Giovanni Boccaccio

Trattatello in laude di Dante


XXV
Carattere di Dante

       Fu il nostro poeta, oltre alle cose predette, d'animo alto e disdegnoso molto; tanto che, cercandosi per alcun suo amico, il quale ad istanzia de’ suoi prieghi il facea, che egli potesse ritornare in Fiorenza, il che egli oltre ad ogni altra cosa sommamente disiderava, né trovandosi a ciò alcuno modo con coloro li quali il governo della republica allora aveano nelle mani, se non uno, il quale era questo: che egli per certo spazio stesse in prigione, e dopo quello in alcuna solennità publica fosse misericordievolmente alla nostra principale ecclesia offerto, e per conseguente libero e fuori d'ogni condennagione per addietro fatta di lui; la qual cosa parendogli convenirsi e usarsi in qualunque e depressi e infami uomini, e non in altri; per che, oltre al suo maggiore disiderio, preelesse di stare in esilio, anzi che per cotal via tornare in casa sua. Oh isdegno laudevole di magnanimo, quanto virilmente operasti, reprimendo l'ardente disio del ritornare per via meno che degna ad uomo nel grembo della filosofia nutricato!
       Molto simigliantemente presunse di sé, né gli parve meno valere, secondo che i suoi contemporanei rapportano, che el valesse; la qual cosa, tra l'altre volte, apparve una notabilmente, mentre che egli era con la sua setta nel colmo del reggimento della republica. Ché, con ciò fosse cosa che per coloro li quali erano depressi fosse chiamato, mediante Bonifazio papa VIII, a ridirizzare lo stato della nostra città, uno fratello ovvero congiunto di Filippo allora re di Francia, il cui nome fu Carlo, si ragunarono ad uno consiglio per provedere a questo fatto tutti li prencipi della setta con la quale esso tenea; e quivi tra l'altre cose providero che ambasceria si dovesse mandare al papa, il quale allora era a Roma, per la quale s'inducesse il detto papa a dovere ostare alla venuta del detto Carlo, ovvero lui, con concordia della setta, la quale reggeva, far venire. E venuto al diliberare chi dovesse esser prencipe di cotale legazione, fu per tutti detto che Dante fosse desso. Alla quale richiesta Dante, alquanto sopra sé stato, disse: «Se io vo, chi rimane? se io rimango, chi va?», quasi esso solo fosse colui che tra tutti valesse, e per cui tutti gli altri valessero. Questa parola fu intesa e raccolta, ma quello che di ciò seguisse non fa al presente proposito, e però, passando avanti, il lascio stare.
       Oltre a queste cose, fu questo valente uomo in tutte le sue avversità fortissimo: solo in una cosa non so se io mi dica fu impaziente o animoso, cioè in opera pertenente a parte, poi che in esilio fu, troppo più che alla sua sufficienzia non appartenea, e ch'egli non volea che di lui per altrui si credesse. E acciò che a qual parte fosse così animoso e pertinace appaia, mi pare sia da procedere alquanto più oltre scrivendo.
       Io credo che giusta ira di Dio permettesse, già è gran tempo, quasi tutta Toscana e Lombardia in due parti dividersi; delle quali, onde cotali nomi s'avessero, non so; ma l'una si chiamò e chiama «parte guelfa», e l'altra fu «ghibellina» chiamata. E di tanta efficacia e reverenzia furono negli stolti animi di molti questi due nomi, che, per difendere quello che alcuno avesse eletto per suo contra il contrario, non gli era di perdere gli suoi beni e ultimamente la vita, se bisogno fosse fatto, malagevole. E sotto questi titoli molte volte le città italiche sostennero di gravissime pressure e mutamenti; e intra l'altre la nostra città, quasi capo e dell'uno nome e dell'altro, secondo il mutamento de’ cittadini; intanto che gli maggiori di Dante per guelfi da’ ghibellini furono due volte cacciati di casa loro, e egli similemente, sotto il titolo di guelfo, tenne i freni della republica in Firenze. Della quale cacciato, come mostrato è, non da’ ghibellini ma da’ guelfi, e veggendo sé non potere ritornare, in tanto mutò l'animo, che niuno più fiero ghibellino e a’ guelfi avversario fu come lui; e quello di che io più mi vergogno in servigio della sua memoria è che publichissima cosa è in Romagna, lui ogni feminella, ogni piccol fanciullo ragionante di parte e dannante la ghibellina, l'avrebbe a tanta insania mosso, che a gittare le pietre l'avrebbe condotto, non avendo taciuto. E con questa animosità si visse infino alla morte.
       Certo, io mi vergogno dovere con alcuno difetto maculare la fama di cotanto uomo; ma il cominciato ordine delle cose in alcuna parte il richiede; perciò che, se nelle cose meno che laudevoli in lui mi tacerò, io torrò molta fede alle laudevoli già mostrate. A lui medesimo adunque mi scuso, il quale per avventura me scrivente con isdegnoso occhio d'alta parte del cielo ragguarda.
       Tra cotanta virtù, tra cotanta scienzia, quanta dimostrato è di sopra essere stata in questo mirifico poeta, trovò ampissimo luogo la lussuria, e non solamente ne’ giovani anni, ma ancora ne’ maturi. Il quale vizio, come che naturale e comune e quasi necessario sia, nel vero non che commendare, ma scusare non si può degnamente. Ma chi sarà tra’ mortali giusto giudice a condennarlo? Non io. Oh poca fermezza, oh bestiale appetito degli uomini, che cosa non possono le femmine in noi, s'elle vogliono, che, eziandio non volendo, posson gran cose? Esse hanno la vaghezza, la bellezza e il naturale appetito e altre cose assai continuamente per loro ne’ cuori degli uomini procuranti; e che questo sia vero, lasciamo stare quello che Giove per Europa, o Ercule per Iole, o Paris per Elena facessero, ché, perciò che poetiche cose sono, molti di poco sentimento le dirien favole; ma mostrisi per le cose non convenevoli ad alcuno di negare. Era ancora nel mondo più che una femina quando il nostro primo padre lasciato il comandamento fattogli dalla propia bocca di Dio, s'accostò alle persuasioni di lei? Certo no. E David, non ostante che molte n'avesse, solamente veduta Bersabè per lei dimenticò Iddio, il suo regno, sé e la sua onestà, e adultero prima e poi omicida divenne: che si dee credere che egli avesse fatto, se ella alcuna cosa avesse comandato? E Salomone al cui senno niuno, dal figliuolo di Dio in fuori, aggiunse mai, non abbandonò colui che savio l'aveva fatto, e per piacere a una femmina s'inginocchiò e adorò Baalim? Che fece Erode? che altri molti, da niuna altra cosa tirati che dal piacer loro? Adunque tra tanti e tali non iscusato, ma, accusato con assai meno curva fronte che solo, può passare il nostro poeta. E questo basti al presente de’ suoi costumi più notabili avere contato.


