Baldessar Castiglione

Il Libro del Cortegiano

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IL SECONDO LIBRO DEL CORTEGIANO
DEL CONTE BALDESAR CASTIGLIONE
A MESSER ALFONSO ARIOSTO

I.

          Non senza maraviglia ho piú volte considerato onde nasca un errore, il quale, perciò che universalmente ne' vecchi si vede, creder si po che ad essi sia proprio e naturale; e questo è che quasi tutti laudano i tempi passati e biasmano i presenti, vituperando le azioni e i modi nostri e tutto quello che essi nella lor gioventú non facevano; affermando ancor ogni bon costume e bona maniera di vivere, ogni virtú, in somma ogni cosa, andar sempre di mal in peggio. E veramente par cosa molto aliena dalla ragione e degna di maraviglia che la età matura, la qual con la lunga esperienzia suol far nel resto il giudicio degli omini piú perfetto, in questo lo corrompa tanto, che non si avveggano che, se 'l mondo sempre andasse peggiorando e che i padri fossero generalmente migliori che i figlioli, molto prima che ora saremmo giunti a quest'ultimo grado di male, che peggiorar non po. E pur vedemo che non solamente ai dí nostri, ma ancor nei tempi passati, fu sempre questo vicio peculiar di quella età; il che per le scritture de molti autori antichissimi chiaro si comprende e massimamente dei comici, i quali piú che gli altri esprimeno la imagine della vita umana. La causa adunque di questa falsa opinione nei vecchi estimo io per me ch'ella sia perché gli anni fuggendo se ne portan seco molte commodità, e tra l'altre levano dal sangue gran parte degli spiriti vitali; onde la complession si muta e divengono debili gli organi, per i quali l'anima opera le sue virtú. Però dei cori nostri in quel tempo, come allo autunno le foglie degli alberi, caggiono i suavi fiori di contento e nel loco dei sereni e chiari pensieri entra la nubilosa e turbida tristizia, di mille calamità compagnata, di modo che non solamente il corpo, ma l'animo ancora è infermo; né dei passati piaceri riserva altro che una tenace memoria e la imagine di quel caro tempo della tenera età, nella quale quando ci ritrovamo, ci pare che sempre il cielo e la terra ed ogni cosa faccia festa e rida intorno agli occhi nostri, e nel pensiero come in un delizioso e vago giardino fiorisca la dolce primavera d'allegrezza. Onde forse saria utile, quando già nella fredda stagione comincia il sole della nostra vita, spogliandoci de quei piaceri, andarsene verso l'occaso, perdere insieme con essi ancor la loro memoria e trovare, come disse Temistocle, un'arte che a scordar insegnasse; perché tanto sono fallaci i sensi del corpo nostro, che spesso ingannano ancora il giudicio della mente. Però parmi che i vecchi siano alla condizion di quelli, che partendosi dal porto tengon gli occhi in terra e par loro che la nave stia ferma e la riva si parta, e pur è il contrario; ché il porto, e medesimamente il tempo ed i piaceri, restano nel suo stato, e noi con la nave della mortalità fuggendo n'andiamo l'un dopo l'altro per quel procelloso mare che ogni cosa assorbe e devora, né mai piú ripigliar terra ci è concesso, anzi, sempre da contrari venti combattuti, al fine in qualche scoglio la nave rompemo. Per esser adunque l'animo senile subietto disproporzionato a molti piaceri, gustar non gli po; e come ai febrecitanti, quando dai vapori corrotti hanno il palato guasto, paiono tutti i vini amarissimi, benché preciosi e delicati siano, cosí ai vecchi per la loro indisposizione, alla qual però non manca il desiderio, paiono i piaceri insipidi e freddi e molto differenti da quelli che già provati aver si ricordano, benché i piaceri in sé siano li medesimi; però sentendosene privi, si dolgono e biasmano il tempo presente come malo, non discernendo che quella mutazione da sé e non dal tempo procede; e, per contrario, recandosi a memoria i passati piaceri, si arrecano ancor il tempo nel quale avuti gli hanno, e però lo laudano come bono perché pare che seco porti un odore di quello che in esso sentiamo quando era presente; perché in effetto gli animi nostri hanno in odio tutte le cose che state sono compagne de' nostri dispiaceri ed amano quelle che state sono compagne dei piaceri. Onde accade che ad uno amante è carissimo talor vedere una finestra, benché chiusa, perché alcuna volta quivi arà avuto grazia di contemplare la sua donna; medesimamente vedere uno anello, una lettera, un giardino o altro loco o qualsivoglia cosa, che gli paia esser stata consapevol testimonio de' suoi piaceri; e per lo contrario, spesso una camera ornatissima e bella sarà noiosa a chi dentro vi sia stato prigione o patito vi abbia qualche altro dispiacere. Ed ho già io conosciuto alcuni, che mai non beveriano in un vaso simile a quello, nel quale già avessero, essendo infermi, preso bevanda medicinale; perché, cosí come quella finestra, o l'anello o la lettera, all'uno rappresenta la dolce memoria che tanto gli diletta, per parergli che quella già fosse una parte de' suoi piaceri, cosí all'altro la camera o 'l vaso par che insieme con la memoria rapporti la infirmità o la prigionia. Questa medesima cagion credo che mova i vecchi a laudare il passato tempo e biasmar il presente.

II.

