Baldessar Castiglione

Il Libro del Cortegiano

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IL SECONDO LIBRO DEL CORTEGIANO
DEL CONTE BALDESAR CASTIGLIONE
A MESSER ALFONSO ARIOSTO

XXI.

         - Prima che piú avanti passate, - disse quivi Vincenzio Calmeta, - s'io ho ben inteso, parmi che dianzi abbiate detto che la miglior via per conseguir favori sia il meritargli; e che piú presto dee il cortegiano aspettar che gli siano offerti, che prosuntuosamente ricercargli. Io dubito assai che questa regula sia poco al proposito e parmi che la esperienzia ci faccia molto ben chiari del contrario; perché oggidí pochissimi sono favoriti da' signori, eccetto i prosuntuosi; e so che voi potete esser bon testimonio d'alcuni, che, ritrovandosi in poca grazia dei lor príncipi, solamente con la prosunzione si son loro fatti grati; ma quelli che per modestia siano ascesi, io per me non cognosco ed a voi ancor do spacio di pensarvi, e credo che pochi ne trovarete. E se considerate la corte di Francia, la qual oggidí è una delle piú nobili de Cristianità, trovarete che tutti quelli che in essa hanno grazia universale tengon del prosuntuoso; e non solamente l'uno con l'altro, ma col re medesimo. - Questo non dite già, - rispose messer Federico; - anzi in Francia sono modestissimi e cortesi gentilomini; vero è che usano una certa libertà e domestichezza senza cerimonia, la qual ad essi è propria e naturale; e però non si dee chiamar prosunzione, perché in quella sua cosí fatta maniera, benché ridano e piglino piacere dei prosuntuosi, pur apprezzano molto quelli che loro paiono aver in sé valore e modestia -. Rispose il Calmeta: - Guardate i Spagnoli, i quali par che siano maestri della cortegiania e considerate quanti ne trovate, che con donne e con signori non siano prosuntuosissimi; e tanto piú de' Franzesi, quanto che nel primo aspetto mostrano grandissima modestia: e veramente in ciò sono discreti perché, come ho detto, i signori de' nostri tempi tutti favoriscono que' soli che hanno tai costumi -.

XXII.

         Rispose allor messer Federico: - Non voglio già comportar, messer Vincenzio, che voi questa nota diate ai signori de' nostri tempi; perché pur ancor molti sono che amano la modestia, la quale io non dico però che sola basti per far l'uom grato; dico ben, che quando è congiunta con un gran valore, onora assai chi la possede; e se ella di se stessa tace, l'opere laudevoli parlano largamente, e son molto piú maravigliose che se fossero compagnate dalla prosunzione e temerità. Non voglio già negar che non si trovino molti Spagnoli prosuntuosi; dico ben che quelli che sono assai estimati, per il piú sono modestissimi. Ritrovansi poi ancor alcun'altri tanto freddi che fuggono il consorzio degli omini troppo fuor di modo, e passano un certo grado di mediocrità, tal che si fanno estimare o troppo timidi o troppo superbi; e questi per niente non laudo, né voglio che la modestia sia tanto asciutta ed àrrida, che diventi rusticità. Ma sia il cortegiano, quando gli vien in proposito, facundo e nei discorsi de' stati prudente e savio, ed abbia tanto giudicio, che sappia accommodarsi ai costumi delle nazioni ove si ritrova; poi nelle cose piú basse sia piacevole e ragioni ben d'ogni cosa; ma sopra tutto tenda sempre al bene: non invidioso, non maldicente; né mai s'induca a cercar grazia o favor per via viciosa, né per mezzo di mala sorte -. Disse allora il Calmeta: - Io v'assicuro che tutte l'altre vie son molto piú dubbiose e piú lunghe, che non è questa che voi biasimate; perché oggidí, per replicarlo un'altra volta, i signori non amano se non que' che son volti a tal camino. - Non dite cosí, - rispose allor messer Federico, - perché questo sarebbe troppo chiaro argumento che i signori de' nostri tempi fossero tutti viciosi e mali; il che non è, perché pur se ne trovano alcuni di boni. Ma se 'l nostro cortegiano per sorte sua si troverà essere a servicio d'un che sia vicioso e maligno, súbito che lo conosca, se ne levi, per non provar quello estremo affanno che senton tutti i boni che serveno ai mali. - Bisogna pregar Dio, - rispose il Calmeta, - che ce gli dia boni, perché quando s'hanno è forza patirgli tali, quali sono; perché infiniti rispetti astringono chi è gentilomo, poi che ha cominciato a servire ad un patrone, a non lasciarlo; ma la disgrazia consiste nel principio; e sono i cortegiani in questo caso alla condizion di que' mal avventurati uccelli, che nascono in trista valle. - A me pare, - disse messer Federico, - che 'l debito debba valer piú che tutti i rispetti; e purché un gentilomo non lassi il patrone quando fosse in su la guerra o in qualche avversità, di sorte che si potesse credere che ciò facesse per secondar la fortuna, o per parergli che gli mancasse quel mezzo del qual potesse trarre utilità, da ogni altro tempo credo che possa con ragion e debba levarsi da quella servitú, che tra i boni sia per dargli vergogna; perché ognun presume che chi serve ai boni sia bono e chi serve ai mali sia malo -.

XXIII.

         - Vorrei, - disse allor il signor Ludovico Pio, - che voi mi chiariste un dubbio ch'io ho nella mente; il qual è, se un gentilomo, mentre che serve ad un principe, è obligato ad ubidirgli in tutte le cose che gli commanda, ancor che fossero disoneste e vituperose. - In cose disoneste non siamo noi obligati ad ubedire a persona alcuna, - respose messer Federico. - E come, - replicò il signor Ludovico, - s'io starò al servizio d'un principe il qual mi tratti bene, e si confidi ch'io debba far per lui ciò che far si po, commandandomi ch'io vada ad ammazzare un omo, o far qualsivoglia altra cosa, debbo io rifutar di farla? - Voi dovete, - rispose messer Federico, - ubidire al signor vostro in tutte le cose che a lui sono utili ed onorevoli, non in quelle che gli sono di danno e di vergogna; però se esso vi comandasse che faceste un tradimento, non solamente non sète obligato a farlo, ma sète obligato a non farlo, e per voi stesso, e per non esser ministro della vergogna del signor vostro. Vero è che molte cose paiono al primo aspetto bone, che sono male, e molte paiono male, e pur son bone. Però è licito talor per servicio de' suoi signori ammazzare non un omo, ma diece milia, e far molt'altre cose, le quali, a chi non le considerasse come si dee, pareriano male, e pur non sono -. Rispose allor il signor Gaspar Pallavicino: - Deh, per vostra fé, ragionate un poco sopra questo, ed insegnateci come si possan discerner le cose veramente bone dalle apparenti. - Perdonatemi, - disse messer Federico; - io non voglio entrar qua, ché troppo ci saria che dire, ma il tutto si rimetta alla discrezion vostra -.

