Dante Alighieri
Convivio
(trattato I, capp. I-VII)
TRATTATO I
Capitolo I
Sì come dice lo
Filosofo nel principio de la Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di
sapere. La ragione di che puote essere ed è che ciascuna cosa, da providenza di propria
natura impinta, è inclinabile a la sua propria perfezione; onde, acciò che la scienza è
ultima perfezione de la nostra anima, ne la quale sta la nostra ultima felicitade, tutti
naturalmente al suo desiderio semo subietti. Veramente da questa nobilissima perfezione
molti sono privati per diverse cagioni, che dentro a l'uomo e di fuori da esso lui
rimovono da l'abito di scienza. Dentro da l'uomo possono essere due difetti e
impedi[men]ti: l'uno da la parte del corpo, l'altro da la parte de l'anima. Da la parte
del corpo è quando le parti sono indebitamente disposte, sì che nulla ricevere può, sì
come sono sordi e muti e loro simili. Da la parte de l'anima è quando la malizia vince in
essa, sì che si fa seguitatrice di viziose delettazioni, ne le quali riceve tanto inganno
che per quelle ogni cosa tiene a vile. Di fuori da l'uomo possono essere similemente due
cagioni intese, l'una de le quali è induttrice di necessitade, l'altra di pigrizia. La
prima è la cura familiare e civile, la quale convenevolemente a sé tiene de li uomini lo
maggior numero, sì che in ozio di speculazione esser non possono. L'altra è lo difetto
del luogo dove la persona è nata e nutrita, che tal ora sarà da ogni studio non
solamente privato, ma da gente studiosa lontano.
Le due di queste cagioni, cioè la prima
da la parte [di dentro e la prima da la parte] di fuori, non sono da vituperare, ma da
escusare e di perdono degne; le due altre, avvegna che l'una più, sono degne di biasimo e
d'abominazione. Manifestamente adunque può vedere chi bene considera, che pochi rimangono
quelli che a l'abito da tutti desiderato possano pervenire, e innumerevoli quasi sono li
'mpediti che di questo cibo sempre vivono affamati. Oh beati quelli pochi che seggiono a
quella mensa dove lo pane de li angeli si manuca! e miseri quelli che con le pecore hanno
comune cibo! Ma però che ciascuno uomo a ciascuno uomo naturalmente è amico, e ciascuno
amico si duole del difetto di colui ch'elli ama, coloro che a così alta mensa sono cibati
non sanza misericordia sono inver di quelli che in bestiale pastura veggiono erba e
ghiande sen gire mangiando. E acciò che misericordia è madre di beneficio, sempre
liberalmente coloro che sanno porgono de la loro buona ricchezza a li veri poveri, e sono
quasi fonte vivo, de la cui acqua si refrigera la naturale sete che di sopra è nominata.
E io adunque, che non seggio a la beata mensa, ma, fuggito de la pastura del vulgo, a'
piedi di coloro che seggiono ricolgo di quello che da loro cade, e conosco la misera vita
di quelli che dietro m'ho lasciati, per la dolcezza ch'io sento in quello che a poco a
poco ricolgo, misericordievolmente mosso, non me dimenticando, per li miseri alcuna cosa
ho riservata, la quale a li occhi loro, già è più tempo, ho dimostrata; e in ciò li ho
fatti maggiormente vogliosi. Per che ora volendo loro apparecchiare, intendo fare un
generale convivio di ciò ch'i' ho loro mostrato, e di quello pane ch'è mestiere a così
fatta vivanda, sanza lo quale da loro non potrebbe esser mangiata. E questo [è quello]
convivio, di quello pane degno, con tale vivanda qual io intendo indarno [non] essere
ministrata. E però ad esso non s'assetti alcuno male de' suoi organi disposto, però che
né denti né lingua ha né palato; né alcuno settatore di vizii, perché lo stomaco suo
è pieno d'omori venenosi contrarii, sì che mai vivanda non terrebbe. Ma vegna qua
qualunque è [per cura] familiare o civile ne la umana fame rimaso, e ad una mensa con li
altri simili impediti s'assetti; e a li loro piedi si pongano tutti quelli che per
pigrizia si sono stati, che non sono degni di più alto sedere: e quelli e questi prendano
la mia vivanda col pane, che la far[à] loro e gustare e patire. La vivanda di questo
convivio sarà di quattordici maniere ordinata, cioè quattordici canzoni sì d'amor come
di vertù materiate, le quali sanza lo presente pane aveano d'alcuna oscuritade ombra, sì
che a molti loro bellezza più che loro bontade era in grado. Ma questo pane, cioè la
presente disposizione, sarà la luce la quale ogni colore di loro sentenza farà parvente.
