Giovanni Boccaccio
Trattatello in laude di Dante
XIII
Sua perseveranza al lavoro
Non poterono gli amorosi disiri, né le dolenti lagrime, né la sollecitudine casalinga, né la lusinghevole gloria de publici ofici, né il miserabile esilio, né la intollerabile povertà giammai con le lor forze rimuovere il nostro Dante dal principale intento, cioè da sacri studii; perciò che, sì come si vederà dove appresso partitamente dell'opere da lui fatte si farà menzione, egli, nel mezzo di qualunque fu più fiera delle passioni sopra dette, si troverà componendo essersi esercitato. E se, ostanti cotanti e così fatti avversarii, quanti e quali di sopra sono stati mostrati, egli per forza d'ingegno e di perseveranza riuscì chiaro qual noi veggiamo, che si può sperare che esso fosse divenuto, avendo avuti altrettanti aiutatori, o almeno niuno contrario, o pochissimi, come hanno molti? Certo, io non so; ma se licito fosse a dire, io direi ch'egli fosse in terra divenuto uno Iddio.
XIV
Grandezza del poeta volgare - Sua morte
Abitò adunque Dante in Ravenna,
tolta via ogni speranza di ritornare mai in Firenze, (come che tolto non fosse il disio),
più anni sotto la protezione del grazioso signore; e quivi con le sue dimostrazioni fece
più scolari in poesia e massimamente nella volgare; la quale, secondo il mio giudicio,
egli primo non altramenti fra noi Italici esaltò e recò in pregio, che la sua Omero
tra Greci o Virgilio tra Latini. Davanti a costui, come che per poco spazio
d'anni si creda che innanzi trovata fosse, niuno fu che ardire o sentimento avesse, dal
numero delle sillabe e dalla consonanza delle parti estreme in fuori, di farla essere
strumento d'alcuna artificiosa materia; anzi solamente in leggerissime cose d'amore con
essa s'esercitavano. Costui mostrò con effetto con essa ogni alta materia potersi
trattare, e glorioso sopra ogni altro fece il volgar nostro.
Ma, poi che la sua ora venne segnata a
ciascheduno, essendo egli già nel mezzo o presso del cinquantesimo sesto suo anno
infermato, e secondo la cristiana religione ogni ecclesiastico sacramento umilmente e con
divozione ricevuto, e a Dio per contrizione d'ogni cosa commessa da lui contra al suo
piacere, sì come da uomo, riconciliatosi; del mese di settembre negli anni di Cristo
MCCCXXI, nel dì che la esaltazione della santa Croce si celebra dalla Chiesa, non sanza
grandissimo dolore del sopra detto Guido, e generalmente di tutti gli altri cittadini
ravignani, al suo Creatore rendé il faticato spirito; il quale non dubito che ricevuto
non fosse nelle braccia della sua nobilissima Beatrice, con la quale nel cospetto di Colui
ch'è sommo bene, lasciate le miserie della presente vita, ora lietissimamente vive in
quella, alla cui felicità fine giammai non s'aspetta.
XV
Sepoltura e onori funebri
Fece il magnanimo cavaliere il morto corpo di Dante d'ornamenti poetici sopra uno funebre letto adornare; e quello fatto portare sopra gli omeri de suoi cittadini più solenni infino al luogo de frati minori in Ravenna, con quello onore che a sì fatto corpo degno estimava, infino quivi quasi con publico pianto seguitolo, in una arca lapidea, nella quale ancora giace, il fece porre. E, tornato alla casa nella quale Dante era prima abitato, secondo il ravignano costume, esso medesimo, sì a commendazione dell'alta scienzia e della vertù del defunto, e sì a consolazione de suoi amici, li quali egli avea in amarissima vita lasciati, fece uno ornato e lungo sermone; disposto, se lo stato e la vita fossero durati, di sì egregia sepoltura onorarlo, che, se mai alcuno altro suo merito non l'avesse memorevole renduto a futuri, quella l'avrebbe fatto.
