Dante Alighieri
Convivio
trattato II, capp. I-VI
TRATTATO II
Canzone Prima |
Voi che 'ntendendo il
terzo ciel movete, Udite il ragionar ch'è nel mio core, Ch'io nol so dire altrui, sì mi par novo. El ciel che segue lo vostro valore, Gentili creature che voi sete, Mi tragge ne lo stato ov'io mi trovo. Onde 'l parlar de la vita ch'io provo, Par che si drizzi degnamente a vui: Però vi priego che lo mi 'ntendiate.
Io vi dirò del cor la novitate, Or apparisce chi lo fa fuggire D'un'angela che 'n cielo è coronata. E non mi valse ch'io ne fossi accorta Saggia e cortese ne la sua grandezza, Onde, se per ventura elli addivene |
Capitolo I
Poi che
proemialmente ragionando, me ministro, è lo mio pane ne lo precedente trattato con
sufficienza preparato, lo tempo chiama e domanda la mia nave uscir di porto; per che,
dirizzato l'artimone de la ragione a l'òra del mio desiderio, entro in pelago con
isperanza di dolce cammino e di salutevole porto e laudabile ne la fine de la mia cena. Ma
però che più profittabile sia questo mio cibo, prima che vegna la prima vivanda voglio
mostrare come mangiare si dee.
Dico che, sì come nel primo capitolo è
narrato, questa sposizione conviene essere litterale e allegorica. E a ciò dare a
intendere, si vuol sapere che le scritture si possono intendere e deonsi esponere
massimamente per quattro sensi. L'uno si chiama litterale, [e questo è quello che non si
stende più oltre che la lettera de le parole fittizie, sì come sono le favole de li
poeti. L'altro si chiama allegorico, ] e questo è quello che si nasconde sotto 'l manto
di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna: sì come quando dice
Ovidio che Orfeo facea con la cetera mansuete le fiere, e li arbori e le pietre a sé
muovere; che vuol dire che lo savio uomo con lo strumento de la sua voce fa[r]ia
mansuescere e umiliare li crudeli cuori, e fa[r]ia muovere a la sua volontade coloro che
non hanno vita di scienza e d'arte: e coloro che non hanno vita ragionevole alcuna sono
quasi come pietre. E perché questo nascondimento fosse trovato per li savi, nel penultimo
trattato si mosterrà. Veramente li teologi questo senso prendono altrimenti che li poeti;
ma però che mia intenzione è qui lo modo de li poeti seguitare, prendo lo senso
allegorico secondo che per li poeti è usato.
Lo terzo senso si chiama morale, e questo
è quello che li lettori deono intentamente andare appostando per le scritture, ad
utilitade di loro e di loro discenti: sì come appostare si può ne lo Evangelio, quando
Cristo salio lo monte per transfigurarsi, che de li dodici Apostoli menò seco li tre; in
che moralmente si può intendere che a le secretissime cose noi dovemo avere poca
compagnia.
Lo quarto senso si chiama anagogico,
cioè sovrasenso; e questo è quando spiritualmente si spone una scrittura, la quale
ancora [sia vera] eziandio nel senso litterale, per le cose significate significa de le
superne cose de l'etternal gloria, sì come vedere si può in quello canto del Profeta che
dice che, ne l'uscita del popolo d'Israel d'Egitto, Giudea è fatta santa e libera. Ché
avvegna essere vero secondo la lettera sia manifesto, non meno è vero quello che
spiritualmente s'intende, cioè che ne l'uscita de l'anima dal peccato, essa sia fatta
santa e libera in sua potestate. E in dimostrar questo, sempre lo litterale dee andare
innanzi, sì come quello ne la cui sentenza li altri sono inchiusi, e sanza lo quale
sarebbe impossibile ed inrazionale intendere a li altri, e massimamente a lo allegorico.
