Giovanni Boccaccio
Trattatello in laude di Dante
Diritti d'autore: no
Tratto da: Trattatello in laude di Dante di Giovanni Boccaccio.
Ed. Garzanti, collana "I grandi libri
Garzanti" n. 586.
Finito di stampare il 18 ottobre 1995. - Codice
ISBN: 88-11-58586-4
Edizione elettronica del: 8 gennaio 1996
Alla edizione elettronica ha contribuito: Francesco Bonomi (f.bonomi@agora.stm.it)
Revisione: Giampaolo Giuseppe Rugo
edizione html e impaginazione: Giuseppe Bonghi
De origine vita, studiis et moribus
viri clarissimi
dantis aligerii
florentini, poete illustris,
et de operibus compositis ab eodem,
incipit feliciter.
I
Proposizione
Solone, il cui petto uno umano
tempio di divina sapienzia fu reputato, e le cui sacratissime leggi sono ancora alli
presenti uomini chiara testimonianza dell'antica giustizia, era, secondo che dicono
alcuni, spesse volte usato di dire ogni republica, sì come noi, andare e stare sopra due
piedi; de quali, con matura gravità, affermava essere il destro il non lasciare
alcuno difetto commesso impunito, e il sinistro ogni ben fatto remunerare; aggiugnendo
che, qualunque delle due cose già dette per vizio o per nigligenzia si sottraeva, o meno
che bene si servava, senza niuno dubbio quella republica, che 'l faceva, convenire andare
sciancata: e se per isciagura si peccasse in amendue, quasi certissimo avea, quella non
potere stare in alcun modo.
Mossi adunque più così egregii come antichi
popoli da questa laudevole sentenzia e apertissimamente vera, alcuna volta di deità,
altra di marmorea statua, e sovente di celebre sepultura, e tal fiata di triunfale arco, e
quando di laurea corona secondo i meriti precedenti onoravano i valorosi; le pene, per
opposito, a colpevoli date non curo di raccontare. Per li quali onori e purgazioni
la assiria, la macedonica, la greca e ultimamente la romana republica aumentate, con
l'opere le fini della terra, e con la fama toccaron le stelle. Le vestigie de quali
in così alti esempli, non solamente da successori presenti, e massimamente da
miei Fiorentini, sono male seguite, ma intanto s'è disviato da esse, che ogni premio di
virtù possiede l'ambizione; per che, sì come e io e ciascun altro che a ciò con occhio
ragionevole vuole guardare, non senza grandissima afflizione d'animo possiamo vedere li
malvagi e perversi uomini a luoghi eccelsi e a sommi oficii e guiderdoni
elevare, e li buoni scacciare, deprimere e abbassare. Alle quali cose qual fine serbi il
giudicio di Dio, coloro il veggiano che il timone governano di questa nave: perciò che
noi, più bassa turba, siamo trasportati dal fiotto, della Fortuna, ma non della colpa
partecipi. E, come che con infinite ingratitudini e dissolute perdonanze apparenti si
potessero le predette cose verificare, per meno scoprire li nostri difetti e per pervenire
al mio principale intento, una sola mi fia assai avere raccontata (né questa fia poco o
picciola), ricordando l'esilio del chiarissimo uomo Dante Alighieri. Il quale, antico
cittadino né d'oscuri parenti nato, quanto per vertù e per scienzia e per buone
operazioni meritasse, assai il mostrano e mostreranno le cose che da lui fatte appaiono:
le quali, se in una republica giusta fossero state operate, niuno dubbio ci è che esse
non gli avessero altissimi meriti apparecchiati.
