Baldessar Castiglione
Il Libro del Cortegiano
XLI.
Sí che non chiamate, messer Cesare, per minuzia cosa alcuna che possa migliorare un principe in qualsivoglia parte, per minima che ella sia; né pensate già ch'io estimi che voi biasmiate i miei documenti, dicendo che con quelli piú tosto si formaria un bon governatore che un bon principe; ché non si po forse dare maggior laude né piú conveniente ad un principe, che chiamarlo bon governatore. Però, se a me toccasse instituirlo, vorrei che egli avesse cura non solamente di governar le cose già dette, ma le molto minori, ed intendesse tutte le particularità appartenenti ai suoi populi quanto fosse possibile, né mai credesse tanto, né tanto si confidasse d'alcun suo ministro, che a quel solo rimettesse totalmente la briglia e lo arbitrio di tutto 'l governo; perché non è alcuno che sia attissimo a tutte le cose, e molto maggior danno procede dalla credulità de' signori che dalla incredulità, la qual non solamente talor non nòce, ma spesso summamente giova; pur in questo è necessario il bon giudicio del principe, per conoscer chi merita esser creduto e chi no. Vorrei che avesse cura d'intendere le azioni ed esser censore de' suoi ministri; di levare ed abbreviar le liti tra i sudditi; di far far pace tra essi, e legargli insieme di parentati; di far che la città fosse tutta unita e concorde in amicizia, come una casa privata; populosa, non povera, quieta, piena di boni artífici; di favorir i mercatanti ed aiutarli ancora con denari; d'esser liberale ed onorevole nelle ospitalità verso i forestieri e verso i religiosi; di temperar tutte le superfluità; perché spesso per gli errori che si fanno in queste cose, benché paiano piccoli, le città vanno in ruina; però è ragionevole che 'l principe ponga mèta ai troppo suntuosi edifici dei privati, ai convivii, alle doti eccessive delle donne, al lusso, alle pompe nelle gioie e vestimenti, che non è altro che uno augumento della lor pazzia; ché, oltre che spesso, per quella ambizione ed invidia che si portano l'una all'altra, dissipano le facultà e la sustanzia dei mariti, talor per una gioietta o qualche altra frascheria tale vendono la pudicizia loro a chi la vol comperare -.
XLII.
Allora messer Bernardo Bibiena ridendo, - Signor Ottaviano, - disse, - voi entrate nella parte del signor Gaspare e del Frigio -. Rispose il signor Ottaviano pur ridendo: - La lite è finita, ed io non voglio già rinovarla; però non dirò piú delle donne, ma ritornerò al mio principe -. Rispose il Frigio: - Ben potete oramai lassarlo e contentarvi che egli sia tale come l'avete formato; ché senza dubbio piú facil cosa sarebbe trovare una donna con le condizioni dette dal signor Magnifico, che un principe con le condizioni dette da voi; però dubito che sia come la republica di Platone e che non siamo per vederne mai un tale, se non forse in cielo -. Rispose il signor Ottaviano: - Le cose possibili, benché siano difficili, pur si po sperar che abbiano da essere; perciò forse vedremolo ancor a' nostri tempi in terra; ché, benché i cieli siano tanto avari in produr principi eccellenti, che a pena in molti seculi se ne vede uno, potrebbe questa bona fortuna toccare a noi -. Disse allor il conte Ludovico: - Io ne sto con assai bona speranza; perché, oltra quelli tre grandi che avemo nominati, de' quali sperar si po ciò che s'è detto convenirsi al supremo grado di perfetto principe, ancora in Italia se ritrovano oggidí alcuni figlioli de signori, li quali, benché non siano per aver tanta potenzia, forse suppliranno con la virtú; e quello che tra tutti si mostra di meglior indole e di sé promette maggior speranza che alcun degli altri, parmi che sia il signor Federico Gonzaga, primogenito del marchese di Mantua nepote della signora Duchessa nostra qui; ché, oltra la gentilezza de' costumi e la discrezione che in cosí tenera età dimostra, coloro che lo governano di lui dicono cose di maraviglia circa l'essere ingenioso, cupido d'onore, magnanimo, cortese, liberale, amico della giusticia; di modo che di cosí bon principio non si po se non aspettar ottimo fine -. Allor il Frigio, - Or non piú, - disse, - pregaremo Dio di vedere adempita questa vostra speranza -.
XLIII.
Quivi il signor Ottaviano, rivolto alla signora Duchessa con maniera d'aver dato fine al suo ragionamento, - Eccovi, Signora, - disse, - quello che a dir m'occorre del fin del cortegiano; nella qual cosa s'io non arò satisfatto in tutto, basterammi almen aver dimostrato che qualche perfezion ancora dar si gli potea oltra le cose dette da questi signori; li quali io estimo che abbiano pretermesso e questo e tutto quello ch'io potrei dire, non perché non lo sapessero meglio di me, ma per fuggir fatica; però lasserò che essi vadano continuando, se a dir gli avanza cosa alcuna -. Allora disse la signora Duchessa: - Oltra che l'ora è tanto tarda, che tosto sarà tempo di dar fine per questa sera, a me non par che noi debbiam mescolare altro ragionamento con questo; nel quale voi avete raccolto tante varie e belle cose, che circa il fine della cortegiania si po dir che non solamente siate quel perfetto cortegiano che noi cerchiamo, e bastante per instituir bene il vostro principe, ma, se la fortuna vi sarà propizia, che debbiate ancor essere ottimo principe, il che saria con molta utilità della patria vostra -. Rise il signor Ottaviano e disse: - Forse, Signora, s'io fussi in tal grado, a me ancor interverria quello che sòle intervenire a molti altri, li quali san meglio dire che fare -.