È impossibile, però che in ciascuna cosa che ha dentro e di fuori, è impossibile venire
al dentro se prima non si viene al di fuori: onde, con ciò sia cosa che ne le scritture
[la litterale sentenza] sia sempre lo di fuori, impossibile è venire a l'altre,
massimamente a l'allegorica, sanza prima venire a la litterale. Ancora, è impossibile
però che in ciascuna cosa, naturale ed artificiale, è impossibile procedere a la forma,
sanza prima essere disposto lo subietto sopra che la forma dee stare: sì come impossibile
la forma de l'oro è venire, se la materia, cioè lo suo subietto, non è digesta e
apparecchiata; e la forma de l'arca venire, se la materia, cioè lo legno, non è prima
disposta e apparecchiata. Onde con ciò sia cosa che la litterale sentenza sempre sia
subietto e materia de l'altre, massimamente de l'allegorica, impossibile è prima venire a
la conoscenza de l'altre che a la sua. Ancora, è impossibile però che in ciascuna cosa,
naturale ed artificiale, è impossibile procedere, se prima non è fatto lo fondamento,
sì come ne la casa e sì come ne lo studiare: onde, con ciò sia cosa che 'l dimostrare
sia edificazione di scienza, e la litterale dimostrazione sia fondamento de l'altre,
massimamente de l'allegorica, impossibile è a l'altre venire prima che a quella.
Ancora, posto che possibile fosse,
sarebbe inrazionale, cioè fuori d'ordine, e però con molta fatica e con molto errore si
procederebbe. Onde, sì come dice lo Filosofo nel primo de la Fisica, la natura vuole che
ordinatamente si proceda ne la nostra conoscenza, cioè procedendo da quello che conoscemo
meglio in quello che conoscemo non così bene: dico che la natura vuole, in quanto questa
via di conoscere è in noi naturalmente innata. E però se li altri sensi dal litterale
sono meno intesi - che sono, sì come manifestamente pare -, inrazionabile sarebbe
procedere ad essi dimostrare, se prima lo litterale non fosse dimostrato. Io adunque, per
queste ragioni, tuttavia sopra ciascuna canzone ragionerò prima la litterale sentenza, e
appresso di quella ragionerò la sua allegoria, cioè la nascosa veritade; e talvolta de
li altri sensi toccherò incidentemente, come a luogo e a tempo si converrà.
Capitolo II
Cominciando
adunque, dico che la stella di Venere due fiate rivolta era in quello suo cerchio che la
fa parere serotina e matutina, secondo diversi tempi, appresso lo trapassamento di quella
Beatrice beata che vive in cielo con li angeli e in terra con la mia anima, quando quella
gentile donna, cui feci menzione ne la fine de la Vita Nuova, parve primamente,
accompagnata d'Amore, a li occhi miei e prese luogo alcuno ne la mia mente. E sì come è
ragionato per me ne lo allegato libello, più da sua gentilezza che da mia elezione venne
ch'io ad essere suo consentisse; ché passionata di tanta misericordia si dimostrava sopra
la mia vedovata vita, che li spiriti de li occhi miei a lei si fero massimamente amici. E
così fatti, dentro [me] lei poi fero tale, che lo mio beneplacito fu contento a
disposarsi a quella imagine. Ma però che non subitamente nasce amore e fassi grande e
viene perfetto, ma vuole tempo alcuno e nutrimento di pensieri, massimamente là dove sono
pensieri contrari che lo 'mpediscano, convenne, prima che questo nuovo amore fosse
perfetto, molta battaglia intra lo pensiero del suo nutrimento e quello che li era
contraro, lo quale per quella gloriosa Beatrice tenea ancora la rocca de la mia mente.
Però che l'uno era soccorso de la parte [de la vista] dinanzi continuamente, e l'altro de
la parte de la memoria di dietro. E lo soccorso dinanzi ciascuno die crescea, che far non
potea l'altro, con[tr]o quello, ché impediva in alcuno modo a dare indietro il volto; per
che a me parve sì mirabile, e anche duro a sofferire, che io nol potei sostenere. E quasi
esclamando, e per iscusare me de la v[a]ri[e]tade ne la quale parea me avere manco di
fortezza, dirizzai la voce mia in quella parte onde procedeva la vittoria del nuovo
pensiero, ch'era virtuosissimo sì come vertù celestiale; e cominciai a dire: Voi che
'ntendendo il terzo ciel movete.
A lo 'ntendimento de la quale canzone
bene imprendere, conviene prima conoscere le sue parti, sì che leggiero sarà poi lo suo
intendimento a vedere. Acciò che più non sia mestiere di predicere queste parole per le
sposizioni de l'altre, dico che questo ordine, che in questo trattato si prenderà, tenere
intendo per tutti li altri.
