Giovanni Boccaccio
Trattatello in laude di Dante
XIX
Breve ricapitolazione
Cotale, quale di sopra è dimostrata, fu a Dante la fine della vita faticata da vari studii; e, perciò che assai convenevolmente le sue fiamme, la familiare e la publica sollecitudine e il miserabile esilio e la fine di lui mi pare avere secondo la mia promessa mostrate, giudico sia da pervenire a mostrare della statura del corpo, dell'abito, e generalmente de più notabili modi servati nella sua vita da lui; da quegli poi immediatamente vegnendo all'opere degne di nota, compilate da esso nel tempo suo, infestato da tanta turbine quanta di sopra brievemente è dichiarata.
XX
Fattezze e costumi di Dante
Fu adunque questo nostro poeta di mediocre
statura, e, poi che alla matura età fu pervenuto, andò alquanto curvetto, e era il suo
andare grave e mansueto, d'onestissimi panni sempre vestito in quell'abito che era alla
sua maturità convenevole. Il suo volto fu lungo, e il naso aquilino, e gli occhi anzi
grossi che piccioli, le mascelle grandi, e dal labbro di sotto era quel di sopra avanzato;
e il colore era bruno, e i capelli e la barba spessi, neri e crespi, e sempre nella faccia
malinconico e pensoso. Per la qual cosa avvenne un giorno in Verona ,essendo già
divulgata pertutto la fama delle sue opere, e massimamente quella parte della sua Comedia,
la quale egli intitola Inferno, e esso conosciuto da molti e uomini e donne, che, passando
egli davanti a una porta dove più donne sedevano, una di quelle pianamente, non però
tanto che bene da lui e da chi con lui era non fosse udita, disse all'altre: «Donne,
vedete colui che va nell'inferno, e torna quando gli piace, e qua su reca novelle di
coloro che là giù sono?» Alla quale una dell'altre rispose semplicemente: «In verità
tu dèi dir vero: non vedi tu com'egli ha la barba crespa e il color bruno per lo caldo e
per lo fummo che è là giù?». Le quali parole udendo egli dir dietro a sé, e
conoscendo che da pura credenza delle donne venivano, piacendogli, e quasi contento
ch'esse in cotale oppinione fossero, sorridendo alquanto, passò avanti.
Ne costumi domestici e publici
mirabilemente fu ordinato e composto, e in tutti più che alcuno altro cortese e civile.
Nel cibo e nel poto fu modestissimo, sì in
prenderlo all'ore ordinate e sì in non trapassare il segno della necessità, quel
prendendo; né alcuna curiosità ebbe mai più in uno che in uno altro: li dilicati
lodava, e il più si pasceva di grossi, oltre modo biasimando coloro, li quali gran parte
del loro studio pongono e in avere le cose elette e quelle fare con somma diligenzia
apparare; affermando questi cotali non mangiare per vivere, ma più tosto vivere per
mangiare.
Niuno altro fu più vigilante di lui e negli
studii e in qualunque altra sollecitudine il pugnesse; intanto che più volte e la sua
famiglia e la donna se ne dolfono, prima che, a suoi costumi adusate, ciò
mettessero in non calere .
Rade volte, se non domandato, parlava, e quelle
pesatamente e con voce conveniente alla materia di che diceva; non pertanto, là dove si
richiedeva, eloquentissimo fu e facundo, e con ottima e pronta prolazione.
Sommamente si dilettò in suoni e in canti nella
sua giovanezza, e a ciascuno che a que tempi era ottimo cantatore o sonatore fu
amico e ebbe sua usanza; e assai cose, da questo diletto tirato, compose, le quali di
piacevole e maestrevole nota a questi cotali facea rivestire.
Quanto ferventemente esso fosse ad amor
sottoposto, assai chiaro è già mostrato. Questo amore è ferma credenza di tutti che
fosse movitore del suo ingegno a dovere, prima imitando, divenir dicitore in volgare; poi,
per vaghezza di più solennemente mostrare le sue passionie, di gloria, sollecitamente
esercitandosi in quella, non solamente passò ciascuno suo contemporaneo, ma intanto la
dilucidò e fece bella, che molti allora e poi di dietro a sé n'ha fatti e farà vaghi
d'essere esperti.
