Dante Alighieri
Convivio
(trattato I, capp. VIII-XIII)
TRATTATO I
Capitolo VIII
Quando è
mostrato per le suficienti ragioni come, per cessare disconvenevoli disordinamenti,
converrebbe, [a le] nominate canzoni aprire e mostrare, comento volgare e non latino,
mostrare intendo come ancora pronta liberalitate mi fece questo eleggere e l'altro
lasciare. Puotesi adunque la pronta liberalitate in tre cose notare, le quali seguitano
questo volgare, e lo latino non averebbero seguitato. La prima è dare a molti; la seconda
è dare utili cose; la terza è, sanza essere domandato lo dono, dare quello. Ché dare a
uno e giovare a uno è bene; ma dare a molti e giovare a molti è pronto bene, in quanto
prende simiglianza da li benefici di Dio, che è universalissimo benefattore. E ancora,
dare a molti è impossibile sanza dare a uno, acciò che uno in molti sia inchiuso; ma
dare a uno si può bene, sanza dare a molti. Però chi giova a molti fa l'uno bene e
l'altro; chi giova a uno, fa pur un bene: onde vedemo li ponitori de le leggi massimamente
pur a li più comuni beni tenere confissi li occhi, quelle componendo. Ancora, dare cose
non utili al prenditore pure è bene, in quanto colui che dà mostra almeno sé essere
amico; ma non è perfetto bene, e così non è pronto: come quando uno cavaliere donasse
ad uno medico uno scudo, e quando uno medico donasse a uno cavaliere scritti li Aphorismi
d'Ipocràs, ovvero li Tegni di Galieno. Per che li savi dicono che la faccia del dono dee
essere simigliante a quella del ricevitore, cioè a dire che si convegna con lui, e che
sia utile: e in quello è detta pronta liberalitade di colui che così dicerne donando. Ma
però che li morali ragionamenti sogliono dare desiderio di vedere l'origine loro,
brievemente in questo capitolo intendo mostrare quattro ragioni per che di necessitade lo
dono, acciò che in quello sia pronta liberalitade, conviene essere utile a chi riceve.
Primamente, però che la vertù dee
essere lieta, e non trista in alcuna sua operazione; onde se 'l dono non è lieto nel dare
e nel ricevere, non è in esso perfetta vertù, non è pronta. Questa letizia non può
dare altro che utilitade, che rimane nel datore per lo dare, e che viene nel ricevitore
per ricevere. Nel datore adunque dee essere la providenza in far sì che de la sua parte
rimagna l'utilitade de l'onestate, ch'è sopra ogni utilitade, e far sì che a lo
ricevitore vada l'utilitade de l'uso de la cosa donata; e così sarà l'uno e l'altro
lieto, e per consequente sarà più pronta la liberalitade. Secondamente, però che la
vertù dee muovere le cose sempre al migliore. Ché così come sarebbe biasimevole
operazione fare una zappa d'una bella spada o fare un bel nappo d'una bella chitarra,
così è biasimevole muover la cosa d'un luogo dove sia utile e portarla in parte dove sia
meno utile. E però che biasimevole è invano adoperare, biasimevole è non solamente a
porre la cosa in parte dove sia meno utile, ma eziandio in parte ove sia igualmente utile.