Adunque dico che la canzone proposta è
contenuta da tre parti principali. La prima è lo primo verso di quella: ne la quale
s'inducono a udire ciò che dire intendo certe Intelligenze, o vero per più usato modo
volemo dire Angeli, le quali sono a la revoluzione del cielo di Venere, sì come movitori
di quello. La seconda è li tre versi che appresso del primo sono: ne la quale si
manifesta quel che dentro spiritualmente si sentiva intra' diversi pensieri. La terza è
lo quinto e l'ultimo verso: ne la quale sì vuole l'uomo parlare a l'opera medesima, quasi
a confortare quella. E queste tutte e tre parti, per ordine sono, come è detto di sopra,
a dimostrare.
Capitolo III
A più
latinamente vedere la sentenza litterale, a la quale ora s'intende, de la prima parte
sopra divisa, è da sapere chi e quanti sono costoro che son chiamati a l'audienza mia, e
quale è questo terzo cielo lo quale dico loro muovere: e prima dirò del cielo, poi dirò
di loro a cu' io parlo. E avvegna che quelle cose, per rispetto de la veritade, assai poco
sapere si possano, quel cotanto che l'umana ragione ne vede ha più dilettazione che 'l
molto e 'l certo de le cose de le quali si giudica [secondo lo senso], secondo la sentenza
del Filosofo in quello de li Animali.
Dico adunque, che del numero de li cieli
e del sito diversamente è sentito da molti, avvegna che la veritade a l'ultimo sia
trovata. Aristotile credette, seguitando solamente l'antica grossezza de li astrologi, che
fossero pure otto cieli, de li quali lo estremo, e che contenesse tutto, fosse quello dove
le stelle fisse sono, cioè la spera ottava; e che di fuori da esso non fosse altro
alcuno. Ancora credette che lo cielo del Sole fosse immediato con quello de la Luna, cioè
secondo a noi. E questa sua sentenza così erronea può vedere chi vuole nel secondo De
Celo et Mundo, ch'è nel secondo de' libri naturali. Veramente elli di ciò si scusa nel
duodecimo de la Metafisica, dove mostra bene sé avere seguito pur l'altrui sentenza là
dove d'astrologia li convenne parlare.
Tolomeo poi, accorgendosi che l'ottava
spera si movea per più movimenti, veggendo lo cerchio suo partire da lo diritto cerchio,
che volge tutto da oriente in occidente, costretto da li principii di filosofia, che di
necessitade vuole uno primo mobile semplicissimo, puose un altro cielo essere fuori de lo
Stellato, lo quale facesse questa revoluzione da oriente in occidente: la quale dico che
si compie quasi in ventiquattro ore, [cioè in ventitrè ore] e quattordici parti de le
quindici d'un'altra, grossamente assegnando. Sì che secondo lui, secondo quello che si
tiene in astrologia ed in filosofia poi che quelli movimenti furon veduti, sono nove cieli
mobili; lo sito de li quali è manifesto e diterminato, secondo che per un'arte che si
chiama perspettiva, e [per] arismetrica e geometria, sensibilmente e ragionevolmente è
veduto, e per altre esperienze sensibili: sì come ne lo eclipsi del sole appare
sensibilmente la luna essere sotto lo sole e sì come per testimonianza d'Aristotile, che
vide con li occhi (secondo che dice nel secondo De Celo et Mundo) la luna, essendo nuova,
entrare sotto a Marte da la parte non lucente, e Marte stare celato tanto che rapparve da
l'altra parte lucente de la luna, ch'era verso occidente.
Ed è l'ordine del sito questo, che lo
primo che numerano è quello dove è la Luna; lo secondo è quello dov'è Mercurio; lo
terzo è quello dov'è Venere; lo quarto è quello dove è lo Sole; lo quinto è quello di
Marte; lo sesto è quello di Giove; lo settimo è quello di Saturno; l'ottavo è quello de
le Stelle; lo nono è quello che non è sensibile se non per questo movimento che è detto
di sopra; lo quale chiamano molti Cristallino, cioè diafano, o vero tutto trasparente.