Dilettossi similemente d'essere solitario e
rimoto dalle genti, acciò che le sue contemplazioni non gli fossero interrotte; e se pure
alcuna che molto piaciuta gli fosse ne gli veniva, essendo esso tra gente, quantunque
d'alcuna cosa fosse stato addomandato, giammai infino a tanto che egli o fermata o dannata
la sua imaginazione avesse, non avrebbe risposto al dimandante: il che molte volte,
essendo egli alla mensa, e essendo in cammino con compagni, e in altre parti, domandato,
gli avvenne.
Ne suoi studi fu assiduissimo, quanto è
quel tempo che ad essi si disponea, intanto che niuna novità che s'udisse da quegli il
poteva rimuovere. E, secondo che alcuni degni di fede raccontano di questo darsi tutto a
cosa che gli piacesse, egli, essendo una volta tra l'altre in Siena, e avvenutosi per
accidente alla stazzone d'uno speziale, e quivi statogli recato uno libretto davanti
promessogli, e tra valenti uomini molto famoso, né da lui stato giammai veduto, non
avendo per avventura spazio di portarlo in altra parte, sopra la panca che davanti allo
speziale era, si pose col petto, e, messosi il libretto davanti, quello cupidissimamente
cominciò a vedere. E come che poco appresso in quella contrada stessa, e dinanzi da lui,
per alcuna general festa de Sanesi, s incominciasse da gentili giovani e
facesse una grande armeggiata, e con quella grandissimi romori da circustanti (sì
come in cotali casi con istrumenti varii e con voci applaudenti suol farsi), e altre cose
assai v'avvenissero da dover tirare altrui a vedersi, sì come balli di vaghe donne e
giuochi molti di giovani; mai non fu alcuno che muovere quindi il vedesse, né alcuna
volta levare gli occhi dal libro: anzi, postovisi quasi ad ora di nona, prima fu passato
vespro, e tutto l'ebbe veduto e quasi sommariamente compreso, che egli da ciò si levasse;
affermando poi ad alcuni, che il domandavano come s'era potuto tenere di riguardare a
così bella festa come davanti a lui s'era fatta, sé niente averne sentito: per che alla
prima maraviglia non indebitamente la seconda s'aggiunse a dimandanti.
Fu ancora questo poeta di maravigliosa capacità
e di memoria fermissima e di perspicace intelletto, intanto che, essendo egli a Parigi, e
quivi sostenendo in una disputazione de quolibet che nelle scuole della teologia si facea,
quattordici quistioni da diversi valenti uomini e di diverse materie, con gli loro
argomenti pro e contra fatti dagli opponenti, senza mettere in mezzo raccolse, e
ordinatamente, come poste erano state, recitò; quelle poi, seguendo quello medesimo
ordine, sottilmente solvendo e rispondendo agli argomenti contrari. La qual cosa quasi
miracolo da tutti i circustanti fu reputata.
D'altissimo ingegno e di sottile invenzione fu
similmente, sì come le sue opere troppo più manifestano agl'intendenti che non
potrebbono fare le mie lettere.
Vaghissimo fu e d'onore e di pompa per avventura
più che alla sua inclita virtù non si sarebbe richiesto. Ma che? qual vita è tanto
umile, che dalla dolcezza della gloria non sia tocca? E per questa vaghezza credo che
oltre ad ogni altro studio amasse la poesia, veggendo, come che la filosofia ogni altra
trapassi di nobiltà, la eccellenzia di quella con pochi potersi comunicare, e esserne per
lo mondo molti famosi; e la poesia più essere apparente e dilettevole a ciascuno, e li
poeti rarissimi. E perciò, sperando per la poesì allo inusitato e pomposo onore della
coronazione dell'alloro poter pervenire, tutto a lei si diede e istudiando e componendo. E
certo il suo disiderio veniva intero, se tanto gli fosse stata la Fortuna graziosa, che
egli fosse giammai potuto tornare in Firenze, nella quale sola sopra le fonti di San
Giovanni s'era disposto di coronare; acciò che quivi, dove per lo battesimo aveva preso
il primo nome, quivi medesimo per la coronazione prendesse il secondo. Ma così andò che,
quantunque la sua sufficienza fosse molta, e per quella in ogni parte, ove piaciuto gli
fosse, avesse potuto l'onore della laurea pigliare (la quale non iscienzia accresce, ma è
dell'acquistata certissimo testimonio e ornamento); pur, quella tornata, che mai non
doveva essere, aspettando, altrove pigliar non la volle; e cosi, senza il molto disiderato
onore avere, si morì. Ma, percio che spessa quistione si fa tra le genti, e che cosa sia
la poesì e che il poeta, e donde sia questo nome venuto e perché di lauro sieno coronati
i poeti, e da pochi pare essere stato mostrato; mi piace qui di fare alcuna
transgressione, nella quale io questo alquanto dichiari, tornando, come più tosto potrò,
al proposito.