Oh scellerato pensiero, oh disonesta opera, oh
miserabile esemplo e di futura ruina manifesto argomento! In luogo di quegli, ingiusta e
furiosa dannazione, perpetuo sbandimento, alienazione de paterni beni, e, se fare si
fosse potuto, maculazione della gloriosissima fama, con false colpe gli fur donate. Delle
quali cose le recenti orme della sua fuga e l'ossa nelle altrui terre sepulte e la sparta
prole per l'altrui case, alquanto ancora ne fanno chiare. Se a tutte l'altre iniquità
fiorentine fosse possibile il nascondersi agli occhl di Dio, che veggono tutto, non
dovrebbe questa una bastare a provocare sopra sé la sua ira? Certo sì. Chi in contrario
sia esaltato, giudico che sia onesto il tacere. Sì che, bene ragguardando, non solamente
è il presente mondo del sentiero uscito del primo, del quale di sopra toccai, ma ha del
tutto nel contrario vòlti i piedi. Per che assai manifesto appare che, se noi e gli altri
che in simile modo vivono, contro la sopra toccata sentenzia di Solone, sanza cadere
stiamo in piede, niuna altra cosa essere di ciò cagione, se non che o per lunga usanza la
natura delle cose è mutata, come sovente veggiamo avvenire, o è speziale miracolo, nel
quale, per li meriti d'alcuno nostro passato, Dio contra ogni umano avvedimento ne
sostiene, o è la sua pazienzia, la quale forse il nostro riconoscimento attende; il quale
se a lungo andare non seguirà, niuno dubiti che la sua ira, la quale con lento passo
procede alla vendetta, non ci serbi tanto più grave tormento, che appieno supplisca la
sua tardità. Ma, perciò che, come che impunite ci paiono le mal fatte cose, quelle non
solamente dobbiamo fuggire, ma ancora, bene operando, d'ammendarle ingegnarci; conoscendo
io me essere di quella medesima città, avvegna che picciola parte, della quale,
considerati li meriti, la nobiltà e la vertù, Dante Alighieri fu grandissima, e per
questo, sì come ciascun altro cittadino, a suoi onori sia in solido obbligato come
che io a tanta cosa non sia sofficiente, nondimeno secondo la mia picciola facultà,
quello che essa dovea verso lui magnificamente fare, non avendolo fatto, m'ingegnerò di
far io; non con istatua o con egregia sepoltura, delle quali è oggi appo noi spenta
l'usanza, né basterebbono a ciò le mie forze, ma con lettere povere a tanta impresa. Di
queste ho, e di queste darò, acciò che igualmente, e in tutto e in parte, non si possa
dire fra le nazioni strane, verso cotanto poeta la sua patria essere stata ingrata. E
scriverò in istilo assai umile e leggiero, pero che più alto nol mi presta lo 'ngegno, e
nel nostro fiorentino idioma, acciò che da quello, che egli usò nella maggior parte
delle sue opere, non discordi, quelle cose le quali esso di sé onestamente tacette: cioè
la nobiltà della sua origine, la vita, gli studi, i costumi; raccogliendo appresso in uno
l'opere da lui fatte, nelle quali esso sé sì chiaro ha renduto a futuri, che forse
non meno tenebre che splendore gli daranno le lettere mie, come che ciò non sia di mio
intendimento né di volere; contento sempre, e in questo e in ciascun'altra cosa, da
ciascun più savio, là dove io difettuosamente parlassi, essere corretto. Il che acciò
che non avvenga, umilmente priego Colui che lui trasse per sì alta scala a vedersi, come
sappiamo, che al presente aiuti e guidi lo 'ngegno mio e la debole mano.
II
Patria e maggiori di Dante
Fiorenza, intra l'altre città
italiane più nobile, secondo che l'antiche istorie e la comune oppinione de
presenti pare che vogliano, ebbe inizio da Romani; la quale in processo di tempo
aumentata, e di popolo e di chiari uomini piena, non solamente città, ma potente
cominciò a ciascun circustante ad apparere. Ma qual si fosse, o contraria fortuna o
avverso cielo o li loro meriti, agli alti inizii di mutamento cagione, ci è incerto; ma
certissimo abbiamo, essa non dopo molti secoli da Attila, crudelissimo re de Vandali
e generale guastatore quasi di tutta Italia, uccisi prima e dispersi o tutti o la maggior
parte di quegli cittadini, che [in] quella erano o per nobiltà di sangue o per qualunque
altro stato d'alcuna fama, in cenere la ridusse e in ruine: e in cotale maniera oltre al
trecentesimo anno si crede che dimorasse. Dopo il quale termine, essendo non senza cagione
di Grecia il romano imperio in Gallia translatato, e alla imperiale altezza elevato Carlo
Magno, allora clementissimo re de Franceschi, più fatiche passate, credo da divino
spirito mosso, alla reedificazione della desolata città lo 'mperiale animo dirizzò; da
quegli medesimi che prima conditori n'erano stati, come che in picciol cerchio di mura la
riducesse, in quanto poté, simile a Roma la fe reedificare e abitare;
raccogliendovi nondimeno dentro quelle poche reliquie, che si trovarono, de
discendenti degli antichi scacciati.