Veramente, fuori di tutti questi, li cattolici pongono lo cielo Empireo, che è a dire
cielo di fiamma o vero luminoso; e pongono esso essere immobile per avere in sé, secondo
ciascuna parte, ciò che la sua materia vuole. E questo è cagione al Primo Mobile per
avere velocissimo movimento; ché per lo ferventissimo appetito ch'è 'n ciascuna parte di
quello nono cielo, che è immediato a quello, d'essere congiunta con ciascuna parte di
quello divinissimo ciel quieto, in quello si rivolve con tanto desiderio, che la sua
velocitade è quasi incomprensibile. E quieto e pacifico è lo luogo di quella somma
Deitade che sola [sé] compiutamente vede. Questo loco è di spiriti beati, secondo che la
Santa Chiesa vuole, che non può dire menzogna; e Aristotile pare ciò sentire, a chi bene
lo 'ntende, nel primo De Celo et Mundo. Questo è lo soprano edificio del mondo, nel quale
tutto lo mondo s'inchiude, e di fuori dal quale nulla è; ed esso non è in luogo ma
formato fu solo ne la prima Mente, la quale li Greci dicono Protonoè. Questa è quella
magnificenza de la quale parlò il Salmista quando dice a Dio: "Levata è la
magnificenza tua sopra li cieli". E così ricogliendo ciò che ragionato è, pare che
diece cieli siano, de li quali quello di Venere sia lo terzo, del quale si fa menzione in
quella parte che mostrare intendo.
Ed è da sapere che ciascuno cielo di
sotto al Cristallino ha due poli fermi, quanto a sé; e lo nono li ha fermi e fissi, e non
mutabili secondo alcuno respetto. E ciascuno, sì lo nono come li altri, hanno un cerchio,
che si può chiamare equatore del suo cielo proprio; lo quale igualmente in ciascuna parte
de la sua revoluzione è rimoto da l'uno polo e da l'altro, come può sensibilmente vedere
chi volge un pomo, o altra cosa ritonda. E questo cerchio ha più rattezza nel muovere che
alcuna parte del suo cielo, in ciascuno cielo, come può vedere chi bene considera. E
ciascuna parte, quant'ella più è presso ad esso, tanto più rattamente si muove; quanto
più n'è remota e più presso al polo, più è tarda, però che la sua revoluzione è
minore, e conviene essere in uno medesimo tempo, di necessitade, con la maggiore. Dico
ancora, che quanto lo cielo più è presso al cerchio equatore tanto è più nobile per
comparazione a li suoi [poli], però che ha più movimento e più attualitade e più vita
e più forma, e più tocca di quello che è sopra sé, e per consequente più è virtuoso.
Onde le stelle del Cielo Stellato sono più piene di vertù tra loro quanto più sono
presso a questo cerchio.
E in sul dosso di questo cerchio, nel
cielo di Venere, del quale al presente si tratta, è una speretta che per se medesima in
esso cielo si volge; lo cerchio de la quale li astrologi chiamano epiciclo. E sì come la
grande spera due poli volge, così questa picciola, e così ha questa picciola lo cerchio
equatore, e così è più nobile quanto è più presso di quello; e in su l'arco, o vero
dosso, di questo cerchio è fissa la lucentissima stella di Venere. E avvegna che detto
sia essere diece cieli secondo la stretta veritade, questo numero non li comprende tutti;
ché questo di cui è fatta menzione, cioè l'epiciclo nel quale è fissa la stella, è
uno cielo per sé, o vero spera, e non ha una essenza con quello che 'l porta, avvegna che
più sia connaturato ad esso che li altri; e con esso è chiamato uno cielo, e dinominasi
l'uno e l'altro da la stella. Come li altri cieli e l'altre stelle siano, non è al
presente da trattare: basti ciò che detto è de la veritade del terzo cielo, del quale al
presente intendo e del quale compiutamente è mostrato quello che al presente n'è
mestiere.