XXI
Disgressione su''origine della poesia
La prima gente ne primi secoli, come
che rozzissima e inculta fosse, ardentissima fu di conoscere il vero con istudio, sì come
noi veggiamo ancora naturalmente disiderare a ciascuno. La quale veggendo il cielo
muoversi con ordinata legge continuo, e le cose terrene avere certo ordine e diverse
operazioni in diversi tempi, pensarono di necessità dovere essere alcuna cosa, dalla
quale tutte queste cose procedessero, e che tutte l'altre ordinasse, sì come superiore
potenzia da niun'altra potenziata. E, questa investigazione seco diligentemente avuta,
s'immaginarono quella, la quale «divinità» ovvero «deità» nominarono, con ogni
cultivazione, con ogni onore e con più che umano servigio esser da venerare. E perciò
ordinarono, a reverenza del nome di questa suprema potenzia, ampissime ed egregie case, le
quali ancora estimarono fossero da separare così di nome, come di forma separate erano,
da quelle che generalmente per gli uomini si abitavano; e nominaronle «templi». E
similmente avvisarono doversi ministri, li quali fossero sacri e, da ogni altra mondana
sollecitudine rimoti, solamente a divini servigi vacassero, per maturità, per età
e per abito, più che gli altri uomini, reverendi; gli quali appellarono «sacerdoti». E
oltre a questo, in rappresentamento della immaginata essenzia divina, fecero in varie
forme magnifiche statue, e a servigi di quella vasellamenti d'oro e mense marmoree e
purpurei vestimenti e altri apparati assai pertinenti a sacrificii per loro
istabiliti. E, acciò che a questa cotale potenzia tacito onore o quasi mutolo non si
facesse, parve loro che con parole d'alto suono essa fosse da umiliare e alle loro
necessità rendere propizia. E così come essi estimavano questa eccedere ciascuna altra
cosa di nobilità, così vollono che, di lungi da ogni plebeio o publico stilo di parlare,
si trovassero parole degne di ragionare dinanzi alla divinità, nelle quali le si
porgessero sacrate lusinghe. E oltre a questo, acciò che queste parole paressero avere
più d'efficacia, vollero che fossero sotto legge di certi numeri composte, per li quali
alcuna dolcezza si sentisse, e cacciassesi il rincrescimento e la noia. E certo, questo
non in volgar forma o usitata, ma con artificiosa ed esquisita e nuova convenne che si
facesse. La qual forma li greci appellano poetes; laonde nacque, che quello che in cotale
forma fatto fosse s'appellasse poesis; e quegli, che ciò facessero o cotale modo di
parlare usassono, si chiamassero "poeti".
Questa adunque fu la prima origine del nome
della poesia, e per consequente de poeti, come che altri n'assegnino altre ragioni,
forse buone: ma questa mi piace più.