Onde, acciò che sia laudabile lo mutare de le cose, conviene sempre essere [al] migliore,
per ciò che dee massimamente essere laudabile: e questo non [si] può fare nel dono se 'l
dono per transmutazione non viene più caro; né più caro può venire, se esso non è
più utile ad usare al ricevitore che al datore. Per che si conchiude che 'l dono conviene
essere utile a chi lo riceve, acciò che sia in esso pronta liberalitade. Terziamente,
però che la operazione de la vertù per sé dee essere acquistatrice d'amici; con ciò
sia cosa che la nostra vita di quello abbisogni, e lo fine de la vertù sia la nostra vita
essere contenta. Onde acciò che 'l dono faccia lo ricevitore amico, conviene a lui essere
utile, però che l'utilitade sigilla la memoria de la imagine del dono, l[a] quale è
nutrimento de l'amistade; e tanto più forte, quanto essa è migliore. Onde suole dire
Martino: "Non caderà de la mia mente lo dono che mi fece Giovanni". Per che,
acciò che nel dono sia la sua vertù, la quale è liberalitade, e che essa sia pronta,
conviene essere utile a chi riceve. Ultimamente, però che la vertù dee avere atto libero
e non sforzato. Atto libero è quando una persona va volentieri ad alcuna parte, che si
mostra nel tener volto lo viso in quella; atto sforzato è quando contra voglia si va, che
si mostra in non guardare ne la parte dove si va. E allora sì guarda lo dono a quella
parte, quando si dirizza al bisogno de lo ricevente. E però che dirizzarsi ad esso non si
può se non sia utile, conviene, acciò che sia con atto libero la vertù, essere [utile]
lo dono a la parte ov'elli vae, ch'è lo ricevitore; e per consequente conviene essere ne
lo dono l'utilità de lo ricevitore, acciò che quinci sia pronta liberalitade.
La terza cosa, ne la quale si può notare
la pronta liberalitade, si è dare non domandato: acciò che 'l domandato è da una parte
non vertù ma mercatantia, però che lo ricevitore compera, tutto che 'l datore non venda.
Per che dice Seneca che "nulla cosa più cara si compera che quella dove i prieghi si
spendono". Onde acciò che nel dono sia pronta liberalitade e che essa si possa in
esso notare, allora, s[e] conviene esser netto d'ogni atto di mercatantia, conviene esser
lo dono non domandato. Perché sì caro costa quello che si priega, non intendo qui
ragionare, perché sufficientemente si ragionerà ne l'ultimo trattato di questo libro.
Capitolo IX
Da tutte le tre
sopra notate condizioni, che con vegnono concorrere acciò che sia nel beneficio la pronta
liberalitade, era lo comento latino [lontano], e lo volgare è con quelle, sì come si
può manifestamente così contare. Non avrebbe lo latino così servito a molti: ché se
noi reducemo a memoria quello che di sovra è ragionato, li litterati fuori di lingua
italica non averebbono potuto avere questo servigio, e quelli di questa lingua, se noi
volemo bene vedere chi sono, troveremo che de' mille l'uno ragionevolmente non sarebbe
stato servito; però che non l'averebbero ricevuto, tanto sono pronti ad avarizia che da
ogni nobilitade d'animo li rimuove, la quale massimamente desidera questo cibo. E a
vituperio di loro dico che non si deono chiamare litterati, però che non acquistano la
lettera per lo suo uso, ma in quanto per quella guadagnano denari o dignitate; sì come
non si dee chiamare citarista chi tiene la cetera in casa per prestarla per prezzo, e non
per usarla per sonare. Tornando dunque al principale proposito, dico che manifestamente si
può vedere come lo latino averebbe a pochi dato lo suo beneficio, ma lo volgare servirà
veramente a molti. Ché la bontà de l'animo, la quale questo servigio attende, è in
coloro che per malvagia disusanza del mondo hanno lasciata la litteratura a coloro che
l'hanno fatta di donna meretrice; e questi nobili sono principi, baroni, cavalieri, e
molt'altra nobile gente, non solamente maschi ma femmine, che sono molti e molte in questa
lingua, volgari e non litterati.