XXIV.

         - Chiaritemi almen un altro dubbio, - replicò il signor Gasparo. - E che dubbio? - disse messer Federico. - Questo, - rispose il signor Gasparo: - Vorrei sapere, essendomi imposto da un mio signor terminatamente quello ch'io abbia a fare in una impresa o negocio di qualsivoglia sorte, s'io, ritrovandomi in fatto, e parendomi con l'operare piú o meno o altrimenti di quello che m'è stato imposto, poter fare succedere la cosa piú prosperamente o con piú utilità di chi m'ha dato tal carico, debbo io governarmi secondo quella prima norma senza passar i termini del comandamento, o pur far quello che a me pare esser meglio? - Rispose allora messer Federico: - Io, circa questo, vi darei la sentenzia con lo esempio di Manlio Torquato, che in tal caso per troppo pietà uccise il figliolo, se lo estimasse degno di molta laude, che in vero non l'estimo; benché ancor non oso biasmarlo, contra la opinion di tanti seculi: perché senza dubbio è assai pericolosa cosa desviare dai comandamenti de' suoi maggiori, confidandosi piú del giudicio di se stessi che di quegli ai quali ragionevolmente s'ha da ubedire; perché se per sorte il pensier vien fallito e la cosa succeda male, incorre l'omo nell'error della disubidienza e ruina quello che ha da far senza via alcuna di escusazione o speranza di perdono; se ancor la cosa vien secondo il desiderio, bisogna laudarne la ventura e contentarsene. Pur con tal modo s'introduce una usanza d'estimar poco i comandamenti de' superiori; e per esempio di quello a cui sarà successo bene, il quale forse sarà prudente ed arà discorso con ragione ed ancor sarà stato aiutato dalla fortuna, vorranno poi mille altri ignoranti e leggeri pigliar sicurtà nelle cose importantissime di far a lor modo, e per mostrar d'esser savi ed aver autorità desviar dai comandamenti de' signori: il che è malissima cosa, e spesso causa d'infiniti errori. Ma io estimo che in tal caso debba quello a cui tocca considerar maturamente, e quasi porre in bilancia il bene e la commodità che gli è per venire del fare contra il commandamento ponendo che 'l disegno suo gli succeda secondo la speranza; dall'altra banda, contrapesare il male e la incommodità che gliene nasce, se per sorte, contrafacendo al commandamento, la cosa gli vien mal fatta; e conoscendo che 'l danno possa esser maggiore e di piú importanzia succedendo il male, che la utilità succedendo il bene, dee astenersene e servar a puntino quello che imposto gli è; e per contrario, se la utilità è per esser di piú importanzia succedendo il bene, che 'l danno succedendo il male, credo che possa ragionevolmente mettersi a far quello che piú la ragione e 'l giudicio suo gli detta, e lasciar un poco da canto quella propria forma del commandamento; per fare come i boni mercatanti, li quali per guadagnare l'assai, avventurano il poco, ma non l'assai per guadagnar il poco. Laudo ben che sopra tutto abbia rispetto alla natura di quel signore a cui serve e secondo quella si governi; perché se fosse cosí austera, come di molti che se ne trovano, io non lo consigliarei mai, se amico mio fosse, che mutasse in parte alcuna l'ordine datogli: acciò che non gl'intravenisse quel che si scrive esser intervenuto ad un maestro ingegnero d'Ateniesi, al quale, essendo Publio Crasso Muziano in Asia e volendo combattere una terra, mandò a dimandare un de' dui alberi da nave che esso in Atene avea veduto, per far uno ariete da battere il muro, e disse voler il maggiore. L'ingegnero, come quello che era intendentissimo, conobbe quel maggiore esser poco a proposito per tal effetto; e per esser il minore piú facile a portare ed ancor piú conveniente a far quella machina, mandollo a Muziano. Esso, intendendo come la cosa era ita, fecesi venir quel povero ingegnero e domandatogli perché non l'avea ubidito, non volendo ammettere ragione alcuna che gli dicesse, lo fece spogliar nudo e battere e frustare con verghe tanto che si morí, parendogli che in loco d'ubidirlo avesse voluto consigliarlo; sí che con questi cosí severi omini bisogna usar molto rispetto.

XXV.

         Ma lasciamo da canto omai questa pratica de' signori e vengasi alla conversazione coi pari o poco diseguali; ché ancor a questa bisogna attendere per esser universalmente piú frequentata e trovarsi l'omo piú spesso in questa, che in quella de' signori. Benché son alcuni sciocchi, che se fossero in compagnia del maggior amico che abbiano al mondo, incontrandosi con un meglio vestito, súbito a quel si attaccano; se poi gli ne occorre un altro meglio, fanno pur il medesimo. E quando poi il principe passa per le piazze, chiese, o altri lochi publici, a forza di cubiti si fanno far strada a tutti, tanto che se gli metteno al costato; e se ben non hanno che dirgli, pur lor voglion parlare e tengono lunga la diceria, e rideno, e batteno le mani e 'l capo, per mostrar ben aver facende di importanzia, acciò che 'l populo gli vegga in favore. Ma poiché questi tali non si degnano di parlare se non coi signori, io non voglio che noi degnimo parlar d'essi -.

XXVI.