E se ne la presente opera, la quale è
Convivio nominata e vo' che sia, più virilmente si trattasse che ne la Vita Nuova, non
intendo però a quella in parte alcuna derogare, ma maggiormente giovare per questa
quella; veggendo sì come ragionevolmente quella fervida e passionata, questa temperata e
virile esser conviene. Ché altro si conviene e dire e operare ad una etade che ad altra;
perché certi costumi sono idonei e laudabili ad una etade che sono sconci e biasimevoli
ad altra, sì come di sotto, nel quarto io in quella dinanzi, a l'entrata de la mia
gioventute parlai, e in questa dipoi, quella già trapassata. E con ciò sia cosa che la
vera intenzione mia fosse altra che quella che di fuori mostrano le canzoni predette, per
allegorica esposizione quelle intendo mostrare, appresso la litterale istoria ragionata;
sì che l'una ragione e l'altra darà sapore a coloro che a questa cena sono convitati. Li
quali priego tutti che se lo convivio non fosse tanto splendido quanto conviene a la sua
grida, che non al mio volere ma a la mia facultade imputino ogni difetto; però che la mia
voglia di compita e cara liberalitate è qui seguace.
Capitolo II
Nel
cominciamento di ciascuno bene ordinato convivio sogliono li sergenti prendere lo pane
apposito, e quello purgare da ogni macula. Per che io, che ne la presente scrittura tengo
luogo di quelli, da due macule mondare intendo primieramente questa esposizione, che per
pane si conta nel mio corredo. L'una, è che parlare alcuno di se medesimo pare non
licito; l'altra è, che parlare in esponendo troppo a fondo pare non ragionevole: e lo
illicito e 'l non ragionevole lo coltello del mio giudicio purga in questa forma. Non si
concede per li retorici alcuno di se medesimo sanza necessaria cagione parlare, e da ciò
è l'uomo rimosso, perché parlare d'alcuno non si può che il parladore non lodi o non
biasimi quelli di cui elli parla; le quali due cagioni rusticamente stanno, a far [dire]
di sé, ne la bocca di ciascuno. E per levare un dubbio che qui surge, dico che peggio sta
biasimare che lodare, avvegna che l'uno e l'altro non sia da fare. La ragione è che
qualunque cosa è per sé da biasimare, è più laida che quella che è per accidente.
Dispregiar se medesimo è per sé biasimevole, però che a l'amico dee l'uomo lo suo
difetto contare strettamente, e nullo è più amico che l'uomo a sé; onde ne la camera
de' suoi pensieri se medesimo riprender dee e piangere li suoi difetti, e non palese.
Ancora: del non potere e del non sapere ben sé menare le più volte non è l'uomo
vituperato, ma del non volere è sempre, perché nel volere e nel non volere nostro si
giudica la malizia e la bontade; e però chi biasima se medesimo appruova sé conoscere lo
suo difetto, appruova sé non essere buono: per che, per sé, è da lasciare di parlare
sé biasimando. Lodare sé è da fuggire sì come male per accidente, in quanto lodare non
si può, che quella loda non sia maggiormente vituperio. È loda ne la punta de le parole,
è vituperio chi cerca loro nel ventre: ché le parole sono fatte per mostrare quello che
non si sa, onde chi loda sé mostra che non creda essere buono tenuto; che non li incontra
sanza maliziata conscienza, la quale, sé lodando, discuopre e, discoprendo, si biasima.
E ancora la propria loda e lo proprio
biasimo è da fuggire per una ragione igualmente, sì come falsa testimonianza fare; però
che non è uomo che sia di sé vero e giusto misuratore, tanto la propria caritate ne
'nganna. Onde avviene che ciascuno ha nel suo giudicio le misure del falso mercatante, che
compera con l'una e vende con l'altra; e ciascuno con ampia misura cerca lo suo mal fare e
con piccola cerca lo bene; sì che 'l numero e la quantità e 'l peso del bene li pare
più che se con giusta misura fosse saggiato, e quello del male meno. Per che, parlando di
sé con loda o col contrario, o dice falso per rispetto a la cosa di che parla; o dice
falso per rispetto a la sua sentenza, c'ha l'una e l'altra falsitate. E però, con ciò
sia cosa che lo consentire è uno confessare, villania fa chi loda o chi biasima dinanzi
al viso alcuno, perché né consentire né negare puote lo così estimato sanza cadere in
colpa di lodarsi o di biasimare: salva qui la via de la debita correzione, che essere non
può sanza improperio del fallo che correggere s'intende; e salva la via del debito
onorare e magnificare, la quale passar non si può sanza far menzione de l'opere virtuose,
o de le dignitadi virtuosamente acquistate.