         Però come del resto, cosí parlano ancor delle corti, affermando quelle di che essi hanno memoria esser state molto piú eccellenti e piene di omini singulari, che non son quelle che oggidí veggiamo; e súbito che occorrono tai ragionamenti, cominciano ad estollere con infinite laudi i cortegiani del duca Filippo, o vero del duca Borso; e narrano i detti di Nicolò Piccinino; e ricordano che in quei tempi non si saria trovato, se non rarissime volte, che si fosse fatto un omicidio; e che non erano combattimenti, non insidie, non inganni, ma una certa bontà fidele ed amorevole tra tutti, una sicurtà leale; e che nelle corti allor regnavano tanti boni costumi, tanta onestà, che i cortegiani tutti erano come religiosi; e guai a quello che avesse detto una mala parola all'altro o fatto pur un segno men che onesto verso una donna; e per lo contrario dicono in questi tempi esser tutto l'opposito; e che non solamente tra i cortegiani è perduto quell'amor fraterno e quel viver costumato, ma che nelle corti non regnano altro che invidie e malivolenzie, mali costumi e dissolutissima vita in ogni sorte di vicii; le donne lascive senza vergogna, gli omini effemminati. Dannano ancora i vestimenti, come disonesti e troppo molli. In somma riprendono infinite cose, tra le quali molte veramente meritano riprensione, perché non si po dir che tra noi non siano molti mali omini e scelerati, e che questa età nostra non sia assai più copiosa di vicii che quella che essi laudano. Parmi ben che mal discernano la causa di questa differenzia e che siano sciocchi, perché vorriano che al mondo fossero tutti i beni senza male alcuno; il che è impossibile, perché, essendo il male contrario al bene e 'l bene al male, è quasi necessario che per la opposizione e per un certo contrapeso l'un sostenga e fortifichi l'altro, e mancando o crescendo l'uno, cosí manchi o cresca l'altro perché niuno contrario è senza l'altro suo contrario. Chi non sa che al mondo non saria la giustizia, se non fossero le ingiurie? la magnanimità, se non fossero li pusilanimi? la continenzia, se non fosse la incontinenzia? la sanità, se non fosse la infirmità? la verità, se non fosse la bugia? la felicità, se non fossero le disgrazie? Però ben dice Socrate appresso Platone maravigliarsi che Esopo non abbia fatto uno apologo, nel quale finga, Dio, poiché non avea mai potuto unire il piacere e 'l dispiacere insieme, avergli attaccati con la estremità, di modo che 'l principio dell'uno sia il fin dell'altro; perché vedemo niuno piacer poterci mai esser grato, se 'l dispiacere non gli precede. Chi po aver caro il riposo, se prima non ha sentito l'affanno della stracchezza? chi gusta il mangiare, il bere e 'l dormire, se prima non ha patito fame, sete e sonno? Credo io, adunque, che le passioni e le infirmità siano date dalla natura agli omini non principalmente per fargli soggetti ad esse, perché non par conveniente che quella, che è madre d'ogni bene, dovesse di suo proprio consiglio determinato darci tanti mali; ma facendo la natura la sanità, il piacere e gli altri beni, conseguentemente dietro a questi furono congiunte le infirmità, i dispiaceri e gli altri mali. Però, essendo le virtú state al mondo concesse per grazia e dono della natura, súbito i vicii, per quella concatenata contrarietà, necessariamente le furono compagni; di modo che sempre, crescendo o mancando l'uno, forza è che cosí l'altro cresca o manchi.

III.

        Però quando i nostri vecchi laudano le corti passate, perché non aveano gli omini cosí viciosi come alcuni che hanno le nostre, non conoscono che quelle ancor non gli aveano cosí virtuosi come alcuni che hanno le nostre; il che non è maraviglia, perché niun male è tanto malo, quanto quello che nasce dal seme corrotto del bene; e però producendo adesso la natura molto miglior ingegni che non facea allora, sí come quelli che si voltano al bene fanno molto meglio che non facean quelli suoi, cosí ancor quelli che si voltano al male fanno molto peggio. Non è adunque da dire che quelli che restavano di far male per non saperlo fare, meritassero in quel caso laude alcuna; perché avvenga che facessero poco male, faceano però il peggio che sapeano. E che gli ingegni di que' tempi fossero generalmente molto inferiori a que' che son ora, assai si po conoscere da tutto quello che d'essi si vede, cosí nelle lettere, come nelle pitture, statue, edifici ed ogni altra cosa. Biasimano ancor questi vecchi in noi molte cose che in sé non sono né bone né male, solamente perché essi non le faceano; e dicono non convenirsi ai giovani passeggiar per le città a cavallo, massimamente nelle mule; portar fodre di pelle, né robbe lunghe nel verno; portar berretta, finché almeno non sia l'omo giunto a dieceotto anni ed altre tai cose: di che veramente s'ingannano; perché questi costumi, oltra che sian commodi ed utili, sono dalla consuetudine introdutti ed universalmente piacciono, come allor piacea l'andar in giornea, con le calze aperte e scarpette pulite e, per esser galante, portar tutto dí un sparvieri in pugno senza proposito, e ballar senza toccar la man della donna, ed usar molti altri modi, i quali, come or sariano goffissimi, allor erano prezzati assai. Però sia licito ancor a noi seguitar la consuetudine de' nostri tempi, senza esser calunniati da questi vecchi, i quali spesso, volendosi laudare, dicono: "Io aveva vent'anni, che ancor dormiva con mia madre e mie sorelle, né seppi ivi a gran tempo che cosa fossero donne; ed ora i fanciulli non hanno a pena asciutto il capo, che sanno piú malizie che in que' tempi non sapeano gli omini fatti", né si avveggono che, dicendo cosí, confirmano i nostri fanciulli aver più ingegno che non aveano i loro vecchi. Cessino adunque di biasmar i tempi nostri, come pieni de vicii perché, levando quelli, levariano ancora le virtú; e ricordinsi che tra i boni antichi, nel tempo che fiorivano al mondo quegli animi gloriosi e veramente divini in ogni virtú e gli ingegni piú che umani, trovavansi ancor molti sceleratissimi; i quali, se vivessero, tanto sariano tra i nostri mali eccellenti nel male, quanto que' boni nel bene; e de ciò fanno piena fede tutte le istorie.

IV.

         Ma a questi vecchi penso che omai a bastanza sia risposto. Però lasciaremo questo discorso, forse ormai troppo diffuso ma non in tutto for di proposito; e bastandoci aver dimostrato le corti de' nostri tempi non esser di minor laude degne che quelle che tanto laudano i vecchi, attenderemo ai ragionamenti avuti sopra il cortegiano, per i quali assai facilmente comprender si po in che grado tra l'altre corti fosse quella d'Urbino, e quale era quel Principe e quella Signora a cui servivano cosí nobili spiriti, e come fortunati si potean dir tutti quelli, che in tal commerzio viveano.

V.