Ma intra gli altri novelli abitatori, forse
ordinatore della reedificazione, partitore delle abitazioni e delle strade, e datore al
nuovo popolo delle leggi opportune, secondo che testimonia la fama, vi venne da Roma un
nobilissimo giovane per ischiatta de Frangiapani, e nominato da tutti Eliseo; il
quale per avventura, poi ch'ebbe la principale cosa, per la quale venuto v'era, fornita, o
dall'amore della città nuovamente da lui ordinata, o dal piacere del sito, al quale forse
vide nel futuro dovere essere il cielo favorevole, o da altra cagione che si fosse,
tratto, in quella divenne perpetuo cittadino, e dietro a sé di figliuoli e di discendenti
lasciò non picciola né poco laudevole schiatta: li quali, l'antico sopranome de
loro maggiori abbandonato, per sopranome presero il nome di colui che quivi loro aveva
dato cominciamento, e tutti insieme si chiamâr gli Elisei. De quali di tempo in
tempo, e d'uno in altro discendendo, tra gli altri nacque e visse uno cavaliere per arme e
per senno ragguardevole e valoroso, il cui nome fu Cacciaguida; al quale nella sua
giovanezza fu data da suoi maggior per isposa una donzella nata degli Aldighieri di
Ferrara, così per bellezza e per costumi, come per nobiltà di sangue pregiata, con la
quale più anni visse, e di lei generò più figliuoli. E come ché gli altri nominati si
fossero, in uno, sì come le donne sogliono esser vaghe di fare, le piacque di rinnovare
il nome de suoi passati, e nominollo Aldighieri; come che il vocabolo poi, per
sottrazione di questa lettera "d" corrotto, rimanesse Alighieri. Il valore di
costui fu cagione a quegli che discesero di lui, di lasciare il titolo degli Elisei, e di
cognominarsi degli Alighieri; il che ancora dura infino a questo giorno. Del quale, come
che alquanti figliuoli e nepoti e de nepoti figliuoli discendessero, regnante
Federico secondo imperadore, uno ne nacque, il cui nome fu Alighieri, il quale più per la
futura prole che per sé doveva esser chiaro; la cui donna gravida, non guari lontana al
tempo del partorire, per sogno vide quale doveva essere il frutto del ventre suo; come che
ciò non fosse allora da lei conosciuto né da altrui, e oggi, per lo effetto seguìto,
sia manifestissimo a tutti.
Pareva alla gentil donna nel suo sonno essere
sotto uno altissimo alloro, sopra uno verde prato, allato ad una chiarissima fonte, e
quivi si sentia partorire unofigliuolo, il quale in brevissimo tempo, nutricandosi solo
delle orbache, le quali dello alloro cadevano, e delle onde della chiara fonte, le parea
che divenisse un pastore, e s'ingegnasse a suo potere d'avere delle fronde dell'albero, il
cui frutto l'avea nudrito; e, a ciò sforzandosi, le parea vederlo cadere, e nel rilevarsi
non uomo più, ma uno paone il vedea divenuto. Della qual cosa tanta ammirazione le
giunse, che ruppe il sonno; né guari di tempo passò che il termine debito al suo parto
venne, e partorì uno figliuolo, il quale di comune consentimento col padre di lui per
nome chiamaron Dante: e meritamente, perciò che ottimamente, sì come si vedrà
procedendo, seguì al nome l'effetto.
Questi fu quel Dante, del quale è il presente sermone; questi fu quel Dante che a nostri seculi fu conceduto di speziale grazia da Dio; questi fu quel Dante, il qual primo doveva al ritorno delle Muse, sbandite d'Italia, aprir la via. Per costui la chiarezza del fiorentino idioma è dimostrata; per costui ogni bellezza di volgar parlare sotto debiti numeri è regolata; per costui la morta poesì meritamente si può dir suscitata: le quali cose, debitamente guardate, lui niuno altro nome che Dante poter degnamente avere avuto dimostreranno.