Questa buona e laudevole intenzione della rozza
età mosse molti a diverse invenzioni nel mondo multiplicante per apparere; e dove i primi
una sola deità onoravano, mostrarono i seguenti molte esserne, come che quella una
dicessono oltre ad ogni altra ottenere il principato; le quali molte vollero che fossero
il Sole, la Luna, Saturno, Iove e ciascuno degli altri de sette pianeti, dagli loro
effetti dando argomento alla loro deità; e da questi vennero a mostrare ogni cosa utile
agli uomini, quantunque terrena fosse, deità essere, sì come il fuoco, l'acqua, la terra
e simiglianti. Alle quali tutte e versi e onori e sacrificii s'ordinarono. E poi
susseguentemente cominciarono diversi in diversi luoghi, chi con uno ingegno, chi con un
altro, a farsi sopra la moltitudine indòtta della sua contrada maggiori; diffinendo le
rozze quistioni, non secondo scritta legge, ché non l'aveano ancora, ma secondo alcuna
naturale equità della quale più uno che un altro era dotato; dando alla loro vita e alli
loro costumi ordine, dalla natura medesima più illuminati; resistendo con le loro
corporali forze alle cose avverse possibili ad avvenire; e a chiamarsi <<re>>,
e mostrarsi alla plebe e con servi e con ornamenti non usati infino a que tèmpi
dagli uomini; a farsi ubbidire; e ultimamente a farsi adorare. Il che, solo che fosse chi
'l presumesse, sanza troppa difflcultà avvenia: perciò che a rozzi popoli
parevano, così vedendogli, non uomini ma iddii. Questi cotali, non fidandosi tanto delle
lor forze, cominciarono ad aumentare le religioni, e con la fede di quelle ad impaurire i
suggetti e a strignere con sacramenti alla loro obbedienza quegli li quali non vi si
sarebbono potuti con forza costrignere. E oltre a questo diedono opera a deificare li lor
padri, li loro avoli e li loro maggiori, acciò che più fossero e temuti e avuti in
reverenzia dal vulgo. Le quali cose non si poterono comodamente fare senza l'oficio
de poeti, li quali, sì per ampliare la loro fama, sì per compiacere a
prencipi, sì per dilettare i sudditi, e sì per persuadere il virtuosamente operare, a
ciascuno-quello che con aperto parlare saria suto della loro intenzione contrario- con
fizioni varie e maestrevoli, male da grossi oggi non che a quel tempo intese,
facevano credere quello che li prencipi volevan che si credesse; servando negli nuovi
iddii e negli uomini, gli quali degl'iddii nati fingevano, quello medesimo stile che nel
vero Iddio solamente e nel suo lusingarlo avevan gli primi usato. Da questo si venne allo
adequare i fatti de forti uomini a quegli degl'iddii; donde nacque il cantare con
eccelso verso le battaglie e gli altri notabili fatti degli uomini mescolatamente con
quegli degl'iddii; il quale e fu ed è oggi, insieme con l'altre cose di sopra dette,
uficio ed esercizio di ciascuno poeta. E perciò che molti non intendenti credono la
poesia niuna altra cosa essere che solamente un fabuloso parlare, oltre al promesso mi
piace brievemente quella essere teologia dimostrare, prima ch'io vegna a dire perché di
lauro si coronino i poeti.
XXII
Difesa della poesia
Se noi vorremo por giù gli animi e con
ragion riguardare, io mi credo che assai leggiermente potremo vedere gli antichi poeti
avere imitate, tanto quanto a lo 'ngegno umano è possibile, le vestigie dello Spirito
Santo; il quale, sì come noi nella divina Scrittura veggiamo, per la bocca di molti i
suoi altissimi secreti revelò a futuri, facendo loro sotto velame parlare ciò che
a debito tempo per opera, senza alcuno velo, intendeva di dimostrare. Imperciò che essi,
se noi ragguarderemo ben le loro opere, acciò che lo imitatore non paresse diverso dallo
imitato, sotto coperta d'alcune fizioni, quello che stato era, o che fosse al loro tempo
presente, o che disideravano o che presummevano che nel futuro dovesse avvenire,
discrissono; per che, come che ad uno fine l'una scrittura e l'altra non riguardasse, ma
solo al modo del trattare, al che più guarda al presente l'animo mio, ad amendune si
potrebbe dare una medesima laude, usando di Gregorio le parole. Il quale della sacra
Scrittura dice ciò che ancora della poetica dir si puote: cioè che essa in uno medesimo
sermone, narrando, apre il testo e il misterio a quel sottoposto; e così ad un'ora
coll'uno gli savi esercita e con l'altro gli semplici riconforta, e ha in publico donde li
pargoletti nutrichi, e in occulto serva quello onde essa le menti de sublimi
intenditori con ammirazione tenga sospese. Perciò che pare essere un fiume, acciò che io
così dica, piano e profondo, nel quale il piccioletto agnello con gli piè vada, e il
grande elefante ampissimamente nuoti. Ma da procedere è al verificare delle cose
proposte.