Veramente, al principale intendimento
tornando, dico, come è toccato di sopra, per necessarie cagioni lo parlare di sé è
conceduto: e intra l'altre necessarie cagioni due sono più manifeste. L'una è quando
sanza ragionare di sé grande infamia o pericolo non si può cessare; e allora si concede,
per la ragione che de li due sentieri prendere lo men reo è quasi prendere un buono. E
questa necessitate mosse Boezio di se medesimo a parlare, acciò che sotto pretesto di
consolazione escusasse la perpetuale infamia del suo essilio, mostrando quello essere
ingiusto, poi che altro escusatore non si levava. L'altra è quando, per ragionare di sé,
grandissima utilitade ne segue altrui per via di dottrina; e questa ragione mosse Agustino
ne le sue Confessioni a parlare di sé, ché per lo processo de la sua vita, lo quale fu
di [non] buono in buono, e di buono in migliore, e di migliore in ottimo, ne diede
essemplo e dottrina, la quale per sì vero testimonio ricevere non si potea. Per che se
l'una e l'altra di queste ragioni mi scusa, sufficientemente lo pane del mio formento è
purgato de la prima sua macula. Movemi timore d'infamia, e movemi desiderio di dottrina
dare la quale altri veramente dare non può. Temo la infamia di tanta passione avere
seguita, quanta concepe chi legge le sopra nominate canzoni in me avere segnoreggiata; la
quale infamia si cessa, per lo presente di me parlare, interamente, lo quale mostra che
non passione ma vertù sia stata la movente cagione. Intendo anche mostrare la vera
sentenza di quelle, che per alcuno vedere non si può s'io non la conto, perché è
nascosa sotto figura d'allegoria: e questo non solamente darà diletto buono a udire, ma
sottile ammaestramento e a così parlare e a così intendere l'altrui scritture.
Capitolo III
Degna di molta riprensione è quella cosa che, ordinata a torre alcuno difetto, per se medesima quello induce; sì come quelli che fosse mandato a partire una rissa e, prima che partisse quella, ne iniziasse un'altra. E però che lo mio pane è purgato da una parte, convienlomi purgare da l'altra, per fuggire questa riprensione, che lo mio scritto, che quasi comento dir si può, è ordinato a levar lo difetto de le canzoni sopra dette, ed esso per sé ha forse in parte alcuna un poco duro. La qual durezza, per fuggir maggiore difetto, non per ignoranza, è qui pensata. Ahi, piaciuto fosse al dispensatore de l'universo che la cagione de la mia scusa mai non fosse stata! ché né altri contra me avria fallato, né io sofferto avria pena ingiustamente, pena, dico, d'essilio e di povertate. Poi che fu piacere de li cittadini de la bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, di gittarmi fuori del suo dolce seno - nel quale nato e nutrito fui in fino al colmo de la vita mia, e nel quale, con buona pace di quella, desidero con tutto lo cuore di riposare l'animo stancato e terminare lo tempo che m'è dato - , per le parti quasi tutte a le quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato, mostrando contra mia voglia la piaga de la fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata. Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade; e sono apparito a li occhi a molti che forseché per alcuna fama in altra forma m'aveano imaginato, nel conspetto de' quali non solamente mia persona invilìo, ma di minor pregio si fece ogni opera, si già fatta, come quella che fosse a fare. La ragione per che ciò incontra - non pur in me, ma in tutti - brievemente or qui piace toccare: e prima, perché la stima oltre la veritade si sciampia; e poi, perché la presenzia oltre la veritade stringe. La fama buona principalmente è generata da la buona operazione ne la mente de l'amico, e da quella è prima partorita; ché la mente del nemico, avvegna che riceva lo seme, non concepe. Quella mente che prima la partorisce, sì per far più ornato lo suo presente, sì per la caritade de l'amico che lo riceve, non si tiene a li termini del vero, ma passa quelli. E quando per ornare ciò che dice li passa, contra conscienza parla; quando inganno di caritade li fa passare, non parla contra essa. La seconda mente che ciò riceve, non solamente a la dilatazione de la prima sta contenta, ma 'l suo riportamento, sì come qu[as]i suo effetto, procura d'adornare; e sì, che per questo fare e per lo 'nganno che riceve de la caritade in lei generata, quella più ampia fa che a lei non viene, e con concordia e con discordia di conscienza come la prima. E questo fa la terza ricevitrice e la quarta, e così in infinito si dilata. E così, volgendo le cagioni sopra dette ne le contrarie, si può vedere la ragione de la infamia, che simigliantemente si fa grande. Per che Virgilio dice nel quarto de lo Eneida che la Fama vive per essere mobile, e acquista grandezza per andare. Apertamente adunque veder può chi vuole che la imagine per sola fama generata sempre è più ampia, quale che essa sia, che non è la cosa imaginata nel vero stato.