III
Suoi studi
Nacque questo singulare
splendore italico nella nostra città, vacante il romano imperio per la morte di Federigo
già detto, negli anni della salutifera incarnazione del Re dell'universo MCCLXV, sedente
Urbano papa IV nella cattedra di san Piero, ricevuto nella paterna casa da assai lieta
fortuna: lieta dico, secondo la qualità del mondo che allora correa. Ma, quale che ella
si fosse, lasciando stare il ragionare della sua infanzia, nella quale assai segni
apparirono della futura gloria del suo ingegno, dico che dal principio della sua puerizia,
avendo gia li primi elementi delle lettere impresi, non, secondo il costume de
nobili odierni, si diede alle fanciullesche lascivie e agli ozii, nel grembo della madre
impigrendo, ma nella propia patria tutta la sua puerizia con istudio continuo diede alle
liberali arti, e in quelle mirabilmente divenne esperto. E crescendo insieme con gli anni
l'animo e lo 'ngegno, non a lucrativi studi alli quali generalmente oggi corre
ciascuno, si dispose, ma da una laudevole vaghezza di perpetua fama [tratto], sprezzando
le transitorie ricchezze, liberamente si diede a volere avere piena notizia delle fizioni
poetiche e dell'artificioso dimostramento di quelle. Nel quale esercizio familiarissimo
divenne di Virgilio, d'Orazio, d'Ovidio, di Stazio e di ciascuno altro poeta famoso; non
solamente avendo caro il conoscergli, ma ancora, altamente cantando, s'ìngegnò
d'imitarli, come le sue opere mostrano, delle quali appresso a suo tempo favelleremo. E,
avvedendosi le poetiche opere non essere vane o semplici favole o maraviglie, come molti
stolti estimano, ma sotto sé dolcissimi frutti di verità istoriografe o filosofiche
avere nascosti; per la quale cosa pienamente, sanza le istorie e la morale e naturale
filosofia, le poetiche intenzioni avere non si potevano intere; partendo i tempi
debitamente, le istorie da sé, e la filosofia sotto diversi dottori s'argomentò, non
sanza lungo studio e affanno, d'intendere. E, preso dalla dolcezza del conoscere il vero
delle cose racchiuse dal cielo, niuna altra più cara che questa trovandone in questa
vita, lasciando del tutto ogni altra temporale sollecitudine, tutto a questa sola si
diede. E, acciò che niuna parte di filosofia non veduta da lui rimanesse, nelle
profondità altissime della teologia con acuto ingegno si mise. Né fu dalla intenzione
l'effetto lontano, perciò che, non curando né caldi né freddi, [né] vigilie né
digiuni, né alcun altro corporale disagio, con assiduo studio pervenne a conoscere della
divina essenzia e dell'altre separate intelligenzie quello che per umano ingegno qui se ne
può comprendere. E così come in varie etadi varie scienze furono da lui conosciute
studiando, così in vari studi sotto varii dottori le comprese.
Egli li primi inizi, sì come di sopra è
dichiarato, prese nella propia patria e di quella, sì come a luogo più fertile di tal
cibo, n'andò a Bologna; e già vicino alla sua vecchiezza n'andò a Parigi, dove, con
tanta gloria di sé, disputando, più volte mostrò l'altezza del suo ingegno, che ancora,
narrandosi, se ne maravigliano gli uditori. E di tanti e sì fatti studii non
ingiustamente meritò altissimi titoli: perciò che alcuni il chiamarono sempre
"poeta", altri "filosofo", e molti "teologo", mentre visse.
Ma, perciò che tanto è la vittoria più gloriosa al vincitore, quanto le forze del vinto
sono state maggiori, giudico esser convenevole dimostrare, di come fluttuoso e tempestoso
mare costui, gittato ora in qua ora in là, vincendo l'onde parimenti e venti
contrarii, pervenisse al salutevole porto de chiarissimi titoli già narrati.
IV
Impedimenti avuti da Dante agli studi
Gli studi generalmente sogliono solitudine e rimozione di sollecitudine e tranquillità d'animo disiderare, e massimamente gli speculativi, a quali il nostro Dante, sì come mostrato è, si diede tutto. In luogo della quale rimozione e quiete, quasi dallo inizio della sua vita infino all'ultimo della morte, Dante ebbe fierissima e importabile passione d'amore, moglie, cura familiare e publica, esilio e povertà; l'altre lasciando più particulari [noie], le quali di necessità queste si traggon dietro: le quali, acciò che più appaia della loro gravezza, partitamente convenevole giudico di spiegarle.
