Baldessar Castiglione
Il Libro del Cortegiano
XLI.
In tal modo si fugge e nasconde l'affettazione, la qual or potete comprender quanto sia contraria, e levi la grazia d'ogni operazion cosí del corpo come dell'animo; del quale per ancor poco avemo parlato, né bisogna però lasciarlo; ché sí come l'animo piú degno è assai che 'l corpo, cosí ancor merita esser piú culto e piú ornato. E ciò come far si debba nel nostro cortegiano, lasciando li precetti di tanti savi fìlosofi, che di questa materia scrivono e diffiniscono le virtú dell'animo e cosí sottilmente disputano della dignità di quelle, diremo in poche parole, attendendo al nostro proposito, bastar che egli sia, come si dice, omo da bene ed intiero, ché in questo si comprende la prudenzia, bontà, fortezza e temperanzia d'animo e tutte l'altre condizioni che a cosí onorato nome si convengono. Ed io estimo quel solo esser vero filosofo morale, che vol esser bono; ed a ciò gli bisognano pochi altri precetti, che tal voluntà. E però ben dicea Socrate parergli che gli ammaestramenti suoi già avessino fatto bon frutto, quando per quelli chi si fosse si incitava a voler conoscer ed imparar la virtú; perché quelli che son giunti a termine che non desiderano cosa alcuna piú che l'essere boni, facilmente conseguono la scienzia di tutto quello che a ciò bisogna; però di questo non ragionaremo piú avanti.
XLII.
Ma, oltre alla bontà, il vero e principal ornamento dell'animo in ciascuno penso io che siano le lettere, benché i Franzesi solamente conoscano la nobilità delle arme e tutto il resto nulla estimino; di modo che non solamente non apprezzano le lettere, ma le aborriscono, e tutti e litterati tengon per vilissimi omini; e pare lor dir gran villania a chi si sia, quando lo chiamano clero-. Allora il Magnifico Iuliano, - Voi dite il vero, rispose, - che questo errore già gran tempo regna tra' Franzesi; ma se la bona sorte vole che monsignor d'Angolem, come si spera, succeda alla corona, estimo che sí come la gloria dell'arme fiorisce e risplende in Francia, cosí vi debba ancor con supremo ornamento fiorir quella delle lettere; perché non è molto ch'io, ritrovandomi alla corte, vidi questo signore e parvemi che, oltre alla disposizion della persona e bellezza di volto, avesse nell'aspetto tanta grandezza, congiunta però con una certa graziosa umanità, che 'l reame di Francia gli dovesse sempre parer poco. Intesi da poi da molti gentilomini, e franzesi ed italiani, assai dei nobilissimi costumi suoi, della grandezza dell'animo, del valore e della liberalità; e tra l'altre cose fummi detto che egli sommamente amava ed estimava le lettere ed avea in grandissima osservanzia tutti e litterati; e dannava i Franzesi proprii dell'esser tanto alieni da questa professione, avendo massimamente in casa un cosí nobil studio come è quello di Parigi, dove tutto il mondo concorre -. Disse allor il Conte: - Gran maraviglia è che in cosí tenera età, solamente per instinto di natura, contra l'usanza del paese, si sia da sé a sé volto a cosí bon camino; e perché i sudditi sempre seguitano i costumi de' superiori po esser che, come voi dite, i Franzesi siano ancor per estimar le lettere di quella dignità che sono; il che facilmente, se vorranno intendere, si potrà lor persuadere, perché niuna cosa piú da natura è desiderabile agli omini né piú propria che il sapere; la qual cosa gran pazzia è dire o credere che non sia sempre bona.
XLIII.