Intende la divina Scrittura, la qual noi
«teologia» appelliamo, quando con figura d'alcuna istoria, quando col senso d'alcuna
visione, quando con lo 'ntendimento d'alcun lamento, e in altre maniere assai, mostrarci
l'alto misterio della incarnazione del Verbo divino, la vita di quello, le cose occorse
nella sua morte, e la resurrezione vittoriosa, e la mirabile ascensione, e ogni altro suo
atto, per lo quale noi ammaestrati, possiamo a quella gloria pervenire, la quale Egli e
morendo e resurgendo ci aperse, lungamente stata serrata a noi per la colpa del primiero
uomo. Così li poeti nelle loro opere, le quali noi chiamiamo «poesia», quando con
fizioni di vari iddii, quando con trasmutazioni d'uomini in varie forme, e quando con
leggiadre persuasioni, ne mostrano le cagioni delle cose, gli effetti delle virtù e
de vizi, e che fuggire dobbiamo e che seguire, acciò che pervenire possiamo
virtuosamente operando, a quel fine, il quale essi, che il vero Iddio debitamente non
conosceano, somma salute credevano. Volle lo Spirito Santo mostrare nel rubo verdissimo,
nel quale Moisè vide, quasi come una fiamma ardente, Iddio, la verginità di Colei che
più che altra creatura fu pura, e che dovea essere abitazione e ricetto del Signore della
natura, non doversi, per la concezione né per lo parto del Verbo del Padre, contaminare.
Volle, per la visione veduta da Nabucodonosor, nella statua di più metalli abbattuta da
una pietra convertita in monte, mostrare tutte le preterite età dalla dottrina di Cristo,
il quale fu ed è viva pietra, dovere summergersi; e la cristiana religione, nata di
questa pietra, divenire una cosa immobile e perpetua, sì come gli monti veggiamo. Volle
nelle lamentazioni di Ieremia, l'eccidio futuro di Ierusalem dichiarare.
Similmente li nostri poeti, fingendo Saturno
avere molti figliuoli, e quegli, fuori che quattro, divorar tutti, niuna altra cosa
vollono per tale fizione farci sentire, se non per Saturno il tempo, nel quale ogni cosa
si produce, e come ella in esso è prodotta, così è esso di tutte corrompitore, e tutte
le riduce a niente. I quattro suoi figliuoli non divorati da lui, è l'uno Iove, cioè
l'elemento del fuoco; il secondo è Iunone, sposa e sorella di Iove, cioè l'aere,
mediante la quale il fuoco quaggiù opera li suoi effetti: il terzo è Nettunno, iddio del
mare, cioè l'elemento dell'acqua; e il quarto e ultimo è Plutone, iddio del ninferno,
cioè la terra, più bassa che alcuno altro elemento. Similemente fingono li nostri poeti
Ercule d'uomo essere in dio trasformato, e Licaone in lupo. Moralmente volendo mostrarci
che, virtuosamente operando, come fece Ercule, l'uomo diventa iddio per participazione in
cielo; e, viziosamente operando, come Licaone fece, quantunque egli paia uomo, nel vero si
può dire quella bestia, la quale da ciascuno si conosce per effetto più simile al suo
difetto: sì come Licaone per rapacità e per avarizia, le quali a lupo sono molto
conformi, si finge in lupo esser mutato. Similemente fingono li nostri poeti la bellezza
de Campi elisii, per la quale intendo la dolcezza del paradiso; e la oscurità di
Dite, per la quale prendo l'amaritudine dello 'nferno; acciò che noi, tratti dal piacere
dell'uno, e dalla noia dell'altro spaventati, seguitiamo le virtù che in Eliso ci
meneranno, e i vizi fuggiamo che in Dite ci farieno trarupare. Io lascio il tritare con
più particulari esposizioni queste cose, perciò che, se quanto si converrebbe e potrebbe
le volessi chiarire, come che elle più piacevoli ne divenissero e più facessero forte il
mio argomento, dubito non mi tirassero più oltre molto che la principale materia non
richiede e che io non voglio andare. E certo, se più non se ne dicesse che quello ch'è
detto, assai si dovrebbe comprendere la teologia e la poesia convenirsi quanto nella forma
dell'operare, ma nel suggetto dico quelle non solamente molto essere diverse, ma ancora
avverse in alcuna parte: perciò che il suggetto della sacra teologia è la divina
verità, quello dell'antica poesì sono gl'iddii de Gentili e gli uomini. Avverse
sono, in quanto la teologia niuna cosa presuppone se non vera; la poesia ne suppone alcune
per vere, le quali sono falsissime ed erronee e contra la cristiana religione. Ma, perciò
che alcuni disensati si levano contra li poeti, dicendo loro sconce favole e male a niuna
verità consonanti avere composte, e che in altra forma che con favole dovevano la loro
sofficienzia mostrare e a mondani dare la loro dottrina; voglio ancora alquanto più
oltre procedere col presente ragionamento.