Ancora, non sarebbe lo latino stato
datore d'utile dono, che sarà lo volgare. Però che nulla cosa è utile, se non in quanto
è usata, né è la sua bontade in potenza, che non è essere perfettamente; sì come
l'oro, le margarite e li altri tesori che sono sotterrati...; però che quelli che sono a
mano de l'avaro sono in più basso loco che non è la terra là dove lo tesoro è
nascosto. Lo dono veramente di questo comento è la sentenza de le canzoni a le quali
fatto è, la qual massimamente intende inducere li uomini a scienza e a vertù, sì come
si vedrà per lo pelago del loro trattato. Questa sentenza non possono non avere in uso
quelli ne li quali vera nobilità è seminata per lo modo che si dirà nel quarto
trattato; e questi sono quasi tutti volgari, sì come sono quelli nobili che di sopra, in
questo capitolo, sono nominati. E non ha contradizione perché alcuno litterato sia di
quelli; ché, sì come dice il mio maestro Aristotile nel primo de l'Etica, "una
rondine non fa primavera". È adunque manifesto che lo volgare darà cosa utile, e lo
latino non l'averebbe data.
Ancora, darà lo volgare dono non
dimandato, che non l'averebbe dato lo latino: però che darà se medesimo per comento, che
mai non fu domandato da persona; e questo non si può dire de lo latino, che per comento e
per chiose a molte scritture è già stato domandato, sì come ne' loro principii si può
vedere apertamente in molte. E così è manifesto che pronta liberalitade mi mosse al
volgare anzi che a lo latino.
Capitolo IX
Da tutte le tre sopra
notate condizioni, che con vegnono concorrere acciò che sia nel beneficio la pronta
liberalitade, era lo comento latino [lontano], e lo volgare è con quelle, sì come si
può manifestamente così contare. Non avrebbe lo latino così servito a molti: ché se
noi reducemo a memoria quello che di sovra è ragionato, li litterati fuori di lingua
italica non averebbono potuto avere questo servigio, e quelli di questa lingua, se noi
volemo bene vedere chi sono, troveremo che de' mille l'uno ragionevolmente non sarebbe
stato servito; però che non l'averebbero ricevuto, tanto sono pronti ad avarizia che da
ogni nobilitade d'animo li rimuove, la quale massimamente desidera questo cibo. E a
vituperio di loro dico che non si deono chiamare litterati, però che non acquistano la
lettera per lo suo uso, ma in quanto per quella guadagnano denari o dignitate; sì come
non si dee chiamare citarista chi tiene la cetera in casa per prestarla per prezzo, e non
per usarla per sonare. Tornando dunque al principale proposito, dico che manifestamente si
può vedere come lo latino averebbe a pochi dato lo suo beneficio, ma lo volgare servirà
veramente a molti. Ché la bontà de l'animo, la quale questo servigio attende, è in
coloro che per malvagia disusanza del mondo hanno lasciata la litteratura a coloro che
l'hanno fatta di donna meretrice; e questi nobili sono principi, baroni, cavalieri, e
molt'altra nobile gente, non solamente maschi ma femmine, che sono molti e molte in questa
lingua, volgari e non litterati.
Ancora, non sarebbe lo latino stato
datore d'utile dono, che sarà lo volgare. Però che nulla cosa è utile, se non in quanto
è usata, né è la sua bontade in potenza, che non è essere perfettamente; sì come
l'oro, le margarite e li altri tesori che sono sotterrati...; però che quelli che sono a
mano de l'avaro sono in più basso loco che non è la terra là dove lo tesoro è
nascosto. Lo dono veramente di questo comento è la sentenza de le canzoni a le quali
fatto è, la qual massimamente intende inducere li uomini a scienza e a vertù, sì come
si vedrà per lo pelago del loro trattato. Questa sentenza non possono non avere in uso
quelli ne li quali vera nobilità è seminata per lo modo che si dirà nel quarto
trattato; e questi sono quasi tutti volgari, sì come sono quelli nobili che di sopra, in
questo capitolo, sono nominati. E non ha contradizione perché alcuno litterato sia di
quelli; ché, sì come dice il mio maestro Aristotile nel primo de l'Etica, "una
rondine non fa primavera". È adunque manifesto che lo volgare darà cosa utile, e lo
latino non l'averebbe data.