E s'io parlassi con essi o con altri che fosseno d'opinion contraria alla mia, mi sforzarei mostrar loro quanto le lettere, le quali veramente da Dio son state agli omini concedute per un supremo dono, siano utili e necessarie alla vita e dignità nostra; né mi mancheriano esempi di tanti eccellenti capitani antichi, i quali tutti giunsero l'ornamento delle lettere alla virtú dell'arme. Ché, come sapete, Alessandro ebbe in tanta venerazione Omero, che la Iliade sempre si teneva a capo del letto; e non solamente a questi studi, ma alle speculazioni filosofice diede grandissima opera sotto la disciplina d'Aristotele. Alcibiade le bone condizioni sue accrebbe e fece maggiori con le lettere e con gli ammaestramenti di Socrate. Cesare quanta opera desse ai studi, ancor fanno testimonio quelle cose che da esso divinamente scritte si ritrovano. Scipion Affricano dicesi che mai di mano non si levava i libri di Senofonte, dove instituisce sotto 'l nome di Ciro un perfetto re. Potrei dirvi di Lucullo, di Silla, di Pompeo, di Bruto e di molt'altri Romani e Greci; ma solamente ricordarò che Annibale, tanto eccellente capitano, ma però di natura feroce ed alieno da ogni umanità, infidele e despregiator degli omini e degli dèi, pur ebbe notizia di lettre e cognizion della lingua greca; e, s'io non erro, parmi aver letto già che esso un libro pur in lingua greca lasciò da sé composto. Ma questo dire a voi è superfluo, ché ben so io che tutti conoscete quanto s'ingannano i Francesi pensando che le lettre nuocciano all'arme. Sapete che delle cose grandi ed arrischiate nella guerra il vero stimulo è la gloria; e chi per guadagno o per altra causa a ciò si move, oltre che mai non fa cosa bona, non merita esser chiamato gentilomo, ma vilissimo mercante. E che la vera gloria sia quella che si commenda al sacro tesauro delle lettre, ognuno po comprendere, eccetto quegli infelici che gustate non l'hanno. Qual animo è cosí demesso, timido ed umile, che leggendo i fatti e le grandezze di Cesare, d'Alessandro, di Scipione, d'Annibale e di tanti altri, non s'infiammi d'un ardentissimo desiderio d'esser simile a quelli e non posponga questa vita caduca di dui giorni per acquistar quella famosa quasi perpetua, la quale, a dispetto della morte, viver lo fa piú chiaro assai che prima? Ma chi non sente la dolcezza delle lettere, saper ancor non po quanta sia la grandezza della gloria cosí lungamente da esse conservata, e solamente quella misura con la età d'un omo, o di dui, perché di piú oltre non tien memoria; però questa breve tanto estimar non po, quanto faria quella quasi perpetua, se per sua desgrazia non gli fosse vetato il conoscerla; e non estimandola tanto, ragionevol cosa è ancor credere che tanto non si metta a periculo per conseguirla come chi la conosce. Non vorrei già che qualche avversario mi adducesse gli effetti contrari per rifiutar la mia opinione, allegandomi gli Italiani col lor saper lettere aver mostrato poco valor nell'arme da un tempo in qua, il che pur troppo è piú che vero; ma certo ben si poria dir la colpa d'alcuni pochi aver dato, oltre al grave danno, perpetuo biasmo a tutti gli altri, e la vera causa delle nostre ruine e della virtú prostrata, se non morta, negli animi nostri, esser da quelli proceduta; ma assai piú a noi saria vergognoso il publicarla, che a' Franzesi il non saper lettere. Però meglio è passar con silenzio quello che senza dolor ricordar non si po; e, fuggendo questo proposito, nel quale contra mia voglia entrato sono, tornar al nostro cortegiano.
XLIV.
Il qual voglio che nelle lettre sia piú che mediocremente erudito, almeno in questi studi che chiamano d'umanità; e non solamente della lingua latina, ma ancor della greca abbia cognizione, per le molte e varie cose che in quella divinamente scritte sono. Sia versato nei poeti e non meno negli oratori ed istorici ed ancor esercitato nel scriver versi e prosa, massimamente in questa nostra lingua vulgare; che, oltre al contento che egli stesso pigliarà, per questo mezzo non gli mancheran mai piacevoli intertenimenti con donne, le quali per ordinario amano tali cose. E se, o per altre facende o per poco studio, non giungerà a tal perfezione che i suoi scritti siano degni di molta laude, sia cauto in supprimergli per non far ridere altrui di sé, e solamente i mostri ad amico di chi fidar si possa; perché almeno in tanto li giovaranno, che per quella esercitazion saprà giudicar le cose altrui; che invero rare volte interviene che chi non è assueto a scrivere, per erudito che egli sia, possa mai conoscer perfettamente le fatiche ed industrie de' scrittori, né gustar la dolcezza ed eccellenzia de' stili, e quelle intrinseche avvertenzie che spesso si trovano negli antichi. Ed oltre a ciò, farannolo questi studi copioso e, come rispose Aristippo a quel tiranno, ardito in parlar sicuramente con ognuno. Voglio ben però che 'l nostro cortegiano fisso si tenga nell'animo un precetto: cioè che in questo ed in ogni altra cosa sia sempre avvertito e timido piú presto che audace, e guardi di non persuadersi falsamente di saper quello che non sa: perché da natura tutti siamo avidi troppo piú che non si devria di laude, e piú amano le orecchie nostre la melodia delle parole che ci laudano, che qualunque altro soavissimo canto o suono; e però spesso, come voci di sirene, sono causa di sommergere chi a tal fallace armonia bene non se le ottura. Conoscendo questo pericolo, si è ritrovato tra gli antichi sapienti chi ha scritto libri, in qual modo possa l'omo conoscere il vero amico dall'adulatore. Ma questo che giova, se molti, anzi infiniti son quelli che manifestamente comprendono esser adulati, e pur amano chi gli adula ed hanno in odio chi dice lor il vero? e spesso, parendogli che chi lauda sia troppo parco in dire, essi medesimi lo aiutano e di se stessi dicono tali cose, che lo impudentissimo adulator se ne vergogna? Lasciamo questi ciechi nel lor errore e facciamo che 'l nostro cortegiano sia di cosí bon giudicio, che non si lasci dar ad intendere il nero per lo bianco, né presuma di sé, se non quanto ben chiaramente conosce esser vero; e massimamente in quelle cose, che nel suo gioco, se ben avete a memoria, messer Cesare ricordò che noi piú volte avevamo usate per instrumento di far impazzir molti. Anzi, per non errar, se ben conosce le laudi che date gli sono esser vere, non le consenta cosí apertamente, né cosí senza contradizione le confermi; ma piú tosto modestamente quasi le nieghi, mostrando sempre e tenendo in effetto per sua principal professione l'arme e l'altre bone condizioni tutte per ornamento di quelle; e massimamente tra i soldati, per non far come coloro che ne' studi voglion parere omini di guerra e tra gli omini di guerra litterati. In questo modo, per le ragioni che avemo dette, fuggirà l'affettazione e le cose mediocri che farà parranno grandissime -.
