Pietro  Bembo

Gli Asolani

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TERZO  LIBRO

[3.XII.] Stette nel mio saluto alquanto sopra sé il santo uomo e poi, verso me con miglior passo facendosi, disse: "Dunque sei tu pure qui ora, il mio Lavinello". E questo detto, ravicinatomisi e di me amendue le gote soavemente prendendo, mi basciò la fronte. Nuova cosa mi fu senza fallo alcuno l'essere quivi così amichevolmente ricevuto e per nome chiamato da colui, del quale io alcuna contezza non avea, né sapea in che modo egli avere di me la si potesse. Per che da subita maraviglia soprapreso, e mirando cotal mezzo con vergogna il santo uomo pure per vedere se io racconoscere ne 'l potessi, e non racconoscendolo, sì come quello che io altra volta veduto non avea, stetti per buono spazio senza nulla dire, infino a tanto che egli, con un dolce sorriso, del mio maravigliare mostrò che s'accorgesse. Là onde io, preso ardire, così risposi: - Qui è ora, Padre, Lavinello per certo, sì come voi dite, non so se a caso venutoci o pure per volere del cielo. Ma voi il fate sopra modo maravigliare, né sa pensare come ciò sia, che voi lui conosciate, il quale né in questo luogo fu altra volta più, né vi vide, che egli sappia, giamai -. Allora il buon vecchio, che già per mano preso m'avea, movendo verso la capanna il passo, con lieto e tranquillo sembiante disse: - Io non voglio, Lavinello, che tu di cosa che ad alto possa piacere ti maravigli. Ma perciò che tu, come io veggo, a piè qui dal castello venuto, salendo il colle puoi avere alcuna fatica sostenuta più tosto che no, sì come dilicato che mi pare che tu sii, andiamci colà, e sì sederai e io ti terrò volentieri compagnia, che non sono perciò il più gagliardo uom del mondo, e quello che io so di te, sedendo e riposando, ti farò chiaro -. Indi con pochi valchi sotto alcune ginestre guidatomi, che dinanzi la picciola casa erano, sopra il piano d'un tronco d'albero, il quale, lungo le ginestre posto, a lui e a' suoi osti semplice e bastevole seggio facea, si pose a sedere e volle che io sedessi; e poi che m'ebbe alquanto lasciato riposare, incominciò: -Tanto è largo e cupo il pelago della divina providenza, o figliuolo, che la nostra umanità, in esso mettendosi, né termine alcuno vi truova, né in mezzo può fermarsi; perciò che vela di mortale ingegno tanto oltre non porta e fune di nostro giudicio, per molto che ella vi si stenda, non basta a pigliar fondo; in maniera che bene si veggono molte cose tutto dì avenire, volute e ordinate da lei, ma come elle avengano o a che fine, noi non sappiamo, sì come ora in questo mio conoscerti, di che ti maravigli, è avenuto -. E così seguendo mi raccontò che, dormendo egli questa notte prossimanamente passata, gli era nel sonno paruto vedermi a sé venire tale quale io venni, e dettogli chi io era e tutti gli accidenti di questi due passati giorni e le nostre dispute e il mio dover dire d'oggi alla presenza di Vostra Maestà e quello che io in parte pensava di dirne, che è quanto testé udito avete, raccontatogli, dimandarlo di ciò che ne gli paresse e che esso d'intorno a questo fatto dicesse, se a lui convenisse ragionarne, come a me conveniva. Là onde egli con questa imaginazione destatosi e levatosi, buona pezza v'avea pensato e tuttavia, quando io il sopragiunsi, vi pensava. Di che egli a guisa di conosciuto mi ricevette e a sé già per la contezza della notte fatto dimestico e famigliare. Crebbe in cento doppi la mia dianzi presa maraviglia, udendo il santo uomo, e la credenza, che io vi recai, della sua santità, divenne senza fine maggiore. E così tutto d'orrore e di riverenza pieno, come esso tacque: - Ben veggo io, - dissi - Padre, che io non senza volere de gl'Idii qui sono, a' quali voi cotanto siete, quanto si vede, caro. Ora, perciò che si dee credere che essi con l'avuta visione v'abbiano dimostrato essere di piacer loro che voi a questo mio maggiore uopo aiuto e consiglio mi prestiate, credo io acciò che la nostra Reina, dolce cura della loro maestà, non come io posso ma come essi vogliono, s'onori, piacciavi al voler loro di sodisfare, ché al mio oggimai non debbo io dir più -. - Anzi pure a Colui piaccia al quale ogni ben piace, che io al tuo disiderio possa con la sua volontà sodisfare - rispose il santo uomo. E così risposto e gli occhi verso il cielo alzati e per picciolo spazio con fiso sguardo tenutovegli, a me rivolto in questa guisa riprese a dire:

[3.XIII.] - Grande fascio avete tu e i tuoi compagni abbracciato, Lavinello, a me oggimai non meno di figliuol caro, a dir d'Amore e della sua qualità prendendo: sì perché infinita è la moltitudine delle cose che dire vi si posson sopra, e sì ancora maggiormente perciò che tutto il giorno tutte le genti ne quistionano, quelle parti ad esso dando, che meno gli si converrebbe dare, e quelle che sono sue certissime, propriissime, necessariissime tacendo e da parte lasciando per non sue; la qual cosa ci fa poi più malagevole il ritrovarne la verità contro le openioni de gli altri uomini, quasi allo 'ndietro caminando. Non pertanto non dee alcuno di cercarne spaventarsi e, perché faticoso sia il poter giugnere a questo segno, ritrarsi da farne pruova. Perciò che di poche altre cose può avenire, o forse di non niuna, che lo intendere ciò che elle sono più ci debba esser caro, che il sapere che cosa è Amore. Il che quanto a voi sia ora nelle dispute de' tuoi compagni e in quello che tu stimi di poterne dire avenuto, e chi più oltre si sia fatto di questo intendimento e chi