         Venuto adunque il seguente giorno, tra i cavalieri e le donne della corte furono molti e diversi ragionamenti sopra la disputazion della precedente sera; il che in gran parte nasceva perché il signor Prefetto, avido di sapere ciò che detto s'era, quasi ad ognun ne dimandava e, come suol sempre intervenire, variamente gli era risposto; però che alcuni laudavano una cosa, alcuni un'altra, ed ancor tra molti era discordia della sentenzia propria del Conte, che ad ognuno non erano restate nella memoria cosí compiutamente le cose dette. Però di questo quasi tutto 'l giorno si parlò; e come prima incominciò a farsi notte, volse il signor Prefetto che si mangiasse e tutti i gentilomini condusse seco a cena; e súbito fornito di mangiare, n'andò alla stanza della signora Duchessa; la quale vedendo tanta compagnia, e piú per tempo che consueto non era disse: - Gran peso parmi, messer Federico, che sia quello che posto è sopra le spalle vostre, e grande aspettazione quella a cui corrisponder dovete -. Quivi non aspettando che messer Federico rispondesse: - E che gran peso è però questo? - disse l'Unico Aretino: - Chi è tanto sciocco, che quando sa fare una cosa non la faccia a tempo conveniente? - Cosí di questo parlandosi, ognuno si pose a sedere nel loco e modo usato, con attentissima aspettazion del proposto ragionamento.

VI.

         Allora messer Federico, rivolto all'Unico, - A voi adunque non par, - disse, - signor Unico, che faticosa parte e gran carico mi sia imposto questa sera, avendo a dimostrare in qual modo e maniera e tempo debba il cortegiano usar le sue bone condicioni, ed operar quelle cose che già s'è detto convenirsegli? - A me non par gran cosa, - rispose l'Unico; - e credo che basti in tutto questo dir che 'l cortegiano sia di bon giudicio, come iersera ben disse il Conte esser necessario; ed essendo cosí, penso che senza altri precetti debba poter usar quello che egli sa a tempo e con bona maniera; il che volere piú minutamente ridurre in regola, saria troppo difficile e forse superfluo; perché non so qual sia tanto inetto, che volesse venire a maneggiar l'arme quando gli altri fossero nella musica; o vero andasse per le strade ballando la moresca, avvenga che ottimamente far lo sapesse; o vero andando a confortar una madre, a cui fosse morto il figliolo, cominciasse a dir piacevolezze e far l'arguto. Certo questo a niun gentilomo, credo, interverria, che non fosse in tutto pazzo. - A me par, signor Unico, - disse quivi messer Federico, - che voi andiate troppo in su le estremità perché intervien qualche volta esser inetto di modo che non cosí facilmente si conosce, e gli errori non son tutti pari; e potrà occorrer che l'omo si astenerà da una sciocchezza publica e troppo chiara, come saria quel che voi dite d'andar ballando la moresca in piazza, e non saprà poi astenersi di laudare se stesso fuor di proposito, d'usar una prosunzion fastidiosa, di dir talor una parola pensando di far ridere, la qual, per esser detta fuor di tempo, riuscirà fredda e senza grazia alcuna. E spesso questi errori son coperti d'un certo velo, che scorger non gli lascia da chi gli fa, se con diligenzia non vi si mira; e benché per molte cause la vista nostra poco discerna, pur sopra tutto per l'ambizione divien tenebrosa; ché ognun volentier si mostra in quello che si persuade di sapere, o vera o falsa che sia quella persuasione. Però il governarsi bene in questo parmi che consista in una certa prudenzia e giudicio di elezione, e conoscere il piú e 'l meno che nelle cose si accresce e scema per operarle oportunamente o fuor di stagione. E benché il cortegian sia di cosí bon giudicio che possa discernere queste differenzie, non è però che piú facile non gli sia conseguir quello che cerca essendogli aperto il pensiero con qualche precetto e mostratogli le vie e quasi i lochi dove fondar si debba, che se solamente attendesse al generale.

VII.

         Avendo adunque il Conte iersera con tanta copia e bel modo ragionato della cortegiania, in me veramente ha mosso non poco timor e dubbio di non poter cosí ben satisfare a questa nobil audienza in quello che a me tocca a dire, come esso ha fatto in quello che a lui toccava. Pur, per farmi participe piú ch'io posso della sua laude ed esser sicuro di non errare almen in questa parte, non gli contradirò in cosa alcuna. Onde, consentendo con le opinioni sue, ed oltre al resto circa la nobilità del cortegiano e lo ingegno e la disposizion del corpo e grazia dell'aspetto, dico che per acquistar laude meritamente e bona estimazione appresso ognuno, e grazia da quei signori ai quali serve, parmi necessario che e' sappia componere tutta la vita sua e valersi delle sue bone qualità universalmente nella conversazion de tutti gli omini senza acquistarne invidia; il che quanto in sé difficil sia, considerar si po dalla rarità di quelli che a tal termine giunger si veggono; perché in vero tutti da natura siamo pronti piú a biasmare gli errori, che a laudar le cose ben fatte, e par che per una certa innata malignità molti, ancor che chiaramente conoscano il bene, si sforzano con ogni studio ed industria di trovarci dentro o errore o almen similitudine d'errore. Però è necessario che 'l nostro cortegiano in ogni sua operazion sia cauto, e ciò che dice o fa sempre accompagni con prudenzia; e non solamente ponga cura d'aver in sé parti e condizioni eccellenti, ma il tenor della vita sua ordini con tal disposizione, che 'l tutto corrisponda a queste parti, e si vegga il medesimo esser sempre ed in ogni cosa tal che non discordi da se stesso, ma faccia un corpo solo di tutte queste bone condizioni; di sorte che ogni suo atto risulti e sia composto di tutte le virtú, come dicono i Stoici esser officio di chi è savio; benché però in ogni operazion sempre una virtú è la principale; ma tutte sono talmente tra sé concatenate, che vanno ad un fine e ad ogni effetto tutte possono concorrere e servire. Però bisogna che sappia valersene, e per lo paragone e quasi contrarietà dell'una talor far che l'altra sia piú chiaramente conosciuta, come i boni pittori, i quali con l'ombra fanno apparere e mostrano i lumi de' rilevi, e cosí col lume profundano l'ombre dei piani e compagnano i colori diversi insieme di modo, che per quella diversità l'uno e l'altro meglio si dimostra, e 'l posar delle figure contrario l'una all'altra le aiuta a far quell'officio che è intenzion del pittore. Onde la mansuetudine è molto maravigliosa in un gentilomo il qual sia valente e sforzato nell'arme; e come quella fierezza par maggiore accompagnata dalla modestia, cosí la modestia accresce e piú compar per la fierezza. Però il parlar poco, il far assai e 'l non laudar se stesso delle opere laudevoli, dissimulandole di bon modo, accresce l'una e l'altra virtú in persona che discretamente sappia usare questa maniera; e cosí interviene di tutte l'altre bone qualità. Voglio adunque che 'l nostro cortegiano in ciò che egli faccia o dica usi alcune regole universali, le quali io estimo che brevemente contengano tutto quello che a me s'appartien di dire; e per la prima e piú importante fugga, come ben ricordò il Conte iersera, sopra tutto l'affettazione. Appresso consideri ben che cosa è quella che egli fa o dice e 'l loco dove la fa, in presenzia di cui, a che tempo, la causa perché la fa, la età sua, la professione, il fine dove tende e i mezzi che a quello condur lo possono; e cosí con queste avvertenzie s'accommodi discretamente a tutto quello che fare o dir vole -.