XLV.
Rispose quivi messer Pietro Bembo: - Io non so, Conte, come voi vogliate che questo cortegiano, essendo litterato e con tante altre virtuose qualità, tenga ogni cosa per ornamento dell'arme, e non l'arme e 'l resto per ornamento delle lettere; le quali senza altra compagnia tanto son di dignità all'arme superiori, quanto l'animo al corpo, per appartenere propriamente la operazion d'esse all'animo, cosí come quella delle arme al corpo -. Rispose allor il Conte: - Anzi all'animo ed al corpo appartiene la operazion dell'arme. Ma non voglio, messer Pietro, che voi di tal causa siate giudice, perché sareste troppo suspetto ad una delle parti; ed essendo già stata questa disputazione lungamente agitata da omini sapientissimi, non è bisogno rinovarla; ma io la tengo per diffinita in favore dell'arme e voglio che 'l nostro cortegiano, poich'io posso ad arbitrio mio formarlo, esso ancor cosí la estimi. E se voi sète di contrario parer, aspettate d'udirne una disputazion, nella qual cosí sia licito a chi diffende la ragion dell'arme operar l'arme, come quelli che diffendon le lettre oprano in tal diffesa le medesime lettre; ché se ognuno si valerà de' suoi instrumenti, vedrete che i litterati perderanno. - Ah, - disse messer Pietro, - voi dianzi avete dannati i Franzesi che poco apprezzan le lettre e detto quanto lume di gloria esse mostrano agli omini e come gli facciano immortali; ed or pare che abbiate mutata sentenzia. Non vi ricorda che
Giunto Alessandro alla famosa tomba |
E se Alessandro ebbe invidia ad Achille non de' suoi fatti, ma della fortuna che prestato gli avea tanta felicità che le cose sue fosseno celebrate da Omero, comprender si po che estimasse piú le lettre d'Omero, che l'arme d'Achille. Qual altro giudice adunque, o qual altra sentenzia aspettate voi della dignità dell'arme e delle lettre, che quella che fu data da un de' piú gran capitani che mai sia stato?
XLVI.
Rispose allora il Conte: - Io biasmo i Franzesi che estiman le lettre nuocere alla profession dell'arme e tengo che a niun piú si convenga l'esser litterato che ad un om di guerra; e queste due condizioni concatenate e l'una dall'altra aiutate, il che è convenientissimo, voglio che siano nel nostro cortegiano; né per questo parmi esser mutato d'opinione. Ma, come ho detto disputar non voglio qual d'esse sia piú degna di laude. Basta che i litterati quasi mai non pigliano a laudare se non omini grandi e fatti gloriosi, i quali da sé meritano laude per la propria essenzial virtute donde nascono; oltre a ciò sono nobilissima materia dei scrittori; il che è grande ornamento ed in parte causa di perpetuare i scritti, li quali forse non sariano tanto letti né apprezzati se mancasse loro il nobile suggetto, ma vani e di poco momento. E se Alessandro ebbe invidia ad Achille per esser laudato da chi fu, non conchiude però questo che estimasse piú le lettre che l'arme; nelle quali se tanto si fosse conosciuto lontano da Achille, come nel scrivere estimava che dovessero esser da Omero tutti quelli che di lui fossero per scrivere, son certo che molto prima averia desiderato il ben fare in sé che il ben dire in altri. Però questa credo io che fosse una tacita laude di se stesso ed un desiderar quello che aver non gli pareva, cioè la suprema eccellenzia d'uno scrittore, e non quello che già si prosumeva aver conseguito, cioè la virtú dell'arme, nella quale non estimava che Achille punto gli fosse superiore; onde chiamollo fortunato, quasi accennando che, se la fama sua per lo inanzi non fosse tanto celebrata al mondo come quella, che era per cosí divin poema chiara ed illustre, non procedesse perché il valore ed i meriti non fossero tanti e di tanta laude degni, ma nascesse dalla fortuna, la quale avea parato inanti ad Achille quel miraculo di natura per gloriosa tromba dell'opere sue; e forse ancor volse eccitar qualche nobile ingegno a scrivere di sé, mostrando per questo dovergli esser tanto grato, quanto amava e venerava i sacri monumenti delle lettre, circa le quali omai si è parlato a bastanza. - Anzi troppo, - rispose il signor Ludovico Pio; - perché credo che al mondo non sia possibile ritrovar un vaso tanto grande, che fosse capace di tutte le cose, che voi volete che stiano in questo cortegiano -. Allor il Conte, - Aspettate un poco, - disse, che molte altre ancor ve ne hanno da essere -. Rispose Pietro da Napoli: - A questo modo il Grasso de' Medici averà gran vantaggio da messer Pietro Bembo -.