Capitolo IV
Poi ch'è
mostrato nel precedente capitolo quale è questo terzo cielo e come in se medesimo è
disposto, resta di dimostrare chi sono questi che 'l muovono. È adunque da sapere
primamente che li movitori di quelli sono sustanze separate da materia, cioè
intelligenze, le quali la volgare gente chiamano Angeli. E di queste creature, sì come de
li cieli, diversi diversamente hanno sentito, avvegna che la veritade sia trovata. Furono
certi filosofi, de' quali pare essere Aristotile ne la sua Metafisica (avvegna che nel
primo di Cielo incidentemente paia sentire altrimenti), che credettero solamente essere
tante queste, quante circulazioni fossero ne li cieli, e non più, dicendo che l'altre
sarebbero state etternalmente indarno, sanza operazione; ch'era impossibile, con ciò sia
cosa che loro essere sia loro operazione. Altri furono, sì come Plato, uomo
eccellentissimo, che puosero non solamente tante Intelligenze quanti sono li movimenti del
cielo, ma eziandio quante sono le spezie de le cose (cioè le maniere de le cose): sì
come è una spezie tutti li uomini, e un'altra tutto l'oro, e un'altra tutte le larghezze,
e così di tutte. E volsero che sì come le Intelligenze de li cieli sono generatrici di
quelli, ciascuna del suo, così queste fossero generatrici de l'altre cose ed essempli,
ciascuna de la sua spezie; e chiamale Plato a "idee", che tanto è a dire quanto
forme e nature universali. Li gentili le chiamano Dei e Dee, avvegna che non così
filosoficamente intendessero quelle come Plato, e adoravano le loro imagini, e faceano
loro grandissimi templi: sì come a Giuno, la quale dissero dea di potenza; sì come a
Pallade o vero Minerva, la quale dissero dea di sapienza; sì come a Vulcano, lo quale
dissero dio del fuoco, ed a Cerere, la quale dissero dea de la biada. Le quali cose e
oppinioni manifesta la testimonianza de' poeti, che ritraggono in parte alcuna lo modo de'
gentili e ne li sacrifici e ne la loro fede; e anco si manifesta in molti nomi antichi
rimasi o per nomi o per sopranomi a lochi e antichi edifici, come può bene ritrovare chi
vuole.
E avvegna che per ragione umana queste
oppinioni di sopra fossero fornite, e per esperienza non lieve, la veritade ancora per
loro veduta non fue e per difetto di ragione e per difetto d'ammaestramento; ché pur per
ragione veder si può in molto maggiore numero esser le creature sopra dette, che non sono
li effetti che [da] li uomini si possono intendere. E l'una ragione è questa. Nessuno
dubita, né filosofo né gentile né giudeo né cristiano né alcuna setta, ch'elle non
siano piene di tutta beatitudine, o tutte o la maggior parte, e che quelle beate non siano
in perfettissimo stato. Onde, con ciò sia cosa che quella che è qui l'umana natura non
pur una beatitudine abbia, ma due, sì com'è quella de la vita civile, e quella de la
contemplativa, inrazionale sarebbe se noi vedemo quelle avere la beatitudine de la vita
attiva, cioè civile, nel governare del mondo, e non avessero quella de la contemplativa,
la quale è più eccellente e più divina. E con ciò sia cosa che quella che ha la
beatitudine del governare non possa l'altra avere, perché lo 'ntelletto loro è uno e
perpetuo, conviene essere altre fuori di questo ministerio che solamente vivano
speculando. E perché questa vita è più divina, e quanto la cosa è più divina è più
di Dio simigliante, manifesto è che questa vita è da Dio più amata; e se ella è più
amata, più le è la sua beatanza stata larga; e se più l'è stata larga, più viventi le
ha dato che a l'altrui. Per che si conchiude che troppo maggior numero sia quello di
quelle creature che li effetti non dimostrano. E non è contra quello che par dire
Aristotile nel decimo de l'Etica, che a le sustanze separate convegna pure la speculativa
vita. Come pure la speculativa convegna loro, pure a la speculazione di certe segue la
circulazione del cielo, che è del mondo governo; lo quale è quasi una ordinata
civilitade, intesa ne la speculazione de li motori.
L'altra ragione si è che nullo effetto
è maggiore de la cagione, poi che la cagione non può dare quello che non ha; ond'è, con
ciò sia cosa che lo divino intelletto sia cagione di tutto, massimamente de lo 'ntelletto
umano, che lo umano quello non soperchia, ma da esso è improporzionalmente soperchiato.
Dunque se noi, per le ragioni di sopra e per molt'altre, intendiamo Iddio aver potuto fare
innumerabili quasi creature spirituali, manifesto è lui questo avere fatto maggiore
numero. Altre ragioni si possono vedere assai, ma queste bastino al presente.