         Allora il Magnifico Iuliano, - Vorrei, - disse, - messer Federico, poiché avete fatto menzion di questi che s'accompagnano cosí voluntieri coi ben vestiti, che ci mostraste di qual manera si debba vestire il cortegiano e che abito piú se gli convenga, e circa tutto l'ornamento del corpo in che modo debba governarsi; perché in questo veggiamo infinite varietà; e chi si veste alla franzese, chi alla spagnola, chi vol parer tedesco; né ci mancano ancor di quelli che si vestono alla foggia de' Turchi; chi porta la barba, chi no. Saria adunque ben fatto saper in questa confusione eleggere il meglio -. Disse messer Federico: - Io in vero non saprei dar regula determinata circa il vestire, se non che l'uom s'accommodasse alla consuetudine dei piú; e poiché, come voi dite, questa consuetudine è tanto varia e che gli Italiani tanto son vaghi d'abbigliarsi alle altrui fogge, credo che ad ognuno sia licito vestirsi a modo suo. Ma io non so per qual fato intervenga che la Italia non abbia, come soleva avere, abito che sia conosciuto per italiano; che, benché lo aver posto in usanza questi novi faccia parer quelli primi goffissimi, pur quelli forse erano segno di libertà, come questi son stati augurio di servitú; il quale ormai parmi assai chiaramente adempiuto. E come si scrive che, avendo Dario l'anno prima che combattesse con Alessandro fatto acconciar la spada che egli portava a canto, la quale era persiana, alla foggia di Macedonia, fu interpretato dagli indovini che questo significava, che coloro, nella foggia de' quali Dario avea tramutato la forma della spada persiana, verriano a dominar la Persia; cosí l'aver noi mutato gli abiti italiani nei stranieri parmi che significasse, tutti quelli, negli abiti de' quali i nostri erano trasformati, dever venire a subiugarci; il che è stato troppo piú che vero, ché ormai non resta nazione che di noi non abbia fatto preda, tanto che poco piú resta che predare e pur ancor di predar non si resta.

XXVII.

         Ma non voglio che noi entriamo in ragionamenti di fastidio; però ben sarà dir degli abiti del nostro cortegiano; i quali io estimo che, pur che non siano fuor della consuetudine, né contrari alla professione, possano per lo resto tutti star bene, pur che satisfacciano a chi gli porta. Vero è ch'io per me amerei che non fossero estremi in alcuna parte, come talor sòl essere il franzese in troppo grandezza e 'l tedesco in troppo piccolezza, ma come sono e l'uno e l'altro corretti e ridutti in meglior forma dagli Italiani. Piacemi ancor sempre che tendano un poco piú al grave e riposato, che al vano; però parmi che maggior grazia abbia nei vestimenti il color nero, che alcun altro; e se pur non è nero, che almen tenda al scuro; e questo intendo del vestir ordinario, perché non è dubbio che sopra l'arme piú si convengan colori aperti ed allegri, ed ancor gli abiti festivi, trinzati, pomposi e superbi. Medesimamente nei spettaculi publici di feste, di giochi, di mascare e di tai cose; perché cosí divisati portan seco una certa vivezza ed alacrità, che in vero ben s'accompagna con l'arme e giochi; ma nel resto vorrei che mostrassino quel riposo che molto serva la nazion spagnola, perché le cose estrinseche spesso fan testimonio delle intrinseche -. Allor disse messer Cesare Gonzaga: - Questo a me daria poca noia perché, se un gentilom nelle altre cose vale, il vestire non gli accresce né scema mai riputazione -. Rispose messer Federico: - Voi dite il vero. Pur qual è di noi che, vedendo passeggiar un gentilomo con una robba addosso quartata di diversi colori, o vero con tante stringhette e fettuzze annodate e fregi traversati, non lo tenesse per pazzo o per buffone? - Né pazzo, né buffone, - disse messer Pietro Bembo, - sarebbe costui tenuto da chi fosse qualche tempo vivuto nella Lombardia perché cosí vanno tutti. - Adunque, - rispose la signora Duchessa ridendo, - se cosí vanno tutti, opporre non se gli dee per vizio, essendo a loro questo abito tanto conveniente e proprio quanto ai Veneziani il portar le maniche a cómeo ed ai Fiorentini il capuzzo. - Non parlo io, - disse messer Federico, - piú della Lombardia che degli altri lochi, perché d'ogni nazion se ne trovano e di sciocchi e d'avveduti. Ma per dir ciò che mi par d'importanzia nel vestire, voglio che 'l nostro cortegiano in tutto l'abito sia pulito e delicato ed abbia una certa conformità di modesta attillatura ma non però di manera feminile o vana, né piú in una cosa che nell'altra, come molti ne vedemo, che pongon tanto studio nella capigliatura, che si scordano il resto; altri fan professione de denti, altri di barba, altri di borzachini, altri di berrette, altri di cuffie; e cosí intervien che quelle poche cose piú culte paiono lor prestate, e tutte l'altre che sono sciocchissime si conoscono per le loro. E questo tal costume voglio che fugga il nostro cortegiano, per mio consiglio; aggiungendovi ancor che debba fra se stesso deliberar ciò che vol parere e di quella sorte che desidera esser estimato, della medesima vestirsi, e far che gli abiti lo aiutino ad esser tenuto per tale ancor da quelli che non l'odono parlare, né veggono far operazione alcuna -.

XXVIII.

         - A me non pare, - disse allor el signor Gaspar Pallavicino, - che si convenga, né ancor che s'usi tra persone di valore giudicar la condicion degli omini agli abiti, e non alle parole ed alle opere, perché molti s'ingannariano; né senza causa dicesi quel proverbio che l'abito non fa 'l monaco. - Non dico io, rispose messer Federico, - che per questo solo s'abbiano a far i giudici resoluti delle condizion degli omini, né che piú non si conoscano per le parole e per l'opere che per gli abiti; dico ben che ancor l'abito non è piccolo argomento della fantasia di chi lo porta, avvenga che talor possa esser falso; e non solamente questo, ma tutti i modi e costumi, oltre all'opere e parole, sono giudicio delle qualità di colui in cui si veggono. - E che cose trovate voi, - rispose il signor Gasparo, - sopra le quali noi possiam far giudicio, che non siano né parole né opere? - Disse allor messer Federico: - Voi sète troppo sottile loico. Ma per dirvi come io intendo, si trovano alcune operazioni che poi che son fatte restano ancora, come l'edificare, scrivere ed altre simili; altre non restano, come quelle di che io voglio ora intendere: però non chiamo in questo proposito che 'l passeggiare, ridere, guardare e tai cose, siano operazioni; e pur tutto questo di fuori dà notizia spesso di quel dentro. Ditemi, non faceste voi giudicio che fosse un vano e legger omo quello amico nostro, del quale ragionammo pur questa mattina, sùbito che lo vedeste passeggiar con quel torzer di capo, dimenandosi tutto, ed invitando con aspetto benigno la brigata a cavarsegli la berretta? Cosí ancora quando vedete uno che guarda troppo intento con gli occhi stupidi a foggia d'insensato, o che rida cosí scioccamente come que' mutoli gozzuti delle montagne di Bergamo, avvenga che non parli o faccia altro, non lo tenete voi per un gran babuasso? Vedete adunque che questi modi e costumi, che io non intendo per ora che siano operazioni, fanno in gran parte che gli omini siano conosciuti.