XXVI
Delle opere composte da Dante

Compose questo glorioso poeta più opere ne’ suoi giorni, delle quali fare ordinata memoria credo che sia convenevole, acciò che né alcuno delle sue s'intitolasse, né a lui fossero per avventura intitolate l'altrui. Egli primieramente, duranti ancora le lagrime della morte della sua Beatrice, quasi nel suo ventesimosesto anno compose in un volumetto, il quale egli intitolò Vita nova, certe operette, sì come sonetti e canzoni, in diversi tempi davanti in rima fatte da lui, maravigliosamente belle; di sopra da ciascuna partitamente e ordinatamente scrivendo le cagioni che a quelle fare l'avea[n] mosso, e di dietro ponendo le divisioni delle precedenti opere. E come che egli d'avere questo libretto fatto, negli anni più maturi si vergognasse molto, nondimeno, considerata la sua età, è egli assai bello e piacevole, e massimamente a’ volgari.
       Appresso questa compilazione più anni, ragguardando egli della sommità del governo della republica, sopra la quale stava, e veggendo in grandissima parte, sì come di così fatti luoghi si vede, qual fosse la vita degli uomini, e quali fossero gli errori del vulgo, e come fossero pochi i disvianti da quello, e di quanto onore degni fossero, e quegli, che a quello s'accostassero, di quanta confusione, dannando gli studii di questi cotali e molto più li suoi commendando, gli venne nell'animo uno alto pensiero, per lo quale ad una ora, cioè in una medesima opera, propose, mostrando la sua sofficienzia, di mordere con gravissime pene i viziosi, e con altissimi premii li valorosi onorare, e a sé perpetua gloria apparecchiare. E, perciò che, come già è mostrato, egli aveva a ogni studio preposta la poesia, poetica opera estimò di comporre. E, avendo molto davanti premeditato quello che fare dovesse, nel suo trentacinquesimo anno si cominciò a dare al mandare ad effetto ciò che davanti premeditato avea, cioè a volere secondo i meriti e mordere e premiare, secondo la sua diversità, la vita degli uomini. La quale, perciò che conobbe essere di tre maniere, cioè viziosa, o da’ vizii partentesi e andante alla vertù, o virtuosa, quella in tre libri, dal mordere la viziosa cominciando e finendo nel premiare la virtuosa, mirabilmente distinse in un volume, il quale tutto intitolò Comedia. De’ quali tre libri egli ciascuno distinse per canti e i canti per rittimi, sì come chiaro si vede; e quello in rima volgare compose con tanta arte, con sì mirablle ordine e con sì bello, che niuno fu ancora che giustamente quello potesse in alcuno atto riprendere. Quanto sottilmente egli in esso poetasse pertutto, coloro, alli quali è tanto ingegno prestato che 'ntendano, il possono vedere. Ma, sì come noi veggiamo le gran cose non potersi in brieve tempo comprendere, e per questo conoscer dobbiamo così alta, così grande, così escogitata impresa,come fu tutti gli atti degli uomini e i loro meriti poeticamente volere sotto versi volgari e rimati racchiudere, non essere stato possibile in picciolo spazio avere al suo fine recata, e massimamente da uomo, il quale da molti e varii casi della Fortuna, pieni tutti d'angoscia e d'amaritudine venenati, sia stato agitato (come di sopra mostrato è che fu Dante): per che dall'ora che di sopra è detta che egli a cosi alto lavorio si diede infino allo stremo della sua vita, come che altre opere, come apparirà, non ostante questa, componesse in questo mezzo, gli fu fatica continua. Né fia di soperchio in parte toccare d'alcuni accidenti intorno al principio e alla fine di quella avvenuti.