XVI
Gara di poeti per l'epitafio di Dante
Questo laudevole proponimento infra brieve spazio di tempo fu manifesto ad alquanti, li quali in quel tempo erano in poesì solennissimi in Romagna; per che ciascuno sì per mostrare la sua sofficienzia, sì per rendere testimonianza della portata benivolenzia da loro al morto poeta, sì per cattare la grazia e l'amore del signore, il quale ciò sapevano disiderare, ciascuno per sé fece versi, li quali, posti per epitafio alla futura sepultura, con debite lode facessero la posterità certa chi dentro da essa giacesse; e al magnifico signore gli mandarono. Il quale con gran peccato della Fortuna, non dopo molto tempo, toltogli lo Stato, si morì a Bologna; per la qual cosa e il fare il sepolcro e il porvi li mandati versi si rimase. Li quali versi stati a me mostrati poi più tempo appresso, e veggendo loro [non] avere avuto luogo per lo caso già dimostrato, pensando le presenti cose per me scritte, come che sepoltura non sieno corporale, ma sieno, sì come quella sarebbe stata, perpetue conservatrici della colui memoria; imaginai non essere sconvenevole quegli aggiugnere a queste cose. Ma, perciò che più che quegli che l'uno di coloro avesse fatti (che furon più) non si sarebbero ne marmi intagliati, così solamente quegli d'uno qui estimai che fosser da scrivere; per che, tutti meco esaminatigli, per arte e per intendimento più degni estimai che fossero quattordici fattine da maestro Giovanni del Virgilio bolognese, allora famosissimo e gran poeta, e di Dante stato singularissimo amico; li quali sono questi appresso scritti:
Epitafio |
Theologus Dantes, nullius dogmatis expers, quod foveat claro philosophya sinu: gloria musarum, vulgo gratissimus auctor, hic iacet, et fama pulsat utrumque polum: qui loca defunctis gladiis regnumque gemellis distribuit, laycis rhetoricisque modis. Pascua Pyeriis demum resonabat avenis; Amtropos heu letum livida rupit opus. Huic ingrata tulit tristem Florentia fructum, exilium, vati patria cruda suo. Quem pia Guidonis gremio Ravenna Novelli gaudet honorati continuisse ducis, mille trecentenis ter septem Numinis annis, ad sua septembris ydibus astral redit. |
XVIII
Rimprovero ai fiorentini
Oh ingrata patria, quale
demenzia, qual trascutaggine ti teneva, quando tu il tuo carissimo cittadino, il tuo
benefattore precipuo, il tuo unico poeta con crudeltà disusata mettesti in fuga, o poscia
tenuta t'ha? Se forse per la comune furia di quel tempo mal consigliata ti scusi; ché,
tornata, cessate l'ire, la tranquillità dell'animo, ripentùtati del fatto, nol
rivocasti? Deh! non ti rincresca lo stare con meco, che tuo figliuol sono, alquanto a
ragione, e quello che giusta indegnazione mi fa dire, come da uomo che ti rammendi
disidera e non che tu sii punita, piglierai. Parti egli essere gloriosa di tanti titoli e
di tali, che tu quello uno del quale non hai vicina città che di simile si possa
esaltare, tu abbi voluto da te cacciare? Deh! dimmi: di qua vittorie, di qua
triunfi, di quali eccellenzie, di quali valorosi cittadini se tu splendente? Le tue
ricchezze, cosa mobile e incerta, le tue bellezze, cosa fragile e caduca, le tue
dilicatezze, cosa vituperevole e feminile, ti fanno nota nel falso giudicio de
popoli, il quale più ad apparenza che ad esistenza sempre riguarda. Deh! gloriera'ti tu
dè tuoi mercatanti e de molti artisti, donde tu se piena? Scioccamente
farai: l'uno fu, continuamente l'avarizia operando, lo mestiere servile; l'arte, la quale
un tempo nobilitata fu dagl'ingegni, intanto che una seconda natura la fecero,
dall'avarizia medesima è oggi corrotta, e niente vale. Gloriera'ti tu della viltà e
ignavia di coloro li quali, perciò che di molti loro avoli si ricordano, vogliono dentro
da te della nobiltà ottenere il principato, sempre con ruberie e con tradimenti e con
falsità contra quella operanti? Vana gloria sarà la tua, e da coloro, le cui sentenzie
hanno fondamento debito e stabile fermezza, schernita. Ahi! misera madre, apri gli occhi e
guarda con alcuno rimordimento a quello che tu facesti; e vergógnati almeno, essendo
reputata savia come tu se', d'avere avuta ne falli tuoi falsa elezione! Deh! se tu
da te non avevi tanto consiglio, perché non imitavi tu gli atti di quelle città, le
quali ancora per le loro laudevoli opere son famose? Atene, la quale fu l'uno degli occhi
di Grecia, allora che in quella era la monarcia del mondo, per iscienzia, per eloquenzia e
per milizia splendida parimente; Argos, ancora pomposa per li titoli de suoi re;
Smirna a noi reverenda in perpetuo per Niccolaio suo pastore; Pilos, notissima per lo
vecchio Nestore; Chimi, Chios e Colofon, città splendidissime per addietro, tutte
insieme, qualora più gloriose furono, non si vergognarono né dubitarono d'avere agra
quistione della origine del divino poeta Omero, affermando ciascuna lui di sé averla
tratta; e sì ciascuna fece con argomenti forte la sua intenzione, che ancora la quistion
vive; né è certo donde si fosse, perché parimente di cotal cittadino così l'una come
l'altra ancor si gloria. E Mantova, nostra vicina, di quale altra cosa l'è più alcuna
fama rimasa, che l'essere stato Virgilio mantovano? il cui nome hanno ancora in tanta
reverenzia, e sì è appo tutti accettevole, che non solamente ne publici luoghi, ma
ancora in molti privati si vede la sua imagine effigiata; mostrando in ciò che, non
ostante che il padre di lui fosse lutifigolo, esso di tutti loro sia stato nobilitatore.