Né si meravigli alcuno se queste e altre
ragioni che di ciò avere potemo, non sono del tutto dimostrate; che però medesimamente
dovemo ammirare loro eccellenza - la quale soverchia gli occhi de la mente umana, sì come
dice lo Filosofo nel secondo de la Metafisica -, e affermar loro essere. Poi che non
avendo di loro alcuno senso (dal quale comincia la nostra conoscenza), pure risplende nel
nostro intelletto alcuno lume de la vivacissima loro essenza, in quanto vedemo le sopra
dette ragioni, e molt'altre; sì come afferma chi ha li occhi chiusi l'aere essere
luminoso, per un poco di splendore, o vero raggio, c[om]e passa per le pupille del
vispistrello: ché non altrimenti sono chiusi li nostri occhi intellettuali, mentre che
l'anima è legata e incarcerata per li organi del nostro corpo.
Capitolo V
Detto è che per
difetto d'ammaestramento li antichi la veritade non videro de le creature spirituali,
avvegna che quello popolo d'Israel fosse in parte da li suoi profeti ammaestrato, "ne
li quali, per molte maniere di parlare e per molti modi, Dio avea loro parlato", sì
come l'Apostolo dice. Ma noi semo di ciò ammaestrati da colui che venne da quello, da
colui che le fece, da colui che le conserva, cioè da lo Imperatore de l'universo, che è
Cristo, figliuolo del sovrano Dio e figliuolo di Maria Vergine, femmina veramente e figlia
di Ioacchino e d'Adamo: uomo vero, lo quale fu morto da noi, per che ci recò vita.
"Lo qual fu luce che allumina noi ne le tenebre", sì come dice Ioanni
Evangelista, e disse a noi la veritade di quelle cose che noi sapere sanza lui non
potavamo, né veder veramente.
La prima cosa e lo primo secreto che ne
mostrò, fu una de le creature predette: ciò fu quello suo grande legato che venne a
Maria, giovinetta donzella di tredici anni, da parte del Sanator celestiale. Questo nostro
Salvatore con la sua bocca disse che 'l Padre li potea dare molte legioni d'angeli; questi
non negò, quando detto li fu che 'l Padre avea comandato a li angeli che li ministrassero
e servissero. Per che manifesto è a noi quelle creature [essere] in lunghissimo numero;
per che la sua sposa e secretaria Santa Ecclesia - de la quale dice Salomone: "Chi è
questa che ascende del diserto, piena di quelle cose che dilettano, appoggiata sopra
l'amico suo?" - dice, crede e predica quelle nobilissime creature quasi innumerabili.
E partele per tre gerarchie, che è a dire tre principati santi o vero divini, e ciascuna
gerarchia ha tre ordini; sì che nove ordini di creature spirituali la Chiesa tiene e
afferma. Lo primo è quello de li Angeli, lo secondo de li Arcangeli, lo terzo de li
Troni; e questi tre ordini fanno la prima gerarchia: non prima quanto a nobilitade, non a
creazione (ché più sono l'altre nobili e tutte furono insieme create), ma prima quanto
al nostro salire a loro altezza. Poi sono le Dominazioni; appresso le Virtuti; poi li
Principati: e questi fanno la seconda gerarchia. Sopra questi sono le Potestati e li
Cherubini, e sopra tutti sono li Serafini: e questi fanno la terza gerarchia. Ed è
potissima ragione de la loro speculazione e lo numero in che sono le gerarchie e quello in
che sono li ordini. Ché con ciò sia cosa che la Maestà divina sia in tre persone, che
hanno una sustanza, di loro si puote triplicemente contemplare. Ché si può contemplare
de la potenza somma del Padre; la quale mira la prima gerarchia, cioè quella che è prima
per nobilitade e che ultima noi annoveriamo. E puotesi contemplare la somma sapienza del
Figliuolo; e questa mira la seconda gerarchia. E puotesi contemplare la somma e
ferventissima caritade de lo Spirito Santo; e questa mira l'ultima gerarchia, la quale,
più propinqua, a noi porge de li doni che essa riceve. E con ciò sia cosa che ciascuna
persona ne la divina Trinitade triplicemente si possa considerare, sono in ciascuna
gerarchia tre ordini che diversamente contemplano. Puotesi considerare lo Padre, non
avendo rispetto se non ad esso; e questa contemplazione fanno li Serafini, che veggiono
più de la Prima Cagione che nulla angelica natura. Puotesi considerare lo Padre secondo
che ha relazione al Figlio, cioè come da lui si parte e come con lui sé unisce; e questo
contemplano li Cherubini. Puotesi ancora considerare lo Padre secondo che da lui procede
lo Spirito Santo, e come da lui si parte e come con lui sé unisce; e questa
contemplazione fanno le Potestadi. E per questo modo si puote speculare del Figlio e de lo
Spirito Santo: per che convengono essere nove maniere di spiriti contemplativi, a mirare
ne la luce che sola se medesima vede compiutamente.