       Dico che, mentre che egli era più attento al glorioso lavoro, e già della prima parte di quello, la quale intitola Inferno, aveva composti sette canti, mirabilmente fingendo, e non miga come gentile, ma come cristianissimo poetando, cosa sotto questo titolo mai avanti non fatta, sopravvenne il gravoso accidente della sua cacciata, o fuga che chiamar si convegna, per lo quale egli e quella e ogni altra cosa abbandonata, incerto di se medesimo, più anni con diversi amici e signori andò vagando. Ma, come noi dovemo certissimamente credere a quello che Iddio dispone niuna cosa contraria la Fortuna potere operare, per la quale, se forse vi può porre indugio, istôrla possa dal debito fine, avvenne che alcuno per alcuna sua scrittura forse a lui opportuna, cercando fra cose di Dante in certi forzieri state fuggite subitamente in luoghi sacri, nel tempo che tumultuosamente la ingrata e disordinata plebe gli era, più vaga di preda che di giusta vendetta, corsa alla casa, trovò li detti sette canti stati da Dante composti, gli quali con ammirazione, non sappiendo che si fossero, lesse, e piacendogli sommamente, e con ingegno sottrattigli del luogo dove erano, gli portò ad un nostro cittadino, il cui nome fu Dino di messer Lambertuccio, in quegli tempi famosissimo dicitore per rima in Firenze, e mostrogliele. Li quali veggendo Dino, uomo d'alto intelletto, non meno che colui che portati gliele avea, si maravigliò sì per lo bello e pulito e ornato stile del dire, sì per la profondità del senso, il quale sotto la bella corteccia delle parole gli pareva sentire nascoso: per le quali cose agevolmente insieme col portatore di quegli, e sì ancora per lo luogo onde tratti gli avea, estimò quegli essere, come erano, opera stata di Dante. E, dolendosi quella essere imperfetta rimasa, come che essi non potessero seco presummere a qual fine fosse il termine suo, fra loro diliberarono di sentire dove Dante fosse, e quello, che trovato avevan mandargli, acciò che, se possibile fosse, a tanto principio desse lo 'mmaginato fine. E, sentendo dopo alcuna investigazione lui essere appresso il marchese Morruello, non a lui, ma al marchese scrissono il loro disiderio, e mandarono li sette canti; gli quali poi che il marchese, uomo assai intendente, ebbe veduti e molto seco lodatigli, gli mostrò a Dante, domandandolo se esso sapea cui opera stati fossero; li quali Dante riconosciuti subito, rispose che sua. Allora il pregò il marchese che gli piacesse di non lasciare senza debito fine sì alto principio. «Certo» disse Dante «io mi credea nella ruina delle mie cose questi con molti altri miei libri avere perduti, e perciò, sì per questa credenza e sì per la moltitudine dell'altre fatiche per lo mio esilio sopravvenute, del tutto avea l'alta fantasia, sopra quest'opera presa, abbandonata; ma, poi che la Fortuna inopinatamente me gli ha ripinti dinanzi, e a voi aggrada, io cercherò di ritornarmi a memoria il primo proposito, e procederò secondo che data mi fia la grazia». E reassunta non sanza fatica, dopo alquanto tempo la fantasia lasciata, seguì: «Io dico, seguitando, ch'assai prima» etc.; dove assai manifestamente, chi ben riguarda, può la ricongiunzione dell'opera intermessa conoscere.
       Ricominciata adunque da Dante la magnifica opera, non, forse secondo che molti estimerebbono, senza più interromperla la perdusse alla fine; anzi più volte, secondo che la gravità de’ casi sopravvegnenti richiedea, quando mesi e quando anni, senza potervi operare alcuna cosa, mise in mezzo; né tanto si poté avacciare, che prima nol sopraggiugnesse la morte, che egli tutta publicare la potesse. Egli era suo costume, quale ora sei o otto o più o meno canti fatti n'avea, quegli, prima che alcuna altro gli vedesse, donde che egli fosse, mandare a messer Cane della Scala, il quale egli oltre a ogni altro uomo avea in reverenza; e, poi che da lui eran veduti, ne facea copia a chi la ne volea. E in così fatta maniera avendogliele tutti fuori che gli ultimi tredici canti, mandati, e quegii avendo fatti, né ancora mandatigli; avvenne che egli, senza avere alcuna memoria di lasciargli, si morì. E, cercato da que’ che rimasero, e figliuoli e discepoli, più volte e in più mesi, fra ogni sua scrittura, se alla sua opera avesse fatta alcuna fine, né trovandosi per alcun modo li canti residui, essendone generalmente ogni suo amico cruccioso, che Iddio non l'aveva almeno tanto prestato al mondo ch'egli il picciolo rimanente della sua opera avesse potuto compiere, dal più cercare, non trovandogli, s'erano, disperati, rimasi.