Capitolo IV
Mostrata ragione
innanzi per che la fama dilata lo bene e lo male oltre la vera quantità, resta in questo
capitolo a mostrar quelle ragioni che fanno vedere perché la presenza ristringe per
opposito; e mostrate quelle, si verrà lievemente al principale proposito, cioè de la
sopra notata scusa.
Dico adunque che per tre cagioni la
presenza fa la persona di meno valore ch'ella non è: l'una de le quali è puerizia, non
dico d'etate ma d'animo; la seconda è invidia, - e queste sono ne lo giudicatore -; la
terza è l'umana impuritade, e questa è ne lo giudicato. La prima si può brievemente
così ragionare. La maggiore parte de li uomini vivono secondo senso e non secondo
ragione, a guisa di pargoli; e questi cotali non conoscono le cose se non semplicemente di
fuori, e la loro bontade, la quale a debito fine è ordinata, non veggiono, per ciò che
hanno chiusi li occhi de la ragione, li quali passano a veder quello. Onde tosto veggiono
tutto ciò che ponno, e giudicano secondo la loro veduta. E però che alcuna oppinione
fanno ne l'altrui fama per udita, da la quale ne la presenza si discorda lo imperfetto
giudicio che non secondo ragione ma secondo senso giudica solamente, quasi menzogna
reputano ciò che prima udito hanno, e dispregiano la persona prima pregiata. Onde appo
costoro, che sono, ohmè, quasi tutti, la presenza ristringe l'una e l'altra qualitade.
Questi cotali tosto sono vaghi e tosto sono sazii, spesso sono lieti e spesso tristi di
brievi dilettazioni e tristizie, tosto amici e tosto nemici; ogni cosa fanno come pargoli,
sanza uso di ragione. La seconda si vede per queste ragioni: che paritade ne li viziosi è
cagione d'invidia, e invidia è cagione di mal giudicio, però che non lascia la ragione
argomentare per la cosa invidiata, e la potenza giudicativa è allora quel giudice che ode
pur l'una parte. Onde quando questi cotali veggiono la persona famosa, incontanente sono
invidi, però che veggiono a s[é] pari membra e pari potenza, e temono, per la eccellenza
di quel cotale, meno esser pregiati. E questi non solamente passionati mal giudicano, ma,
diffamando, fanno a li altri mal giudicare; per che appo costoro la presenza ristringe lo
bene e lo male in ciascuno appresentato: e dico lo male, perché molti, dilettandosi ne le
male operazioni, hanno invidia a' mali operatori. La terza si è l'umana impuritade, la
quale si prende da la parte di colui ch'è giudicato, e non è sanza familiaritade e
conversazione alcuna. Ad evidenza di questa, è da sapere che l'uomo è da più parti
maculato, e, come dice Agustino, nullo è sanza macula. Quando è l'uomo maculato d'una
passione, a la quale tal volta non può resistere; quando è maculato d'alcuno disconcio
membro; e quando è maculato d'alcuno colpo di fortuna; e quando è maculato d'infamia di
parenti o d'alcuno suo prossimo: le quali cose la fama non porta seco ma la presenza, e
discuoprele per sua conversazione. E queste macule alcuna ombra gittano sopra la chiarezza
de la bontade, sì che la fanno parere men chiara e men valente. E questo è quello per
che ciascuno profeta è meno onorato ne la sua patria; questo è quello per che l'uomo
buono dee la sua presenza dare a pochi e la familiaritade dare a meno, acciò che 'l nome
suo sia ricevuto, ma non spregiato. E questa terza cagione può essere così nel male come
nel bene, se le cose de la sua ragione si volgano ciascuna in suo contrario. Per che
manifestamente si vede che per impuritade, sanza la quale non è alcuno, la presenza
ristringe lo bene e lo male in ciascuno più che 'l vero non vuole.