VIII.

         Poi che cosí ebbe detto messer Federico, parve che si fermasse un poco. Allor súbito, - Queste vostre regule, - disse il signor Morello da Ortona, - a me par che poco insegnino; ed io per me tanto ne so ora, quanto prima che voi ce le mostraste; benché mi ricordi ancor qualche altra volta averle udite da' frati co' quali confessato mi sono, e parmi che le chiamino "le circonstanzie" -. Rise allor messer Federico e disse: - Se ben vi ricorda, volse iersera il Conte che la prima profession del cortegiano fosse quella dell'arme e largamente parlò di che modo far la doveva; però questo non replicaremo piú. Pur sotto la nostra regula si potrà ancor intendere, che ritrovandosi il cortegiano nella scaramuzza o fatto d'arme o battaglia di terra o in altre cose tali, dee discretamente procurar di appartarsi dalla moltitudine e quelle cose segnalate ed ardite che ha da fare, farle con minor compagnia che po ed al conspetto de tutti i piú nobili ed estimati omini che siano nell'esercito, e massimamente alla presenzia e, se possibil è, inanzi agli occhi proprii del suo re o di quel signore a cui serve; perché in vero è ben conveniente valersi delle cose ben fatte. Ed io estimo che sí come è male cercar gloria falsa e di quello che non si merita, cosí sia ancor male defraudar se stesso del debito onore e non cercarne quella laude, che sola è vero premio delle virtuose fatiche. Ed io ricordomi aver già conosciuti di quelli, che, avvenga che fossero valenti, pur in questa parte erano grossieri; e cosí metteano la vita a pericolo per andar a pigliar una mandra di pecore, come per esser i primi che montassero le mura d'una terra combattuta; il che non farà il nostro cortegiano, se terrà a memoria la causa che lo conduce alla guerra, che dee esser solamente l'onore. E se poi se ritroverà armeggiare nei spettaculi publici, giostrando, torneando, o giocando a canne, o facendo qualsivoglia altro esercizio della persona, ricordandosi il loco ove si trova ed in presenzia di cui, procurerà esser nell'arme non meno attillato e leggiadro che sicuro, e pascer gli occhi dei spettatori di tutte le cose che gli parrà che possano aggiungergli grazia; e porrà cura d'aver cavallo con vaghi guarnimenti, abiti ben intesi, motti appropriati, invenzioni ingeniose, che a sé tirino gli occhi de' circonstanti, come calamita il ferro. Non sarà mai degli ultimi che compariscano a mostrarsi, sapendo che i populi, e massimamente le donne, mirano con molto maggior attenzione i primi che gli ultimi, perché gli occhi e gli animi, che nel principio son avidi di quella novità, notano ogni minuta cosa e di quella fanno impressione; poi per la continuazione non solamente si saziano, ma ancora si stancano. Però fu un nobile istrione antico, il qual per questo rispetto sempre voleva nelle fabule esser il primo che a recitare uscisse. Cosí ancor, parlando pur d'arme, il nostro cortegiano arà risguardo alla profession di coloro con chi parla, ed a questo accommodarassi, altramente ancor parlandone con omini, altramente con donne; e se vorrà toccar qualche cosa che sia in laude sua propria, lo farà dissimulatamente, come a caso e per transito e con quella discrezione ed avvertenzia, che ieri ci mostrò il conte Ludovico.

IX.

         Non vi par ora, signor Morello, che le nostre regule possano insegnar qualche cosa? Non vi par che quello amico nostro, del qual pochi dí sono vi parlai, s'avesse in tutto scordato con chi parlava e perché, quando, per intertenere una gentildonna, la quale per prima mai piú non aveva veduta, nel principio del ragionar le cominciò a dire che avea morti tanti omini e come era fiero e sapea giocar di spada a due mani? né se le levò da canto, che venne a volerle insegnar come s'avessero a riparar alcuni colpi di accia essendo armato, e come disarmato, ed a mostrarle prese di pugnale; di modo che quella meschina stava in su la croce e parvele un'ora mill'anni levarselo da canto, temendo quasi che non ammazzasse lei ancora come quegli altri. In questi errori incorrono coloro che non hanno riguardo alle circonstanzie, che voi dite aver intese dai frati. Dico adunque che degli esercizi del corpo sono alcuni che quasi mai non si fanno se non in publico, come il giostrare, il torneare, il giocare a canne e gli altri tutti che dependono dall'arme. Avendosi adunque in questi da adoperare il nostro cortegiano, prima ha da procurar d'esser tanto bene ad ordine di cavalli, d'arme e d'abbigliamenti, che nulla gli manchi; e non sentendosi ben assettato del tutto, non vi si metta per modo alcuno; perché, non facendo bene, non si po escusare che questa non sia la profession sua. Appresso dee considerar molto in presenzia di chi si mostra e quali siano i compagni; perché non saria conveniente che un gentilom andasse ad onorare con la persona sua una festa di contado, dove i spettatori e i compagni fossero gente ignobile -.

X.