       Eransi Iacopo e Piero, figliuoli di Dante, de’ quali ciascuno era dicitore in rima, per persuasioni d'alcuni loro amici, messi a volere, in quanto per loro si potesse, supplire la paterna opera, acciò che imperfetta non procedesse; quando a Iacopo, il quale in ciò era molto più che l'altro fervente, apparve una mirabile visione, la quale non solamente dalla stolta presunzione il tolse, ma gli mostrò dove fossero li tredici canti, li quali alla divina Comedia mancavano, e da loro non saputi trovare.
       Raccontava uno valente uomo ravignano, il cui nome fu Piero Giardino, lungamente discepolo stato di Dante, che, dopo l'ottavo mese della morte del suo maestro, era una notte, vicino all'ora che noi chiamiamo «matutino», venuto a casa sua il predetto Iacopo, e dettogli sé quella notte, poco avanti a quell'ora, avere nel sonno veduto Dante suo padre, vestito di candidissimi vestimenti e d'una luce non usata risplendente nel viso, venire a lui; il quale gli parea domandare s'egli vivea, e udire da lui per risposta di sì, ma della vera vita, non della nostra; per che, oltre a questo, gli pareva ancora domandare, se egli avea compiuta la sua opera anzi il suo passare alla vera vita, e, se compiuta l'avea, dove fosse quello che vi mancava, da loro giammai non potuto trovare. A questo gli parea la seconda volta udire per risposta: «Sì, io la compie'»; e quinci gli parea che 'l prendesse per mano e menasselo in quella camera dove era uso di dormire quando in questa vita vivea; e, toccando una parte di quella, dicea: «Egli è qui quello che voi tanto avete cercato». E questa parola detta, ad una ora il sonno e Dante gli parve che si partissono. Per la qual cosa affermava sé non avesse potuto stare senza venirgli a significare ciò che veduto avea, acciò che insieme andassero a cercare nel luogo mostrato a lui, il quale egli ottimamente nella memoria aveva segnato, a vedere se vero spirito o falsa delusione questo gli avesse disegnato. Per la quale cosa, restando ancora gran pezzo di notte, mossisi insieme, vennero al mostrato luogo, e quivi trovarono una stuoia, al muro confitta, la quale leggiermente levatane, videro nel muro una finestretta, da niuno di loro mai più veduta, né saputo ch'ella vi fosse, e in quella trovarono alquante scritte, tutte per l'umidità del muro muffate e vicine al corrompersi se guari più state vi fossero; e quelle pianamente dalla muffa purgate, leggendole, videro contenere li tredici canti tanto da loro cercati. Per la qual cosa lietissimi, quegli riscritti, secondo l'usanza dell'autore prima gli mandarono a messer Cane, e poi alla imperfetta opera ricongiunsono come si convenia. In cotale maniera l'opera, in molti anni compilata, si vide finita.
       Muovono molti, e intra essi alcuni savi uomini, generalmente una quistione così fatta: che con ciò fosse cosa Dante fosse in iscienzia solennissimo uomo, perché a comporre così grande, di sì alta materia e sì notabile libro, come è questa sua Comedia, nel fiorentino idioma si disponesse; perché non più tosto in versi latini, come gli altri poeti precedenti hanno fatto. A così fatta domanda rispondere, tra molte ragioni, due a l'altre principali me ne occorrono. Delle quali la prima è per fare utilità più comune a’ suoi cittadini e agli altri Italiani: conoscendo che, se metricamente in latino, come gli altri poeti passati, avesse scritto, solamente a’ letterati avrebbe fatto utile; scrivendo in volgare fece opera mai più non fatta, e non tolse il non potere esser inteso da’ letterati, e mostrando la bellezza del nostro idioma e la sua eccellente arte in quello, e diletto e intendimento di sé diede agl'idioti, abbandonati per addietro da ciascheduno. La seconda ragione, che a questo il mosse, fu questa. Vedendo egli li liberali studii del tutto abbandonati, e massimamente da’ prencipi e dagli altri grandi uomini, a’ quali si soleano le poetiche fatiche intitolare, e per questo e le divine opere di Virgilio e degli altri solenni poeti non solamente essere in poco pregio divenute, ma quasi da’ più disprezzate; avendo egli incominciato, secondo che l'altezza della materia richiedea, in questa guisa:

Ultima regna canam, fluido contermina mundu
spiritibus quae lata patent, quae premia solvunt
pro meritis cuicumque suis, etc.

i lasciò istare; e, immaginando invano le croste del pane porsi alla bocca di coloro che ancora il latte suggano, in istile atto a’ moderni sensi ricominciò la sua opera e perseguilla in volgare.
       Questo libro della Comedia, secondo il ragionare d'alcuno, intitolò egli a tre solennissimi uomini italiani, secondo la sua triplice divisione, a ciascuno la sua, in questa guisa: la prima parte, cioè lo 'Nferno, intitolò a Uguiccione della Faggiuola, il quale allora in Toscana signore di Pisa era mirabilmente glorioso; la seconda parte, cioè il Purgatoro, intitolò al marchese Moruello Malespina; la terza parte, cioè il Paradiso, a Federigo III re di Cicilia. Alcuni vogliono dire lui averlo intitolato tutto a messer Cane della Scala; ma, quale si sia di queste due la verità, niuna cosa altra n'abbiamo che solamente il volontario ragionare di diversi; né egli è sì gran fatto che solenne investigazione ne bisogni.
       Similemente questo egregio autore nella venuta d'Arrigo VII imperadore fece un libro in latina prosa, il cui titolo è Monarchia, il quale, secondo tre quistioni le quali in esso ditermina, in tre libri divise. Nel primo loicalmente disputando, pruova che a ben essere del mondo sia di necessità essere imperio: la quale è la prima quistione. Nel secondo, per argomenti istoriografi procedendo, mostra Roma di ragione ottenere il titolo dello imperio: ch'è la seconda quistione. Nel terzo, per argomenti teologi pruova l'autorità dello 'mperio immediatamente procedere da Dio, e non mediante alcuno suo vicario, come li chierici pare che vogliano; ch'è la terza quistione.
       Questo libro più anni dopo la morte dell'auttore fu dannato da messer Beltrando cardinale del Poggetto e legato di papa nelle parti di Lombardia, sedente Giovanni papa XXII. E la cagione fu perciò che Lodovico, duca di Baviera, dagli elettori della Magna eletto in re de’ Romani, e venendo per la sua coronazione a Roma, contra il piacere del detto Giovanni papa essendo in Roma, fece, contra gli ordinamenti ecclesiastici, uno frate minore, chiamato frate Pietro della Corvara, papa, e molti cardinali e vescovi; e quivi a questo papa si fece coronare. E, nata poi in molti casi della sua auttorità quistione, egli e’ suoi seguaci, trovato questo libro, a difensione di quella e di sé molti degli argomenti in esso posti cominciarono a usare; per la qual cosa il libro, il quale infino allora appena era saputo, divenne molto famoso. Ma poi, tornatosi il detto Lodovico nella Magna, e li suoi seguaci, e massimamente i cherici, venuti al dichino e dispersi, il detto cardinale, non essendo chi a ciò s'opponesse, avuto il soprascritto libro, quello in publico, sì come cose eretiche contenente, dannò al fuoco. E il simigliante si sforzava di fare dell'ossa dell'auttore a etterna infamia e confusione della sua memoria, se a ciò non si fosse opposto un valoroso e nobile cavaliere fiorentino, il cui nome fu Pino della Tosa, il quale allora a Bologna, dove ciò si trattava, si trovò, e con lui messer Ostagio da Polenta, potente ciascuno assai nel cospetto del cardinale di sopra detto.
       Oltre a questi compose il detto Dante due egloge assai belle, le quali furono intitolate e mandate da lui, per risposta di certi versi mandatigli, a maestro Giovanni del Virgilio, del quale di sopra altra volta è fatta menzione.
       Compuose ancora uno comento in prosa in fiorentino volgare sopra tre delle sue canzoni distese, come che egli appaia lui avere avuto intendimento, quando il cominciò, di commentarle tutte, bene che poi, o per mutamento di proposito o per mancarnento di tempo che avvenisse, più commentate non se ne truovano da lui; e questo intitolò Convivio, assai bella e laudevole operetta.
       Appresso, già vicino alla sua morte, compuose uno libretto in prosa latina, il quale egli intitolò De vulgari eloquentia, dove intendea di dare dottrina, a chi imprendere la volesse, del dire in rima; e come che per lo detto libretto apparisca lui avere in animo di dovere in ciò comporre quattro libri, o che più non ne facesse dalla morte soprapreso, o che perduti sieno gli altri, più non appariscono che due solamente.
       Fece ancora questo valoroso poeta molte pístole prosaice in latino, delle quali ancora appariscono assai. Compuose molte canzoni distese, sonetti e ballate assai e d'amore e morali, oltre a quelle che nella sua Vita nova appariscono: delle quali cose non curo di fare speziale menzione al presente.
       In così fatte cose, quali di sopra sono dimostrate, consumò il chiarissimo uomo quella parte del suo tempo, la quale egli agli amorosi sospiri, alle pietose lacrime, alle sollecitudini private e pubblice e a’ varii fluttuamenti della iniqua Fortuna poté imbolare: opere troppo più a Dio e agli uomini accettevoli che gl'inganni, le fraudi, le menzogne, le rapine e’ tradimenti, li quali la maggior parte degli uomini usano oggi, cercando per diverse vie uno medesimo termine, cioè il divenire ricco, quasi in quelle ogni bene, ogni onore, ogni beatitudine stea. O menti sciocche, una brieve particella d'una ora separarà dal caduco corpo lo spirito, e tutte queste vituperevoli fatiche annullerà, e il tempo, nel quale ogni cosa suol consumarsi, o annullerà prestamente la memoria del ricco, o quella per alcuno spazio con gran vergogna di lui serverà! Che del nostro poeta certo non avverrà; anzi, sì come noi veggiamo degli strumenti bellici addivenire, che per l'usargli diventan più chiari, così avverrà del suo nome: egli, per essere stropicciato dal tempo, sempre diventerà più lucente. E perciò fatichi chi vuole nelle sue vanità, e bastigli l'esser lasciato fare, senza volere, con riprensione da se medesimo non intesa, l'altrui virtuoso operare andar mordendo.