XLIV.
Quivi essendosi replicato un poco di ragionamento tra tutta la compagnia confusamente, con alcune contradizioni, pur a laude di quello che s'era parlato, e dettosi che ancor non era l'ora d'andar a dormire, disse ridendo il Magnifico Iuliano: Signora, io son tanto nemico degli inganni, che m'è forza contradir al signor Ottaviano, il qual per esser, come io dubito, congiurato secretamente col signor Gaspar contra le donne, è incorso in dul errori, secondo me, grandissimi: dei quali l'uno è, che per preporre questo cortegiano alla donna di palazzo e farlo eccedere quei termini a che essa po giungere, l'ha preposto ancor al principe, il che è inconvenientissimo; l'altro, che gli ha dato un tal fine, che sempre è difficile e talor impossibile che lo conseguisca, e quando pur lo consegue, non si deve nominar per cortegiano. - Io non intendo, - disse la signora Emilia, - come sia cosí difficile o impossibile che 'l cortegiano conseguisca questo suo fine, né meno come il signor Ottaviano lo abbia preposto al principe. - Non gli consentite queste cose, - rispose il signor Ottaviano, - perch'io non ho preposto il cortegiano al principe; e circa il fine della cortegiania non mi presumo esser incorso in errore alcuno -. Rispose allor il Magnifico Iuliano: - Dir non potete, signor Ottaviano, che sempre la causa per la quale lo effetto è tale come egli è, non sia piú tale che non è quello effetto; però bisogna che 'l cortegiano, per la instituzion del quale il principe ha da esser di tanta eccellenzia, sia piú eccellente che quel principe; ed in questo modo sarà ancora di piú dignità che 'l principe istesso, il che è inconvenientissimo. Circa il fine poi della cortegiania, quello che voi avete detto po seguitare quando l'età del principe è poco differente da quella del cortegiano, ma non però senza difficultà, perché dove è poca differenzia d'età, ragionevol è che ancor poca ve ne sia di sapere; ma se 'l principe è vecchio e 'l cortegian giovane, conveniente è che 'l principe vecchio sappia piú che 'l cortegian giovane, e se questo non intervien sempre, intervien qualche volta; ed allor il fine che voi avete attribuito al cortegiano è impossibile. Se ancora il principe è giovane e 'l cortegian vecchio, difficilmente il cortegian po guadagnarsi la mente del principe con quelle condizioni che voi gli avete attribuite; ché, per dir il vero, l'armeggiare e gli altri esercizi della persona s'appartengono a' giovani e non riescono ne' vecchi, e la musica e le danze e feste e giochi e gli amori in quella età son cose ridicule; e parmi che ad uno institutor della vita e costumi del principe, il qual deve esser persona tanto grave e d'autorità, maturo negli anni e nella esperienzia e, se possibil fosse, bon filosofo, bon capitano, e quasi saper ogni cosa, siano disconvenienfissime. Però chi instituisce il principe estimo io che non s'abbia da chiamar cortegiano, ma meriti molto maggiore e piú onorato nome. Sí che, signor Ottaviano, perdonatemi s'io ho scoperto questa vostra fallacia, ché mi par esser tenuto a far cosí per l'onor della mia donna; la qual voi pur vorreste che fosse di minor dignità che questo vostro cortegiano, ed io nol voglio comportare -.
XLV.
Rise il signor Ottaviano e disse: - Signor Magnifico, piú laude della donna di palazzo sarebbe lo esaltarla tanto ch'ella fosse pari al cortegiano, che abbassar il cortegian tanto che 'l sia pari alla donna di palazzo; ché già non saria proibito alla donna ancora instituir la sua signora e tender con essa a quel fine della cortegiania, ch'io ho detto convenirsi al cortegian col suo principe; ma voi cercate piú di biasmare il cortegiano, che di laudar la donna di palazzo; però a me ancor sarà licito tener la ragione del cortegiano. Per rispondere adunque alle vostre obiezioni, dico ch'io non ho detto che la instituzione del cortegiano debba esser la sola causa per la quale il principe sia tale; perché se esso non fosse inclinato da natura ed atto a poter essere, ogni cura e ricordo del cortegiano sarebbe indarno; come ancor indarno s'affaticaria ogni bono agricultore che si mettesse a cultivare e seminare d'ottimi grani l'arena sterile del mare, perché quella tal sterilità in quel loco è naturale; ma quando al bon seme in terren fertile, con la temperie dell'aria e piogge convenienti alle stagioni, s'aggiunge ancora la diligenzia della cultura umana, si vedon sempre largamente nascere abundantissimi frutti; né però è che lo agricultor solo sia la causa di quelli, benché senza esso poco o niente giovassero tutte le altre cose. Sono adunque molti príncipi che sarian boni, se gli animi loro fossero ben cultivati; e di questi parlo io, non di quelli che sono come il paese sterile e tanto da natura alieni dai boni costumi, che non basta disciplina alcuna per indur l'animo loro al diritto camino.
XLVI.