meno, ne rimetto io a madonna la Reina il giudicio. Ma dello avere avuto ardire di cercarne, bella loda dare vi se ne conviene. Tuttavolta se a te giova che io ancora alcuna cosa ne rechi sopra e più avanti se ne cerchi, facciasi a tuo sodisfaccimento, pure che non istimi che la verità sotto queste ginestre più che altrove si stia nascosa. E a.ffine che tu in errore non istii di ciò che detto hai, che Amore e disidero sono quello stesso, io ti dico che egli nel vero non è così. Ma veggasi prima che cosa in noi o pure che parte di noi è Amore; dapoi, che egli non sia disidero, ti farò chiaro. È adunque da sapere che, sì come nella nostra intellettiva parte dell'animo sono pure tre parti o qualità o spezie, ciascuna di loro differente dall'altre e separata (perciò che v'è primieramente l'intelletto, che è la parte di lei acconcia e presta allo 'ntendere e può nondimeno ingannarsi; v'è per secondo lo intendere, che io dico, il quale non sempre ha luogo, ché non sempre s'intendono le intelligibili cose, anzi non ha egli se non tanto, quanto esso intelletto si muove e volge con profitto d'intorno a quello che a lui è proposto per intendersi e per sapersi; èvvi dopo queste ultimamente e di loro nasce quella cosa o luce o imagine o verità, che dire la vogliamo, che a noi bene intesa si dimostra, frutto e parto delle due primiere, la qual tuttavia, se è male intesa, né verità né imagine né luce dire si può, ma caligine e abbagliamento e menzogna), così, né più né meno, sono nella nostra vogliosa parte del medesimo animo pure tre spezie, per gli loro ufficii propria e dall'altre due partita ciascuna. Con ciò sia cosa che v'è di prima la volontà, la qual può e volere parimente e disvolere, fonte e capo delle due seguenti; e che v'è dopo questa il volere, di cui parlo, e ciò è il disporsi a mettere in opera essa volontà o molto o poco, o ancora contrariamente, che è disvolendo; e che v'è per ultimo quello, che di queste due si genera: il che, se piace, amore è detto, se dispiace, odio per lo suo contrario necessariamente si convien dire. Nasce adunque amore, Lavinello, e creasi nella guisa che tu hai veduto, e è in noi o di noi quella parte, che tu intendi. Ora che egli non sia disiderio in questo modo potrai vedere. Perciò che bene è vero che disiderar cosa per noi non si può, che non s'ami, ma non perciò ne viene che non s'ami cosa, che non si disideri altresì; perciò che se n'amano molte e non si disiderano, e ciò sono tutte quelle che si posseggono; ché, tosto che noi alcuna cosa possediamo, a noi manca di lei il disiderio in quella parte che noi la possediamo, e in luogo di lui sorge e sottentra il piacere. Ché altri non disidera quello che egli ha, ma egli se ne diletta godendone; e tuttavia egli l'ama e hallo caro vie più che prima: sì come fai tu, il quale, mentre ancor bene l'arte del verseggiare e del rimare non sapevi, sì l'amavi tu assai, sì come cosa bella e leggiadra che ella è, e insieme la disideravi; ma ora che l'hai e usar la sai, tu più non la disideri, ma solamente a te giova e ètti caro di saperla e amila molto ancor più, che tu prima che la sapessi e possedessila non facevi. La qual cosa meglio ti verrà parendo vera, se tu a quello che odio e timor siano parimente risguarderai. Perciò che quantunque temere di niuna cosa non si possa, che non s'abbia in odio, pure egli non è che alle volte non s'odii alcuna cosa senza temerla. Ché tu puoi avere in odio i violatori delle mogli altrui, e di loro tuttavia non temi, perciò che tu moglie non hai, che essere ti possa violata. E io in odio ho i rubatori dell'altrui ricchezze, né perciò di lor temo, ché io non ho ricchezza da temerne, come tu vedi. Per la qual cosa ne segue che, sì come odio può in noi essere senza timore, così vi può amore essere senza disio. Non è adunque disio Amore, ma è altro.

[3.XIV.] Tuttavia io non voglio, Lavinello, ragionar teco e disputare così sottilmente come per aventura farei tra filosofi e nelle scuole. E sia per me, se così a te piace, amore e disidero quello stesso. Ma io sapere da te vorrei, poscia che tu questa notte detto m'hai che amore può essere e buono e reo, secondo la qualità de gli obbietti e il fine che gli è dato, perché è che gli amanti alle volte s'appigliano ad obbietti malvagi e cattivi. Non è egli per ciò, che essi nello amare più il senso seguono che la ragione? -.
      - Non per altro, che io mi creda, - risposi - Padre, che per cotesto -.
      - Ora se io ti dimanderò allo 'ncontro - seguitò il santo uomo - perché aviene che gli amanti eziandio s'invogliano de gli obbietti convenevoli e sani, non mi risponderai tu ciò avenire per questo, che essi, amando, quello che la ragione detta loro più seguono, che quello che il senso pon loro innanzi? -.
      - Così vi risponderò, - dissi io - e non altramente -.
      - È adunque - diss'egli - ne gli uomini il seguir la ragione più che il senso, buono, e allo 'ncontro il seguire il senso più che la ragione, reo -.
      - È - dissi io - senza fallo alcuno -.
      - Ora mi di', - riprese egli - che cagione fa che ne gli uomini seguire il senso più che la ragione sia reo? -.
      - Fallo - risposi - ciò, che essi la cosa migliore abandonano, che è la ragione, e essa lasciano, che appunto è la loro, là dove alla men buona s'appigliano, che è il senso, e esso seguono, che non è il loro -.
      - Che la ragione miglior cosa non sia che il senso, io - diss'egli - non ti niego, ma come di' tu che il senso non è il loro? non è egli de gli uomini il sentire? -.