Sulmona d'Ovidio, Venosa d'Orazio, Aquino di Iovenale, e altre molte, ciascuna si gloria
del suo, e della loro sufficienzia fanno quistione. L'esemplo di queste non t'era vergogna
di seguitare; le quali non è verisimile sanza cagione essere state e vaghe e tènere di
cittadini così fatti. Esse conobbero quello che tu medesima potevi conoscere e puoi:
cioè che le costoro perpetue operazioni sarebbero ancora dopo la lor ruina ritenitrici
eterne del nome loro: così come al presente divulgate per tutto il mondo le fanno
conoscere a coloro che non le vider giammai. Tu sola, non so da qual cechità adombrata,
hai voluto tenere altro cammino, e, quasi molto da te lucente, di questo splendore non hai
curato: tu sola, quasi i Camilli, i Publicoli, i Torquati, i Fabrizi, i Catoni, i Fabii e
gli Scipioni con le loro magnifiche opere ti facessero famosa e in te fossero, non
solamente, avendoti lasciato l'antico tuo cittadino Claudiano cadere de le mani, non hai
avuto del presente poeta cura; ma l'hai da te cacciato, sbandito e privatolo, se tu avessi
potuto, del tuo sopranome. Io non posso fuggire di vergognarmene in tuo servigio. Ma ecco:
non la Fortuna, ma il corso della natura delle cose è stato al tuo disonesto appetito
favorevole in tanto, in quanto quello che tu volentieri, bestialmente bramosa, avresti
fatto se nelle mani ti fosse venuto, cioè uccisolo, egli con la sua etterna legge l'ha
operato. Morto è il tuo Dante Alighieri in quello esilio che tu ingiustamente, del suo
valore invidiosa, gli desti. Oh peccato da non ricordare, che la madre alle virtù
d'alcuno suo figliuolo porti livore! Ora adunque se di sollicitudine libera, ora per
la morte di lui vivi ne tuoi difetti sicura, e puoi alle tue lunghe e ingiuste
persecuzioni porre fine. Egli non ti può far, morto, quello che mai, vivendo, non t'avria
fatto; egli giace sotto altro cielo che sotto il tuo, né più dèi aspettar di vederlo
giammai, se non quel dì, nel quale tutti li tuoi cittadini veder potrai, e le lor colpe
da giusto giudice esaminate e punite.
Adunque se gli odii, l'ire e le inimicizie
cessano per la morte di qualunque è che muoia, come si crede, comincia a tornare in te
medesima e nel tuo diritto conoscimento; comincia a vergognarti d'avere fatto contra la
tua antica umanità; comincia a volere apparire madre e non più inimica; concedi le
debite lagrime al tuo figliuolo; concedigli la materna pietà; e colui, il quale tu
rifiutasti, anzi cacciasti vivo sì come sospetto, disidera almeno di riaverlo morto;
rendi la tua cittadinanza, il tuo seno, la tua grazia alla sua memoria. In verità,
quantunque tu a lui ingrata e proterva fossi,egli sempre come figliuolo ebbe te in
reverenza, né mai di quello onore che per le sue opere seguire ti dovea, volle privarti,
come tu lui della tua cittadinanza privasti. Sempre fiorentino, quantunque l'esilio fosse
lungo, si nominò e volle essere nominato, sempre ad ogni altra ti prepose, sempre t'amò.