E perché, come già avemo detto, tali si fanno gli abiti in noi quali sono le nostre operazioni, e nell'operar consiste la virtú, non è impossibil né maraviglia che 'l cortegiano indrizzi il principe a molte virtú, come la giustizia, la liberalità, la magnanimità, le operazion delle quali esso per la grandezza sua facilmente po mettere in uso e farne abito; il che non po il cortegiano, per non aver modo d'operarle; e cosí il principe, indutto alla virtú dal cortegiano, po divenir piú virtuoso che 'l cortegiano. Oltra che dovete saper che la cote che non taglia punto, pur fa acuto il ferro; però parmi che ancora che 'l cortegiano instituisca il principe, non per questo s'abbia a dir che egli sia di piú dignità che 'l principe. Che 'l fin di questa cortegiania sia difficile e talor impossibile, e che quando pur il cortegian lo consegue non si debba nominar per cortegiano, ma meriti maggior nome, dico ch'io non nego questa difficultà, perché non meno è difficile trovar un cosí eccellente cortegiano, che conseguir un tal fine; parmi ben che la impossibilità non sia né anco in quel caso che voi avete allegato, perché se 'l cortegian è tanto giovane, che non sappia quello che s'è detto che egli ha da sapere, non accade parlarne, perché non è quel cortegiano che noi presuponemo, né possibil è che chi ha da saper tante cose sia molto giovane. E se pur occorrerà che 'l principe sia cosí savio e bono da se stesso, che non abbia bisogno di ricordi né consigli d'altri (benché questo è tanto difficile quanto ognun sa), al cortegian basterà esser tale che, se 'l principe n'avesse bisogno, potesse farlo virtuoso; e con lo effetto poi potrà satisfare a quell'altra parte, di non lassarlo ingannare e di far che sempre sappia la verità d'ogni cosa, e d'opporsi agli adulatori, ai malèdici ed a tutti coloro che machinassero di corromper l'animo di quello con disonesti piaceri; ed in tal modo conseguirà pur il suo fine in gran parte, ancora che non lo metta totalmente in opera; il che non sarà ragion d'imputargli per diffetto, restando di farlo per cosí bona causa; ché se uno eccellente medico si ritrovasse in loco dove tutti gli omini fossero sani, non per questo si devria dir che quel medico, se ben non sanasse gli infermi, mancasse del suo fine; però, sí come del medico deve essere intenzione la sanità degli omini, cosí del cortegiano la virtú del suo principe; ed all'uno e l'altro basta aver questo fine intrinseco in potenzia, quando il non produrlo estrinsicamente in atto procede dal subietto, al quale è indrizzato questo fine. Ma se 'l cortegian fosse tanto vecchio, che non se gli convenissi esercitar la musica, le feste, i giochi, l'arme e l'altre prodezze della persona, non si po però ancor dire che impossibile gli sia per quella via entrare in grazia al suo principe; perché se la età leva l'operar quelle cose, non leva l'intenderle, ed avendole operate in gioventú, lo fa averne tanto piú perfetto giudicio e piú perfettamente saperle insegnar al suo principe, quanto piú notizia d'ogni cosa portan seco gli anni e la esperienzia; ed in questo modo il cortegian vecchio, ancora che non eserciti le condicioni attribuitegli, conseguirà pur il suo fine d'instituir bene il principe.
XLVII.
E se non vorrete chiamarlo cortegiano, non mi dà noia; perché la natura non ha posto tal termine alle dignità umane, che non si possa ascendere dall'una all'altra; però spesso i soldati simplici divengon capitani, gli omini privati re, e i sacerdoti papi e i discipoli maestri, e cosí insieme con la dignità acquistano ancor il nome; onde forse si poria dir che 'l divenir institutor del principe fosse il fin del cortegiano. Benché non so chi abbia da rifiutar questo nome di perfetto cortegiano, il quale, secondo me, è degno di grandissima laude; e parmi che Omero, secondo che formò dui omini eccellentissimi per esempio della vita umana, l'uno nelle azioni, che fu Achille, l'altro nelle passioni e tolleranzie, che fu Ulisse, cosí volesse ancora formar un perfetto cortegiano, che fu quel Fenice, il qual, dopo l'aver narrato i suoi amori e molte altre cose giovenili, dice esser stato mandato ad Achille da Pelleo suo padre per stargli in compagnia e insegnargli a dire e fare: il che non è altro che 'l fin che noi avemo disegnato al nostro cortegiano. Né penso che Aristotile e Platone si fossero sdegnati del nome di perfetto cortegiano, perché si vede chiaramente che fecero l'opere della cortegiania ed attesero a questo fine, l'un con Alessandro Magno, l'altro con i re di Sicilia. E perché officio è di bon cortegiano conoscer la natura del principe e l'inclinazion sue e cosí, secondo i bisogni e le opportunità, con destrezza entrar loro in grazia, come avemo detto, per quelle vie che prestano l'adito securo, e poi indurlo alla virtú, Aristotile cosí ben conobbe la natura d'Alessandro e con destrezza cosí ben la secondò, che da lui fu amato ed onorato piú che padre, onde, tra molti altri segni che Alessandro in testimonio della sua benivolenzia gli fece, volse che Stagira sua patria, già disfatta, fosse reedificata; ed Aristotile, oltre allo indrizzar lui a quel fin gloriosissimo, che fu il voler fare che 'l mondo fosse come una sol patria universale, e tutti gli omini come un sol populo, che vivesse in amicizia e concordia tra sé sotto un sol governo ed una sola legge, che risplendesse communemente a tutti come la luce del sole, lo formò nelle scienzie naturali e nelle virtú dell'animo talmente, che lo fece sapientissimo, fortissimo, continentissimo e vero filosofo morale, non solamente nelle parole ma negli effetti; ché non si po imaginare piú nobil filosofia, che indur al viver civile i populi tanto efferati come quelli che abitano Battra e Caucaso, la India, la Scizia ed insegnar loro i matrimoni, l'agricultura, l'onorar i padri, astenersi dalle rapine e dagli omicidii e dagli altri mal costumi, lo edificare tante città nobilissime in paesi lontani, di modo che infiniti omini per quelle leggi furono ridutti dalla vita ferina alla umana; e di queste cose in Alessandro fu autore Aristotile, usando i modi di bon cortegiano; il che non seppe far Calistene, ancorché Aristotile glielo mostrasse; ché, per voler esser puro filosofo e cosí austero ministro della nuda verità, senza mescolarvi la cortegiania, perdé la vita e non giovò, anzi diede infamia ad Alessandro. Per lo medesimo modo della cortegiania Platone formò Dione Siracusano; ed avendo poi trovato quel Dionisio tiranno come un libro tutto pieno di mende e d'errori e piú presto bisognoso d'una universal litura che di mutazione o correzione alcuna, per non esser possibile levargli quella tintura della tirannide, della qual tanto tempo già era macchiato, non volse operarvi i modi della cortegiania, parendogli che dovessero esser tutti indarno. Il che ancora deve fare il nostro cortegiano, se per sorte si ritrova a servizio di principe di cosí mala natura, che sia inveterato nei vicii, come li ftisici nella infirmità; perché in tal caso deve levarsi da quella servitú, per non portar biasimo delle male opere del suo signore, e per non sentir quella noia che senton tutti i boni che servono ai mali -.