Onde con ciò sia cosa che, come detto è di sopra, io mi sia quasi a tutti li Italici
appresentato, per che fatto mi sono più vile forse che 'l vero non vuole non solamente a
quelli a li quali mia fama era già corsa, ma eziandio a li altri, onde le mie cose sanza
dubbio meco sono alleviate; conviemmi che con più alto stilo dea, ne la presente opera,
un poco di gravezza, per la quale paia di maggiore autoritade. E questa scusa basti a la
fortezza del mio comento.
Capitolo V
Poi che purgato è
questo pane da le macule accidentali, rimane ad escusare lui da una sustanziale, cioè da
l'essere vulgare e non latino; che per similitudine dire si può di biado e non di
frumento. E da ciò brievemente lo scusano tre ragioni, che mossero me ad eleggere innanzi
questo che l'altro: l'una si muove da cautela di disconvenevole ordinazione; l'altra da
prontezza di liberalitade; la terza da lo naturale amore a propria loquela. E queste cose
per sue ragioni, a sodisfacimento di ciò che riprendere si potesse per la notata ragione,
intendo per ordine ragionare in questa forma.
Quella cosa che più adorna e commenda l'umana operazione, e che più dirittamente a buon
fine la mena, si è l'abito di quelle disposizioni che sono ordinate a lo inteso fine; sì
com'è ordinata al fine de la cavalleria franchezza d'animo e fortezza di corpo. E così
colui che è ordinato a l'altrui servigio dee avere quelle disposizioni che sono a quello
fine ordinate, sì come subiezione, conoscenza e obedienza, sanza le quali è ciascuno
disordinato a ben servire; perché, s'elli non è subietto in ciascuna condizione, sempre
con fatica e con gravezza procede nel suo servigio e rade volte quello continua; e se elli
non è [conoscente del bisogno del suo signore e a lui non è] obediente, non serve mai se
non a suo senno e a suo volere, che è più servigio d'amico che di servo. Dunque, a
fuggire questa disordinazione, conviene questo comento, che è fatto invece di servo a le
'nfrascritte canzoni, esser subietto a quelle in ciascuna sua [condi]zione, ed essere
conoscente del bisogno del suo signore e a lui obediente. Le quali disposizioni tutte li
mancavano, se latino e non volgare fosse stato, poi che le canzoni sono volgari. Ché,
primamente, non era subietto ma sovrano, e per nobilità e per vertù e per bellezza. Per
nobilità, perché lo latino è perpetuo e non corruttibile, e lo volgare è non stabile e
corruttibile. Onde vedemo ne le scritture antiche de le comedie e tragedie latine, che non
si possono transmutare, quello medesimo che oggi avemo; che non avviene del volgare, lo
quale a piacimento artificiato si transmuta. Onde vedemo ne le cittadi d'Italia, se bene
volemo agguardare, da cinquanta anni in qua molti vocabuli essere spenti e nati e variati;
onde se 'l picciol tempo così transmuta, molto più transmuta lo maggiore. Sì ch'io
dico, che se coloro che partiron d'esta vita già sono mille anni tornassero a le loro
cittadi, crederebbero la loro cittade essere occupata da gente strana, per la lingua da
loro discordante. Di questo si parlerà altrove più compiutamente in uno libello ch'io
intendo di fare, Dio concedente, di Volgare Eloquenza.
Ancora, non era subietto ma sovrano per
vertù. Ciascuna cosa è virtuosa in sua natura che fa quello a che ella è ordinata; e
quanto meglio lo fa tanto è più virtuosa. Onde dicemo uomo virtuoso che vive in vita
contemplativa o attiva, a le quali è ordinato naturalmente; dicemo del cavallo virtuoso
che corre forte e molto, a la qual cosa è ordinato; dicemo una spada virtuosa che ben
taglia le dure cose, a che essa è ordinata. Così lo sermone, lo quale è ordinato a
manifestare lo concetto umano, è virtuoso quando quello fa, e più virtuoso quello che
più lo fa; onde, con ciò sia cosa che lo latino molte cose manifesta concepute ne la
mente che lo volgare far non può, sì come sanno quelli che hanno l'uno e l'altro
sermone, più è la vertù sua che quella del volgare.