XXIX.

         Ma un'altra cosa parmi che dia e lievi molto la riputazione, e questa è la elezion degli amici coi quali si ha da tenere intrinseca pratica; perché indubitatamente la ragion vol che di quelli che sono con stretta amicizia ed indissolubil compagnia congiunti, siano ancor le voluntà, gli animi, i giudici e gli ingegni conformi. Cosí, chi conversa con ignoranti o mali è tenuto per ignorante o malo; e per contrario chi conversa con boni e savi e discreti è tenuto per tale; ché da natura par che ogni cosa volentieri si congiunga col suo simile. Però gran riguardo credo che si convenga aver nel cominciar queste amicizie, perché di dui stretti amici chi conosce l'uno, súbito imagina l'altro esser della medesima condizione -. Rispose allor messer Pietro Bembo: - Del restringersi in amicizia cosí unanime, come voi dite, parmi veramente che si debba aver assai riguardo, non solamente per l'acquistar o perdere la riputazione, ma perché oggidí pochissimi veri amici si trovano, né credo che piú siano al mondo quei Piladi ed Oresti, Tesei e Piritoi, né Scipioni e Lelii; anzi non so per qual destin interviene ogni dí che dui amici, i quali saranno vivuti in cordialissimo amore molt'anni, pur al fine l'un l'altro in qualche modo s'ingannano, o per malignità, o per invidia, o per leggerezza, o per qualche altra mala causa; e ciascun dà la colpa al compagno di quello, che forse l'uno e l'altro la merita. Però essendo a me intervenuto piú d'una volta l'esser ingannato da chi piú amava e da chi sopra ogni altra persona aveva confidenzia d'esser amato, ho pensato talor da me a me che sia ben non fidarsi mai di persona del mondo, né darsi cosí in preda ad amico, per caro ed amato che sia, che senza riserva l'omo gli comunichi tutti i suoi pensieri come farebbe a se stesso; perché negli animi nostri sono tante latebre e tanti recessi, che impossibil è che prudenzia umana possa conoscer quelle simulazioni, che dentro nascose vi sono. Credo adunque che ben sia amare e servire l'un piú che l'altro, secondo i meriti e 'l valore; ma non però assicurarsi tanto con questa dolce esca d'amicizia, che poi tardi se n'abbiamo a pentire -.

XXX.

          Allor messer Federico, - Veramente, - disse, - molto maggior saria la perdita che 'l guadagno, se del consorzio umano si levasse quel supremo grado d'amicizia che, secondo me, ci dà quanto di bene ha in sé la vita nostra; e però io per alcun modo non voglio consentirvi che ragionevol sia, anzi mi daria il core di concludervi, e con ragioni evidentissime, che senza questa perfetta amicizia gli omini sariano piú infelici che tutti gli altri animali; e se alcuni guastano, come profani, questo santo nome d'amicizia, non è però da estirparla cosí degli animi nostri e per colpa dei mali privar i boni di tanta felicità. Ed io per me estimo che qui tra noi sia piú di un par di amici, l'amor de' quali sia indissolubile e senza inganno alcuno, e per durar fin alla morte con le voglie conformi, non meno che se fossero quegli antichi che voi dianzi avete nominati; e cosí interviene quando, oltre alla inclinazion che nasce dalle stelle, l'omo s'elegge amico a sé simile di costumi; e 'l tutto intendo che sia tra boni e virtuosi, perché l'amicizia de' mali non è amicizia. Laudo ben che questo nodo cosí stretto non comprenda o leghi piú che dui, ché altramente forse saria pericoloso; perché, come sapete, piú difficilmente s'accordano tre instromenti di musica insieme, che dui. Vorrei adunque che 'l nostro cortegiano avesse un precipuo e cordial amico, se possibil fosse, di quella sorte che detto avemo; poi, secondo 'l valore e meriti, amasse, onorasse ed osservasse tutti gli altri, e sempre procurasse d'intertenersi piú con gli estimati e nobili e conosciuti per boni, che con gli ignobili e di poco pregio; di manera che esso ancor da loro fosse amato ed onorato; e questo gli verrà fatto se sarà cortese, umano, liberale, affabile e dolce in compagnia, officioso e diligente nel servire e nell'aver cura dell'utile ed onor degli amici cosí assenti come presenti, supportando i lor diffetti naturali e supportabili, senza rompersi con essi per piccol causa, e correggendo in se stesso quelli che amorevolmente gli saranno ricordati; non si anteponendo mai agli altri con cercar i primi e i piú onorati lochi, né con fare come alcuni che par che sprezzino il mondo e vogliano con una certa austerità molesta dar legge ad ognuno; ed oltre allo essere contenziosi in ogni minima cosa e fuor di tempo, riprender ciò che essi non fanno e sempre cercar causa di lamentarsi degli amici; il che è cosa odiosissima -.

XXXI.