XLVIII.
Quivi essendosi fermato il signor Ottaviano di parlare, disse il signor Gaspar: - Io non aspettava già che 'l nostro cortegiano avesse tanto d'onore; ma poiché Aristotile e Platone son suoi compagni, penso che niun piú debba sdegnarsi di questo nome. Non so già però s'io mi creda che Aristotile e Platone mai danzassero o fossero musici in sua vita, o facessero altre opere di cavalleria -. Rispose il signor Ottaviano: - Non è quasi licito imaginar che questi dui spiriti divini non sapessero ogni cosa, e però creder si po che operassero ciò che s'appartiene alla cortegiania, perché dove lor occorre ne scrivono di tal modo, che gli artifici medesimi delle cose da loro scritte conoscono che le intendevano insino alla medulle ed alle piú intime radici. Onde non è da dir che al cortegiano o institutor del principe, come lo vogliate chiamare, il qual tenda a quel bon fine che avemo detto, non si convengan tutte le condicioni attribuitegli da questi signori, ancora che fosse severissimo filosofo e di costumi santissimo, perché non repugnano alla bontà, alla discrezione, al sapere, al valore, in ogni età ed in ogni tempo e loco -.
IX.
Allora il signor Gaspar, - Ricordomi, - disse, - che questi signori iersera, ragionando delle condicioni del cortegiano, volsero ch'egli fusse inamorato; e perché, reassumendo quello che s'è detto insin qui, si poria cavar una conclusione che 'l cortegiano, il quale col valore ed autorità sua ha da indur il principe alla virtú, quasi necessariamente bisogna che sia vecchio, perché rarissime volte il saper viene innanzi agli anni, e massimamente in quelle cose che si imparano con la esperienzia, non so come, essendo di età provetto, se gli convenga l'essere inamorato; atteso che, come questa sera s'è detto, l'amor ne' vecchi non riesce e quelle cose che ne' giovani sono delicie e cortesie, attillature tanto grate alle donne, in essi sono pazzie ed inezie ridicule ed a chi le usa parturiscono odio dalle donne e beffe dagli altri. Però se questo vostro Aristotile, cortegian vecchio, fosse inamorato e facesse quelle cose che fanno i giovani inamorati, come alcuni che n'avemo veduti a' dí nostri, dubito che si scorderia d'insegnar al suo principe, e forse i fanciulli gli farebbon drieto la baia e le donne ne trarebbon poco altro piacere che di burlarlo -. Allora il signor Ottaviano, - Poiché tutte l'altre condicioni, - disse, - attribuite al cortegiano se gli confanno ancora che egli sia vecchio, non mi par già che debbiamo privarlo di questa felicità d'amare. - Anzi, disse il signor Gaspar, - levargli questo amare è una perfezion di piú ed un farlo vivere felicemente fuor di miseria e calamità -.
L.