      - A quello che io avedere me ne possa, Padre, voi ora mi tentate, - risposi - ma io nondimeno v'ubidirò -; e dissi: - Sì come nelle scale sono gradi, de' quali il primiero e più basso niuno n'ha sotto sé, ma il secondo ha il primo e il terzo ha l'uno e l'altro e il quarto tutti e tre, così nelle cose che Dio create ha infino alla spezie de gli uomini, dalla più vile incominciando, essere si vede avenuto. Perciò che sono alcune che altro che l'essere semplice non hanno, sì come sono le pietre e questo morto legno, che noi ora sedendo premiamo. Altre hanno l'essere e il vivere, sì come sono tutte le erbe, tutte le piante. Altre hanno l'essere e la vita e il senso, sì come hanno le fiere. Altre poi sono, che hanno l'essere e la vita e il senso e la ragione, e questi siam noi. Ma perciò che quella cosa più si dice esser di ciascuno, che altri meno ha, come che l'essere e il vivere sieno parimente delle piante, non si dice tuttavia se non che il vivere è il loro, perciò che l'essere delle pietre è e di molte altre cose parimente, delle quali non è poi la vita. E quantunque l'essere e il vivere e il sentire sieno delle fiere, come io dissi, medesimamente ciascuno, non pertanto il sentire solamente si dice essere il loro, perciò che il vivere esse hanno in comune con le piante e l'essere hanno in comune con le piante e con le pietre, delle quali non è il sentire. Simigliantemente perché l'essere e il vivere e il senso e la ragione sieno in noi, dire per questo non si può che l'essere sia il nostro o il vivere o il sentire, che sono dalle tre maniere, che io dico, avute medesimamente e non pur da noi, ma dicesi che è la ragione, di cui le tre guise delle create cose sotto noi non hanno parte -.
      - Se così è, - disse allora il santo uomo - che la ragione sia de gli uomini e il senso delle fiere, perciò che dubbio non è che la ragione più perfetta cosa non sia che il senso, quelli che amando la ragione seguono, ne' loro amori la cosa più perfetta seguendo, fanno in tanto come uomini, e quelli che seguono il senso, dietro alla meno perfetta mettendosi, fanno come fiere -.
      - Così non fosse egli da questo canto, - risposi io - Padre, vero cotesto che voi dite, come egli è -.
      - Adunque possiamo noi la miglior parte nello amare abandonando, - diss'egli - che è la nostra, alla men buona appigliarci, che è l'altrui? -.
      - Possiamo - rispos'io - per certo -.
      - Ma perché è - diss'egli - che noi questo possiamo? -.
      - Perciò che la nostra volontà, - risposi - con la quale ciò si fa o non fa, è libera e di nostro arbitrio, come io dissi, e non stretta o, più a questo che a quello seguire, necessitata -.
      - Ora le fiere - seguitò egli - possono elleno ciò altresì fare, che la miglior parte e quella che è la loro abandonino e a dietro lascino giamai? -.
      - Io direi che esse abandonare non la possono, - risposi - se non sono da istrano accidente violentate. Perciò che ad esse volontà libera non è data, ma solo appetito, il quale, dalla forma delle cose istrane con lo strumento delle sentimenta invitato, sempre dietro al senso si gira. Perciò che il cavallo, quandunque volta a bere ne lo 'nvita il gusto, veduta l'acqua, egli vi va e a bere si china, dove, la briglia ritraendo, non gliele vieti colui che gli è sopra -.

[3.XV.] - Quanto vorrei che tu altramente m'avessi potuto rispondere, Lavinello - disse il santo uomo. - Perciò che, se noi possiamo ne' nostri amori, alla men buona parte appigliandoci, la migliore abandonare, e le fiere non possono, esse non operando come piante e noi operando come fiere, piggior condizione pare che sia in questo la nostra, figliuolo, a quello che ne segue, che non pare la loro; e questa nostra volontà libera, che tu di', a nostro male ci sarà suta data, se questo è vero. E potrassi credere che la natura, quasi pentita d'avere tanti gradi posti nella scala delle spezie, che tu di', poscia che ella ci ebbe creati col vantaggio della ragione, più ritorre non la ne potendo, questa libertà ci abbia data dell'arbitrio, affine che in questa maniera noi medesimi la ci togliessimo, del nostro scaglione volontariamente a quello delle fiere scendendo; a guisa di Phebo, il quale, poscia che ebbe alla troiana Cassandra l'arte dell'indovinare donata, pentitosi e quello che fatto era frastornare non si possendo, le diede che ella non fosse creduta. Ma tu per aventura che ne stimi? parti egli che così sia? -.
      - Io, Padre, quello che me ne paia o non paia, non so dire, - risposi - se io non dico che tanto a me ne pare, quanto pare a voi. Ma pure volete voi che io creda che la natura si possa pentere, che non può errare? -.
      - Mai no, che io non voglio che tu il creda - disse il santo uomo. - Ben voglio che tu consideri, figliuolo, che la natura, la quale nel vero errar non può, non avrebbe alla nostra volontà dato il potere, dietro al senso sviandoci, farci scendere alla spezie che sotto noi è, se ella dato medesimamente non l'avesse il potere, dietro alla ragione inviandoci, a quella farci salire che c'è sopra. Perciò che ella sarebbe stata ingiusta, avendo nelle cose, da sé in uso e in sostentamento di noi create, posta necessità di sempre in quelli privilegi servarsi, che ella concessi ha loro; a noi, che signori ne siamo e a' quali esse tutte servono, avere dato arbitrio d'arrischiare il capitale da lei donatoci sempre in perdita, ma in guadagno non mai. Né è da credere che alle tante e così possenti maniere d'allettevoli vaghezze, che le nostre sentimenta porgono all'animo in ogni stato in ogni tempo in ogni luogo, perché noi dietro all'appetito avallandoci sozze fiere diveniamo, ella ci abbia concesso libero e agevole inchinamento; e a quelle che lo 'ntelletto ci mette innanzi, affine che noi con la ragione inalzandoci diveniamo Idii, ella il poter poggiare ci abbia tolto e negato. Perciò che, o Lavinello, che pensi tu che sia questo eterno specchio dimostrantesi a gli occhi nostri, così uno sempre, così certo, così infaticabile, così luminoso, del sole, che tu miri? e quell'altro della sorella, che uno medesimo non è mai? e gli tanti splendori che da ogni parte si veggono di questa circonferenza che intorno ci si gira, ora queste sue bellezze ora quelle altre scoprendoci, santissima, capacissima, maravigliosa? Elle non sono altro, figliuolo, che vaghezze di Colui che è di loro e d'ogni altra cosa dispensatore e maestro, le quali egli ci manda incontro a guisa di messaggi, invitantici ad amar lui. Perciò che dicono i savi uomini che, perciò che noi di corpo e d'animo constiamo, il corpo, sì come quello che d'acqua e di fuoco e di terra e d'aria è mescolato, discordante e caduco da' nostri genitori prendiamo, ma l'animo esso ci dà purissimo e immortale e di ritornare a lui vago, che ce l'ha dato. Ma perciò che egli in questa prigione delle membra rinchiuso più anni sta, che egli lume non vede alcuno, mentre che noi fanciulli dimoriamo, e poscia, dalla turba delle giovenili voglie ingombrato, ne' terrestri amori perdendosi può del divino dimenticarsi, esso in questa guisa il richiama, il sole ogni giorno, le stelle ogni notte, la luna vicendevolmente dimostrandoci. Il quale dimostramento che altro è, se non una eterna voce che ci sgrida: "O stolti, che vaneggiate? Voi ciechi, d'intorno a quelle vostre false bellezze occupati, a guisa di Narciso vi pascete di vano disio, e non v'accorgete che elle sono ombre della vera, che voi abandonate. I vostri animi sono eterni: perché di fuggevole vaghezza gl'innebbriate? Mirate noi, come belle creature ci siamo, e pensate quanto dee esser bello Colui, di cui noi siam ministre".