Ancora, darà lo volgare dono non
dimandato, che non l'averebbe dato lo latino: però che darà se medesimo per comento, che
mai non fu domandato da persona; e questo non si può dire de lo latino, che per comento e
per chiose a molte scritture è già stato domandato, sì come ne' loro principii si può
vedere apertamente in molte. E così è manifesto che pronta liberalitade mi mosse al
volgare anzi che a lo latino.
Capitolo X
Grande vuole
essere la scusa, quando a così nobile convivio per le sue vivande, a così onorevole per
li suoi convitati, s'appone pane di biado e non di frumento; e vuole essere evidente
ragione che partire faccia l'uomo da quello che per li altri è stato servato lungamente,
sì come di comentare con latino. E però vuole essere manifesta la ragione, che de le
nuove cose lo fine non è certo; acciò che la esperienza non è mai avuta onde le cose
usate e servate sono e nel processo e nel fine commisurate. Però si mosse la Ragione a
comandare che l'uomo avesse diligente riguardo ad entrare nel nuovo cammino, dicendo che
"ne lo statuire le nuove cose evidente ragione dee essere quella che partire ne
faccia da quello che lungamente è usato". Non si maravigli dunque alcuno se lunga è
la digressione de la mia scusa, ma, sì come necessaria, la sua lunghezza paziente
sostenga. La quale proseguendo, dico che - poi ch'è manifesto come per cessare
disconvenevole disordinazione e come per prontezza di liberalitade io mi mossi al volgare
comento e lasciai lo latino - l'ordine de la intera scusa vuole ch'io mostri come a ciò
mi mossi per lo naturale amore de la propria loquela; che è la terza e l'ultima ragione
che a ciò mi mosse. Dico che lo naturale amore principalmente muove l'amatore a tre cose:
l'una si è a magnificare l'amato; l'altra è ad esser geloso di quello; l'altra è a
difendere lui, sì come ciascuno può vedere continuamente avvenire. E queste tre cose mi
fecero prendere lui, cioè lo nostro volgare, lo qual naturalmente e accidentalmente amo e
ho amato. Mossimi prima per magnificare lui. E che in ciò io lo magnifico, per questa
ragione vedere si può; avvegna che per molte condizioni di grandezze le cose si possono
magnificare, cioè fare grandi, e nulla fa tanto grande quanto la grandezza de la propia
bontade, la quale è madre e conservatrice de l'altre grandezze; onde nulla grandezza
puote avere l'uomo maggiore che quella de la virtuosa operazione, che è sua propia
bontade, per la quale le grandezze de le vere dignitadi, de li veri onori, de le vere
potenze, de le vere ricchezze, de li veri amici, de la vera e chiara fama, e acquistate e
conservate sono: e questa grandezza do io a questo amico, in quanto quello elli di bontade
avea in podere e occulto, io lo fo avere in atto e palese ne la sua propria operazione,
che è manifestare conceputa sentenza.
Mossimi secondamente per gelosia di lui.
La gelosia de l'amico fa l'uomo sollicito a lunga provedenza. Onde pensando che lo
desiderio d'intendere queste canzoni, a alcuno illitterato avrebbe fatto lo comento latino
transmutare in volgare, e temendo che 'l volgare non fosse stato posto per alcuno che
l'avesse laido fatto parere, come fece quelli che transmutò lo latino de l'Etica - ciò
fu Taddeo ipocratista -, providi a ponere lui, fidandomi di me di più che d'un altro.