         Quivi essendosi fermato di parlare messer Federico, - Vorrei, - disse il signor Gasparo Pallavicino, - che voi ragionaste un poco piú minutamente di questo conversar con gli amici che non fate; ché in vero vi tenete molto al generale e quasi ci mostrate le cose per transito. - Come per transito? - rispose messer Federico. - Vorreste voi forse che io vi dicessi ancor le parole proprie che si avessero ad usare? non vi par adunque che abbiamo ragionato a bastanza di questo? - A bastanza parmi, - rispose el signor Gasparo. - Pur desidero io d'intendere qualche particularità ancor della foggia dell'intertenersi con omini e con donne; la qual cosa a me par di molta importanzia, considerato che 'l piú del tempo in ciò si dispensa nelle corti; e se questa fosse sempre uniforme, presto verria a fastidio. - A me pare, - rispose messer Federico, - che noi abbiam dato al cortegiano cognizion di tante cose, che molto ben po variar la conversazione ed accommodarsi alle qualità delle persone con le quai ha da conversare, presuponendo che egli sia di bon giudicio e con quello si governi, e secondo i tempi talor intenda nelle cose gravi, talor nelle feste e giochi. - E che giochi? - disse il signor Gasparo. Rispose allor messer Federico ridendo: - Dimandiamone consiglio a fra Serafino, che ogni dí ne trova de' novi. - Senza motteggiare, - replicò il signor Gasparo, - parvi che sia vicio nel cortegiano il giocare alle carte ed ai dadi? - A me no, - disse messer Federico, eccetto a cui nol facesse troppo assiduamente e per quello lasciasse l'altre cose di maggior importanzia, o veramente non per altro che per vincer denari, ed ingannasse il compagno e perdendo mostrasse dolore e dispiacere tanto grande, che fosse argomento d'avarizia -. Rispose il signor Gasparo: - E che dite del gioco de' scacchi? - Quello certo è gentile intertenimento ed ingenioso, - disse messer Federico, - ma parmi che un sol diffetto vi si trovi; e questo è che se po saperne troppo, di modo che a cui vol esser eccellente nel gioco de' scacchi credo bisogni consumarvi molto tempo e mettervi tanto studio, quanto se volesse imparar qualche nobil scienzia, o far qualsivoglia altra cosa ben d'importanzia; e pur in ultimo con tanta fatica non sa altro che un gioco; però in questo penso che intervenga una cosa rarissima, cioè che la mediocrità sia piú laudevole che la eccellenzia -. Rispose il signor Gasparo: - Molti Spagnoli trovansi eccellenti in questo ed in molti altri giochi, i quali però non vi mettono molto studio, né ancor lascian di far l'altre cose. - Credete, - rispose messer Federico, - che gran studio vi mettano, benché dissimulatamente. Ma quegli altri giochi che voi dite, oltre agli scacchi, forse sono come molti ch'io ne ho veduti fare pur di poco momento, i quali non serveno se non a far maravigliare il vulgo; però a me non pare che meritino altra laude né altro premio, che quello che diede Alessandro Magno a colui che, stando assai lontano, cosí ben infilzava i ceci in un ago.

XXXII.

            Ma perché par che la fortuna, come in molte altre cose, cosí ancor abbia grandissima forza nelle opinioni degli omini, vedesi talor che un gentilomo, per ben condizionato che egli sia e dotato di molte grazie, sarà poco grato ad un signore e, come si dice, non gli arà sangue, e questo senza causa alcuna che si possa comprendere; però giungendo alla presenzia di quello e non essendo dagli altri per prima conosciuto, benché sia arguto e pronto nelle risposte e si mostri bene nei gesti, nelle manere, nelle parole ed in ciò che si conviene, quel signore poco mostrarà d'estimarlo, anzi piú presto gli farà qualche scorno; e da questo nascerà che gli altri súbito s'accommodaranno alla voluntà del signore e ad ognun parerà che quel tale non vaglia, né sarà persona che l'apprezzi o stimi, o rida de' suoi detti piacevoli, o ne tenga conto alcuno; anzi cominciaranno tutti a burlarlo e dargli la caccia; né a quel meschino basteran bone risposte, né pigliar le cose come dette per gioco ché insino a' paggi si gli metteranno attorno, di sorta che, se fosse il piú valoroso uomo del mondo, sarà forza che resti impedito e burlato. E per contrario se 'l principe se mostrarà inclinato ad un ignorantissimo, che non sappia né dir né fare, saranno spesso i costumi e i modi di quello, per sciocchi ed inetti che siano, laudati con le esclamazioni e stupore da ognuno, e parerà che tutta la corte lo ammiri ed osservi, e ch'ognun rida de' suoi motti e di certe arguzie contadinesche e fredde, che piú presto devrian mover vomito che riso: tanto son fermi ed ostinati gli omini nelle opinioni che nascono da' favori e disfavori de' signori. Però voglio che 'l nostro cortegiano, il meglio che po, oltre al valore s'aiuti ancora con ingegno ed arte; e sempre che ha d'andare in loco dove sia novo e non conosciuto, procuri che prima vi vada la bona opinion di sé che la persona, e faccia che ivi s'intenda che esso in altri lochi, appresso altri signori, donne e cavalieri, sia ben estimato; perché quella fama che par che nasca da molti giudici genera una certa ferma credenza di valore, che poi, trovando gli animi cosí disposti e preparati, facilmente con l'opere si mantiene ed accresce; oltra che si fugge quel fastidio ch'io sento, quando mi viene domandato chi sono e quale è il nome mio -.

XXXIII.

         - Io non so come questo giovi, - rispose messer Bernardo Bibiena; - perché a me piú volte è intervenuto e, credo, a molt'altri, che avendomi formato nell'animo, per detto di persone di giudicio, una cosa esser di molta eccellenzia prima che veduta l'abbia, vedendola poi, assai mi è mancata e di gran lunga restato son ingannato di quello ch'io estimava; e ciò d'altro non è proceduto che dall'aver troppo creduto alla fama ed aver fatto nell'animo mio un tanto gran concetto, che, misurandolo poi col vero, l'effetto avvenga che sia stato grande ed eccellente, alla comparazion di quello che imaginato aveva, m'è parso piccolissimo. Cosí dubito ancor che possa intervenir del cortegiano. Però non so come sia bene dar queste aspettazioni e mandar innanzi quella fama; perché gli animi nostri spesso formano cose alle quali impossibil è poi corrispondere, e cosí piú se ne perde che non si guadagna -. Quivi disse messer Federico: - Le cose che a voi ed a molt'altri riescono minori assai che la fama, son per il piú di sorte, che l'occhio al primo aspetto le po giudicare; come se voi non sarete mai stato a Napoli o a Roma, sentendone ragionar tanto imaginarete piú assai di quello che forse poi alla vista vi riuscirà; ma delle condizioni degli omini non intervien cosí, perché quello che si vede di fuori è il meno. Però se 'l primo giorno, sentendo ragionare un gentilomo, non comprenderete che in lui sia quel valore che avevate prima imaginato, non cosí presto vi spogliarete della bona opinione come in quelle cose delle quali l'occhio súbito è giudice, ma aspettarete di dí in dí scoprir qualche altra nascosta virtú tenendo pur ferma sempre quella impressione che v'è nata dalle parole di tanti; ed essendo poi questo (come io presupongo che sia il nostro cortegiano) cosí ben qualificato, ogn'ora meglio vi confermarà a credere a quella fama, perché con l'opere ve ne darà causa, e voi sempre estimarete qualche cosa piú di quello che vederete -.