[3.XVI.] E senza dubbio, figliuolo, se tu, il velo della mondana caliggine dinanzi a gli occhi levandoti, vorrai la verità sanamente considerare, vedrai alla fine altro che stolto vaneggiamento non essere tutti i vostri più lodati disii. Che per tacere di quegli amori, i quali di quanta miseria sien pieni li perottiniani amanti e Perottino medesimo essere ce ne possono abondevole essempio, che fermezza, che interezza, che sodisfazione hanno perciò quegli altri ancora, che essi cotanto cercar si debbano e pregiare, quanto Gismondo ne ha ragionato? Senza fallo tutte queste vaghezze mortali che pascono i nostri animi, vedendo, ascoltando e per l'altre sentimenta valicando e mille volte col pensiero entrando e rientrando per loro, né come esse giovino so io vedere, quando elle a poco a poco in maniera di noi s'indonnano, co' loro piaceri pigliandoci, che poi ad altro non pensiamo, e gli occhi alle vili cose inchinati, con noi medesimi non ci raffrontiamo giamai, e infine, sì come se il beveraggio della maliosa Circe preso avessimo, d'uomini ci cangiamo in fiere; né in che guisa esse così pienamente dilettino so io considerare: pogniamo ancora che falso diletto non sia il loro, quando elle sì compiute essere in suggietto alcuno non si vedono, né vedranno mai, che esse da ogni parte sodisfacciano chi le riceve, e pochissime sono le più che comportevolmente non peccanti. Senza che esse tutte ad ogni brieve caldicciuolo s'ascondono di picciola febbre che ci assaglia, o almeno gli anni vegnenti le portan via, seco le giovanezza, la bellezza, la piacevolezza, i vaghi portamenti, i dolci ragionamenti, i canti, i suoni, le danze, i conviti, i giuochi e gli altri piaceri amorosi traendo. Il che non può non essere di tormento a coloro che ne son vaghi, e tanto ancor più, quanto più essi a que' diletti si sono lasciati prendere e incapestrare. A' quali se la vecchiezza non toglie questi disii, quale più misera disconvenevolezza può essere che la vecchia età di fanciulle voglie contaminare, e nelle membra tremanti e deboli affettare i giovenili pensieri? Se gli toglie, quale sciocchezza è amar giovani così accesamente cose, che poi amare quelli medesimi non possono attempati? e credere che sopra tutto e giovevole e dilettevole sia quello, che nella miglior parte della vita né diletta né giova? Ché miglior parte della vita nostra è per certo quella, figliuolo, in cui la parte di noi migliore, che è l'animo, dal servaggio de gli appetiti liberata, regge la men buona temperatamente, che è il corpo, e la ragione guida il senso, il quale dal caldo della giovanezza portato non l'ascolta, qua e là dove esso vuole scapestratamente traboccando. Di che io ti posso ampissima testimonianza dare, che giovane sono stato altresì, come tu ora sei; e quando alle cose, che io in quegli anni più lodar solea e disiderare, torno con l'animo ripensando, quello ora di tutte me ne pare, che ad un bene risanato infermo soglia parere delle voglie che esso nel mezzo delle febbri avea, che schernendosene conosce di quanto egli era dal convenevole conoscimento e gusto lontano. Per la qual cosa dire si può che sanità della nostra vita sia la vecchiezza e la giovanezza infermità; il che tu, quando a quegli anni giugnerai, vederai così esser vero, se forse ora veder no 'l puoi.