Mossimi ancora per difendere lui da molti suoi accusatori, li quali dispregiano esso e
commendano li altri, massimamente quello di lingua d'oco, dicendo che è più bello e
migliore quello che questo; partendose in ciò da la veritade. Ché per questo comento la
gran bontade del volgare di sì [si vedrà]; però che si vedrà la sua vertù, sì com'è
per esso altissimi e novissimi concetti convenevolemente, sufficientemente e
acconciamente, quasi come per esso latino, manifestare; [la quale non si potea bene
manifestare] ne le cose rimate, per le accidentali adornezze che quivi sono connesse,
cioè la rima e lo ri[tim]o e lo numero regolato: sì come non si può bene manifestare la
bellezza d'una donna, quando li adornamenti de l'azzimare e de le vestimenta la fanno più
ammirare che essa medesima. Onde chi vuole ben giudicare d'una donna, guardi quella quando
solo sua naturale bellezza si sta con lei, da tutto accidentale adornamento discompagnata:
sì come sarà questo comento, nel quale si vedrà l'agevolezza de le sue sillabe, le
proprietadi de le sue co[stru]zioni e le soavi orazioni che di lui si fanno; le quali chi
bene agguarderà, vedrà essere piene di dolcissima e d'amabilissima bellezza. Ma però
che virtuosissimo è ne la 'ntenzione mostrare lo difetto e la malizia de lo accusatore,
dirò, a confusione di coloro che accusano la italica loquela, perché a ciò fare si
muovono; e di ciò farò al presente speziale capitolo, perché più notevole sia la loro
infamia.
Capitolo XI
A perpetuale
infamia e depressione de li malvagi uomini d'Italia che commendano lo volgare altrui e lo
loro proprio dispregiano, dico che la loro mossa viene da cinque abominevoli cagioni. La
prima è cechitade di discrezione; la seconda, maliziata escusazione; la terza, cupidità
di vanagloria; la quarta, argomento d'invidia; la quinta e ultima, viltà d'animo, cioè
pusillanimità. E ciascuna di queste retadi ha sì grande setta, che pochi sono quelli che
siano da esse liberi.
De la prima si può così ragionare. Sì
come la parte sensitiva de l'anima ha suoi occhi, con li quali apprende la differenza de
le cose in quanto elle sono di fuori colorate, così la parte razionale ha suo occhio, con
lo quale apprende la differenza de le cose in quanto sono ad alcuno fine ordinate: e
questa è la discrezione. E sì come colui che è cieco de li occhi sensibili va sempre
secondo che li altri [il guidano, o] male [o] bene, così colui che è cieco del lume de
la discrezione sempre va nel suo giudicio secondo il grido, o diritto o falso; onde
qualunque ora lo guidatore è cieco, conviene che esso e quello, anche cieco, ch'a lui
s'appoggia vegnano a mal fine. Però è scritto che "'l cieco al cieco farà guida, e
così cadranno ambedue ne la fossa". Questa grida è stata lungamente contro a nostro
volgare, per le ragioni che di sotto si ragioneranno, appresso di questa. E li ciechi
sopra notati, che sono quasi infiniti, con la mano in su la spalla a questi mentitori,
sono caduti ne la fossa de la falsa oppinione, de la quale uscire non sanno. De l'abito di
questa luce discretiva massimamente le populari persone sono orbate; però che, occupate
dal principio de la loro vita ad alcuno mestiere, dirizzano sì l'animo loro a quello per
forza de la necessitate, che ad altro non intendono. E però che l'abito di vertude, sì
morale come intellettuale, subitamente avere non si può, ma conviene che per usanza
s'acquisti, ed ellino la loro usanza pongono in alcuna arte e a discernere l'altre cose
non curano, impossibile è a loro discrezione avere. Per che incontra che molte volte
gridano Viva la loro morte, e Muoia la loro vita, pur che alcuno cominci; e quest'è
pericolosissimo difetto ne la loro cechitade. Onde Boezio giudica la populare gloria vana,
perché la vede sanza discrezione. Questi sono da chiamare pecore, e non uomini; ché se
una pecora si gittasse da una ripa di mille passi, tutte l'altre l'andrebbero dietro; e se
una pecora per alcuna cagione al passare d'una strada salta, tutte l'altre saltano,
eziandio nulla veggendo da saltare. E io ne vidi già molte in uno pozzo saltare per una
che dentro vi saltò, forse credendo saltare uno muro, non ostante che 'l pastore,
piangendo e gridando, con le braccia e col petto dinanzi a esse si parava.