XXVII
Ricapitolazione

       Mostrato è sommariamente qual fosse l'origine, gli studi e la vita e’ costumi, e quali sieno l'opere state dello splendido uomo Dante Alighieri, poeta chiarissimo, e con esse alcuna altra cosa, facendo transgressione, secondo che conceduto m'ha Colui che d'ogni grazia è donatore. Ben so: per molti altri molto meglio e più discretamente si saria potuto mostrare; ma chi fa quel che sa, più non gli è richiesto. Il mio avere scritto come io ho saputo, non toglie il poter dire ad uno altro, che meglio ciò creda di scrivere che io non ho fatto; anzi forse, se io in parte alcuna ho errato, darò materia altrui di scrivere, per dire il vero, del nostro Dante, ove infino a qui niuno truovo averlo fatto. Ma la mia fatica non è ancora alla sua fine. Una particella, nel processo promessa di questa operetta, mi resta a dichiarare, cioè il sogno della madre del nostro poeta, quando in lui era gravida, veduto da lei; del quale io, quanto più brievemente saprò e potrò, intendo di dilivrarmi, e porre fine al ragionare.


XXVIII
Ancora il sogno della madre di Dante

       Vide la gentil donna nella sua gravidezza sé a piè d'uno altissimo alloro, allato a una chiara fontana, partorire uno figliuolo, il quale di sopra altra volta narrai, in brieve tempo, pascendosi delle bache di quello alloro cadenti e dell'onde della fontana, divenire un gran pastore e vago molto delle frondi di quello alloro sotto il quale era; a le quali avere mentre che egli si sforzava, le parea che egli cadesse; e subitamente non lui, ma di lui uno bellissimo paone le parea vedere. Dalla quale maraviglia la gentil donna commossa, ruppe, senza vedere di lui più avanti, il dolce sonno.