       Ma tornando al tuo compagno, che ha le molte feste de' suoi amanti cotanto sopra 'l cielo tolte ne' suoi ragionamenti, lasciamo stare che le minori di loro asseguire non si possano senza mille noie tuttavia, ma quando è che egli, nel mezzo delle sue più compiute gioie, non sospiri alcun'altra cosa più che prima disiderando? o quando aviene che quella conformità delle voglie, quella comunanza de' pensieri, della fortuna, quella concordia di tutta una vita in due amanti si trovi, quando si vede niuno essere che ogni giorno seco stesso alle volte non si discordi, e talora in maniera che, se uno lasciare se medesimo potesse, come due possono l'uno l'altro, molti sono che si lascierebbono e un altro animo si piglierebbono e un altro corpo? E per venire, Lavinello, eziandio a' tuoi amori, io di certo gli loderei e passerei nella tua openione in parte, se essi a disiderio di più giovevole obbietto t'invitassero, che quello non è, che essi ti mettono innanzi, e non tanto per sé soli ti piacessero, quanto perciò che essi ci possono a miglior segno fare e meno fallibile intesi. Perciò che non è il buono amore disio solamente di bellezza, come tu stimi, ma è della vera bellezza disio; e la vera bellezza non è umana e mortale, che mancar possa, ma è divina e immortale, alla qual per aventura ci possono queste bellezze inalzare, che tu lodi, dove elle da noi sieno in quella maniera, che esser debbono, riguardate. Ora che si può dire in loro loda per ciò, che pure sopra il convenevole non sia? con ciò sia cosa che, del loro allettamento presi, si lascia il vivere in questa umana vita come Idii. Perciò che Idii sono quegli uomini, figliuolo, che le cose mortali sprezzano come divini e alle divine aspirano come mortali, che consigliano, che discorrono, che prevedono, che hanno alla sempiternità pensamento, che muovono e reggono e temprano il corpo, che è loro in governo dato, come de gli dati nel loro fanno e dispongono gli altri Idii. O pure che bellezza può tra noi questa tua essere, così piacevole e così piena, che proporzion di parti, che in umano ricevimento si trovino, che convenenza, che armonia, che ella empiere giamai possa e compiere alla nostra vera sodisfazione e appagamento? O Lavinello, Lavinello, non sei tu quello che cotesta forma ti dimostra, né sono gli altri uomini ciò che di fuori appare di loro altresì. Ma è l'animo di ciascuno quello che egli è, e non la figura, che col dito si può mostrare. Né sono i nostri animi di qualità, che essi con alcuna bellezza, che qua giù sia, conformare si possano e di lei appagarsi giamai. Che quando bene tu al tuo animo quante ne sono potessi por davanti e la scielta concedergli di tutte loro e riformare a tuo modo quelle, che in alcuna parte ti paressero mancanti, non lo appagheresti perciò, né men tristo ti partiresti da' piaceri che avessi di tutte presi, che da quegli ti soglia partire che prendi ora. Essi, perciò che sono immortali, di cosa che mortal sia non si possono contentare. Ma perciò che sì come dal sole prendono tutte le stelle luce, così quanto è di bello oltra lei dalla divina eterna bellezza prende qualità e stato, quando di queste alcuna ne vien loro innanzi, bene piacciono esse loro e volentieri le mirano, in quanto di quella sono imagini e lumicini, ma non se ne contentano né se ne sodisfanno tuttavia, pure della eterna e divina, di cui esse sovengono loro e che a cercar di se medesima sempre con occulto pungimento gli stimola, disiderosi e vaghi. Per che sì come quando alcuno, in voglia di mangiare preso dal sonno e di mangiar sognandosi, non si satolla, perciò che non è dal senso, che cerca di pascersi, la imagine del cibo voluta, ma il cibo, così noi, mentre la vera bellezza e il vero piacere cerchiamo, che qui non sono, le loro ombre, che in queste bellezze corporali terrene e in questi piaceri ci si dimostrano, aggogniando, non pasciamo l'animo, ma lo inganniamo. La qual cosa è da vedere che per noi non si faccia, acciò che con noi il nostro buon guardiano non s'adiri e in balìa ci lasci del malvagio, veggendo che per noi più amore ad una poca buccia d'un volto si porta e a queste misere e manchevoli e bugiarde vaghezze, che a quello immenso splendore, del quale questo sole è raggio, e alle sue vere e felici e sempiterne bellezze non portiamo. E se pure questo nostro vivere è un dormire, sì come coloro i quali a gran notte addormentati con pensiero di levarsi la dimane per tempo e dal sonno sopratenuti si sognano di destarsi e di levarsi, per che tuttavia dormendo si levano e presa la guarnaccia s'incomiciano a vestire, così noi, non delle imagini e sembianze del cibo e di questi aombrati diletti e vani, ma del cibo istesso e di quella ferma e soda e pura contentezza nel sonno medesimo procacciamo e a pascere incominciancene così sogniando, acciò che poi, risvegliati, alla Reina delle Fortunate isole piacciamo. Ma tu forse di questa Reina altra volta non hai udito -.
      - Non, Padre, - diss'io - che me ne paia ricordare, né intendo di qual piacimento vi parliate -.
      - Dunque l'udirai tu ora - disse il santo uomo, e seguitò:

[3.XVIII.] - Hanno tra le loro più secrete memorie gli antichi maestri delle sante cose, essere una Reina in quelle isole, che io dico, Fortunate, bellissima e di maraviglioso aspetto e ornata di cari e preziosi vestiri e sempre giovane. La qual marito non vuole già e servasi vergine tutto tempo, ma bene d'essere amata e vagheggiata si contenta. E a quegli che più l'amano ella maggior guiderdone dà de' loro amori, e convenevole, secondo la loro affezione, a gli altri. Ma ella di tutti in questa guisa ne fa pruova. Perciò che venuto che ciascuno l'è davanti, che è secondo che essi sono da lei fatti chiamare or uno or altro, essa, con una verghetta toccatigli, ne gli manda via. E questi, incontanente che del palagio della Reina sono usciti, s'addormentano, e così dormono infino a tanto che essa gli fa risvegliare. Ritornano adunque costoro davanti la Reina un'altra volta risvegliati, e i sogni che hanno fatti dormendo porta ciascuno scritti nella fronte tali, quali fatti gli hanno, né più né meno, i quali essa legge prestamente. E coloro i cui sogni ella vede essere stati solamente di cacciagioni, di pescagioni, di cavagli, di selve, di fiere, essa da sé gli scaccia e mandagli a stare così vegghiando tra quelle fiere, con le quali essi dormendo si sono di star sognati, perciò che dice che, se essi amata l'avessero, essi almeno di lei si sarebbono sognati qualche volta, il che poscia che essi non hanno fatto giamai, vuole che vadano e sì si vivano con le lor fiere. Quegli altri poi a' quali è paruto ne' loro sogni di mercatantare o di governare le famiglie e le comunanze o di fare somiglianti cose, tuttavvia poco della Reina ricordandosi, essa gli fa essere altresì quale mercatante, quale cittadino, quale anziano nelle sue città, di cure e di pensieri gravandogli e poco di loro curandosi parimente. Ma quelli che si sono sognati con lei, essa gli tiene nella sua corte a stare e a ragionar seco tra suoni e canti e sollazzi d'infinito contento, chi più presso di sé e chi meno, secondo che essi con lei sognando più o meno si sono dimorati ciascuno. Ma io per aventura, Lavinello, oggimai troppo lungamente ti dimoro, il quale più voglia dei avere o forse mestiero di ritornarti alla tua compagnia, che di più udirmi. Senza che oltre a ciò a te gravoso potrà essere lo indugiare a più alto sole la partita, che oggimai tutto il cielo ha riscaldato e vassi tuttavia rinforzando -.