La seconda setta contra nostro volgare si
fa per una maliziata scusa. Molti sono che amano più d'essere tenuti maestri che
d'essere, e per fuggir lo contrario, cioè di non esser tenuti, sempre danno colpa a la
materia de l'arte apparecchiata, o vero a lo strumento; sì come lo mal fabbro biasima lo
ferro appresentato a lui, e lo malo citarista biasima la cetera, credendo dare la colpa
del mal coltello e del mal sonare al ferro e a la cetera, e levarla a sé. Così sono
alquanti, e non pochi, che vogliono che l'uomo li tegna dicitori; e per scusarsi dal non
dire o dal dire male accusano e incolpano la materia, cioè lo volgare proprio, e
commendano l'altro lo quale non è loro richesto di fabbricare. E chi vuole vedere come
questo ferro è da biasimare, guardi che opere ne fanno li buoni artefici, e conoscerà la
malizia di costoro che, biasimando lui, s[é] credono scusare. Contra questi cotali grida
Tullio nel principio d'un suo libro che si chiama Libro di Fine de' Beni, però che al suo
tempo biasimavano lo latino romano e commendavano la gramatica greca per simiglianti
cagioni che questi fanno vile lo parlare italico e prezioso quello di Provenza.
La terza setta contro nostro volgare si
fa per cupiditate di vanagloria. Sono molti che per ritrarre cose poste in altrui lingua e
commendare quella, credono più essere ammirati che ritraendo quelle de la sua. E sanza
dubbio non è sanza loda d'ingegno apprendere bene la lingua strana; ma biasimevole è
commendare quella oltre a la verità, per farsi glorioso di tale acquisto.
La quarta si fa da uno argomento
d'invidia. Sì come è detto di sopra, la invidia è sempre dove è alcuna paritade. Intra
li uomini d'una lingua è la paritade del volgare; e perché l'uno quella non sa usare
come l'altro, nasce invidia. Lo invidioso poi argomenta, non biasimando colui che dice di
non saper dire, ma biasima quello che è materia de la sua opera, per torre, dispregiando
l'opera da quella parte, a lui che dice onore e fama; sì come colui che biasimasse lo
ferro d'una spada, non per biasimo dare al ferro, ma a tutta l'opera del maestro.
La quinta e ultima setta si muove da
viltà d'animo. Sempre lo magnanimo si magnifica in suo cuore, e così lo pusillanimo, per
contrario, sempre si tiene meno che non è. E perché magnificare e parvificare sempre
hanno rispetto ad alcuna cosa per comparazione a la quale si fa lo magnanimo grande e lo
pusillanimo piccolo, avviene che 'l magnanimo sempre fa minori li altri che non sono, e lo
pusillanimo sempre maggiori. E però che con quella misura che l'uomo misura se medesimo,
misura le sue cose, che sono quasi parte di se medesimo, avviene che al magnanimo le sue
cose sempre paiono migliori che non sono, e l'altrui men buone: lo pusillanimo sempre le
sue cose crede valere poco, e l'altrui assai; onde molti per questa viltade dispregiano lo
proprio volgare, e l'altrui pregiano. E tutti questi cotali sono li abominevoli cattivi
d'Italia che hanno a vile questo prezioso volgare, lo quale, s'è vile in alcuna [cosa],
non è se non in quanto elli suona ne la bocca meretrice di questi adulteri; a lo cui
condutto vanno li ciechi de li quali ne la prima cagione feci menzione.