XLVII.
Rise quivi ognuno; e ricominciando il Conte, - Signori, disse, - avete a sapere ch'io non mi contento del cortegiano e s'egli non è ancor musico e se, oltre allo intendere ed esser sicuro a libro, non sa di varii instrumenti; perché, se ben pensiamo, niuno riposo de fatiche e medicina d'animi infermi ritrovar si po piú onesta e laudevole nell'ocio, che questa; e massimamente nelle corti, dove, oltre al refrigerio de' fastidi che ad ognuno la musica presta, molte cose si fanno per satisfar alle donne, gli animi delle quali, teneri e molli, facilmente sono dall'armonia penetrati e di dolcezza ripieni. Però non è maraviglia se nei tempi antichi e nei presenti sempre esse state sono a' musici inclinate ed hanno avuto questo per gratissimo cibo d'animo -. Allor il signor Gaspar, - La musica penso, - disse, - che insieme con molte altre vanità sia alle donne conveniente sí, e forse ancor ad alcuni che hanno similitudine d'omini, ma non a quelli che veramente sono; i quali non deono con delicie effeminare gli animi ed indurgli in tal modo a temer la morte. - Non dite, - rispose il Conte; - perch'io v'entrarò in un gran pelago di laude della musica; e ricordarò quanto sempre appresso gli antichi sia stata celebrata e tenuta per cosa sacra, e sia stato opinione di sapientissimi filosofi il mondo esser composto di musica e i cieli nel moversi far armonia, e l'anima nostra pur con la medesima ragion esser formata, e però destarsi e quasi vivificar le sue virtú per la musica. Per il che se scrive Alessandro alcuna volta esser stato da quella cosí ardentemente incitato, che quasi contra sua voglia gli bisognava levarsi dai convivii e correre all'arme; poi, mutando il musico la sorte del suono, mitigarsi e tornar dall'arme ai convivii. E dirovvi il severo Socrate, già vecchissimo, aver imparato a sonare la citara. E ricordomi aver già inteso che Platone ed Aristotele vogliono che l'om bene instituito sia ancor musico, e con infinite ragioni mostrano la forza della musica in noi essere grandissima, e per molte cause, che or saria lungo a dir, doversi necessariamente imparar da puerizia; non tanto per quella superficial melodia che si sente, ma per esser sufficiente ad indur in noi un novo abito bono ed un costume tendente alla virtú, il qual fa l'animo piú capace di felicità, secondo che lo esercizio corporale fa il corpo piú gagliardo; e non solamente non nocere alle cose civili e della guerra, ma loro giovar sommamente. Licurgo ancora nelle severe sue leggi la musica approvò. E leggesi i Lacedemonii bellicosissimi ed i Cretensi aver usato nelle battaglie citare ed altri instrumenti molli; e molti eccellentissimi capitani antichi, come Epaminonda, aver dato opera alla musica; e quelli che non ne sapeano, come Temistocle, esser stati molto meno apprezzati. Non avete voi letto che delle prime discipline che insegnò il bon vecchio Chirone nella tenera età ad Achille, il quale egli nutrí dallo latte e dalla culla, fu la musica; e volse il savio maestro che le mani, che aveano a sparger tanto sangue troiano, fossero spesso occupate nel suono della citara? Qual soldato adunque sarà che si vergogni d'imitar Achille, lasciando molti altri famosi capitani ch'io potrei addurre? Però non vogliate voi privar il nostro cortegiano della musica, la qual non solamente gli animi umani indolcisce, ma spesso le fiere fa diventar mansuete; e chi non la gusta si po tener per certo ch'abbia i spiriti discordanti l'un dall'altro. Eccovi quanto essa po, che già trasse un pesce a lassarsi cavalcar da un omo per mezzo il procelloso mare. Questa veggiamo operarsi ne' sacri tempii nello rendere laude e grazie a Dio; e credibil cosa è che ella grata a lui sia ed egli a noi data l'abbia per dolcissimo alleviamento delle fatiche e fastidi nostri. Onde spesso i duri lavoratori de' campi sotto l'ardente sole ingannano la lor noia col rozzo ed agreste cantare. Con questo la inculta contadinella, che inanzi al giorno a filare o a tessere si lieva, dal sonno si diffende e la sua fatica fa piacevole; questo è iocundissimo trastullo dopo le piogge, i venti e le tempeste ai miseri marinari; con questo consolansi i stanchi peregrini dei noiosi e lunghi viaggi e spesso gli afflitti prigionieri delle catene e ceppi. Cosí, per maggiore argumento che d'ogni fatica e molestia umana la modulazione, benché inculta, sia grandissimo refrigerio, pare che la natura alle nutrici insegnata l'abbia per rimedio precipuo del pianto continuo de' teneri fanciulli; i quali al suon di tal voce s'inducono a riposato e placido sonno, scordandosi le lacrime così proprie, ed a noi per presagio dei rimanente della nostra vita in quella età da natura date -.