Disse messer Pietro Bembo: - Non vi ricorda, signor Gaspar, che 'l signor Ottaviano, ancora che egli sia male esperto in amore, pur l'altra sera mostrò nel suo gioco di saper che alcuni inamorati sono, li quali chiamano per dolci li sdegni e l'ire e le guerre e i tormenti che hanno dalle lor donne; onde domandò che insegnato gli fosse la causa di questa dolcezza? Però se il nostro cortegiano, ancora che vecchio, s'accendesse di quegli amori che son dolci senza amaritudine, non ne sentirebbe calamità o miseria alcuna; ed essendo savio, come noi presuponiamo, non s'ingannaria pensando che a lui si convenisse tutto quello che si convien ai giovani; ma, amando, ameria forse d'un modo, che non solamente non gli portaria biasimo alcuno, ma molta laude e somma felicità non compagnata da fastidio alcuno, il che rare volte e quasi non mai interviene ai giovani; e cosí non lasseria d'insegnare al suo principe, né farebbe cosa che meritasse la baia da' fanciulli -. Allor la signora Duchessa, - Piacemi, - disse, - messer Pietro, che voi questa sera abbiate avuto poca fatica nei nostri ragionamenti, perché ora con più securtà v'imporremo il carico di parlare ed insegnar al cortegiano questo cosí felice amore, che non ha seco né biasimo né dispiacere alcuno; ché forse sarà una delle piú importanti ed utili condicioni che per ancora gli siano attribuite. Però dite, per vostra fé, tutto quello che ne sapete -. Rise messer Pietro e disse: - Io non vorrei, Signora, che 'l mio dir che ai vecchi sia licito lo amare, fosse cagion di farmi tener per vecchio da queste donne; però date pur questa impresa ad un altro -. Rispose la signora Duchessa: - Non dovete fuggir d'esser riputato vecchio di sapere, se ben foste giovane d'anni; però dite e non v'escusate piú -. Disse messer Pietro: - Veramente, Signora, avendo io da parlar di questa materia, bisognariami andar a domandar consiglio allo Eremita del mio Lavinello -. Allor la signora Emilia, quasi turbata, - Messer Pietro, - disse, - non è alcuno nella compagnia che sia piú disobidiente di voi; però sarà ben che la signora Duchessa vi dia qualche castigo -. Disse messer Pietro pur ridendo: - Non vi adirate meco, Signora, per amor di Dio; ché io dirò ciò che vorrete. - Or dite adunque, - rispose la signora Emilia.
LI.
Allora messer Pietro, avendo prima alquanto tacciuto, poi rasettatosi un poco, come per parlar di cosa importante, cosí disse: - Signori, per dimostrar che i vecchi possano non solamente amar senza biasimo, ma talor piú felicemente che i giovani, sarammi necessario far un poco di discorso, per dichiarir che cosa è amore ed in che consiste la felicità che possono avere gl'inamorati; però pregovi ad ascoltarmi con attenzione, perché spero farvi vedere che qui non è omo a cui si disconvenga l'esser inamorato, ancor che egli avesse quindici o venti anni piú che 'l signor Morello E quivi essendosi alquanto riso, suggiunse messer Pietro: Dico adunque che, secondo che dagli antichi savi è diffinito, amor non è altro che un certo desiderio di fruir la bellezza; e perché il desiderio non appetisce se non le cose conosciute, bisogna sempre che la cognizion preceda il desiderio; il quale per sua natura vuole il bene, ma da sé è cieco e non lo conosce. Però ha cosí ordinato la natura che ad ogni virtú conoscente sia congiunta una virtú appetitiva; e perché nell'anima nostra son tre modi di conoscere, cioè per lo senso, per la ragione e per l'intelletto, dal senso nasce l'appetito, il qual a noi è commune con gli animali bruti; dalla ragione nasce la elezione, che è propria dell'omo; dall'intelletto, per lo quale l'uom po communicar con gli angeli, nasce la voluntà. Cosí adunque come il senso non conosce se non cose sensibili, l'appetito le medesime solamente desidera; e cosí come l'intelletto non è vòlto ad altro che alla contemplazion di cose intelligibili, quella voluntà solamente si nutrisce di beni spirituali. L'omo, di natura razionale, posto come mezzo fra questi dui estremi, po per sua elezione, inclinandosi al senso o vero elevandosi allo intelletto, accostarsi ai desidèri or dell'una or dell'altra parte. Di questi modi adunque si po desiderar la bellezza; il nome universal della quale si conviene a tutte le cose o naturali o artificiali che son composte con bona proporzione e debito temperamento, quanto comporta la lor natura.
LII.
Ma parlando della bellezza che noi intendemo, che è quella solamente che appar nei corpi e massimamente nei volti umani e move questo ardente desiderio che noi chiamiamo amore, diremo che è un influsso della bontà divina, il quale, benché si spanda sopra tutte le cose create come il lume del sole, pur quando trova un volto ben misurato e composto con una certa gioconda concordia di colori distinti ed aiutati dai lumi e dall'ombre e da una ordinata distanzia e termini di linee, vi s'infonde e si dimostra bellissimo, e quel subietto ove riluce adorna ed illumina d'una grazia e splendor mirabile, a guisa di raggio di sole che percuota in un bel vaso d'oro terso e variato di preciose gemme; onde piacevolmente tira a sé gli occhi umani e per quelli penetrando s'imprime nell'anima, e con una nova suavità tutta la commove e diletta, ed accendendola da lei desiderar si fa. Essendo adunque l'anima presa dal desiderio di fruir questa bellezza come cosa bona, se guidar si lassa dal giudicio del senso incorre in gravissimi errori e giudica che 'l corpo, nel qual si vede la bellezza, sia la causa principal di quella, onde per fruirla estima essere necessario l'unirsi intimamente piú che po con quel corpo; il che è falso; e però chi pensa, possedendo il corpo, fruir la bellezza, s'inganna e vien mosso non da vera cognizione per elezion di ragione, ma da falsa opinion per l'appetito del senso; onde il piacer che ne segue esso ancora necessariamente è falso e mendoso. E però in un de' dui mali incorrono tutti quegli amanti, che adempiono le lor non oneste voglie con quelle donne che amano; che o vero, súbito che son giunti al fin desiderato, non solamente senton sazietà e fastidio, ma piglian odio alla cosa amata, quasi che l'appetito si ripenta dell'error suo e riconosca l'inganno fattogli dal falso giudicio del senso, per lo quale ha creduto che 'l mal sia bene; o vero restano nel medesimo desiderio ed avidità, come quelli che non son giunti veramente al fine che cercavano; e benché per la cieca opinione, nella quale inebriati si sono, paia loro che in quel punto sentano piacere, come talor gl'infermi che sognano di ber a qualche chiaro fonte, nientedimeno non si contentano, né s'acquetano. E perché dal possedere il ben desiderato nasce sempre quiete e satisfazione nell'animo del possessore, se quello fosse il vero e bon fine del loro desiderio, possedendolo restariano quieti e satisfatti, il che non fanno; anzi, ingannati da quella similitudine, súbito ritornano al sfrenato desiderio e con la medesima molestia che prima sentivano si ritrovano nella furiosa ed ardentissima sete di quello, che in vano sperano di posseder perfettamente. Questi tali inamorati adunque amano infelicissimamente, perché o vero non conseguono mai li desidèri loro, il che è grande infelicità; o ver, se gli consegueno, si trovano aver conseguito il suo male e finìscono le miserie con altre maggior miserie; perché ancora nel principio e nel mezzo di questo amore altro non si sente già mai che affanni, tormenti, dolori, stenti, fatiche; di modo che l'esser pallido, afflitto, in continue lacrime e sospiri, il star mesto, il tacer sempre o lamentarsi, il desiderar di morire, in somma l'esser infelicissimo, son le condicioni che si dicono convenir agli inamorati.