      - A me voglia né mestiero fa punto che sia, Padre, - diss'io - ancora di ritornarmi, e dove a voi noioso non sia il ragionare, sicuramente niuna cosa mi ricorda che io facessi giamai così volentieri, come ora volentieri v'ascolto. Né di sole che sormonti vi pigliate pensiero, poscia che io altro che a scendere non ho, il che ad ogni ora far si può agevolmente -.
      - Noioso a gli antichi uomini non suole già essere il ragionare, - disse il buon vecchio - che è più tosto un diporto della vecchiezza che altro. Né a me può noiosa esser cosa che di piacere ti sia. Per che seguasi -. E così seguendo, disse:

[3.XIX.] - Dirai adunque a Perottino e Gismondo, figliuolo, che se essi non vogliono essere tra le fiere mandati a vegghiare, quando essi si risveglieranno, essi miglior sogno si procaccino di fare, che quello non è, che essi ora fanno. E tu, Lavinello, credi che non sarai perciò caro alla Reina, che io dico, poscia che tu poco di lei sognandoti, tra questi tuoi vaneggiamenti consumi più tosto senza pro, che tu in alcuna vera utilità di te usi e spenda, il dormire che t'è dato. E infine sappi che buono amore non è il tuo. Il quale, posto che non sia malvagio in ciò, che con le bestievoli voglie non si mescola, sì è egli non buono in questo, che egli ad immortale obbietto non ti tira, ma tienti nel mezzo dell'una e dell'altra qualità di disio, dove il dimorare tuttavia non è sano, con ciò sia cosa che nel pendente delle rive stando, più agevolmente nel fondo si sdrucciola, che alla vetta non si sale. E chi è colui che a' piaceri d'alcun senso dando fede, per molto che egli si proponga di non inchinare alle ree cose, egli non sia almeno alle volte per inganno preso, considerando che pieno d'inganni è il senso, il quale una medesima cosa quando ci fa parer buona, quando malvagia, quando bella, quando sozza, quando piacevole, quando dispettosa? Senza che come può essere alcun disio buono, che ponga ne' diletti delle sentimenta quasi nell'acqua il suo fondamento, quando si vede che essi avuti inviliscono, e tormentano non avuti, e tutti sono brevissimi e di fugitivo momento? Né fanno le belle e segnate parole, che da cotali amanti sopra ciò si dicono, che pure così non sia. I qua' diletti tuttavolta, se il pensiero fa continui, quanto sarebbe men male che noi la mente non avessimo celeste e immortale, che non è, avendola, di terreno pensiero ingombrarla e quasi sepellirla? Ella data non ci fu, perché noi l'andassimo di mortal veleno pascendo, ma di quella salutevole ambrosia, il cui sapore mai non tormenta, mai non invilisce, sempre è piacevole, sempre caro. E questo altramente non si fa, che a quello dio i nostri animi rivolgendo, che ce gli ha dati. Il che farai tu, figliuolo, se me udirai; e penserai che esso tutto questo sacro tempio, che noi mondo chiamiamo, di sé empiendolo, ha fabricato con maraviglioso consiglio ritondo e in se stesso ritornante e di se medesimo bisognoso e ripieno; e cinselo di molti cieli di purissima sustanza sempre in giro moventisi e allo 'ncontro del maggiore tutti gli altri, ad uno de' quali diede le molte stelle, che da ogni parte lucessero, e a quelli, di cui esso è contenitore, una n'assegnò per ciascuno, e tutte volle che il loro lume da quello splendore pigliassero, che è reggitore de' loro corsi, facitore del dì e della notte, apportatore del tempo, generatore e moderatore di tutte le nascenti cose. E questi lumi fece che s'andassero per li loro cerchi ravolgendo con certo e ordinato giro, e il loro assegnato camino fornissero e fornito rincominciassero, quale in più brieve tempo e quale in meno. E sotto questi tutti diede al più puro elemento luogo e appresso empié d'aria tutto ciò che è infino a noi. E nel mezzo, sì come nella più infima parte, fermò la terra, quasi aiuola di questo tempio; e d'intorno a.llei sparse le acque, elemento assai men grave che essa non è, ma vie più grave dell'aria, di cui è poscia il fuoco più leggiero. Quivi diletto ti sarà estimare in che maniera per queste quattro parti le quattro guise della loro qualità si vadano mescolando, e come esse in un tempo e accordanti sieno e discordanti tra loro; mirare gli aspetti della mutabile luna; riguardare alle fatiche del sole; scorgere gli altri giri dell'erranti stelle e di quelle che non sono così erranti e, di tutti le cagioni, le operagioni considerando, portar l'animo per lo cielo e, quasi con la natura parlando, conoscere quanto brieve e poco è quello che noi qui amiamo, quando il più lungo spazio di questa nostra vita mortale due giorni appena non sono d'uno de' veri anni di questi cieli e quando la minore delle conosciute stelle di quel tanto e così infinito numero è di tutta questa soda e ritonda circunferenza, che terra è detta, maggiore, per cui noi cotanto c'insuperbiamo, della quale ancora quello che noi abitiamo è, a rispetto dell'altro, stretta e menomissima particiuola. Senza che qua ogni cosa v'è debole e inferma: venti, piogge, ghiacci, nevi, freddi, caldi vi sono, e febbri e fianchi e stomachi e gli altri cotanti morbi, i quali nel votamento del buon vaso, male per noi dall'antica Pandora scoperchiato, ci assalirono; dove là ogni cosa v'è sana e stabile e di convenevole perfezion piena, ché né morte v'è né aggiugne, né vecchiezza vi perviene, né difetto alcuno v'ha luogo.