XLVIII.
Or quivi tacendo un poco il Conte, disse il Magnifico Iuliano: - Io non son già di parer conforme al signor Gaspar; anzi estimo per le ragioni che voi dite e per molte altre esser la musica non solamente ornamento, ma necessaria al cortegiano. Vorrei ben che dechiaraste in qual modo questa e l'altre qualità che voi gli assignate siano da esser operate, ed a che tempo e con che maniera; perché molte cose che da sé meritano laude, spesso con l'operarle fuor di tempo diventano inettissime e, per contrario, alcune che paion di poco momento, usandole bene, sono pregiate assai -.
XLIX.
Allora il Conte, - Prima che a questo proposito entriamo, voglio, - disse, - ragionar d'un'altra cosa, la quale io, perciò che di molta importanza la estimo, penso che dal nostro cortegiano per alcun modo non debba esser lasciata addietro: e questo è il saper disegnare ed aver cognizion dell'arte propria del dipingere. Né vi maravigliate s'io desidero questa parte, la qual oggidí forsi par mecanica e poco conveniente a gentilomo; ché ricordomi aver letto che gli antichi, massimamente per tutta Grecia, voleano che i fanciulli nobili nelle scole alla pittura dessero opera come a cosa onesta e necessaria, e fu questa ricevuta nel primo grado dell'arti liberali; poi per publico editto vetato che ai servi non s'insegnasse. Presso ai Romani ancor s'ebbe in onor grandissimo; e da questa trasse il cognome la casa nobilissima de' Fabii, ché il primo Fabio fu cognominato Pittore, per esser in effetto eccellentissimo pittore e tanto dedito alla pittura, che avendo dipinto le mura del tempio della Salute, gli inscrisse il nome suo; parendogli che, benché fosse nato in una famiglia cosí chiara ed onorata di tanti tituli di consulati, di triunfi e d'altre dignità e fosse litterato e perito nelle leggi e numerato tra gli oratori, potesse ancor accrescere splendore ed ornamento alla fama sua lassando memoria d'essere stato pittore. Non mancarono ancor molti altri di chiare famiglie celebrati in quest'arte; della qual, oltre che in sé nobilissima e degna sia, si traggono molte utilità, e massimamente nella guerra, per disegnar paesi, siti, fiumi, ponti, ròcche, fortezze e tai cose; le quali, se ben nella memoria si servassero, il che però è assai difficile, altrui mostrar non si possono. E veramente chi non estima questa arte parmi che molto sia dalla ragione alieno; ché la machina del mondo, che noi veggiamo coll'amplo cielo di chiare stelle tanto splendido e nel mezzo la terra dai mari cinta, di monti, valli e fiumi variata e di sí diversi alberi e vaghi fiori e d'erbe ornata, dir si po che una nobile e gran pittura sia, per man della natura e di Dio composta; la qual chi po imitare parmi esser di gran laude degno; né a questo pervenir si po senza la cognizion di molte cose, come ben sa chi lo prova. Però gli antichi e l'arte e gli artifici aveano in grandissimo pregio, onde pervenne in colmo di summa eccellenzia; e di ciò assai certo argomento pigliar si po dalle statue antiche di marmo e di bronzo, che ancor si veggono. E benché diversa sia la pittura dalla statuaria, pur l'una e l'altra da un medesimo fonte, che è il bon disegno, nasce. Però, come le statue sono divine, cosí ancor creder si po che le pitture fossero; e tanto piú, quanto che di maggior artificio capaci sono -.
L.