LIII.
La causa adunque di questa calamità negli animi umani è principalmente il senso, il quale nella età giovenile è potentissimo, perché 'l vigor della carne e del sangue in quella stagione gli dà tanto di forza, quanta ne scema alla ragione e però facilmente induce l'anima a seguitar l'appetito; perché ritrovandosi essa summersa nella pregion terrena e, per esser applicata al ministerio di governar il corpo, priva della contemplazion spirituale, non po da sé intender chiaramente la verità; onde, per aver cognizion delle cose, bisogna che vada mendicandone il principio dai sensi, e però loro crede e loro si inchina e da loro guidar si lassa, massimamente quando hanno tanto vigore che quasi la sforzano; e perché essi son fallaci, la empiono d'errori e false opinioni. Onde quasi sempre occorre che i giovani sono avvolti in questo amor sensuale in tutto rubello dalla ragione, e però si fanno indegni di fruire le grazie e i beni che dona amor ai suoi veri suggetti; né in amor sentono piaceri fuor che i medesimi che sentono gli animali irracionali, ma gli affanni molto piú gravi. Stando adunque questo presuposito, il quale è verissimo, dico che 'l contrario interviene a quelli che sono nella età piú matura; ché se questi tali, quando già l'anima non è tanto oppressa dal peso corporeo e quando il fervor naturale comincia ad intepidirsi, s'accendono della bellezza e verso quella volgono il desiderio guidato da razional elezione, non restano ingannati e posseggono perfettamente la bellezza; e però dal possederla nasce lor sempre bene, perché la bellezza è bona e, conseguentemente, il vero amor di quella è bonissimo e santissimo e sempre produce effetti boni nell'anime di quelli, che col fren della ragion correggono la nequicia del senso; il che molto piú facilmente i vecchi far possono che i giovani.
LIV.
Non è adunque fuor di ragione il dire ancor, ch'e vecchi amar possano senza biasimo e piú felicemente che i giovani; pigliando però questo nome di vecchio non per decrepito, né quando già gli organi del corpo son tanto debili, che l'anima per quelli non po operar le sue virtú, ma quando il saper in noi sta nel suo vero vigore. Non tacerò ancora questo; che è ch'io estimo che, benché l'amor sensuale in ogni età sia malo, pur ne' giovani meriti escusazione, e forse in qualche modo sia licito; ché se ben dà loro affanni, pericoli, fatiche e quelle infelicità che s'è detto, son però molti che per guadagnar la grazia delle donne amate fan cose virtuose, le quali benché non siano indrizzate a bon fine, pur in sé son bone; e cosí di quel molto amaro cavano un poco di dolce, e per le avversità che supportano in ultimo riconoscon l'error suo. Come adunque estimo che quei giovani che sforzan gli appetiti ed amano con la ragione sian divini, cosí escuso quelli che vincer si lassano dall'amor sensuale, al qual tanto per la imbecillità umana sono inclinati; purché in esso mostrino gentilezza, cortesia e valore e le altre nobil condicioni che hanno dette questi signori; e quando non son piú nella età giovenile, in tutto l'abbandonino, allontanandosi da questo sensual desiderio, come dal piú basso grado della scala per la qual si po ascendere al vero amore. Ma se ancor, poi che son vecchi, nel freddo core conservano il foco degli appetiti e sottopongon la ragion gagliarda al senso debile, non si po dir quanto siano da biasmare; ché, come insensati, meritano con perpetua infamia esser connumerati tra gli animali irracionali, perché i pensieri e i modi dell'amor sensuale son troppo disconvenienti alla età matura -.
LV.
