento la cotidiana revoluzione di tutti li altri, per la quale ogni die tutti quelli ricevono [e mandano] qua giù la vertude di tutte le loro parti. Che se la revoluzione di questo non ordinasse ciò, poco di loro vertude qua giù verrebbe o di loro vista. Onde ponemo che possibile fosse questo nono cielo non muovere, la terza parte del cielo [stellato] sarebbe ancora non veduta in ciascuno luogo de la terra; e Saturno sarebbe quattordici anni e mezzo a ciascuno luogo de la terra celato, e Giove sei anni quasi si celerebbe, e Marte uno anno quasi, e lo Sole centottantadue dì e quattordici ore (dico dì, cioè tanto tempo quanto misurano cotanti dì), e Venere e Mercurio quasi come lo Sole si celerebbe e mosterrebbe, e la Luna per tempo di quattordici dì e mezzo starebbe ascosa ad ogni gente. E da vero non sarebbe qua giù generazione né vita d'animale o di piante: notte non sarebbe né die, né settimana né mese né anno, ma tutto l'universo sarebbe disordinato, e lo movimento de li altri sarebbe indarno. E non altrimenti, cessando la Morale Filosofia, l'altre scienze sarebbero celate alcuno tempo, e non sarebbe generazione né vita di felicitade, e indarno sarebbero scritte e per antico trovate. Per che assai è manifesto, questo cielo [per] sé avere a la Morale Filosofia comparazione.
         Ancora: lo Cielo empireo per la sua pace simiglia la Divina Scienza, che piena è di tutta pace; la quale non soffera lite alcuna d'oppinioni o di sofistici argomenti, per la eccellentissima certezza del suo subietto, lo quale è Dio. E di questa dice esso a li suoi discepoli: "La pace mia do a voi, la pace mia lascio a voi", dando e lasciando a loro la sua dottrina, che è questa scienza di cu' io parlo. Di costei dice Salomone: "Sessanta sono le regine, e ottanta l'amiche concubine; e de le ancille adolescenti non è numero: una è la colomba mia e la perfetta mia". Tutte scienze chiama regine e drude e ancille; e questa chiama colomba perché è sanza macula di lite, e questa chiama perfetta perché perfettamente ne fa il vero vedere nel quale si cheta l'anima nostra. E però, ragionata così la comparazione de li cieli a le scienze, vedere si può che per lo terzo cielo io intendo la Rettorica, la quale al terzo cielo è simigliata, come di sopra pare.

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Capitolo XV

         Per le ragionate similitudini si può vedere chi sono questi movitori a cu' io parlo, che sono di quello movitori, sì come Boezio e Tullio, li quali con la dolcezza di loro sermone inviarono me, come è detto di sopra, ne lo amore, cioè ne lo studio, di questa donna gentilissima Filosofia, con li raggi de la stella loro, la quale è la scrittura di quella: onde in ciascuna scienza la scrittura è stella piena di luce, la quale quella scienza dimostra. E, manifesto questo, vedere si può la vera sentenza del primo verso de la canzone proposta, per la esposizione fittizia e litterale. E per questa medesima esposizione si può lo secondo verso intendere sufficientemente, infino a quella parte dove dice: Questi mi face una donna guardare. Ove si vuole sapere che questa donna è la Filosofia; la quale veramente è donna piena di dolcezza, ornata d'onestade, mirabile di savere, gloriosa di libertade, sì come nel terzo trattato, dove la sua nobilitade si tratterà, ha manifesto. E là dove dice: Chi veder vuol la salute, Faccia che li occhi d'esta donna miri, li occhi di questa donna sono le sue demonstrazioni, le quali, dritte ne li occhi de lo 'ntelletto, innamorano l'anima, liberata da le con[tra]dizioni. O dolcissimi e ineffabili sembianti, e rubatori subitani de la mente umana, che ne le mostrazioni de li occhi de la Filosofia apparite, quando essa con li suoi drudi ragiona! Veramente in voi è la salute, per la quale si fa beato chi vi guarda, e salvo da la morte de la ignoranza e da li vizii. Ove si dice: Sed e' non teme angoscia di sospiri, qui si vuole intendere "se elli non teme labore di studio e lite di dubitazioni", le quali dal principio de li sguardi di questa donna multiplicatamente surgono, e poi, continuando la sua luce, caggiono, quasi come nebulette matutine a la faccia del sole; e rimane libero e pieno di certezza lo familiare intelletto, sì come l'aere da li raggi meridiani purgato e illustrato.
         Lo terzo verso ancora s'intende per la sposizione litterale infino là dove dice: L'anima piange. Qui si vuole bene attendere ad alcuna moralitade, la quale in queste parole si può notare: che non dee l'uomo, per maggiore amico, dimenticare li servigi ricevuti dal minore; ma se pur seguire si conviene l'uno e lasciar l'altro, lo migliore è da seguire, con alcuna onesta lamentanza l'altro abbandonando, ne la quale dà cagione, a quello che segue, di più amore. Poi dove dice: De li occhi miei, non vuole altro dire, se non che forte fu l'ora che la prima demonstrazione di questa donna entrò ne li occhi de lo 'ntelletto mio, la quale fu cagione di questo innamoramento propinquissima. E là dove dice: le mie pari, s'intende l'anime libere de le misere e vili delettazioni e de li vulgari costumi, d'ingegno e di memoria dotate. E dice poi: ancide; e dice poi: son morta; che pare contro a quello che detto è di sopra de la salute di questa donna. E però è da sapere che qui parla l'una de le parti, e là parla l'altra; le quali diversamente litigano, secondo che di sopra è manifesto. Onde non è maraviglia se là dice "sì", e qui dice "no", se bene si guarda chi discende e chi sale.
         Poi nel quarto verso, dove dice: uno spiritel d'amore, s'intende uno pensiero che nasce del mio studio. Onde è da sapere che per amore, in questa allegoria, sempre s'intende esso studio, lo quale è applicazione de l'animo innamorato de la cosa a quella cosa. Poi quando dice: tu vedrai Di sì alti miracoli adornezza, annunzia che per lei si vedranno li adornamenti de li miracoli: e vero dice, ché li adornamenti de le maraviglie è vedere le cagioni di quelle; le quali ella dimostra, sì come nel principio de la Metafisica pare sentire lo Filosofo, dicendo che, per questi adornamenti vedere, cominciaro li uomini ad innamorare di questa donna. E di questo vocabulo, cioè "maraviglia", nel seguente trattato più pienamente si parlerà. Tutto l'altro che segue poi di questa canzone, sofficientemente è per l'altra esposizione manifesto. E così, in fine di questo secondo trattato, dico e affermo che la donna di cu' io innamorai appresso lo primo amore fu la bellissima e onestissima figlia de lo Imperadore de lo universo, a la quale Pittagora pose nome Filosofia. E qui si termina lo secondo trattato, [che è ordinato a sponere la canzone] che per prima vivanda è messa innanzi.

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© 1999 - by prof. Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 14 giugno 1999