         Disse allor il signor Gasparo Pallavicino: - Nel paese nostro di Lombardia non s'hanno questi rispetti, anzi molti gentilomini giovani trovansi, che le feste ballano tutto 'l dí nel sole coi villani e con essi giocano a lanciar la barra, lottare, correre e saltare; ed io non credo che sia male, perché ivi non si fa paragone della nobilità, ma della forza e destrezza, nelle quai cose spesso gli omini di villa non vaglion meno che i nobili; e par che quella domestichezza abbia in sé una certa liberalità amabile. - Quel ballar nel sole, - rispose messer Federico, a me non piace per modo alcuno, né so che guadagno vi si trovi. Ma chi vol pur lottar, correr e saltar coi villani, dee, al parer mio, farlo in modo di provarsi e, come si suol dir, per gentilezza, non per contender con loro; e dee l'omo esser quasi sicuro di vincere, altramente non vi si metta; perché sta troppo male e troppo è brutta cosa e fuor della dignità vedere un gentilomo vinto da un villano, e massimamente alla lotta; però credo io che sia ben astenersene, almeno in presenzia di molti, perché il guadagno nel vincere è pochissimo e la perdita nell'esser vinto è grandissima. Fassi ancor il gioco della palla quasi sempre in publico; ed è uno di que' spettaculi, a cui la moltitudine apporta assai ornamento. Voglio adunque che questo e tutti gli altri, dall'armeggiare in fora, faccia il nostro cortegiano come cosa che sua professione non sia e di che mostri non cercar o aspettar laude alcuna, né si conosca che molto studio o tempo vi metta, avvenga che eccellentemente lo faccia; né sia come alcuni che si dilettano di musica e parlando con chi si sia, sempre che si fa qualche pausa nei ragionamenti, cominciano sotto voce a cantare; altri caminando per le strade e per le chiese vanno sempre ballando; altri, incontrandosi in piazza o dove si sia con qualche amico suo, si metton súbito in atto di giocar di spada o di lottare, secondo che piú si dilettano -. Quivi disse messer Cesare Gonzaga: - Meglio fa un cardinale giovane che avemo in Roma, il quale, perché si sente aiutante della persona, conduce tutti quelli che lo vanno a visitare, ancor che mai piú non gli abbia veduti, in un suo giardino ed invitagli con grandissima instanzia a spogliarsi in giuppone e giocar seco a saltare.

XI.

         Rise messer Federico; poi suggiunse: - Sono alcuni altri esercizi, che far si possono nel publico e nel privato, come è il danzare; ed a questo estimo io che debba aver rispetto il cortegiano; perché danzando in presenzia di molti ed in loco pieno di populo parmi che si gli convenga servare una certa dignità, temperata però con leggiadra ed aerosa dolcezza di movimenti; e benché si senta leggerissimo e che abbia tempo e misura assai, non entri in quelle prestezze de' piedi e duplicati rebattimenti, i quali veggiamo che nel nostro Barletta stanno benissimo e forse in un gentilom sariano poco convenienti; benché in camera privatamente, come or noi ci troviamo, penso che licito gli sia e questo, e ballar moresche e brandi; ma in publico non cosí, fuor che travestito, e benché fosse di modo che ciascun lo conoscesse, non dà noia; anzi per mostrarsi in tai cose nei spettaculi publici, con arme e senza arme, non è miglior via di quella; perché lo esser travestito porta seco una certa libertà e licenzia, la quale tra l'altre cose fa che l'omo po pigliare forma di quello in che si sente valere, ed usar diligenzia ed attillatura circa la principal intenzione della cosa in che mostrar si vole, ed una certa sprezzatura circa quello che non importa, il che accresce molto la grazia: come saria vestirsi un giovane da vecchio, ben però con abito disciolto, per potersi mostrare nella gagliardia; un cavaliero in forma di pastor selvatico o altro tale abito, ma con perfetto cavallo, e leggiadramente acconcio secondo quella intenzione; perché súbito l'animo de' circonstanti corre ad imaginar quello che agli occhi al primo aspetto s'appresenta; e vedendo poi riuscir molto maggior cosa che non prometteva quell'abito, si diletta e piglia piacere.
          Però ad un principe in tai giochi e spettaculi, ove intervenga fizione di falsi visaggi, non si converria il voler mantener la persona del principe proprio, perché quel piacere che dalla novità viene ai spettatori mancheria in gran parte, ché ad alcuno non è novo che il principe sia il principe; ed esso, sapendosi che, oltre allo esser principe, vol avere ancor forma di principe, perde la libertà di far tutte quelle cose che sono fuor della dignità di principe; e se in questi giochi fosse contenzione alcuna, massimamente con arme, poria ancor far credere di voler tener la persona di principe per non esser battuto, ma riguardato dagli altri; oltra che, facendo nei giochi quel medesimo che dee far da dovero quando fosse bisogno, levaria l'autorità al vero e pareria quasi che ancor quello fosse gioco; ma in tal caso, spogliandosi il principe la persona di principe e mescolandosi egualmente con i minori di sé, ben però di modo che possa esser conosciuto, col rifutare la grandezza piglia un'altra maggior grandezza, che è il voler avanzar gli altri non d'autorità ma di virtú, e mostrar che 'l valor suo non è accresciuto dallo esser principe.

XII.

         Dico adunque che 'l cortegiano dee in questi spettaculi d'arme aver la medesima avvertenzia, secondo il grado suo. Nel volteggiar poi a cavallo, lottar, correre e saltare, piacemi molto fuggir la moltitudine della plebe, o almeno lasciarsi veder rarissime volte; perché non è al mondo cosa tanto eccellente, della quale gli ignoranti non si sazieno e non tengan poco conto, vedendola spesso. E medesimo giudico della musica; però non voglio che 'l nostro cortegiano faccia come molti, che súbito che son giunti ove che sia, e alla presenzia ancor di signori de' quali non abbiano notizia alcuna, senza lasciarsi molto pregare si metteno a far ciò che sanno e spesso ancor quel che non sanno; di modo che par che solamente per quello effetto siano andati a farsi vedere e che quella sia la loro principal professione. Venga adunque il cortegiano a far musica come a cosa per passar tempo e quasi sforzato, e non in presenzia di gente ignobile, né di gran moltitudine; e benché sappia ed intenda ciò che fa, in questo ancor voglio che dissimuli il studio e la fatica che è necessaria in tutte le cose che si hanno a far bene, e mostri estimar poco in se stesso questa condizione, ma, col farla eccellentemente, la faccia estimar assai dagli altri -.

XIII.