V
Amore per Beatrice
Nel tempo nel quale la dolcezza
del cielo riveste de suoi ornamenti la terra, e tutta per la varietà de fiori
mescolati fra le verdi frondi la fa ridente, era usanza della nostra città, e degli
uomini e delle donne, nelle loro contrade ciascuno in distinte compagnie festeggiare; per
la qual cosa, infra gli altri per avventura, Folco Portinari, uomo assai orrevole in
que tempi tra cittadini, il primo dì di maggio aveva i circustanti vicini
raccolti nella propia casa a festeggiare, infra li quali era il già nominato Alighieri.
Al quale, sì come i fanciulli piccoli, e spezialmente a luoghi festevoli, sogliono
li padri seguire, Dante, il cui nono anno non era ancora finito, seguìto avea; e quivi
mescolato tra gli altri della sua età, de quali così maschi come femine erano
molti nella casa del festeggiante, servite le prime mense, di ciò che la sua picciola
età poteva operare, puerilmente si diede con gli altri a trastullare.
Era intra la turba de giovinetti una
figliuola del sopradetto Folco, il cui nome era Bice come che egli sempre dal suo
primitivo, cioè Beatrice, la nominasse, la cui età era forse d'otto anni, leggiadretta
assai secondo la sua fanciullezza, e ne suoi atti gentilesca e piacevole molto, con
costumi e con parole assai più gravi e modeste che il suo picciolo tempo non richiedea;
e, oltre a questo, aveva le fattezze del viso dilicate molto e ottimamente disposte, e
piene, oltre alla bellezza, di tanta onesta vaghezza, che quasi una angioletta era
reputata da molti. Costei adunque, tale quale io la disegno, o forse assai più bella,
apparve in questa festa, non credo primamente, ma prima possente ad innamorare, agli occhi
del nostro Dante: il quale, ancora che fanciul fosse, con tanta affezione la bella imagine
di lei ricevette nel cuore, che da quel giorno innanzi, mai, mentre visse, non se ne
dipartì. Quale ora, questa si fosse, niuno il sa; ma o conformità di complessioni o di
costumi o speziale influenzia del cielo che in ciò operasse, o, sì come noi per
esperienza veggiamo nelle feste, per la dolcezza de suoni, per la generale
allegrezza, per la dilicatezza de cibi e de vini, gli animi eziandio degli
uomini maturi, non che de giovinetti, ampliarsi e divenire atti a poter essere
leggiermente presi da qualunque cosa che piace; è certo questo esserne divenuto, cioè
Dante nella sua pargoletta età fatto d'amore ferventissimo servidore.Ma, lasciando stare
il ragionare de puerili accidenti, dico che con l'età multiplicarono l'amorose
fiamme, intanto che niuna altra cosa gli era piacere o riposo o conforto, se non il vedere
costei. Per la qual cosa, ogni altro affare lasciandone, sollecitissimo andava là
dovunque credeva potere vederla, quasi del viso e degli occhi di lei dovesse attignere
ogni suo bene e intera consolazione.
Oh insensato giudicio degli amanti! chi altri che essi estimerebbe per aggiugnimento di
stipa fare le fiamme minori? Quanti e quali fossero li pensieri, li sospiri, le lagrime e
l'altre passioni gravissime poi in più provetta età da lui sostenute per questo amore,
egli medesimo in parte il dimostra nella sua Vita nova, e però più distesamente non curo
di raccontarle. Tanto solamente non voglio che non detto trapassi, cioè che, secondo che
egli scrive e che per altrui, a cui fu noto il suo disio, si ragiona, onestissimo fu
questo amore, né mai apparve, o per isguardo o per parola o per cenno, alcuno libidinoso
appetito né nello amante né nella cosa amata: non picciola maraviglia al mondo presente,
del quale è sì fuggito ogni onesto piacere, e abituatosi l'avere prima la cosa che piace
conformata alla sua lascivia che diliberato d'amarla, che in miracolo è divenuto, sì
come cosa rarissima, chi amasse altramente. Se tanto amore e sì lungo poté il cibo, i
sonni e ciascun'altra quiete impedire, quanto si dee potere estimare lui essere stato
avversario agli sacri studi e allo 'ngegno? Certo non poco; come che molti vogliano lui
essere stato incitatore di quello, argomento a ciò prendendo dalle cose leggiadramente
nel fiorentino idioma e in rima, in laude della donna amata, e acciò che li suoi ardori e
amorosi concetti esprimesse, già fatte da lui; ma certo io nol consento, se io non
volessi già affermare l'ornato parlare essere sommissima parte d'ogni scienza; che non è
vero.