XXXIV.

         E certo non si po negar che queste prime impressioni non abbiano grandissima forza e che molta cura aver non vi si debba; ed acciò che comprendiate quanto importino, dicovi che io ho a' miei dí conosciuto un gentilomo, il quale, avvenga che fosse di assai gentil aspetto e di modesti costumi ed ancor valesse nell'arme, non era però in alcuna di queste condizioni tanto eccellente, che non se gli trovassino molti pari ed ancor superiori. Pur, come la sorte sua volse, intervenne che una donna si voltò ad amarlo ferventissimamente; e crescendo ogni dí questo amore per la dimostrazion di correspondenzia che faceva il giovane, e non vi essendo modo alcun da potersi parlare insieme, spinta la donna da troppo passione, scoperse il suo desiderio ad un'altra donna, per mezzo della quale sperava qualche commodità. Questa né di nobiltà né di bellezza non era punto inferior alla prima; onde intervenne che sentendo ragionare cosí affettuosamente di questo giovane, il qual essa mai non aveva veduto, e conoscendo che quella donna, la quale ella sapeva ch'era discretissima e d'ottimo giudicio, l'amava estremamente, súbito imaginò che costui fosse il piú bello e 'l piú savio e 'l piú discreto ed in somma il piú degno omo da esser amato, che al mondo si trovasse; e cosí, senza vederlo, tanto fieramente se ne innamorò, che non per l'amica sua ma per se stessa cominciò a far ogni opera per acquistarlo e farlo a sé corrispondente in amore; il che con poca fatica le venne fatto, perché in vero era donna piú presto da esser pregata, che da pregare altrui. Or udite bel caso. Non molto tempo appresso occorse che una lettera, la qual scrivea questa ultima donna allo amante, pervenne in mano d'un'altra pur nobilissima e di costumi e di bellezza rarissima, la quale essendo, come è il piú delle donne, curiosa e cupida di saper secreti, e massimamente d'altre donne, aperse questa lettera, e leggendola comprese ch'era scritta con estremo affetto d'amore; e le parole dolci e piene di foco che ella lesse, prima la mossero a compassion di quella donna, perché molto ben sapea da chi veniva la lettera ed a cui andava; poi tanta forza ebbero, che rivolgendole nell'animo e considerando di che sorte doveva esser colui che avea potuto indur quella donna a tanto amore, súbito essa ancor se ne innamorò; e fece quella lettera forse maggior effetto, che non averia fatto se dal giovane a lei fosse stata mandata. E come talor interviene che 'l veneno in qualche vivanda preparato per un signore ammazza il primo che 'l gusta, cosí questa meschina, per esser troppo ingorda, bevvé quel veneno amoroso che per altrui era preparato. Che vi debbo io dire? la cosa fu assai palese ed andò di modo, che molte donne oltre a queste, parte per far dispetto all'altre, parte per far come l'altre, posero ogni industria e studio per goder dell'amore di costui e ne fecero per un tempo alla grappa, come i fanciulli delle cerase; e tutto procedette dalla prima opinione che prese quella donna, vedendolo tanto amato da un'altra -.

XXXV.

         Or quivi ridendo rispose il signor Gasparo Pallavicino: - Voi per confirmare il parer vostro con ragione m'allegate opere di donne, le quali per lo piú son fuori d'ogni ragione; e se voi voleste dir ogni cosa, questo cosí favorito da tante donne dovea essere un nescio e da poco omo in effetto; perché usanza loro è sempre attaccarsi ai peggiori e, come le pecore, far quello che veggon fare alla prima, o bene o male che si sia; oltra che son tanto invidiose tra sé, che se costui fosse stato un monstro, pur averian voluto rubarsilo l'una all'altra -. Quivi molti cominciorono, e quasi tutti, a voler contradire al signor Gasparo; ma la signora Duchessa impose silenzio a tutti; poi, pur ridendo, disse: - Se 'l mal che voi dite delle donne non fosse tanto alieno dalla verità, che nel dirlo piú tosto desse carico e vergogna a chi lo dice che ad esse, io lassarei che vi fosse risposto; ma non voglio che col contradirvi con tante ragioni come si poria, siate rimosso da questo mal costume, acciò che del peccato vostro abbiate gravissima pena; la qual sarà la mala opinion che di voi pigliaran tutti quelli, che di tal modo vi sentiranno ragionare -. Allor messer Federico, - Non dite, signor Gasparo, - rispose, - che le donne siano cosí fuor di ragione, se ben talor si moveno ad amar piú per l'altrui giudicio che per lo loro; perché i signori e molti savi omini spesso fanno il medesimo; e se licito è dir il vero, voi stesso e noi altri tutti molte volte, ed ora ancor, credemo piú alla altrui opinione che alla nostra propria. E che sia 'l vero, non è ancor molto tempo, che essendo appresentati qui alcuni versi sotto 'l nome del Sanazaro, a tutti parvero molto eccellenti e furono laudati con le maraviglie ed esclamazioni; poi, sapendosi per certo che erano d'un altro, persero súbito la reputazione e parvero men che mediocri. E cantandosi pur in presenzia della signora Duchessa un mottetto, non piacque mai né fu estimato per bono, fin che non si seppe che quella era composizion di Josquin de Pris. Ma che piú chiaro segno volete voi della forza della opinione? Non vi ricordate che, bevendo voi stesso d'un medesimo vino, dicevate talor che era perfettissimo, talor insipidissimo? e questo perché a voi era persuaso che eran dui vini, l'un di Rivera di Genoa e l'altro di questo paese; e poi ancor che fu scoperto l'errore, per modo alcuno non volevate crederlo, tanto fermamente era confermata nell'animo vostro quella falsa opinione, la qual però dalle altrui parole nasceva.