[3.XX.] Ma vie maggior diletto ti sarà e più senza fine maraviglioso, se tu da questi cieli che si veggono a quelli che non si veggono passerai, e le vere cose che ivi sono contempierai, d'uno ad altro sormontando, e in questo modo a quella bellezza, che sopra essi e sopra ogni bellezza è, inalzerai, Lavinello, i tuoi disii. Perciò che certa cosa è tra coloro, che usati sono di mirare non meno con gli occhi dell'animo che del corpo, oltra questo sensibile e material mondo, di cui e io ora t'ho ragionato e ciascuno ne ragiona più spesso, perciò che si mira, essere un altro mondo ancora né materiale né sensibile, ma fuori d'ogni maniera di questo separato e puro, che intorno il sopragira e che è da lui cercato sempre e sempre ritrovato parimente, diviso da esso tutto, e tutto in ciascuna sua parte dimorante, divinissimo, intendentissimo, illuminatissimo e esso stesso di se stesso e migliore e maggiore tanto più, quanto egli più si fa alla sua cagione ultima prossimano; nel qual cielo bene ha eziandio tutto quello che ha in questo, ma tanto sono quelle cose di più eccellente stato, che non son queste, quanto tra queste sono le celesti a miglior condizione, che le terrene. Perciò che ha esso la sua terra, come si vede questo avere, che verdeggia, che manda fuori sue piante, che sostiene suoi animali; ha il mare, che per lei si mescola; ha l'aria, che li cigne; ha il fuoco; ha la luna; ha il sole; ha le stelle; ha gli altri cieli. Ma quivi né seccano le erbe, né invecchiano le piante, né muoiono gli animali, né si turba il mare, né s'oscura l'aere, né riarde il fuoco, né sono a continui rivolgimenti i suoi lumi necessitati o i suoi cieli. Non ha quel mondo d'alcun mutamento mestiero, perciò che né state, né verno, né hieri, né dimane, né vicinanza, né lontananza, né ampiezza, né strettezza lo circonscrive, ma del suo stato si contenta, sì come quello che è della somma e per se stessa bastevole felicità pieno; della quale gravido egli partorisce, e il suo parto è questo mondo medesimo che tu miri. Fuori del quale, se per aventura non ci pare che altro possa essere, a noi adivien quello che adiverrebbe ad uno, il quale, ne' cupi fondi del mare nato e cresciuto, quivi sempre dimorato si fosse, perciò che egli non potrebbe da sé istimare che sopra l'acque v'avesse altre cose, né crederebbe che frondi più belle che alga, o campi più vaghi che di rena, o fiere più gaie che pesci, o abitazioni d'altra maniera che di cavernose pietre, o altre elementa che terra e acqua fossero e vedessersi in alcun luogo. Ma se esso a noi passasse e al nostro cielo, veduto de' prati e delle selve e de' colli la dipintissima verdura e la varietà de gli animali, quali per nodrirci e quali per agevolarci nati, veduto le città, le case, i templi che vi sono, le molte arti, la maniera del vivere, la purità dell'aria, la chiarezza del sole, che spargendo la sua luce per lo cielo fa il giorno, e gli splendori della notte, che nella sua oscura ombra e dipinta la rendono e meravigliosa, e le altre così diverse vaghezze del mondo e così infinite, esso s'avedrebbe quanto egli falsamente credea e non vorrebbe per niente alla sua primiera vita ritornare. Così noi miseri, d'intorno a questa bassa e fecciosa palla di terra mandati a vivere, bene miriamo l'aere e gli uccelli che 'l volano con quella maraviglia medesima, con la quale colui farebbe il mare e i pesci che lo natano parimente, e per le bellezze eziandio discorriamo di questi cieli che in parte vediamo; ma che oltre a questi altre cose sieno vie più da dovere a noi essere, che le nostre a quel marino uomo non sarebbono, e maravigliose e care, o in che modo ciò sia, nella nostra povera stimativa non cape. Ma se alcuno Idio vi.cci portasse, Lavinello, e mostrasseleci, quelle cose solamente vere cose ci parrebbono, e la vita, che ivi si vivesse, vera vita, e tutto ciò che qui è, ombra e imagine di loro essere e non altro; e giù in queste tenebre riguardando da quel sereno, gli altri uomini, che qui fossero, chiameremmo noi miseri e di loro ci prenderebbe pietà, non che noi più a così fatto vivere tornassimo di nostra volontà giamai.

[3.XXI.] Ma che ti posso io, Lavinello, qui dire? Tu sei giovane e, non so come, quasi per lo continuo pare che nella giovanezza non appiglino questi pensieri o, se appigliano, sì come pianta in aduggiato terreno essi poco allignano le più volte. Ma se pure nel tuo giovane animo utilmente andassero innanzi, dove tu al fosco lume di due occhi, pieni già di morte, qua giù t'invaghi, che si può istimare che tu a gli splendori di quelle eterne bellezze facessi, così vere, così pure, così gentili? E se la voce d'una lingua, la quale poco avanti non sapea fare altro che piagnere e di qui a poco starà muta sempre, ti suole essere dilettevole e cara, quanto si dee credere che ti sarebbe caro il ragionare e l'armonia che fanno i cori delle divine cose tra loro? E quando, a gli atti d'una semplice donnicciuola, che qui empie il numero dell'altre, ripensando, prendi e ricevi sodisfaccimento, quale sodisfaccimento pensi tu che riceverebbe il tuo animo, se egli da queste caliggini col pensiero levandosi e puro e innocente a quelli candori passando, le grandi opere del Signore, che là su regge, mirasse e rimirasse intentamente e ad esso con casto affetto offeresse i suoi disii? O figliuolo, questo piacere è tanto, quanto comprendere non si può da chi no 'l pruova, e provar non si può, mentre di quest'altri si fa caso. Perciò che con occhi di talpa, sì come i nostri animi sono di queste voglie fasciati, non si può sofferire il sole. Quantunque ancora con purissimo animo compiutamente non vi s'aggiugne. Ma, sì come quando alcuno strano passando dinanzi al palagio d'un re, come che egli no 'l veda, né altramente sappia che egli re sia, pensa fra se stesso quello dovere essere grande uomo che quivi sta, veggendo pieno di sergenti ciò che v'è, e tanto maggiore