         Allor il signor Gaspar Pallavicino, - Molte sorti di musica, - disse, - si trovano, cosí di voci vive, come di instrumenti; però a me piacerebbe intendere qual sia la migliore tra tutte ed a che tempo debba il cortegiano operarla. - Bella musica, - rispose messer Federico, - parmi il cantar bene a libro sicuramente e con bella maniera; ma ancor molto piú il cantare alla viola perché tutta la dolcezza consiste quasi in un solo e con molto maggior attenzion si nota ed intende il bel modo e l'aria non essendo occupate le orecchie in piú che in una sol voce, e meglio ancor vi si discerne ogni piccolo errore; il che non accade cantando in compagnia perché l'uno aiuta l'altro. Ma sopra tutto parmi gratissimo il cantare alla viola per recitare; il che tanto di venustà ed efficacia aggiunge alle parole, che è gran maraviglia. Sono ancor armoniosi tutti gli instrumenti da tasti, perché hanno le consonanzie molto perfette e con facilità vi si possono far molte cose che empiono l'animo di musicale dolcezza. E non meno diletta la musica delle quattro viole da arco, la quale è soavissima ed artificiosa. Dà ornamento e grazia assai la voce umana a tutti questi instrumenti, de' quali voglio che al nostro cortegian basti aver notizia; e quanto piú però in essi sarà eccellente, tanto sarà meglio, senza impacciarsi molto di quelli che Minerva refiutò ed Alcibiade, perché pare che abbiano del schifo. Il tempo poi nel quale usar si possono queste sorti di musica estimo io che sia, sempre che l'omo si trova in una domestica e cara compagnia, quando altre facende non vi sono; ma sopra tutto conviensi in presenzia di donne, perché quegli aspetti indolciscono gli animi di chi ode e piú i fanno penetrabili dalla suavità della musica, e ancor svegliano i spiriti di chi la fa; piacemi ben, come ancor ho detto, che si fugga la moltitudine, e massimamente degli ignobili. Ma il condimento del tutto bisogna che sia la discrezione; perché in effetto saria impossibile imaginar tutti i casi che occorrono; e se il cortegiano sarà giusto giudice di se stesso, s'accommoderà bene ai tempi e conoscerà quando gli animi degli auditori saranno disposti ad udire, e quando no; conoscerà l'età sua; ché in vero non si conviene e dispare assai vedere un omo di qualche grado, vecchio canuto e senza denti, pien di rughe, con una viola in braccio sonando, cantare in mezzo d'una compagnia di donne, avvenga ancor che mediocremente lo facesse, e questo, perché il piú delle volte cantando si dicono parole amorose e ne' vecchi l'amor è cosa ridicula; benché qualche volta paia che egli si diletti, tra gli altri suoi miracoli, d'accendere in dispetto degli anni i cori agghiacciati -.

XIV.

         Rispose allora il Magnifico: - Non private, messer Federico, i poveri vecchi di questo piacere; perché io già ho conosciuti omini di tempo, che hanno voci perfettissime e mani dispostissime agli instrumenti; molto piú che alcuni giovani. - Non voglio, - disse messer Federico, - privare i vecchi di questo piacere, ma voglio ben privar voi e queste donne del ridervi di quella inezia; e se vorranno i vecchi cantare alla viola, faccianlo in secreto e solamente per levarsi dell'animo que' travagliosi pensieri e gravi molestie di che la vita nostra è piena, e per gustar quella divinità ch'io credo che nella musica sentivano Pitagora e Socrate. E se bene non la eserciteranno, per aver fattone già nell'animo un certo abito la gustaran molto piú udendola, che chi non ne avesse cognizione; perché, sí come spesso le braccia d'un fabro, debile nel resto, per esser piú esercitate sono piú gagliarde che quelle de un altro omo robusto, ma non assueto a faticar le braccia, cosí le orecchie esercitate nell'armonia molto meglio e piú presto la discerneno e con molto maggior piacere la giudicano, che l'altre, per bone ed acute che siano, non essendo versate nelle varietà delle consonanzie musicali; perché quelle modulazioni non entrano, ma senza lassare gusto di sé via trapassano da canto l'orecchie non assuete d'udirle; avvenga che insino le fiere sentono qualche dilettazion della melodia. Questo è adunque il piacer, che si conviene ai vecchi pigliare della musica. Il medesimo dico del danzare; perché in vero questi esercizi si deono lasciare prima che dalla età siamo sforzati a nostro dispetto lasciargli. - Meglio è adunque, - rispose quivi il signor Morello quasi adirato, - escludere tutti i vecchi e dir che solamente i giovani abbian da esser chiamati cortegiani -. Rise allor messer Federico, e disse: - Vedete voi, signor Morello, che quelli che amano queste cose, se non son giovani, si studiano d'apparere; e però si tingono i capelli e fannosi la barba due volte la settimana; e ciò procede che la natura tacitamente loro dice che tali cose non si convengono se non a' giovani -. Risero tutte le donne, perché ciascuna comprese che quelle parole toccavano al signor Morello; ed esso parve che un poco se ne turbasse.

XV.

         - Ma sono ben degli altri intertenimenti con donne, - suggiunse súbito messer Federico, - che si convengono ai vecchi. - E quali? - disse el signor Morello; - dir le favole? - E questo ancor, - rispose messer Federico. - Ma ogni età, come sapete, porta seco i suoi pensieri ed ha qualche peculiar virtú e qualche peculiar vicio; ché i vecchi, come che siano ordinariamente prudenti piú che i giovani, piú continenti e piú sagaci, sono anco poi piú parlatori, avari, difficili, timidi; sempre cridano in casa, asperi ai figlioli, vogliono che ognun faccia a modo loro; e per contrario i giovani, animosi, liberali, sinceri, ma pronti alle risse, volubili, che amano e disamano in un punto, dati a tutti i lor piaceri, nimici a chi lor ricorda il bene. Ma di tutte le età la virile è piú temperata, che già ha lassato le parti male della gioventú ed ancor non è pervenuta a quelle della vecchiezza. Questi adunque, posti quasi nelle estremità, bisogna che con la ragion sappiano correggere i vicii che la natura porge. Però deono i vecchi guardarse dal molto laudar se stessi e dall'altre cose viciose che avemo detto esser loro proprie, e valersi di quella prudenzia e cognizion che per lungo uso avranno acquistata, ed esser quasi oraculi a cui ognun vada per consiglio, ed aver grazia in dir quelle cose che sanno, accommodatamente ai propositi, accompagnando la gravità degli anni con una certa temperata e faceta piacevolezza. In questo modo saranno boni cortegiani ed interterrannosi bene con omini e con donne ed in ogni tempo saranno gratissimi, senza cantare o danzare; e quando occorrerà il bisogno, mostreranno il valor loro nelle cose d'importanzia.

XVI.