Ancora, non era subietto ma sovrano per
bellezza. Quella cosa dice l'uomo essere bella cui le parti debitamente si rispondono, per
che de la loro armonia resulta piacimento. Onde pare l'uomo essere bello, quando le sue
membra debitamente si rispondono; e dicemo bello lo canto, quando le voci di quello,
secondo debito de l'arte, sono intra sé rispondenti. Dunque quello sermone è più bello
ne lo quale più debitamente si rispondono [le parole; e più debitamente si rispondono]
in latino che in volgare, però che lo volgare seguita uso, e lo latino arte: onde
concedesi esser più bello, più virtuoso e più nobile. Per che si conchiude lo
principale intendimento, cioè che non sarebbe stato subietto a le canzoni, ma sovrano.
Capitolo VI
Mostrato come lo
presente comento non sarebbe stato subietto a le canzoni volgari se fosse stato latino,
resta a mostrare come non sarebbe stato conoscente, né obediente a quelle; e poi sarà
conchiuso come per cessare disconvenevoli disordinazioni fu mestiere volgarmente parlare.
Dico che 'l latino non sarebbe stato servo conoscente al signore volgare per cotal
ragione. La conoscenza del servo si richiede massimamente a due cose perfettamente
conoscere. L'una si è la natura del signore: onde sono signori di sì asinina natura che
comandano lo contrario di quello che vogliono, e altri che sanza dire vogliono essere
intesi, e altri che non vogliono che 'l servo si muova a fare quello ch'è mestiere se nol
comandano. E perché queste variazioni sono ne li uomini non intendo al presente mostrare,
che troppo multiplicherebbe la digressione; se non in tanto, che dico in genere che cotali
sono quasi bestie, a li quali la ragione fa poco prode. Onde, se 'l servo non conosce la
natura del suo signore, manifesto è che perfettamente servire nol può. L'altra cosa è,
che si conviene conoscere al servo, li amici del suo signore, ché altrimenti non li
potrebbe onorare né servire, e così non servirebbe perfettamente lo suo signore; con
ciò sia cosa che li amici siano quasi parti d'un tutto, però che 'l tutto loro è uno
volere e uno non volere.
Né lo comento latino avrebbe avuta la
conoscenza di queste cose, che l'ha 'l volgare medesimo. Che lo latino non sia conoscente
del volgare e de' suoi amici, così si pruova. Quelli che conosce alcuna cosa in genere,
non conosce quella perfettamente: sì come, se conosce da lungi uno animale, non conosce
quello perfettamente, perché non sa se s'è cane o lupo o becco. Lo latino conosce lo
volgare in genere, ma non distinto: che se esso lo conoscesse distinto, tutti li volgari
conoscerebbe, perché non è ragione che l'uno più che l'altro conoscesse; e così in
qualunque uomo fosse tutto l'abito del latino, sarebbe l'abito di conoscenza distinto de
lo volgare. Ma questo non è; ché uno abituato di latino non distingue, s'elli è
d'Italia, lo volgare [inghilese] da lo tedesco; né lo tedesco, lo volgare italico dal
provenzale. Onde è manifesto che lo latino non è conoscente de lo volgare. Ancora, non
è conoscente de' suoi amici, però ch'è impossibile conoscere li amici, non conoscendo
lo principale; onde, se non conosce lo latino lo volgare, come provato è di sopra,
impossibile è a lui conoscere li suoi amici. Ancora, sanza conversazione o familiaritade
impossibile è a conoscere li uomini: e lo latino non ha conversazione con tanti in alcuna
lingua con quanti ha lo volgare di quella, al quale tutti sono amici; e per consequente
non può conoscere li amici del volgare. E non è contradizione ciò che dire si potrebbe,
che lo latino pur conversa con alquanti amici de lo volgare: ché però non è familiare
di tutti, e così non è conoscente de li amici perfettamente; però che si richiede
perfetta conoscenza, e non difettiva.
Capitolo VII
Provato che lo
comento latino non sarebbe stato servo conoscente, dirò come non sarebbe stato obediente.