XXXVI.

         Deve adunque il cortegiano por molta cura nei princípi di dar bona impression di sé e considerar come dannosa e mortal cosa sia lo incorrer nel contrario; ed a tal pericolo stanno piú che gli altri quei che voglion far profession d'esser molto piacevoli, ed aversi con queste sue piacevolezze acquistato una certa libertà, per la qual lor convenga e sia licito e fare e dire ciò che loro occorre cosí senza pensarvi. Però spesso questi tali entrano in certe cose, delle quai non sapendo uscire, Voglion poi aiutarsi col far ridere; e quello ancor fanno cosí disgraziatamente che non riesce, tanto che inducono in grandissimo fastidio chi gli vede ed ode, ed essi restano freddissimi. Alcuna volta, pensando per quello esser arguti e faceti, in presenzia d'onorate donne e spesso a quelle medesime, si mettono a dir sporchissime e disoneste parole; e quanto piú le veggono arrossire tanto piú si tengon bon cortegiani, e tuttavia ridono e godono tra sé di cosí bella virtú, come lor pare avere. Ma per niuna altra causa fanno tante pecoragini, che per esser estimati bon compagni; questo è quel nome solo che lor pare degno di laude e del quale piú che di niun altro essi si vantano; e per acquistarlo si dicon le piú scorrette e vituperose villanie del mondo. Spesso s'urtano giú per le scale, si dàn de' legni e de' mattoni l'un l'altro nelle reni, mettonsi pugni di polvere negli occhi, fannosi ruinare i cavalli addosso ne' fossi o giú di qualche poggio; a tavola poi, minestre, sapori, gelatine, tutte si dànno nel volto, e poi ridono; e chi di queste cose sa far piú, quello per meglior cortegiano e piú galante da se stesso s'apprezza e pargli aver guadagnato gran gloria; e se talor invitano a cotai sue piacevolezze un gentilomo, e che egli non voglia usar questi scherzi selvatichi, súbito dicono ch'egli si tien troppo savio e gran maestro e che non è bon compagno. Ma io vi vo' dir peggio. Sono alcuni che contrastano e mettono il prezio a chi può mangiare e bere piú stomacose e fetide cose; e trovanle tanto aborrenti dai sensi umani, che impossibil è ricordarle senza grandissimo fastidio -.

XXXVII.

         - E che cose possono esser queste? - disse il signor Ludovico Pio. Rispose messer Federico: - Fatevele dire al marchese Febus, che spesso l'ha vedute in Francia, e forse gli è intravenuto -. Rispose il marchese Febus: - Io non ho veduto far cosa in Francia di queste, che non si faccia ancor in Italia, ma ben ciò che hanno di bon gli Italiani, nei vestimenti, nel festeggiare, banchettare, armeggiare ed in ogni altra cosa che a cortegian si convenga, tutto l'hanno dai Franzesi. - Non dico io, - rispose messer Federico, - che ancor tra' Franzesi non si trovino de' gentilissimi e modesti cavalieri; ed io per me n'ho conosciuti molti veramente degni d'ogni laude; ma pur alcuni se ne trovan poco riguardati; e, parlando generalmente, a me par che con gli Italiani piú si confaccian nei costumi i Spagnoli che i Franzesi, perché quella gravità riposata peculiar dei Spagnoli mi par molto piú conveniente a noi altri che la pronta vivacità, la qual nella nazion franzese quasi in ogni movimento si conosce; il che in essi non disdice, anzi ha grazia, perché loro è cosí naturale e propria, che non si vede in loro affettazione alcuna. Trovansi ben molti Italiani che vorriano pur sforzarsi de imitare quella manera; e non sanno far altro che crollar la testa parlando, e far riverenze in traverso di mala grazia, e quando passeggian per la terra caminar tanto forte, che i staffieri non possano lor tener drieto; e con questi modi par loro esser bon Franzesi, ed aver di quella libertà; la qual cosa in vero rare volte riesce, eccetto a quelli che son nutriti in Francia e da fanciulli hanno presa quella manera. Il medesimo intervien del saper diverse lingue; il che io laudo molto nel cortegiano, e massimamente la spagnola e la franzese, perché il commerzio dell'una e dell'altra nazion è molto frequente in Italia e con noi sono queste due piú conformi che alcuna dell'altre; e que' dui príncipi, per esser potentissimi nella guerra e splendidissimi nella pace, sempre hanno la corte piena di nobili cavalieri, che per tutto 'l mondo si spargono; e a noi pur bisogna conversar con loro.

XXXVIII.

         Or io non voglio seguitar piú minutamente in dir cose troppo note, come che 'l nostro cortegian non debba far profession d'esser gran mangiatore, né bevitore, né dissoluto in alcun mal costume, né laido e mal assettato nel vivere, con certi modi da contadino, che chiamano la zappa e l'aratro mille miglia di lontano; perché chi è di tal sorte, non solamente non s'ha da sperar che divenga bon cortegiano, ma non se gli po dar esercizio conveniente, altro che di pascer le pecore. E per concluder dico, che bon saria che 'l cortegian sapesse perfettamente ciò che detto avemo convenirsigli, di sorte che tutto 'l possibile a lui fosse facile ed ognuno di lui si maravigliasse, esso di niuno; intendendo però che in questo non fosse una certa durezza superba ed inumana, come hanno alcuni, che mostrano non maravigliarsi delle cose che fanno gli altri, perché essi presumon poterle far molto meglio, e col tacere le disprezzano, come indegne che di lor si parli; e quasi voglion far segno che niuno altro sia non che lor pari, ma pur capace d'intendere la profundità del saper loro. Però deve il cortegian fuggir questi modi odiosi e con umanità e benivolenzia laudar ancor le bone opere degli altri; e benché esso si senta ammirabile e di gran lunga superior a tutti, mostrar però di non estimarse per tale. Ma perché nella natura umana rarissime volte e forse mai non si trovano queste cosí compite perfezioni, non dee l'omo che si sente in qualche parte manco diffidarse però di se stesso, né perder la speranza di giungere a bon grado, avvenga che non possa conseguir quella perfetta e suprema eccellenzia dove egli aspira; perché in ogni arte son molti lochi, laudevoli oltr'al primo; e chi tende alla summità, rare volte interviene che non passi il mezzo. Voglio adunque che 'l nostro cortegiano, se in qualche cosa oltr'all'arme si trovarà eccellente, se ne vaglia e se ne onori di bon modo; e sia tanto discreto e di bon giudicio, che sappia tirar con destrezza e proposito le persone a vedere ed udir quello, in che a lui par d'essere eccellente, mostrando sempre farlo non per ostentazione, ma a caso, e pregato d'altrui piú presto che di voluntà sua; ed in ogni cosa che egli abbia da far o dire, se possibil è, sempre venga premeditato e preparato, mostrando però il tutto esser all'improviso. Ma le cose nelle quai si sente mediocre, tocchi per transito, senza fondarsici molto, ma di modo che si possa credere che piú assai ne sappia di ciò ch'egli mostra; come talor alcuni poeti che accennavan cose suttilissime di filosofia o d'altre scienzie, e per avventura n'intendevan poco. Di quello poi di che si conosce totalmente ignorante non voglio che mai faccia professione alcuna, né cerchi d'acquistarne fama; anzi, dove occorre, chiaramente confessi di non saperne -.