ancora lo stima, quanto egli vede essere quegli medesimi sergenti più orrevoli e più ornati, così tutto che noi quel gran Signore con veruno occhio non vediamo, pure possiam dire che egli gran Signore dee essere, poscia che ad esso gli elementi tutti e tutti i cieli servono e sono della sua maestà fanti. Per che gran senno faranno i tuoi compagni, se essi questo Prence corteggieranno per lo innanzi, sì come essi fatto hanno le loro donne per lo adietro, e ricordandosi che essi sono in un tempio, ad adorare oggimai si disporranno, ché vaneggiato hanno eglino assai, e, il falso e terrestre e mortale amore spogliandosi, si vestiranno il vero e celeste e immortale: e tu, se ciò farai, altresì. Perciò che ogni bene sta con questo disio e da lui ogni male è lontano. Quivi non sono emulazioni, quivi non sono sospetti, quivi non sono gielosie, con ciò sia cosa che quello che s'ama, per molti che lo amino, non si toglie che altri molti non lo possano amare e insieme goderne, non altramente che se un solo amandolo ne godesse. Perciò che quella infinita deità tutti ci può di sé contentare, e essa tuttavia quella medesima riman sempre. Quivi a niuno si cerca inganno, a niuno si fa ingiuria, a niuno si rompe fede. Nulla fuori del convenevole né si procaccia, né si conciede, né si disidera. E al corpo quello che è bastevole si dà, quasi un'offa a Cerbero, perché non latri, e all'animo quello che più è lui richiesto si mette innanzi. Né ad alcuno s'interdice il cercar di quello che egli ama, né ad alcun si toglie il potere a quel diletto aggiugnere, a cui egli amando s'invia. Né per acqua, né per terra vi si va; né muro, né tetto si sale. Né d'armati fa bisogno, né di scorta, né di messaggiero. Idio è tutto quello, che ciascun vede, che il disidera. Non ire, non scorni, non pentimenti, non mutazioni, non false allegrezze, non vane speranze, non dolori, non paure v'hanno luogo. Né la fortuna v'ha potere, né il caso. Tutto di sicurezza, tutto di contentezza, tutto di tranquillità, tutto di felicità v'è pieno.

[3.XXII.] E queste cose di qua giù, che gli altri uomini cotanto amano, per lo asseguimento delle quali si vede andare così spesso tutto 'l mondo sottosopra e i fiumi stessi correre rossi d'umano sangue e il mare medesimo alcuna fiata, il che questo nostro misero secolo ha veduto molte volte e ora vede tuttavia, gl'imperii dico e le corone e le signorie, esse non si cercano per chi là su ama più di quello che si cerchi, da chi può in gran sete l'acqua d'un puro fonte avere, quella d'un torbido e paludoso rigagno. Là dove allo 'ncontro la povertà, gli esilii, le presure se sopravengono, il che tutto dì vede avenire chi ci vive, esso con ridente volto riceve, ricordandosi che, quale panno cuopra o quale terra sostenga o qual muro chiuda questo corpo, non è da curare, pure che all'animo la sua ricchezza, la sua patria, la sua libertà, per poco amore che egli loro porti, non sia negata. E in brieve, né esso ai dolci stati con soverchio diletto si fa incontro, né dispettosamente rifiuta il vivere ne gli amari; ma sta nell'una e nell'altra maniera temperato tanto tempo, quanto al Signor, che l'ha qui mandato, piace che egli ci stia. E dove gli altri amanti e vivendo sempre temono del morire, sì come di cosa di tutte le feste loro discipatrice, e, poscia che a quel varco giunti sono, il passano sforzatamente e maninconosi, egli, quando v'è chiamato, lieto e volentieri vi va e pargli uscire d'un misero e lamentoso albergo alla sua lieta e festevole casa. E di vero che altro si può dire questa vita, la quale più tosto morte è, che noi qui peregrinando viviamo, a tante noie, che ci assalgono da ogni parte così spesso, a tante dipartenze, che si fanno ogni giorno dalle cose che più amiamo, a tante morti, che si vedono di coloro dì per dì che ci sono per aventura più cari, a tante altre cose, che ad ogni ora nuova cagione ci recano di dolerci, e quelle più molte volte, che noi più di festa e più di sollazzo doverci essere riputavamo? Il che quanto in te si faccia vero, tu il sai. A me certo pare mill'anni che io, dallo invoglio delle membra sviluppandomi e di questo carcere volando fuora, possa, da così fallace albergo partendomi, là onde io mi mossi ritornare e, aperti quegli occhi che in questo camino si chiudono, mirar con essi quella ineffabile bellezza, di cui sono amante, sua dolce mercé, già buon tempo; e ora, perché io vecchio sia, come tu mi vedi, ella non m'ha perciò meno che in altra età caro, né mi rifiuterà perché io di così grosso panno vestito le vada innanzi. Quantunque né io con questo panno v'andrò, né tu con quello v'andrai, né altro di questi luoghi si porta alcun seco dipartendosi che i suoi amori. I quali se sono di queste bellezze stati, che qua giù sono, perciò che elle colà su non salgono, ma rimangono alla terra di cui elle sono figliuole, elle ci tormentano, sì come ora ci sogliono quelli disii tormentare, de' quali godere non si può né molto né poco. Se sono di quelle di là su stati, essi maravigliosamente ci trastullano, poscia che ad esse pervenuti pienamente ne godiamo. Ma perciò che quella dimora è sempiterna, si dee credere, Lavinello, che buono amore sia quello, del quale goder si può eternamente, e reo quell'altro, che eternamente ci condanna a dolere -.
      - Queste cose ragionatemi dal santo uomo, perciò che tempo era che io mi dipartissi, egli a me rimise il venirmene -. Il che poscia che ebbe detto Lavinello, a' suoi ragionamenti pose fine.


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Edizione telematica  a cura di: Claudio Paganelli, 1999
Revisione, Edizione HTML e impaginazione a cura di: Giuseppe Bonghi, Aprile 1999
Tratto da: Pietro Bembo, Prose della volgar lingua, Gli Asolani, Rime, a cura di Carlo Dionisotti, TEA Tascabili Editori Associati, Milano 1997

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Ultimo aggiornamento: 22 aprile, 1999