E non è qui da tacere una parola. Dico
che di tutti questi ordini si perderono alquanti tosto che furono creati, forse in numero
de la decima parte; a la quale restaurare fu l'umana natura poi creata. Li numeri, li
ordini, le gerarchie narrano li cieli mobili, che sono nove, e lo decimo annunzia essa
unitade e stabilitade di Dio. E però dice lo Salmista: "Li cieli narrano la gloria
di Dio, e l'opere de le sue mani annunzia lo fermamento". Per che ragionevole è
credere che li movitori del cielo de la Luna siano de l'ordine de li Angeli, e quelli di
Mercurio siano li Arcangeli, e quelli di Venere siano li Troni; li quali, naturati de
l'amore del Santo Spirito, fanno la loro operazione, connaturale ad essi, cioè lo
movimento di quello cielo, pieno d'amore, dal quale prende la forma del detto cielo uno
ardore virtuoso per lo quale le anime di qua giuso s'accendono ad amore, secondo la loro
disposizione. E perché li antichi s'accorsero che quello cielo era qua giù cagione
d'amore, dissero Amore essere figlio di Venere, sì come testimonia Vergilio nel primo de
lo Eneida, ove dice Venere ad Amore: "Figlio, vertù mia, figlio del sommo padre, che
li dardi di Tifeo non curi"; e Ovidio, nel quinto di Metamorphoseos, quando dice che
Venere disse ad Amore: "Figlio, armi mie, potenzia mia". E sono questi Troni,
che al governo di questo cielo sono dispensati, in numero non grande, de lo quale per li
filosofi e per li astrologi diversamente è sentito, secondo che diversamente sentiro de
le sue circulazioni; avvegna che tutti siano accordati in questo, che tanti sono quanti
movimenti esso fae. Li quali, secondo che nel libro de l'Aggregazion[i] de le Stelle
epilogato si truova da la migliore dimostrazione de li astrologi, sono tre: uno, secondo
che la stella si muove per lo suo epiciclo; l'altro, secondo che lo epiciclo si muove con
tutto il cielo igualmente con quello del Sole; lo terzo, secondo che tutto quello cielo si
muove seguendo lo movimento de la stellata spera, da occidente a oriente, in cento anni
uno grado. Sì che a questi tre movimenti sono tre movitori. Ancora si muove tutto questo
cielo e rivolgesi con lo epiciclo da oriente in occidente, ogni dì naturale una fiata: lo
qual movimento, se esso è da intelletto alcuno, o se esso è da la rapina del Primo
Mobile, Dio lo sa; che a me pare presuntuoso a giudicare. Questi movitori muovono, solo
intendendo, la circulazione in quello subietto propio che ciascuno muove. La forma
nobilissima del cielo, che ha in sé principio di questa natura passiva, gira, toccata da
vertù motrice che questo intende: e dico toccata, non corporalmente, per tatto di vertù
la quale si dirizza in quello. E questi movitori sono quelli a li quali s'intende di
parlare, ed a cui io fo mia dimanda.
Capitolo VI
Secondo che di
sopra, nel terzo capitolo di questo trattato, si disse, ch'a bene intendere la prima parte
de la proposta canzone convenia ragionare di quelli cieli e de li loro motori, ne li tre
precedenti capitoli è ragionato. Dico adunque a quelli ch'io mostrai sono movitori del
cielo di Venere: O voi che 'ntendendo - cioè con lo intelletto solo, come detto
è di sopra, - lo terzo cielo movete, Udite il ragionare; e non dico udite
perch'elli odano alcuno suono, ch'elli non hanno senso, ma dico udite, cioè con
quello udire ch'elli hanno, ch'è intendere per intelletto. Dico: Udite il ragionar
lo quale è nel mio core: cioè dentro da me, ché ancora non è di fuori
apparito. E da sapere è che in tutta questa canzone, secondo l'uno senso e l'altro, lo
"core" si prende per lo secreto dentro, e non per altra spezial parte de l'anima
e del corpo.