Capitolo XII
Se
manifestamente per le finestre d'una casa uscisse fiamma di fuoco, e alcuno dimandasse se
là dentro fosse il fuoco, e un altro rispondesse a lui di sì, non saprei bene giudicare
qual di costoro fosse da schernire di più. E non altrimenti sarebbe fatta la dimanda e la
risposta di colui e di me, che mi domandasse se amore a la mia loquela propria è in me e
io li rispondesse di sì, appresso le su proposte ragioni. Ma tuttavia, e a mostrare che
non solamente amore ma perfettissimo amore di quella è in me, e a biasimare ancora li
suoi avversarii ciò mostrando a chi bene intenderà, dirò come a lei fui fatto amico, e
poi come l'amistà è confermata. Dico che, sì come vedere si può che s[crive] Tullio in
quello De Amicitia, non discordando da la sentenza del Filosofo aperta ne l'ottavo e nel
nono de l'Etica, naturalmente la prossimitade e la bontade sono cagioni d'amore
generative; lo beneficio, lo studio e la consuetudine sono cagioni d'amore accrescitive. E
tutte queste cagioni vi sono state a generare e a confortare l'amore ch'io porto al mio
volgare, sì come brievemente io mosterrò.
Tanto è la cosa più prossima quanto, di
tutte le cose del suo genere, altrui è più unita: onde di tutti li uomini lo figlio è
più prossimo al padre; di tutte l'arti la medicina è la più prossima al medico, e la
musica al musico, però che a loro sono più unite che l'altre; di tutta la terra è più
prossima quella dove l'uomo tiene se medesimo, però che è ad esso più unita. E così lo
volgare è più prossimo quanto è più unito, che uno e solo è prima ne la mente che
alcuno altro, e che non solamente per sé è unito, ma per accidente, in quanto è
congiunto con le più prossime persone, sì come con li parenti e con li propri cittadini
e con la propria gente. E questo è lo volgare proprio; lo quale è non prossimo, ma
massimamente prossimo a ciascuno. Per che, se la prossimitade è seme d'amistà, come
detto è di sopra, manifesto è ch'ella è de le cagioni stata de l'amore ch'io porto a la
mia loquela, che è a me prossima più che l'altre. La sopra detta cagione, cioè d'essere
più unito quello ch'è solo prima in tutta la mente, mosse la consuetudine de la gente,
che fanno li primogeniti succedere solamente, sì come più propinqui e perché più
propinqui, più amati.
Ancora, la bontade fece me a lei amico. E
qui è da sapere che ogni bontade propria in alcuna cosa, è amabile in quella: sì come
ne la maschiezza essere ben barbuto, e nella femminezza essere ben pulita di barba in
tutta la faccia; sì come nel bracco bene odorare, e sì come nel veltro ben correre. E
quanto ella è più propria, tanto ancora è più amabile; onde, avvegna che ciascuna
vertù sia amabile ne l'uomo, quella è più amabile in esso che è più umana, e questa
è la giustizia, la quale è solamente ne la parte razionale o vero intellettuale, cioè
ne la volontade. Questa è tanto amabile, che, sì come dice lo Filosofo nel quinto de
l'Etica, li suoi nimici l'amano, sì come sono ladroni e rubatori; e però vedemo che 'l
suo contrario, cioè la ingiustizia, massimamente è odiata, sì come è tradimento,
ingratitudine, falsitade, furto, rapina, inganno e loro simili. Li quali sono tanto
inumani peccati, che ad iscusare sé de l'infamia di quelli, si concede da lunga usanza
che uomo parli di sé, sì come detto è di sopra, e possa dire sé essere fedele e leale.
Di questa vertù innanzi dicerò più pienamente nel quartodecimo trattato; e qui
lasciando, torno al proposito. Provato è adunque la bontà de la cosa più propria [più
essere amabile in quella; per che, a mostrare quale in essa è più propria, ] è da
vedere quella che più in essa è amata e commendata, e quella è essa. E noi vedemo che
in ciascuna cosa di sermone lo bene manifestare del concetto sì è più amato e
commendato: dunque è questa la prima sua bontade. E con ciò sia cosa che questa sia nel
nostro volgare, sì come manifestato è di sopra in altro capitolo, manifesto è ched ella
è de le cagioni stata de l'amore ch'io porto ad esso; poi che, sì come detto è, la
bontade è cagione d'amore generativa.