Quivi fece il Bembo un poco di pausa, quasi come per riposarsi; e stando ognun cheto, disse il signor Morello da Ortona: - E se si trovasse un vecchio piú disposto e gagliardo e di meglior aspetto che molti giovani, perché non vorreste voi che a questo fosse licito amar di quello amore che amano i giovani? - Rise la signora Duchessa e disse: - Se l'amor dei giovani è cosí infelice, perché volete voi, signor Morello, che i vecchi essi ancor amino con quella infelicità? ma se voi foste vecchio, come dicon costoro, non procurareste cosí il mal dei vecchi -. Rispose il signor Morello: - Il mal dei vecchi parmi che procuri messer Pietro Bembo, il qual vole che amino d'un certo modo, ch'io per me non l'intendo; e parmi che 'l possedere questa bellezza, che esso tanto lauda, senza 'l corpo, sia un sogno. - Credete voi, signor Morello, - disse allor il conte Ludovico, - che la bellezza sia sempre cosí bona come dice messer Pietro Bembo? - Io non già, - rispose il signor Morello; - anzi ricordomi aver vedute molte belle donne malissime, crudeli e di spettose; e par che quasi sempre cosí intervenga, perché la bellezza le fa superbe, e la superbia crudeli -. Disse il conte Ludovico ridendo: - A voi forse paiono crudeli perché non vi compiacciono di quello che vorreste; ma fatevi insegnar da messer Pietro Bembo di che modo debban desiderar la bellezza i vecchi e che cosa ricercar dalle donne e di che contentarsi; e non uscendo voi di que' termini, vederete che non saranno né superbe né crudeli e vi compiaceranno di ciò che vorrete -. Parve allor che 'l signor Morello si turbasse un poco, e disse: - Io non voglio saper quello che non mi tocca; ma fatevi insegnar voi come debbano desiderar questa bellezza i giovani peggio disposti e men gagliardi che i vecchi -.
LVI.
Quivi messer Federico, per acquetar il signor Morello e divertir il ragionamento, non lassò rispondere il conte Ludovico, ma interrompendolo disse: - Forse che 'l signor Morello non ha in tutto torto a dir che la bellezza non sia sempre bona, perché spesso le bellezze di donne son causa che al mondo intervengan infiniti mali, inimicizie, guerre, morti e distruzioni; di che po far bon testimonio la ruina di Troia; e le belle donne per lo piú sono o ver superbe e crudeli, o vero, come s'è detto, impudiche; ma questo al signor Morello non parrebbe diffetto. Sono ancor molti omini scelerati, che hanno grazia di bello aspetto, e par che la natura gli abbia fatti tali acciò che siano piú atti ad ingannare, e che quella vista graziosa sia come l'esca nascosa sotto l'amo -. Allora messer Pietro Bembo, - Non crediate, - disse, - che la bellezza non sia sempre bona -. Quivi il conte Ludovico, per ritornar esso ancor al primo proposito, interruppe e disse: - Poiché 'l signor Morello non si cura di saper quello che tanto gl'importa, insegnatelo a me e mostratemi come acquistino i vecchi questa felicità d'amore, ché non mi curerò io di farmi tener vecchio, pur che mi giovi -.
LVII.
Rise messer Pietro e disse: - Io voglio prima levar dell'animo di questi signori l'error loro; poi a voi ancora satisfarò -. Cosí ricominciando, - Signori, - disse, - io non vorrei che col dir mal della bellezza, che è cosa sacra, fosse alcun di noi che come profano e sacrilego incorresse nell'ira di Dio; però, acciò che 'l signor Morello e messer Federico siano ammoniti e non perdano, come Stesicoro, la vista, che è pena convenientissima a chi disprezza la bellezza, dico che da Dio nasce la bellezza ed è come circulo di cui la bontà è il centro; e però come non po essere circulo senza centro, non po esser bellezza senza bontà; onde rare volte mala anima abita bel corpo e perciò la bellezza estrinseca è vero segno della bontà intrinseca e nei corpi è impressa quella grazia piú e meno quasi per un carattere dell'anima, per lo quale essa estrinsecamente è conosciuta, come negli alberi, ne' quali la bellezza de' fiori fa testimonio della bontà dei frutti; e questo medesimo interviene nei corpi, come si vede che i fisionomi al volto conoscono spesso i costumi e talora i pensieri degli omini; e, che è piú, nelle bestie si comprende ancor allo aspetto la qualità dell'animo, il quale nel corpo esprime se stesso piú che po. Pensate come chiaramente nella faccia del leone, del cavallo, dell'aquila si conosce l'ira, la ferocità e la superbia; negli agnelli e nelle colombe una pura e simplice innocenzia; la malicia astuta nelle volpi e nei lupi, e cosí quasi di tutti gli altri animali.
LVIII.