XXIX
Spiegazione del sogno

       La divina bontà, la quale ab ecterno, sì come presente, ogni cosa futura previde, suole, da sua propia benignità mossa, quale ora la natura, sua generale ministra, è per producere alcuno inusitato effetto infra’ mortali, di quello con alcuna dimostrazione o in segno o in sogno o in altra maniera farci avveduti, acciò che dalla predimostrazione argomento prendiamo ogni conoscenza consistere nel Signore della natura producente ogni cosa; la quale predimostrazione, se bene si riguarda, ne fece nella venuta del poeta, del quale tanto di sopra è parlato, nel mondo. E a quale persona la poteva egli fare che con tanta affezione e veduta e servata l'avesse, quanto colei che della cosa mostrata doveva essere madre, anzi già era? Certo a niuna. Mostrollo dunque a lei, e quello che egli a lei mostrasse ci è già manifesto per la scrittura di sopra; ma quello che egli intendesse con più aguto occhio è da vedere. Parve adunque alla donna partorire un figliuolo, e certo così fece ella infra picciolo termine dalla veduta visione. Ma che vuole significare l'alto alloro sotto il quale il partorisce, è da vedere.
       Oppinione è degli astrologi e di molti naturali filosofi, per la vertù e influenzia de’ corpi superiori gl'inferiori e producersi e nutricarsi, e, se potentissima ragione da divina grazia illuminata non resiste, guidarsi. Per la qual cosa, veduto quale corpo superiore sia più possente nel grado che sopra l'orizzonte sale in quella ora che alcun nasce, secondo quello cotale corpo più possente, anzi secondo le sue qualità, dicono del tutto il nato disporsi . Per che per lo alloro, sotto il quale alla donna pareva il nostro Dante dare al mondo, mi pare che sia da intendere la disposizione del cielo la quale fu nella sua natività, mostrante sé essere tale che magnanimità e eloquenzia poetica dimostrava; le quali due cose significa l'alloro, àlbore di Febo, e delle cui frondi li poeti sono usi di coronarsi, come di sopra è già mostrato assai.
       Le bache, delle quali nutrimento prendeva il fanciullo nato, gli effetti da così fatta disposizione di cielo, quale è dimostrata, già proceduti, intendo; li quali sono i libri poetici e le loro dottrine, da’ quali libri e dottrine fu altissimamente nutricato, cioè ammaestrato il nostro Dante.
       Il fonte chiarissimo, de la cui acqua le parea che questi bevesse, niuna altra cosa giudico che sia da intendere se non l'ubertà della filosofica dottrina morale e naturale; la quale si come dalla ubertà nascosa nel ventre della terra procede, così e queste dottrine dalle copiose ragioni dimostrative, che terrena ubertà si possono dire, prendono essenza e cagione; senza le quali, così come il cibo non può bene disporsi, senza bere, negli stomaci di chi 'l prende, non si può alcuna scienzia bene negl'intelletti adattare di nessuno, se dalli filosofici dimostramenti non v'è ordinata e disposta. Per che ottimamente possiamo dire, lui con le chiare onde, cioè con la filosofia, disporre nel suo stomaco, cioè nel suo intelletto, le bache delle quali si pasce, cioè la poesia, la quale, come già è detto, con tutta la sua sollecitudine studiava.
       Il divenire subitamente pastore ne mostra la eccellenzia del suo ingegno, in quanto subitamente; il quale fu tanto e tale, che in brieve spazio di tempo comprese per istudio quello che opportuno era a divenire pastore, cioè datore di pastura agli altri ingegni di ciò bisognosi. E sì come assai leggermente ciascuno può comprendere, due maniere sono di pastori: l'una sono pastori corporali, l'altra spirituali. Li corporali pastori sono di due maniere, delle quali la prima è quella di coloro che volgarmente da tutti sono appellati «pastori», cioè i guardatori delle pecore o de’ buoi o di qualunque altro animale; la seconda maniera sono i padri delle famiglie, dalla sollecitudine de’ quali convegnono essere e pasciuti e guardati e governati la gregge de’ figliuoli e de’ servidori e degli altri suggetti di quegli. Li spirituali pastori similmente si possono dire di due maniere, delle quali l'una è quella di coloro li quali pascono l'anime de’ viventi della parola di Dlo; e questi sono li prelati, i predicatori e’ sacerdoti, nella cui custodia sono commesse l'anime labili di qualunque sotto il governo a ciascuno ordinato dimora; l'altra è quella di coloro li quali, d'ottima dottrina, o leggendo quello che gli passati hanno scritto, o scrivendo di nuovo ciò che loro pare o non tanto chiaro mostrato o omesso, informano e l'anime e gl'intelletti degli ascoltanti o de’ leggenti, li quali generalmente dottori, in qual che facultà si sia, sono appellati. Di questa maniera di pastori subitamente, cioè in poco tempo, divenne il nostro poeta. E che ciò sia vero, lasciando stare l'altre opere compilate da lui, riguardisi la sua Commedia, la quale con la dolcezza e bellezza del testo pasce non solamente gli uomini, ma i fanciulli e le femine; e con mirabile soavità de’ profondissimi sensi sotto quella nascosi, poi che alquanto gli ha tenuti sospesi, ricrea e pasce gli solenni intelletti.
       Lo sforzarsi ad avere di quelle frondi, il frutto delle quali l'ha nutricato, niuna altra cosa ne mostra che l'ardente disiderio avuto da lui, come di sopra si dice, della corona laurea; la quale per nulla altro si disidera, se non per dare testimonianza del frutto. Le quali frondi mentre che egli più ardentemente disiderava, lui dice che vide cadere; il quale cadere niuna altra cosa fu se non quello cadimento che tutti facciamo senza levarci, cioè il morire; il quale, se bene si ricorda di ciò che di sopra è detto, gli avvenne quando più la sua laureazione disiava.