Allor la signora Emilia, rivolta a Ioan Cristoforo Romano che ivi con gli altri sedeva, - Che vi par, - disse, - di questa sentenzia? confermarete voi, che la pittura sia capace di maggior artificio che la statuaria? - Rispose Ioan Cristoforo: - Io, Signora, estimo che la statuaria sia di piú fatica, di piú arte e di piú dignità, che non è la pittura , Suggiunse il Conte: - Per esser le statue piú durabili, si poria forse dir che fossero di piú dignità; perché, essendo fatte per memoria, satisfanno piú a quello effetto per che son fatte, che la pittura. Ma oltre alla memoria, sono ancor e la pittura e la statuaria fatte per ornare ed in questo la pittura è molto superiore; la quale se non è tanto diuturna, per dir cosí, come la statuaria, è però molto longeva, e tanto che dura è assai piú vaga -. Rispose allor Ioan Cristoforo: - Credo io veramente che voi parliate contra quello che avete nell'animo e ciò tutto fate in grazia del vostro Rafaello, e forse ancor parvi che la eccellenzia che voi conoscete in lui della pittura sia tanto suprema, che la marmoraria non possa giungere a quel grado: ma considerate che questa è laude d'un artifice, e non dell'arte -. Poi suggiunse: - Ed a me par bene, che l'una e l'altra sia una artificiosa imitazion di natura; ma non so già come possiate dir che più non sia imitato il vero, e quello proprio che fa la natura, in una figura di marmo o di bronzo, nella qual sono le membra tutte tonde, formate e misurate come la natura le fa, che in una tavola, nella qual non si vede altro che la superficie e que' colori che ingannano gli occhi; né mi direte già, che piú propinquo al vero non sia l'essere che 'l parere. Estimo poi che la marmoraria sia piú difficile, perché se un error vi vien fatto, non si po piú correggere, ché 'l marmo non si ritacca, ma bisogna rifar un'altra figura; il che nella pittura non accade, ché mille volte si po mutar, giongervi e sminuirvi, migliorandola sempre -.
LI.
Disse il Conte ridendo: - Io non parlo in grazia de Rafaello; né mi dovete già riputar per tanto ignorante, che non conosca la eccellenzia di Michel Angelo e vostra e degli altri nella marmoraria; ma io parlo dell'arte, e non degli artifici. E voi ben dite vero che e l'una e l'altra è imitazion della natura; ma non è gia cosí, che la pittura appaia e la statuaria sia. Ché, avvenga che le statue siano tutte tonde come il vivo e la pittura solamente si veda nella superficie, alle statue mancano molte cose che non mancano alle pitture, e massimamente i lumi e l'ombre; perché altro lume fa la carne ed altro fa il marmo; e questo naturalmente imita il pittore col chiaro e scuro, piú e meno, secondo il bisogno; il che non po far il marmorario. E se ben il pittore non fa la figura tonda, fa que' musculi e membri tondeggiati di sorte che vanno a ritrovar quelle parti che non si veggono con tal maniera, che benissimo comprender si po che 'l pittor ancor quelle conosce ed intende. Ed a questo bisogna un altro artificio maggiore in far quelle membra che scortano e diminuiscono a proporzion della vista con ragion di prospettiva; la qual per forza di linee misurate, di colori, di lumi e d'ombre vi mostra ancora in una superficie di muro dritto il piano e 'l lontano, piú e meno come gli piace. Parvi poi che di poco momento sia la imitazione dei colori naturali in contrafar le carni, i panni e tutte l'altre cose colorate? Questo far non po già il marmorario, né meno esprimer la graziosa vista degli occhi neri o azzurri, col splendor di que' raggi amorosi. Non po mostrare il color de' capegli flavi, non lo splendor dell'arme, non una oscura notte, non una tempesta di mare, non que' lampi e saette, non lo incendio d'una città, non il nascere dell'aurora di color di rose, con quei raggi d'oro e di porpora; non po in somma mostrare cielo, mare, terra, monti, selve, prati, giardini, fiumi, città né case; il che tutto fa il pittore.
LII.
Per questo parmi la pittura piú nobile e piú capace d'artificio che la marmoraria, e penso che presso agli antichi fosse di suprema eccellenzia come l'altre cose; il che si conosce ancor per alcune piccole reliquie che restano, massimamente nelle grotte di Roma, ma molto piú chiaramente si po comprendere per i scritti antichi, nei quali sono tante onorate e frequenti menzioni e delle opre e dei maestri; e per quelli intendesi quanto fossero appresso i gran signori e le republiche sempre onorati. Però si legge che Alessandro amò sommamente Apelle Efesio e tanto, che avendogli fatto ritrar nuda una sua carissima donna ed intendendo il bon pittore per la maravigliosa bellezza di quella restarne ardentissimamente inamorato, senza rispetto alcuno gliela donò: liberalità veramente degna d'Alessandro, non solamente donar tesori e stati, ma i suoi proprii affetti e desidèri; e segno di grandissimo amor verso Apelle, non avendo avuto rispetto, per compiacer a lui, di dispiacere a quella donna che sommamente amava; la qual creder si po che molto si dolesse di cambiar un tanto re con un pittore. Narransi ancor molti altri segni di benivolenzia d'Alessandro verso d'Apelle; ma assai chiaramente dimostrò quanto lo estimasse, avendo per publico commandamento ordinato che niun altro pittore osasse far la imagine sua. Qui potrei dirvi le contenzioni di molti nobili pittori con tanta laude e maraviglia quasi del mondo; potrei dirvi con quanta solennità gli imperadori antichi ornavano di pitture i lor triunfi e ne' lochi publici le dedicavano, e come care le comparavano; e che siansi già trovati alcuni pittori che donavano l'opere sue, parendo loro che non bastasse oro né argento per pagarle; e come tanto pregiata fusse una tavola di Protogene che, essendo Demetrio a campo a Rodi, e possendo intrar dentro appiccandole il foco dalla banda