XXXIX.

         - Questo, - disse il Calmeta, - non arebbe fatto Nicoletto, il qual, essendo eccellentissimo filosofo, né sapendo piú leggi che volare, benché un podestà di Padoa avesse deliberato dargli di quelle una lettura, non volse mai, a persuasion di molti scolari, desingannar quel podestà e confessargli di non saperne, sempre dicendo, non si accordar in questo con la opinione di Socrate, né esser cosa da filosofo il dir mai di non sapere. - Non dico io, - rispose messer Federico, - che 'l cortegian da se stesso, senza che altri lo ricerchi, vada a dire di non sapere; ché a me ancor non piace questa sciocchezza d'accusar o disfavorir se medesimo; e però talor mi rido di certi omini, che ancor senza necessità narrano volentieri alcune cose, le quali, benché forse siano intervenute senza colpa loro, portan però seco un'ombra d'infamia; come faceva un cavalier che tutti conoscete, il qual, sempre che udiva far menzion del fatto d'arme che si fece in Parmegiana contra 'l re Carlo, súbito cominciava a dir in che modo egli era fuggito, né parea che di quella giornata altro avesse veduto o inteso; parlandosi poi d'una certa giostra famosa, contava pur sempre come egli era caduto; e spesso ancor parea che nei ragionamenti andasse cercando di far venire a proposito il poter narrar che una notte, andando a parlar ad una donna, avea ricevuto di molte bastonate. Queste sciocchezze non voglio io che dica il nostro cortegiano, ma parmi ben che offerendosegli occasion di mostrarsi in cosa di che non sappia punto, debba fuggirla; e se pur la necessità lo stringe, confessar chiaramente di non saperne, piú presto che mettersi a quel rischio; e cosí fuggirà un biasimo che oggidí meritano molti i quali, non so per qual loro perverso instinto o giudicio fuor di ragione, sempre si mettan a far quel che non sanno e lascian quel che sanno. E per confirmazion di questo, io conosco uno eccellentissimo musico, il qual, lasciata la musica, s'è dato totalmente a compor versi e credesi in quello esser grandissimo omo, e fa ridere ognun di sé e omai ha perduta ancor la musica. Un altro de' primi pittori del mondo sprezza quell'arte dove è rarissimo ed èssi posto ad imparar filosofia, nella quale ha cosi strani concetti e nove chimere, che esso con tutta la sua pittura non sapria depingerle. E di questi tali infiniti si trovano. Son bene alcuni, i quali, conoscendosi avere eccellenzia in una cosa, fanno principal professione d'un'altra, della qual però non sono ignoranti; ma ogni volta che loro occorre mostrarsi in quella dove si senton valere, si mostran gagliardamente; e vien lor talor fatto che la brigata, vedendogli valer tanto in quello che non è sua professione, estima che vaglian molto piú in quello di che fan professione. Quest'arte, s'ella è compagnata da bon giudicio, non mi dispiace punto -.

XL.

         Rispose allor il signor Gaspar Pallavicino: - Questa a me non par arte, ma vero inganno; né credo che si convenga, a chi vol esser omo da bene, mai lo ingannare. - Questo, - disse messer Federico, - è piú presto un ornamento, il quale accompagna quella cosa che colui fa, che inganno; e se pur è inganno, non è da biasimare. Non direte voi ancora, che di dui che maneggian l'arme quel che batte il compagno lo inganna! e questo è perché ha piú arte che l'altro. E se voi avete una gioia, la qual dislegata mostri esser bella, venendo poi alle mani d'un bon orefice, che col legarla bene la faccia parer molto piú bella, non direte voi che quello orefice inganna gli occhi di chi la vede! E pur di quello inganno merita laude, perché col bon giudicio e con l'arte le maestrevoli mani spesso aggiungon grazia ed ornamento allo avorio o vero allo argento, o vero ad una bella pietra circondandola di fin oro. Non diciamo adunque che l'arte o tal inganno, se pur voi lo volete cosí chiamare, meriti biasimo alcuno. Non è ancor disconveniente che un omo che si senta valere in una cosa, cerchi destramente occasion di mostrarsi in quella, e medesimamente nasconda le parti che gli paian poco laudevoli, il tutto però con una certa avvertita dissimulazione. Non vi ricorda come, senza mostrar di cercarle, ben pigliava l'occasioni il re Ferrando di spogliarsi talor in giuppone, e questo perché si sentiva dispostissimo? e perché non avea troppo bone mani, rare volte o quasi mai non si cavava i guanti? e pochi erano che di questa sua avvertenza s'accorgessero. Parmi ancor aver letto che Iulio Cesare portasse volentieri la laurea per nascondere il calvizio. Ma circa questi modi bisogna esser molto prudente e di bon giudicio, per non uscire de' termini; perché molte volte l'omo per fuggir un errore incorre nell'altro e per voler acquistar laude acquista biasimo.


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Edizione telematica e revisione a cura di: Giuseppe Bonghi, 1999
Edizione HTML e impaginazione a cura di: Giuseppe Bonghi, Aprile 1999
Tratto da: Baldesar Castiglione, Il libro del Cortegiano, a cura di Luigi Preti, Giulio Einaudi Editore, Torino 1965

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Ultimo aggiornamento: 13 aprile, 1999