VI
Dolore di Dante per la morte di Beatrice
Come ciascuno puote
evidentemente conoscere, niuna cosa è stabile in questo mondo; e, se niuna leggiermente
ha mutamento, la nostra vita è quella. Un poco di soperchio freddo o di caldo che noi
abbiamo, lasciando stare gli altri infiniti accidenti e possibili, da essere a non essere
sanza difficultà ci conduce; né da questo gentilezza, ricchezza, giovanezza, né altra
mondana dignità è privilegiata; della quale comune legge la gravità convenne a Dante
prima per l'altrui morte provare che per la sua. Era quasi nel fine del suo vigesimoquarto
anno la bellissima Beatrice, quando, sì come piacque a Colui che tutto puote, essa,
lasciando di questo mondo l'angosce, n'andò a quella gloria che li suoi meriti l'avevano
apparecchiata. Della qual partenza Dante in tanto dolore, in tanta afflizione, in tante
lagrime rimase, che molti de suoi più congiunti e parenti ed amici niuna fine a
quelle credettero altra che solamente la morte; e questa estimarono dovere essere in
brieve, vedendo lui a niuno conforto, a niuna consolazione pòrtagli dare orecchie. Gli
giorni erano alle notte iguali e agli giorni le notti; delle quali niuna ora si trapassava
senza guai, senza sospiri e senza copiosa quantità di lagrime; e parevano li suoi occhi
due abbondantissime fontane d'acqua surgente, intanto che i più si maravigliarono donde
tanto umore egli avesse che al suo pianto bastasse. Ma, si come noi veggiamo, per lunga
usanza le passioni divenire agevoli a comportare, e similmente nel tempo ogni cosa
diminuire e perire; avvenne che Dante infra alquanti mesi apparò a ricordarsi senza
lagrime Beatrice esser morta, e con più dritto giudicio, dando alquanto il dolore luogo
alla ragione, a conoscere li pianti e li sospiri non potergli, né ancora alcuna altra
cosa, rendere la perduta donna. Per la qual cosa con più pazienza s'acconciò a sostenere
l'avere perduta la sua presenzia; né guari di spazio passò che, dopo le lasciate
lagrime, li sospiri, li quali già erano alla loro fine vicini, cominciarono in gran parte
a partirsi sanza tornare.
Egli era, sì per lo lagrimare, sì per
l'afflizione che il cuore sentiva dentro, e sì per lo non avere di sé alcuna cura, di
fuori divenuto quasi una cosa salvatica a riguardare: magro, barbuto e quasi tutto
trasformato da quello che avanti esser solea; intanto che 'l suo aspetto, non che negli
amici, ma eziandio in ciascun altro che il vedea, a forza di sé metteva compassione; come
che egli poco, mentre questa vita così lagrimosa durò, altrui che ad amici veder si
lasciasse.
Questa compassione e dubitanza di peggio
facevano li suoi parenti stare attenti a suoi conforti; li quali, come alquanto
videro le lagrime cessate e conobbero li cocenti sospiri alquanto dare sosta al faticato
petto, con le consolazioni lungamente perdute, rincominciarono a sollecitare lo
sconsolato; il quale, come che infino a quella ora avesse a tutte ostinatamente tenute le
orecchie chiuse, alquanto le cominciò non solamente ad aprire, ma ad ascoltare volentieri
ciò che intorno al suo conforto gli fosse detto. La qual cosa veggendo i suoi parenti,
acciò che del tutto non solamente de dolori il traessero ma il recassero in
allegrezza, ragionarono insieme di volergli dar moglie; acciò che, come la perduta donna
gli era stata di tristizia cagione, così di letizia gli fosse la nuovamente acquistata.
E, trovata una giovane, quale alla sua condizione era decevole, con quelle ragioni che
più loro parvero induttive, la loro intenzione gli scoprirono. E, acciò che io
particularmente non tocchi ciascuna cosa, dopo lunga tencione, senza mettere guari di
tempo in mezzo, al ragionamento seguì l'effetto: e fu sposato.
© 1997 - by prof. Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento:06 febbraio 1998