dove sapeva che era quella tavola, per non abbrusciarla restò di darle la battaglia e cosí non prese la terra; e Metrodoro, filosofo e pittore eccellentissimo, esser stato da' Ateniesi mandato a Lucio Paulo per ammaestrargli i figlioli ed ornargli il triunfo che a far avea. E molti nobili scrittori hanno ancora di questa arte scritto; il che è assai gran segno per dimostrare in quanta estimazione ella fosse; ma non voglio che in questo ragionamento piú ci estendiamo. Però basti solamente dire che al nostro cortegiano conviensi ancor della pittura aver notizia, essendo onesta ed utile ed apprezzata in que' tempi che gli omini erano di molto maggior valore, che ora non sono; e quando mai altra utilità o piacer non se ne traesse, oltre che giovi a saper giudicar la eccellenzia delle statue antiche e moderne, di vasi, d'edifici, di medaglie, di camei, d'entagli e tai cose, fa conoscere ancor la bellezza dei corpi vivi, non solamente nella delicatura de' volti, ma nella proporzion di tutto il resto, cosí degli omini come di ogni altro animale. Vedete adunque come lo avere cognizione della pittura sia causa di grandissimo piacere. E questo pensino quei che tanto godono contemplando le bellezze d'una donna che par lor essere in paradiso, e pur non sanno dipingere; il che se sapessero, arian molto maggior contento, perché piú perfettamente conosceriano quella bellezza, che nel cor genera lor tanta satisfazione -.
LIII.
Rise quivi messer Cesare Gonzaga e disse: - Io già non son pittore; pur certo so aver molto maggior piacere di vedere alcuna donna, che non aría, se or tornasse vivo, quello eccellentissimo Apelle che voi poco fa avete nominato -. Rispose il Conte: - Questo piacer vostro non deriva interamente da quella bellezza, ma dalla affezion che voi forse a quella donna portate; e, se volete dir il vero, la prima volta che voi a quella donna miraste, non sentiste la millesima parte del piacere che poi fatto avete, benché le bellezze fossero quelle medesime; però potete comprender quanto piú parte nel piacer vostro abbia l'affezion che la bellezza. - Non nego questo, - disse messer Cesare; - ma secondo che 'l piacer nasce dalla affezione, cosí l'affezion nasce dalla bellezza; però dir si po che la bellezza sia pur causa del piacere -. Rispose il Conte: - Molte altre cause ancor spesso infiammano gli animi nostri, oltre alla bellezza: come i costumi, il sapere, il parlare, i gesti e mill'altre cose, le quali però a qualche modo forse esse ancor si potriano chiamar bellezze; ma sopra tutto il sentirsi essere amato; di modo che si po ancor senza quella bellezza, di che voi ragionate, amare ardentissimamente; ma quegli amori che solamente nascono dalla bellezza che superficialmente vedemo nei corpi, senza dubbio daranno molto maggior piacere a chi piú la conoscerà, che a chi meno. Però, tornando al nostro proposito, penso che molto piú godesse Apelle contemplando la bellezza di Campaspe, che non faceva Alessandro; perché facilmente si po creder che l'amor dell'uno e dell'altro derivasse solamente da quella bellezza; e che deliberasse forse ancor Alessandro per questo rispetto donarla a chi gli parve che piú perfettamente conoscer la potesse. Non avete voi letto che quelle cinque fanciulle da Crotone, le quali tra l'altre di quel populo elesse Zeusi pittore per far de tutte cinque una sola figura eccellentissima di bellezza, furono celebrate da molti poeti, come quelle che per belle erano state approvate da colui, che perfettissimo giudicio di bellezza aver dovea?
LIV.
Quivi, mostrando messer Cesare non restar satisfatto, né voler consentir per modo alcuno che altri che esso medesimo potesse gustare quel piacere ch'egli sentiva di contemplar la bellezza d'una donna, ricominciò a dire; ma in quello s'udí un gran calpestare di piedi con strepito di parlar alto; e cosí rivolgendosi ognuno, si vide alla porta della stanza comparire un splendor di torchi e súbito drieto giunse con molta e nobil compagnia il signor Prefetto, il qual ritornava, avendo accompagnato il Papa una parte del camino; e già allo entrar del palazzo, dimandando ciò che facesse la signora Duchessa, aveva inteso di che sorte era il gioco di quella sera e 'l carico imposto al conte Ludovico di parlar della cortegiania; però quanto piú gli era possibile studiava il passo, per giungere a tempo d'udir qualche cosa. Cosí, súbito fatto reverenzia alla signora Duchessa e fatto seder gli altri, che tutti in piedi per la venuta sua s'erano levati, si pose ancor esso a seder nel cerchio con alcuni de' suoi gentilomini; tra i quali erano il marchese Febus e Ghirardino fratelli da Ceva, messer Ettor Romano, Vincenzio Calmeta, Orazio Florido e molti altri; e stando ognun senza parlare, il signor Prefetto disse: - Signori, troppo nociva sarebbe stata la venuta mia qui, s'io avessi impedito cosí bei ragionamenti, come estimo che sian quelli che ora tra voi passavano; però non mi fate questa ingiuria di privar voi stessi e me di tal piacere -. Rispose allor il conte Ludovico: - Anzi, signor mio, penso che 'l tacer a tutti debba esser molto piú grato che 'l parlare; perché, essendo tal fatica a me più che agli altri questa sera toccata, oramai m'ha stanco di dire, e credo tutti gli altri d'ascoltare, per non esser stato il ragionamento mio degno di questa compagnia, né bastante alla grandezza della materia di che io aveva carico; nella quale avendo io poco satisfatto a me stesso, penso molto meno aver satisfatto ad altrui. Però a voi, Signore, è stato ventura il giungere al fine; e bon sarà mo dar la impresa di quello che resta ad un altro che succeda nel mio loco perciò che, qualunque egli si sia, so che si porterà molto meglio ch'io non farei se pur seguitar volessi, essendo oramai stanco come sono -.