Capitolo XIII
Detto come ne la
propria loquela sono quelle due cose per le quali io sono fatto a lei amico, cioè
prossimitade a me e bontà propria, dirò come per beneficio e concordia di studio e per
benivolenza di lunga consuetudine l'amistà è confermata e fatta grande.
Dico, prima, ch'io per me ho da lei
ricevuto dono di grandissimi benefici. E però è da sapere che intra tutti i benefici è
maggiore quello che più è prezioso a chi riceve; e nulla cosa è tanto preziosa, quanto
quella per la quale tutte l'altre si vogliono; e tutte l'altre cose si vogliono per la
perfezione di colui che vuole. Onde con ciò sia cosa che due perfezioni abbia l'uomo, una
prima e una seconda - la prima lo fa essere, la seconda lo fa essere buono -, se la
propria loquela m'è stata cagione e de l'una e de l'altra, grandissimo beneficio da lei
ho ricevuto. E ch'ella sia stata a me d'essere [cagione, e ancora di buono essere] se per
me non stesse, brievemente si può mostrare.
Non è secondo [lo Filosofo impossibile,
sì come dice ne la Fisica al libro secondo] a una cosa esser più cagioni efficienti,
avvegna che una sia massima de l'altre; onde lo fuoco e lo martello sono cagioni
efficienti de lo coltello, avvegna che massimamente è il fabbro. Questo mio volgare fu
congiugnitore de li miei generanti, che con esso parlavano, sì come 'l fuoco è
disponitore del ferro al fabbro che fa lo coltello; per che manifesto è lui essere
concorso a la mia generazione, e così essere alcuna cagione del mio essere. Ancora,
questo mio volgare fu introduttore di me ne la via di scienza, che è ultima perfezione,
in quanto con esso io entrai ne lo latino e con esso mi fu mostrato: lo quale latino poi
mi fu via a più innanzi andare. E così è palese, e per me conosciuto, esso essere stato
a me grandissimo benefattore.
Anche, è
stato meco d'uno medesimo studio, e ciò posso così mostrare. Ciascuna cosa studia
naturalmente a la sua conservazione: onde, se lo volgare per sé studiare potesse,
studierebbe a quella; e quella sarebbe acconciare sé a più stabilitade, e più
stabilitade non potrebbe avere che in legar sé con numero e con rime. E questo medesimo
studio è stato mio, sì come tanto è palese che non dimanda testimonianza. Per che uno
medesimo studio è stato lo suo e 'l mio; per che di questa concordia l'amistà è
confermata e accresciuta. Anche c'è stata la benivolenza de la consuetudine, ché dal
principio de la mia vita ho avuta con esso benivolenza e conversazione, e usato quello
diliberando, interpetrando e questionando. Per che, se l'amistà s'accresce per la
consuetudine, sì come sensibilmente appare, manifesto è che essa in me massimamente è
cresciuta, che sono con esso volgare tutto mio tempo usato. E così si vede essere a
questa amistà concorse tutte le cagioni generative e accrescitive de l'amistade: per che
si conchiude che non solamente amore, ma perfettissimo amore sia quello ch'io a lui debbo
avere e ho.
Così rivolgendo li occhi a dietro, e
raccogliendo le ragioni prenotate, puotesi vedere questo pane, col quale si deono mangiare
le infrascritte canzoni, essere sufficientemente purgato da le macule e da l'essere di
biado; per che tempo è d'intendere a ministrare le vivande. Questo sarà quello pane
orzato del quale si satolleranno migliaia, e a me ne soperchieranno le sporte piene.
Questo sarà luce nuova, sole nuovo, lo quale surgerà là dove l'usato tramonterà, e
darà lume a coloro che sono in tenebre e in oscuritade per lo usato sole che a loro non
luce.
© 1999 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 14 giugno 1999