I brutti adunque per lo piú sono ancor mali e li belli boni; e dir si po che la bellezza sia la faccia piacevole, allegra, grata e desiderabile del bene; e la bruttezza la faccia oscura, molesta, dispiacevole e trista del male; e se considerate tutte le cose, trovarete che sempre quelle che son bone ed utili hanno ancor grazia di bellezza. Eccovi il stato di questa gran machina del mondo, la qual, per salute e conservazion d'ogni cosa creata è stata da Dio fabricata. Il ciel rotondo, ornato di tanti divini lumi, e nel centro la terra circundata dagli elementi e dal suo peso istesso sostenuta; il sole, che girando illumina il tutto e nel verno s'accosta al piú basso segno, poi a poco a poco ascende all'altra parte; la luna, che da quello piglia la sua luce, secondo che se le appropinqua o se le allontana; e l'altre cinque stelle che diversamente fan quel medesimo corso. Queste cose tra sé han tanta forza per la connession d'un ordine composto cosí necessariamente, che mutandole per un punto, non poriano star insieme e ruinarebbe il mondo; hanno ancora tanta bellezza e grazia, che non posson gl'ingegni umani imaginar cosa piú bella. Pensate or della figura dell'omo, che si po dir piccol mondo; nel quale vedesi ogni parte del corpo esser composta necessariamente per arte e non a caso, e poi tutta la forma insieme esser bellissima; tal che difficilmente si poria giudicar qual piú o utilità o grazia diano al volto umano ed al resto del corpo tutte le membra, come gli occhi, il naso, la bocca, l'orecchie, le braccia, il petto e cosí l'altre parti; il medesimo si po dir di tutti gli animali. Eccovi le penne negli uccelli, le foglie e rami negli alberi, che dati gli sono da natura per conservar l'esser loro e pur hanno ancor grandissima vaghezza. Lassate la natura e venite all'arte. Qual cosa tanto è necessaria nelle navi, quanto la prora, i lati, le antenne, l'albero, le vele, il timone, i remi, l'ancore e le sarte? tutte queste cose però hanno tanto di venustà, che par a chi le mira che cosí siano trovate per piacere, come per utilità. Sostengon le colonne e gli architravi le alte logge e palazzi, né però son meno piacevoli agli occhi di chi le mira, che utili agli edifici. Quando prima cominciarono gli omini a edificare, posero nei tempii e nelle case quel colmo di mezzo, non perché avessero gli edifici piú di grazia, ma acciò che dall'una parte e l'altra commodamente potessero discorrer l'acque; nientedimeno all'utile súbito fu congiunta la venustà, talché se sotto a quel cielo ove non cade grandine o pioggia si fabricasse un tempio, non parrebbe che senza il colmo aver potesse dignità o bellezza alcuna.
LIX.
Dassi adunque molta laude, non che ad altro, al mondo dicendo che gli è bello; laudasi dicendo: bel cielo. bella terra, bel mare, bei fiumi, bei paesi, belle selve, alberi, giardini; belle città, bei tempii, case, eserciti. In somma, ad ogni cosa dà supremo ornamento questa graziosa e sacra bellezza; e dir si po che 'l bono e 'l bello a qualche modo siano una medesima cosa, e massimamente nei corpi umani; della bellezza de' quali la piú propinqua causa estimo io che sia la bellezza dell'anima che, come participe di quella vera bellezza divina, illustra e fa bello ciò che ella tocca, e specialmente se quel corpo ov'ella abita non è di cosí vil materia, che ella non possa imprimergli la sua qualità; però la bellezza è il vero trofeo della vittoria dell'anima, quando essa con la virtú divina signoreggia la natura materiale e col suo lume vince le tenebre del corpo. Non è adunque da dir che la bellezza faccia le donne superbe o crudeli, benché cosí paia al signor Morello; né ancor si debbeno imputare alle donne belle quelle inimicizie, morti, distrucioni, di che son causa gli appetiti immoderati degli omini. Non negherò già che al mondo non sia possibile trovar ancor delle belle donne impudiche, ma non è già che la bellezza le incline alla impudicizia; anzi le rimove e le induce alla via dei costumi virtuosi, per la connession che ha la bellezza con la bontà; ma talor la mala educazione, i continui stimuli degli amanti, i doni, la povertà, la speranza, gli inganni, il timore e mille altre cause, vincono la constanzia ancora delle belle e bone donne, e per queste o simili cause possono ancora divenir scelerati gli omini belli -.
LX.
Allora messer Cesare, - Se è vero, - disse, - quello che ieri allegò el signor Gaspar, non è dubbio che le belle sono più caste che le brutte. - E che cosa allegai? - disse el signor Gaspar. Rispose messer Cesare: - Se ben mi ricordo, voi diceste che le donne che son pregate, sempre negano di satisfare a chi le prega; e quelle che non son pregate, pregano altrui. Certo è che le belle son sempre piú pregate e sollicitate d'amor, che le brutte; dunque le belle sempre negano, e conseguentemente son piú caste che le brutte, le quali non essendo pregate pregano altrui -. Rise il Bembo e disse: - A questo argumento risponder non si po -. Poi suggiunse: - Interviene ancor spesso che, come gli altri nostri sensi, cosí la vista s'inganna e giudica per bello un volto che in vero non è bello; e perché negli occhi ed in tutto l'aspetto d'alcune donne si vede talor una certa lascivia dipinta con blandicie disoneste, molti, ai quali tal maniera piace perché lor promette facilità di conseguire ciò che desiderano, la chiamano bellezza; ma in vero è una impudenzia fucata, indegna di cosí onorato e santo nome -. Tacevasi messer Pietro Bembo e quei signori pur lo stimulavano a dir piú oltre di questo amore e del modo di fruire veramente la bellezza; ed esso in ultimo, - A me par, - disse, - assai chiaramente aver dimostrato che piú felicemente possan amar i vecchi, che i giovani; il che fu mio presuposto; però non mi si conviene entrar piú avanti -. Rispose il conte Ludovico: - Meglio avete dimostrato la infelicità de' giovani che la felicità de' vecchi, ai quali per ancor non avete insegnato che camin abbian da seguitare in questo loro amore, ma solamente detto che si lassin guidare alla ragione; e da molti è riputato impossibile che amor stia con la ragione -.
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Edizione telematica e revisione a cura di: Giuseppe Bonghi, 1999
Edizione HTML e impaginazione a cura di: Giuseppe Bonghi, Aprile 1999
Tratto da: Baldesar Castiglione, Il
libro del Cortegiano, a cura di Luigi Preti, Giulio Einaudi Editore, Torino 1965
© 1999 - by prof. Giuseppe Bonghi
- E-mail: Giuseppe Bonghi - bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 14 aprile, 1999