Poi li ho chiamati ad udire quello ch'io
voglio, assegno due ragioni per che io convenevolemente deggio loro parlare. L'una si è
la novitade de la mia condizione, la quale, per non essere da li altri uomini esperta, non
sarebbe così da loro intesa come da coloro che 'ntendono li loro effetti ne la loro
operazione; e questa ragione tocco quando dico: Ch'io nol so dire altrui, sì mi par
novo. L'altra ragione è: quand'uomo riceve beneficio, o vero ingiuria, prima de'
quello retraere a chi liele fa, se può, che ad altri; acciò che se ello è beneficio,
esso che lo riceve si mostri conoscente inver lo benefattore; e s'ella è ingiuria, induca
lo fattore a buona misericordia con le dolci parole. E questa ragione tocco, quando dico: El
ciel che segue lo vostro valore, Gentili creature che voi sete, Mi tragge ne lo stato
ov'io mi trovo. Ciò è a dire: l'operazione vostra, cioè la vostra circulazione, è
quella che m'ha tratto ne la presente condizione. Però conchiudo e dico che 'l mio
parlare a loro dee essere, sì come detto è; e questo dico qui: Onde 'l parlar de la
vita ch'io provo, Par che si drizzi degnamente a vui. E dopo queste ragioni
assegnate, priego loro de lo 'ntendere quando dico: Però vi priego che li mi
'ntendiate. Ma però che in ciascuna maniera di sermone lo dicitore massimamente dee
intendere a la persuasione, cioè a l'abbellire, de l'audienza, sì come a quella ch'è
principio di tutte l'altre persuasioni, come li rettorici [s]anno; e potentissima
persuasione sia, a rendere l'uditore attento, promettere di dire nuove e grandissime cose;
seguito io, a la preghiera fatta de l'audienza, questa persuasione, cioè, dico,
abbellimento, annunziando loro la mia intenzione, la quale è di dire nuove cose, cioè la
divisione ch'è ne la mia anima, e grandi cose, cioè lo valore de la loro stella. E
questo dico in quelle ultime parole di questa prima parte: Io vi dirò del cor la
novitate, Come l'anima trista piange in lui, E come un spirto contra lei favella, Che vien
pe' raggi de la vostra stella.
E a pieno intendimento di queste parole,
dico che questo [spirito] non è altro che uno frequente pensiero a questa nuova donna
commendare e abbellire; e questa anima non è altro che un altro pensiero accompagnato di
consentimento, che, repugnando a questo, commenda e abbellisce la memoria di quella
gloriosa Beatrice. Ma però che ancora l'ultima sentenza de la mente, cioè lo
consentimento, si tenea per questo pensiero che la memoria aiutava, chiamo lui anima
e l'altro spirito; sì come chiamare solemo la cittade quelli che la tengono, e
non coloro che la combattono, avvegna che l'uno e l'altro sia cittadino. Dico anche che
questo spirito viene per li raggi de la stella: per che sapere si vuole che li raggi di
ciascuno cielo sono la via per la quale discende la loro vertude in queste cose di qua
giù. E però che li raggi non sono altro che uno lume che viene dal principio de la luce
per l'aere infino a la cosa illuminata, e luce non sia se non ne la parte de la stella,
però che l'altro cielo è diafano, cioè transparente, non dico che vegna questo spirito,
cioè questo pensiero, dal loro cielo in tutto, ma da la loro stella. La quale per la
nobilità de li suoi movitori è di tanta vertute, che ne le nostre anime e ne le altre
nostre cose ha grandissima podestade, non ostante che essa ci sia lontana, qual volta più
c'è presso, cento sessanta sette volte tanto quanto è, e più, al mezzo de la terra, che
ci ha di spazio tremilia dugento cinquanta miglia. E questa è la litterale esposizione de
la prima parte de la canzone.
© 1999 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 14 giugno 1999