       Seguentemente dice che di pastore subitamente il vide divenuto un paone: per lo qual mutamento assai bene la sua posterità comprendere possiamo, la quale, come che nell'altre sue opere stea, sommamente vive nella sua Commedia, la quale, secondo il mio giudicio, ottimamente è conforme al paone, se le propietà de l'uno e de l'altra si guarderanno. Il paone tra l'altre sue propietà per quello che appaia, n'ha quattro notabili. La prima si è ch'egli si ha penna angelica, e in quella ha cento occhi; la seconda si è che egli ha sozzi piedi e tacita andatura; la terza si è ch'egli ha voce molto orribile a udire; la quarta e ultima si è che la sua carne è odorifera e incorruttibile. Queste quattro cose pienamente ha in sé la Comedia del nostro poeta; ma, perciò che acconciamente l'ordine posto di quelle non si può seguire, come verranno più in concio or l'una ora l'altra le verrò adattando, e comincerommi da l'ultima.
       Dico che il senso della nostra Comedia è simigliante alla carne del paone, perciò che esso, o morale o teologo che tu il dèi a quale parte più del libro ti piace, è semplice e immutabile verità, la quale non solamente corruzione non può ricevere, ma quanto più si ricerca, maggiore odore della sua incorruttibile soavità porge a’ riguardanti. E di ciò leggiermente molti esempli si mostrerebbero, se la presente materia il sostenesse; e però, senza porne alcuno, lascio il cercarne agl'intendenti.
       Angelica penna dissi che copria questa carne; e dico «angelica», non perché io sappia se così fatte o altramenti gli angeli n'abbiano alcuna, ma, congetturando a guisa de’ mortali, udendo che gli angeli volino, avviso loro dovere avere penne; e, non sappiendone alcuna fra questi nostri uccelli più bella, né più peregrina, né così come quella del paone, imagino loro così doverle avere fatte; e però non quelle da queste, ma queste da quelle dinomino perché più nobile uccello è l'angelo che 'l paone. Per le quali penne, onde questo corpo si cuopre, intendo la bellezza della peregrina istoria, che nella superficie della lettera della Comedia suona: sì come l'essere disceso in inferno e veduto l'abito del luogo e le varie condizioni degli abitanti; essere ito su per la montagna del purgatorio, udite le lagrime e i lamenti di coloro che sperano d'essere santi; e quindi salito in paradiso e la ineffabile gloria de’ beati veduta. Istoria tanto bella e tanto peregrina, quanto mai da alcuno più non fu pensata non che udita, distinta in cento canti, sì come alcuni vogliono il paone avere nella coda cento occhi. Li quali canti così provvedutamente distinguono le varietà del trattato opportune, come gli occhi distinguono i colori o la diversità delle cose obiette. Dunque bene è d'angelica penna coperta la carne del nostro paone.
       Sono similmente a questo paone li piè sozzi e l'andatura queta: le quali cose ottimumente alla Comedia del nostro auttore si confanno, perciò che, sì come sopra i piedi pare che tutto il corpo si sostenga, così prima facie pare che sopra il modo del parlare ogni opera in iscrittura composta si sostenga; e il parlare volgare, nel quale e sopra il quale ogni giuntura della Comedia si sostiene, a rispetto dell'alto e maestrevole stilo letterale che usa ciascun altro poeta, è sozzo, come che egli sia più che gli altri belli agli odierni ingegni conforme. L'andar queto significa l'umiltà dello stilo, il quale nelle commedie di necessità si richiede, come color sanno che intendono che vuole dire «comedia».
       Ultimamente dico che la voce del paone è orribile: la quale, come che la soavità delle parole del nostro poeta sia molta quanto alla prima apparenza, sanza niuno fallo a chi bene le medolle dentro ragguarderà, ottimamente a lui si confà. Chi più orribilmente grida di lui, quando con invenzione acerbissima morde le colpe di molti viventi, e quelle de’ preteriti gastiga? Qual voce è più orrida che quella del gastigante a colui ch'è disposto a peccare? Certo niuna. Egli ad una ora colle sue dimostrazioni spaventa i buoni e contrista i malvagi; per la qual cosa quanto in questo adopera, tanto veramente orrida voce si può dire avere. Per la qual cosa, e per l'altre di sopra toccate, assai appare, colui, che fu vivendo pastore, dopo la morte essere divenuto paone, sì come credere si puote essere stato per divina spirazione nel sonno mostrato alla cara madre.
       Questa esposizione del sogno della madre del nostro poeta conosco essere assai superficialmente per me fatta; e questo per più cagioni. Primieramente, perché forse la sufficienzia, che a tanta cosa si richiederebbe, non c'era; appresso, posto che stata ci fosse, la principale intenzione nol patia; ultimamente, quando e la sufficienzia ci fosse stata e la materia l'avesse patito, era ben fatto da me non essere più detto che detto sia, acciò che ad altrui più di me sofficiente e più vago alcuno luogo si lasciasse di dire. E perciò quello, che per me detto n'è, quanto a me dee convenevolmente bastare; e quel, che manca, rimanga nella sollecitudine di chi segue.


XXX
Conclusione

       La mia piccioletta barca è pervenuta al porto, al quale ella dirizzò la proda partendosi dallo opposito lito: e come che il peleggio sia stato picciolo, e il mare, il quale ella ha solcato, basso e tranquillo, nondimeno, di ciò che senza impedimento è venuta, ne sono da rendere grazie a Colui che felice vento ha prestato alle sue vele. Al quale con quella umiltà, con quella divozione, con quella affezione che io posso maggiore, non quelle, né così grandi come si converrieno, ma quelle che io posso, rendo, benedicendo in etterno il suo nome e 'l suo valore.

DE ORIGINE, VITA, STUDIIS ET MORIBUS
CLARISSIMI VIRI DANTIS ALIGERII FIORENTINI,
POETE ILLUSTRIS,
ET DE OPERIBUS COMPOSITIS AB EODEM,
EXPLICIT

 



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Ultimo aggiornamento:06 febbraio 1998