LV.
- Non supportarò io, - respose il Magnifico Iuliano, - per modo alcuno esser defraudato della promessa che fatta m'avete; e certo so che al signor Prefetto ancor non despiacerà lo intender questa parte. - E qual promessa? - disse il Conte. Rispose il Magnifico: - Di dechiararci in qual modo abbia il cortegiano da usare quelle bone condizioni, che voi avete detto che convenienti gli sono -. Era il signor Prefetto, benché di età puerile, saputo e discreto piú che non parea che s'appartenesse agli anni teneri, ed in ogni suo movimento mostrava con la grandezza dell'animo una certa vivacità dello ingegno, vero pronostico dello eccellente grado di virtú dove pervenir doveva. Onde súbito disse: - Se tutto questo a dir resta, parmi esser assai a tempo venuto; perché intendendo in che modo dee il cortegiano usar quelle bone condizioni, intenderò ancora quali esse siano e cosí verrò a saper tutto quello che infin qui è stato detto. Però non rifutate, Conte, di pagar questo debito d'una parte del quale già sète uscito. - Non arei da pagar tanto debito, - rispose il Conte, - se le fatiche fossero piú egualmente divise, ma lo errore è stato dar autorità di commandar ad una signora troppo parziale; - e cosí, ridendo, si volse alla signora Emilia, la qual súbito disse: - Della mia parzialità non dovreste voi dolervi; pur, poiché senza ragion lo fate, daremo una parte di questo onor, che voi chiamate fatica, ad un altro; - e rivoltasi a messer Federico Fregoso, - Voi, - disse, proponeste il gioco del cortegiano; però è ancor ragionevole che a voi tocchi il dirne una parte: e questo sarà il satisfare alla domanda del signor Magnifico, dechiarando in qual modo e maniera e tempo il cortegiano debba usar le sue bone condizioni, ed operar quelle cose che 'l Conte ha detto che se gli convien sapere -. Allora messer Federico, - Signora, - disse, volendo voi separare il modo e 'l tempo e la maniera dalle bone condizioni e ben operare del cortegiano, volete separar quello che separar non si po, perché queste cose son quelle che fanno le condizioni bone e l'operar bono. Però avendo il Conte detto tanto e cosí bene ed ancor parlato qualche cosa di queste circonstanzie, e preparatosi nell'animo il resto che egli avea a dire, era pur ragionevole che seguitasse insin al fine -. Rispose la signora Emilia: - Fate voi cunto d'essere il Conte e dite quello che pensate che esso direbbe; e cosí sarà satisfatto al tutto -.
LVI.
Disse allor il Calmeta: - Signori, poiché l'ora è tarda, acciò che messer Federico non abbia escusazione alcuna di non dir ciò che sa, credo che sia bono differire il resto del ragionamento a domani; e questo poco tempo che ci avanza si dispensi in qualche altro piacer senza ambizione -. Cosí confermando ognuno, impose la signora Duchessa a madonna Margherita e madonna Costanza Fregosa che danzassero. Onde súbito Barletta, musico piacevolissimo e danzator eccellente, che sempre tutta la corte teneva in festa, cominciò a sonare suoi instrumenti; ed esse, presesi per mano, ed avendo prima danzato una bassa, ballarono una roegarze con estrema grazia e singular piacer di chi le vide; poi, perché già era passata gran pezza della notte, la signora Duchessa si levò in piedi; e cosí ognuno reverentemente presa licenzia, se ne andarono a dormire.
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Edizione telematica e revisione a cura di: Giuseppe Bonghi, 1999
Edizione HTML e impaginazione a cura di: Giuseppe Bonghi, Aprile 1999
Tratto da: Baldesar Castiglione, Il
libro del Cortegiano, a cura di Luigi Preti, Giulio Einaudi Editore, Torino 1965
© 1999 - by prof. Giuseppe Bonghi
- E-mail: Giuseppe Bonghi - bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 13 aprile, 1999