Guardino adunque questi cotali le visioni di
Danièllo, quelle d'Isaia, quelle d'Ezechiel, e degli altri del Vecchio Testamento con
divina penna discritte, e da Colui mostrate al quale non fu principio né sarà fine.
Guardinsi ancora nel Nuovo le visioni dello evangelista, piene agl'intendenti di mirabile
verità; e, se niuna poetica favola si truova tanto di lungi dal vero o dal verisimile,
quanto nella corteccia appaiono queste in molte parti, concedasi che solamente i poeti
abbiano dette favole da non potere dare diletto né frutto. Senza dire alcuna cosa alla
riprensione che fanno de poeti, in quanto la loro dottrina in favole ovvero sotto
favole hanno mostrata, mi potrei passare; conoscendo che, mentre che essi mattamente gli
poeti riprendono di ciò, incautamente caggiono in biasimare quello Spirito, il quale
nulla altra cosa è che via, vita e verità; ma pure alquanto intendo di soddisfargli.
Manifesta cosa è che ogni cosa, che con fatica
s'acquista, avere alquanto più di dolcezza che quella che vien senza affanno. La verità
piana, perciò ch'è tosto compresa con piccole forze, diletta e passa nella memoria.
Adunque, acciò che con fatica acquistata fosse più grata, e perciò meglio si
conservasse, li poeti sotto cose molto ad essa contrarie apparenti, la nascosero; e
perciò favole fecero, più che altra coperta, perché la bellezza di quelle attraesse
coloro, li quali né le dimostrazion filosofiche, né le persuasioni avevano potuto a sé
tirare. Che dunque direm de poeti? terremo ch'essi sieno stati uomini insensati,
come li presenti dissensati, parlando e non sappiendo che, gli giudicano? Certo no; anzi
furono nelle loro operazioni di profondissimo sentimento, quanto è nel frutto nascoso, e
d'eccellentissima e d'ornata eloquenzia nelle cortecce e nelle frondi apparenti. Ma
torniamo dove lasciammo.
Dico che la teologia e la poesia quasi una cosa
si possono dire, dove uno medesimo sia il suggetto; anzi dico più: che la teologia
niun'altra cosa è che una poesia di Dio. E che altra cosa è che poetica fizione, nella
Scrittura, dire Cristo essere ora leone e ora agnello e ora vermine, e quando drago e
quando pietra, e in altre maniere molte, le quali voler tutte raccontare sarebbe
lunghissimo? che altro suonano le parole del Salvatore nello evangelio, se non uno sermone
da sensi alieno? il quale parlare noi con più usato vocabolo chiamiamo
«allegoria». Dunque bene appare, non solamente la poesì essere teologia, ma ancora la
teologia essere poesia. E certo, se le mie parole meritano poca fede in sì gran cosa, io
non me ne turberò; ma credasi ad Aristotile, degnissimo testimonio ad ogni gran cosa, il
quale afferma sé aver trovato li poeti essere stati li primi teologizzanti. E questo
basti quanto a questa parte; e torniamo a mostrare perché a poeti solamente, tra
gli scienziati, l'onore della corona dell'alloro conceduto fosse.