Che dunque farai? starai sempre nella tua iniquità ostinata? sarà in te meno d'umanità
che ne barbari, li quali troviamo non solamente aver li corpi delli loro morti
raddomandati, ma per riavergli essersi virilmente disposti a morire? Tu vuogli che 'l
mondo creda te essere nepote della famosa Troia e figliuola di Roma: certo, i figliuoli
deono essere a padri e agli avoli simiglianti. Priamo nella sua miseria non
solamente raddomandò il corpo del morto Ettore, ma quello con altrettanto oro ricomperò.
Li Romani, secondo che alcuni pare che credano, feciono da Miturna venire l'ossa del primo
Scipione, da lui a loro con ragione nella sua morte vietate. E come che Ettore fosse con
la sua prodezza lunga difesa de Troiani, e Scipione liberatore non solamente di
Roma, ma di tutta Italia (delle quali due cose forse così propiamente niuna si può dire
di Dante), egli non è perciò da posporre; niuna volta fu mai che l'armi non dessero
luogo alla scienzia. Se tu primieramente, e dove più si sarìa convenuto, l'esemplo e
l'opere delle savie città non imitasti, ammenda al presente, seguendole. Niuna delle
sette predette fu che o vera o fittizia sepultura non facesse ad Omero. E chi dubita che i
Mantovani, li quali ancora in Piettola onorano la povera casetta e i campi che fûr di
Virgilio, non avessero a lui fatta onorevole sepoltura, se Ottaviano Augusto, il quale da
Brandizio a Napoli le sue ossa avea trasportate, non avesse comandato quello luogo dove
poste l'avea, volere loro essere perpetua requie? Sermona niuna altra cosa pianse
lungamente, se non che l'isola di Ponto tenga in incerto luogo il suo Ovidio; e così di
Cassio Parma si rallegra tenendolo. Cerca tu adunque di volere essere del tuo Dante
guardiana; raddomandalo; mostra questa umanità, presupposto che tu non abbi voglia di
riaverlo; togli a te medesima con questa fizione parte del biasimo per addietro
acquistato: raddomandalo. Io son certo ch'egli non ti fia renduto; e ad una ora ti sarai
mostrata pietosa, e goderai, non riavendolo, della tua innata crudeltà. Ma a che ti
conforto io? Appena che io creda, se i corpi morti possono alcuna cosa sentire, che quello
di Dante si potesse partire di là dove è, per dovere a te tornare. Egli giace con
compagnia troppo più laudevole che quella che tu gli potessi dare. Egli giace in Ravenna,
molto più per età veneranda di te; e come che la sua vecchiezza alquanto la renda
deforme, ella fu nella sua giovanezza troppo più florida che tu non se'. Ella è quasi un
generale sepolcro di santissimi corpi, né niuna parte in essa si calca, dove su per
reverendissime ceneri non si vada. Chi dunque disidererebbe di tornare a te per dovere
giacere fra le tue, le quali si può credere che ancora servino la rabbia e l'iniquità
nella vita avute, e male concorde insieme si fuggano l'una da l'altra, non altramenti che
facessero le fiamme de due Tebani? E come che Ravenna già quasi tutta del prezioso
sangue di molti martiri si bagnasse, e oggi con reverenzia servi le loro reliquie, e
similmente i corpi di molti magnifici imperadori e d'altri uomini chiarissimi e per
antichi avoli e per opere virtuose, ella non si rallegra poco d'esserle stato da Dio,
oltre a l'altre sue dote, conceduto d'essere perpetua guardiana di così fatto tesoro,
come è il corpo di colui, le cui opere tengono in ammirazione tutto il mondo, e del quale
tu non ti se saputa far degna. Ma certo egli non è tanta l'allegrezza d'averlo,
quanta la invidia ch'ella ti porta che tu t'intitoli della sua origine, quasi sdegnando
che dove ella sia per l'ultimo dì di lui ricordata, tu allato a lei sii nominata per lo
primo. E perciò con la tua ingratitudine ti rimani, e Ravenna de tuoi onori lieta
si glorii tra futuri.
© 1997 - by prof. Giuseppe Bonghi
- E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento:06 febbraio 1998