Obediente è quelli che ha la buona disposizione che si chiama obedienza. La vera
obedienza conviene avere tre cose, sanza le quali essere non può: vuole essere dolce, e
non amara; e comandata interamente, e non spontanea; e con misura, e non dismisurata. Le
quali tre cose era impossibile ad avere lo latino comento, e però era impossibile ad
essere obediente. Che a lo latino fosse stato impossibile, come detto è, si manifesta per
cotale ragione. Ciascuna cosa che da perverso ordine procede è laboriosa, e per
consequente è amara e non dolce, sì come dormire lo die e vegghiare la notte, e andare
indietro e non innanzi. Comandare lo subietto a lo sovrano procede da ordine perverso -
ché ordine diritto è lo sovrano a lo subietto comandare -, e così è amaro, e non
dolce. E però che a l'amaro comandamento è impossibile dolcemente obedire, impossibile
è, quando lo subietto comanda, la obedienza del sovrano essere dolce. Dunque se lo latino
è sovrano del volgare, come di sopra per più ragioni è mostrato, e le canzoni, che sono
in persona di comandatore, sono volgari, impossibile è la sua [obedienza] esser dolce.
Ancora: allora è la obedienza
interamente comandata e da nulla parte spontanea, quando quello che fa chi fa obediendo
non averebbe fatto sanza comandamento, per suo volere, né tutto né in parte. E però se
a me fosse comandato di portare due guarnacche in dosso, e sanza comandamento io mi
portasse l'una, dico che la mia obedienza non è interamente comandata, ma in parte
spontanea. E cotale sarebbe stata quella del comento latino; e per consequente non sarebbe
stata obedienza comandata interamente. Che fosse stata cotale, appare per questo: che lo
latino sanza lo comandamento di questo signore averebbe esposite molte parti de la sua
sentenza - ed espone, chi cerca bene le scritture latinamente scritte - che non lo fa lo
volgare in parte alcuna.
Ancora: è l'obedienza con misura, e non dismisurata, quando al termine del comandamento
va, e non più oltre; sì come la natura particulare è obediente a la universale, quando
fa trentadue denti a l'uomo, e non più né meno, e quando fa cinque dita ne la mano, e
non più né meno; e l'uomo è obediente a la giustizia [quando fa pagar lo debito de la
pena, e non più né meno che la giustizia] comanda, al peccatore. Né questo averebbe
fatto lo latino, ma peccato averebbe non pur nel difetto, e non pur nel soperchio, ma in
ciascuno; e così non sarebbe stata la sua obedienza misurata, ma dismisurata, e per
consequente non sarebbe stato obediente. Che non fosse stato lo latino empitore del
comandamento del suo signore, e che ne fosse stato soperchiatore, leggermente si può
mostrare. Questo signore, cioè queste canzoni, a le quali questo comento è per servo
ordinato, comandano e vogliono essere esposte a tutti coloro a li quali puote venire sì
lo loro intelletto, che quando parlano elle siano intese; e nessuno dubita, che s'elle
comandassero a voce, che questo non fosse lo loro comandamento. E lo latino non l'averebbe
esposte se non a' litterati, ché li altri non l'averebbero inteso. Onde con ciò sia cosa
che molti più siano quelli che desiderano intendere quelle non litterati che litterati,
seguitasi che non averebbe pieno lo suo comandamento come 'l volgare, che da li litterati
e non litterati è inteso. Anche, lo latino l'averebbe esposte a gente d'altra lingua, sì
come a Tedeschi e Inghilesi e altri, e qui averebbe passato lo loro comandamento; ché
contra loro volere, largo parlando dico, sarebbe essere esposta la loro sentenza colà
dov'elle non la potessero con la loro bellezza portare. E però sappia ciascuno che nulla
cosa per legame musaico armonizzata si può de la sua loquela in altra transmutare sanza
rompere tutta sua dolcezza e armonia. E questa è la cagione per che Omero non si mutò di
greco in latino come l'altre scritture che avemo da loro. E questa è la cagione per che
li versi del Salterio sono sanza dolcezza di musica e d'armonia; ché essi furono
transmutati d'ebreo in greco e di greco in latino, e ne la prima transmutazione tutta
quella dolcezza venne meno. E così è conchiuso ciò che si promise nel principio del
capitolo dinanzi a questo immediate.
© 1999 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 14 giugno 1999