         Questo medesimo rispetto e giudicio abbian i giovani, non già di tener lo stile dei vecchi, ché quello che all'uno conviene non converrebbe in tutto all'altro, e suolsi dir che ne' giovani troppa saviezza è mal segno, ma di corregger in sé i vicii naturali. Però a me piace molto veder un giovane, e massimamente nell'arme, che abbia un poco del grave e del taciturno; che stia sopra di sé, senza que' modi inquieti che spesso in tal età si veggono; perché par che abbian non so che di piú che gli altri giovani. Oltre a ciò quella maniera cosí riposata ha in sé una certa fierezza riguardevole, perché par mossa non da ira ma da giudicio, e piú presto governata dalla ragione che dallo appetito; e questa quasi sempre in tutti gli omini di gran core si conosce; e medesimamente vedemola negli animali bruti, che hanno sopra gli altri nobilità e fortezza, come nello leone e nella aquila, né ciò è fuor di ragione, perché quel movimento impetuoso e súbito, senza parole o altra dimostrazion di collera, che con tutta la forza unitamente in un tratto, quasi come scoppio di bombarda, erumpe dalla quiete, che è il suo contrario, è molto piú violento e furioso che quello che, crescendo per gradi, si riscalda a poco a poco. Però questi che, quando son per far qualche impresa, parlan tanto e saltano, né possono star fermi, pare che in quelle tali cose si svampino e, come ben dice il nostro messer Pietro Monte, fanno come i fanciulli, che andando di notte per paura cantano, quasi che con quel cantare da se stessi si facciano animo. Cosí adunque come in un giovane la gioventú riposata e matura è molto laudevole, perché par che la leggerezza, che è vizio peculiar di quella età, sia temperata e corretta, cosí in un vecchio è da estimare assai la vecchiezza verde e viva, perché pare che 'l vigor dell'animo sia tanto, che riscaldi e dia forza a quella debile e fredda età e la mantenga in quello stato mediocre, che è la miglior parte della vita nostra.

XVII.

         Ma in somma non bastaranno ancor tutte queste condizioni del nostro cortegiano per acquistar quella universal grazia de' signori, cavalieri e donne, se non arà insieme una gentil ed amabile manera nel conversare cottidiano; e di questo credo veramente che sia difficile dar regola alcuna per le infinite e varie cose che occorrono nel conversare, essendo che tra tutti gli omini del mondo non si trovano dui, che siano d'animo totalmente simili. Però chi ha da accommodarsi nel conversare con tanti, bisogna che si guidi col suo giudicio proprio e, conoscendo le differenzie dell'uno e dell'altro, ogni dí muti stile e modo, secondo la natura di quelli con chi a conversar si mette. Né io per me altre regole circa ciò dare gli saprei eccetto le già date, le quali sin da fanciullo, confessandosi, imparò il nostro signor Morello -. Rise quivi la signora Emilia e disse: - Voi fuggite troppo la fatica, messer Federico: ma non vi verrà fatto, ché pur avete da dire fin che l'ora sia d'andare a letto. - E s'io, Signora, non avessi che dire? - rispose messer Federico. Disse la signora Emilia: - Qui si vederà il vostro ingegno; e se è vero quello ch'io già ho inteso, essersi trovato omo tanto ingenioso ed eloquente, che non gli sia mancato subietto per comporre un libro in laude d'una mosca, altri in laude della febre quartana, un altro in laude del calvizio, non dà il core a voi ancor di saper trovar che dire per una sera sopra la cortegiania? - Ormai, - rispose messer Federico, - tanto ne avemo ragionato, che ne sariano fatti doi libri; ma poiché non mi vale escusazione, dirò pur fin che a voi paia ch'io abbia satisfatto, se non all'obligo, almeno al poter mio.

XVIII.

         Io estimo che la conversazione, alla quale dee principalmente attendere il cortegiano con ogni suo studio per farla grata, sia quella che averà col suo principe; e benché questo nome di conversare importi una certa parità, che pare che non possa cader tra 'l signore e 'l servitore, pur noi per ora la chiamaremo cosí. Voglio adunque che 'l cortegiano, oltre lo aver fatto ed ogni di far conoscere ad ognuno sé esser di quel valore che già avemo detto, si volti con tutti i pensieri e forze dell'animo suo ad amare e quasi adorare il principe a chi serve sopra ogni altra cosa; e le voglie sue e costumi e modi tutti indrizzi a compiacerlo -. Quivi non aspettando piú, disse Pietro da Napoli: - Di questi cortegiani oggidí trovarannosi assai, perché mi pare che in poche parole ci abbiate dipinto un nobile adulatore. - Voi vi ingannate assai, - rispose messer Federico; - perché gli adulatori non amano i signori né gli amici, il che io vi dico che voglio che sia principalmente nel nostro cortegiano; e 'l compiacere e secondar le voglie di quello a chi si serve si po far senza adulare, perché io intendo delle voglie che siano ragionevoli ed oneste, o vero di quelle che in sé non sono né bone né male, come saria il giocare, darsi piú ad uno esercizio che ad un altro; ed a questo voglio che il cortegiano si accommodi, se ben da natura sua vi fosse alieno, di modo che, sempre che 'l signore lo vegga, pensi che a parlar gli abbia di cosa che gli sia grata; il che interverrà, se in costui sarà il bon giudicio per conoscere ciò che piace al principe, e lo ingegno e la prudenzia per sapersegli accommodare, e la deliberata voluntà per farsi piacer quello che forse da natura gli despiacesse; ed avendo queste avvertenze, inanzi al principe non starà mai di mala voglia né melanconico, né cosí taciturno, come molti che par che tenghino briga coi patroni, che è cosa veramente odiosa. Non sarà malèdico, e specialmente dei suoi signori; il che spesso interviene, ché pare che nelle corti sia una procella che porti seco questa condizione che sempre quelli che sono piú beneficati dai signori, e da bassissimo loco ridutti in alto stato, sempre si dolgono e dicono mal d'essi; il che è disconveniente, non solamente a questi tali, ma ancor a quelli che fossero mal trattati. Non usarà il nostro cortegiano prosonzione sciocca; non sarà apportator di nove fastidiose; non sarà inavvertito in dir talor parole che offendano in loco di voler compiacere; non sarà ostinato e contenzioso, come alcuni, che par che non godano d'altro che d'essere molesti e fastidiosi a guisa di mosche e fanno profession di contradire dispettosamente ad ognuno senza rispetto; non sarà cianciatore, vano o bugiardo, vantatore né adulatore inetto, ma modesto e ritenuto, usando sempre, e massimamente in publico, quella reverenzia e rispetto che si conviene al servitor verso il signor; e non farà come molti i quali, incontrandosi con qualsivoglia gran principe, se pur una sol volta gli hanno parlato, se gli fanno inanti con un certo aspetto ridente e da amico, cosí come se volessero accarezzar un suo equale, o dar favor ad un minore di sé. Rarissime volte o quasi mai non domanderà al signore cosa alcuna per se stesso, acciò che quel signor, avendo rispetto di negarla cosí a lui stesso, talor non la conceda con fastidio, che è molto peggio. Domandando ancor per altri, osserverà discretamente i tempi e domanderà cose oneste e ragionevoli; ed assettarà talmente la petizion sua, levandone quelle parti che esso conoscerà poter dispiacere e facilitando con destrezza le difficultà, che 'l signor la concederà sempre, o se pur la negarà, non crederà aver offeso colui a chi non ha voluto compiacere: perché spesso i signori, poi che hanno negato una grazia a chi con molta importunità la domanda, pensano che colui che l'ha domandata con tanta instanzia la desiderasse molto; onde, non avendo potuto ottenerla, debba voler male a chi gliel'ha negata; e per questa credenza essi cominciano ad odiare quel tale, e mai piú nol possono vedere con bon occhio.