XXIII
Dell'alloro conceduto ai poeti
Tra l'altre nazioni, le quali sopra il circuito della terra son molte, li Greci si crede che sieno quegli alli quali primieramente la filosofia sé e li suoi segreti aprisse; de tesori della quale essi trassero la dottrina militare, la vita politica e altre care cose assai, per le quali essi oltre a ogni altra nazione divennero famosi e reverendi. Ma intra l'altre, tratte del costei tesoro da loro, fu la santissima sentenzia di Solone nel principio posta di questa operetta; e acciò che la loro republica, la quale più che altra allora fioriva, diritta e andasse e stesse sopra due piedi, e le pene a nocenti e i meriti a valorosi magnificamente ordinarono e osservarono. Ma, intra gli altri meriti stabiliti da loro a chi bene adoperasse, fu questo il precipuo: di coronare in publico, e con publico consentimento, di frondi d'alloro li poeti dopo la vittoria delle loro fatiche, e gl'imperadori, li quali vittoriosamente avessero la republica aumentata; giudicando che igual gloria si convenisse a colui per la cui virtù le cose umane erano e servate e aumentate, che a colui da cui le divine eran trattate. E come che di questo onore li Greci fossero inventori, esso poi trapassò a Latini, quando la gloria e l'arme parimente di tutto il mondo diedero luogo al romano nome; e ancora, almeno nelle coronazioni de poeti, come che rarissimamente avvenga, vi dura. Ma, perché a tale coronazione più il lauro che altra fronda eletto sia, non dovrà essere a veder rincrescevole.
XXIV
Origine di questa usanza
Sono alcuni li quali credono, perciò che sanno Danne amata da Febo e in lauro convertita, essendo Febo e il primo auttore e fautore de poeti stato e similmente triunfatore, per amore a quelle frondi portato, di quelle le sue cetere e i triunfi aver coronati; e quinci essere stato preso esemplo dagli uomini, e per conseguente essere quello, che da Febo fu prima fatto, cagione di tale coronazione e di tai frondi infino a questo giorno a poeti e agl'imperadori. E certo tale oppinione non mi spiace, né nego così poter essere stato; ma tuttavia me muove altra ragione, la quale è questa. Secondo che vogliono coloro, li quali le virtù delle piante ovvero la loro natura investigarono, il lauro tra l'altre più sue proprietà n'ha tre laudevoli e notevoli molto. La prima si è, come noi veggiamo, che mai egli non perde né verdezza, né fronda; la seconda si è che non si truova questo àlbore mai essere stato fulminato, il che di niuno altro leggiamo essere avvenuto; la terza, che egli è odorifero molto, sì come noi sentiamo: le quali tre proprietà estimarono gli antichi inventori di questo onore convenirsi con le virtuose opere de poeti e de vittoriosi imperadori. E primieramente la perpetua viridità di queste frondi dissono dimostrare la fama delle costoro opere, cioè di coloro che d'esse si coronavano o coronerebbono nel futuro, sempre dovere stare in vita. Appresso estimarono l'opere di questi cotali essere di tanta potenzia, che né il fuoco della invidia, né la folgore della lunghezza del tempo, la quale ogni cosa consuma, dovesse mai queste potere fulminare, se non come quello albero fulminava la celeste folgore. E oltre a questo diceano queste opere de già detti per lunghezza di tempo mai dover divenire meno piacevoli e graziose a chi l'udisse o le leggesse, ma sempre dovere essere accettevoli e odorose. Laonde meritamente si confaceva la corona di cotai frondi, più ch'altra, a cotali uomini, gli cui effetti, in tanto quanto vedere possiamo, erano a lei conformi. Per che non senza cagione il nostro Dante era ardentissimo disideratore di tale onore ovvero di cotale testimonia di tanta vertù, quale questa è a coloro li quali degni si fanno di doversene ornare le tempie. Ma tempo è di tornare là onde, intrando in questo ci dipartimmo.
© 1997 - by prof. Giuseppe Bonghi
- E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento:06 febbraio 1998