XIX.

         Non cercherà d'intromettersi in camera o nei lochi secreti col signore suo non essendo richiesto, se ben sarà di molta autorità; perché spesso i signori, quando stanno privatamente, amano una certa libertà di dire e far ciò che lor piace, e però non vogliono essere né veduti né uditi da persona da cui possano esser giudicati; ed è ben conveniente. Onde quelli che biasimano i signori che tengono in camera persone di non molto valore in altre cose che in sapergli ben servire alla persona, parmi che facciano errore, perché non so per qual causa essi non debbano aver quella libertà per relassare gli animi loro, che noi ancor volemo per relassare i nostri. Ma se 'l cortegiano, consueto di trattar cose importanti, si ritrova poi secretamente in camera, dee vestirsi un'altra persona, e differir le cose severe ad altro loco e tempo ed attendere a ragionamenti piacevoli e grati al signor suo, per non impedirgli quel riposo d'animo. Ma in questo ed in ogni altra cosa sopra tutto abbia cura di non venirgli a fastidio ed aspetti che i favori gli siano offerti, piú presto che uccellargli cosí scopertamente come fan molti, che tanto avidi ne sono, che pare che, non conseguendogli, abbiano da perder la vita; e se per sorte hanno qualche disfavore, o vero veggono altri esser favoriti, restano con tanta angonia, che dissimular per modo alcuno non possono quella invidia; onde fanno ridere di sé ognuno e spesso sono causa che i signori dian favore a chi si sia solamente per far lor dispetto. Se poi ancor si ritrovano in favor che passi la mediocrità, tanto si inebriano in esso, che restano impediti d'allegrezza; né par che sappian ciò che si far delle mani né dei piedi e quasi stanno per chiamar la brigata che venga a vedergli e congratularsi seco, come di cosa che non siano consueti mai piú d'avere. Di questa sorte non voglio che sia il nostro cortegiano. Voglio ben che ami i favori, ma non però gli estimi tanto, che non paia poter anco star senz'essi; e quando gli consegue, non mostri d'esservi dentro novo né forestiero, né maravigliarse che gli siano offerti; né gli rifuti di quel modo che fanno alcuni, che per vera ignoranzia restano d'accettargli e cosí fanno vedere ai circonstanti che se ne conoscono indegni. Dee ben l'omo star sempre un poco piú rimesso che non comporta il grado suo; e non accettar cosí facilmente i favori ed onori che gli sono offerti, e rifutargli modestamente, mostrando estimargli assai, con tal modo però, che dia occasione a chi gli offerisce d'offerirgli con molto maggior instanzia; perché quanto piú resistenzia con tal modo s'usa nello accettargli, tanto piú pare a quel principe che gli concede d'esser estimato e che la grazia che fa tanto sia maggiore, quanto piú colui che la riceve mostra apprezzarla e piú di essa tenersi onorato. E questi sono i veri e sodi favori, e che fanno l'omo esser estimato da chi di fuor li vede; perché, non essendo mendicati, ognun presume che nascano da vera virtú; e tanto piú, quanto sono accompagnati dalla modestia -.

XX.

         Disse allor messer Cesare Gonzaga: - Parmi che abbiate rubato questo passo allo Evangelio, dove dice: "Quando sei invitato a nozze, va' ed assèttati nell'infimo loco, acciò che, venendo colui che t'ha invitato, dica: Amico, ascendi piú su; e cosí ti sarà onore alla presenzia dei convitati" -. Rise messer Federico e disse: - Troppo gran sacrilegio sarebbe rubare allo Evangelio; ma voi siete piú dotto nella Sacra Scrittura ch'io non mi pensava; - poi suggiunse: - Vedete come a gran pericolo si mettano talor quelli che temerariamente inanzi ad un signore entrano in ragionamento, senza che altri li ricerchi; e spesso quel signore, per far loro scorno, non risponde e volge il capo ad un'altra mano, e se pur risponde loro, ognun vede che lo fa con fastidio. Per aver adunque favore dai signori, non è miglior via che meritargli; né bisogna che l'omo si confidi vedendo un altro che sia grato ad un principe per qualsivoglia cosa di dover, per imitarlo, esso ancor medesimamente venire a quel grado; perché ad ognun non si convien ogni cosa e trovarassi talor un omo, il qual da natura sarà tanto pronto alle facezie, che ciò che dirà porterà seco il riso e parerà che sia nato solamente per quello; e s'un altro che abbia manera di gravità, avvenga che sia di bonissimo ingegno, vorrà mettersi far il medesimo, sarà freddissimo e disgraziato, di sorte che farà stomaco a chi l'udirà e riuscirà a punto quell'asino, che ad imitazion del cane volea scherzar col patrone. Però bisogna che ognun conosca se stesso e le forze sue ed a quello s'accommodi, e consideri quali cose ha da imitare e quali no -.


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Edizione telematica e revisione a cura di: Giuseppe Bonghi, 1999
Edizione HTML e impaginazione a cura di: Giuseppe Bonghi, Aprile 1999
Tratto da: Baldesar Castiglione, Il libro del Cortegiano, a cura di Luigi Preti, Giulio Einaudi Editore, Torino 1965

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Ultimo aggiornamento: 13 aprile, 1999