Pietro Bembo
Gli Asolani
TERZO LIBRO
[3.I.]
Non si può senza maraviglia considerare, quanto sia malagevole il ritrovare la verità delle cose che in quistion cadono tutto 'l giorno. Perciò che di quante, come che sia, può alcun dubbio nelle nostre menti generarsi, niuna pare che se ne veda sì poco dubbiosa, sopra la quale e in pro e in contro disputare non si possa verisimilmente, sì come sopra la contesa di Perottino e di Gismondo, nelli dinanzi libri raccolta, s'è disputato. E furono già di coloro, che, di ciò che venisser dimandati, prometteano incontanente di rispondere. Né mancarono ingegni, che in ogni proposta materia disputassero e all'una guisa e all'altra. Il che diede per aventura occasione ad alcuni antichi filosofi di credere, che di nulla si sapesse il vero e che altro già che semplice openione e stima avere non si potesse di che che sia. La qual credenza quantunque e in que' tempi fosse dalle buone scuole rifiutata, e ora non truovi gran fatto, che io mi creda, ricevitori, pure tuttavia è rimaso nelle menti d'infiniti uomini una tacita e comune doglianza incontro la natura, che ci tenga la pura midolla delle cose così riposta e di mille menzogne, quasi di mille buccie, coperta e fasciata. Per che molti sono che, disperando di poterla in ogni quistion ritrovare, in niuna la cercano e, la colpa alla natura portando, lasciata la cognizione delle cose, vivono a caso; altri poi, e vie più molti ancora ma di meno colpevole sentimento, i quali, dalla malagevolezza del fatto inviliti, o ad altrui credono ciò che ciascuno ne dice e, a qualunque sentenza udire sono quasi dall'onde portati, in quella sì come in uno scoglio si fermano, o essi ne cercano leggiermente e di quello, che più tosto viene loro trovato, contenti, non vanno più avanti. Ma de' primieri non è da farne lungo sermone, i quali a me sembrano a male recarsi che essi sieno nati uomini più tosto che fiere, poscia che eglino, quella parte che da esse ci discosta rifiutando, privano del suo fine l'animo e del nostro maggiore ornamento spogliano e scemano la loro vita. A quest'altri si può ben dire primieramente che egli non si dee così di leggiero a rischio dell'altrui erranza porre e mandar la sua fede, quando si vede che alcuni da particolare affezione sospinti, altri dalla instituzione della vita o dalla disciplina de' seguitati studi presi e quasi legati, a ragionare e a scrivere d'alcuna cosa si muovono, e non perché essi nel vero credano e stimino che così sia (senza che sì suole egli eziandio non so come alle volte avenire che, o parlando o scrivendo d'alcuna cosa, ci sott'entra nell'animo a poco a poco la credenza di quello medesimo, che noi trattiamo); e poi, che egli non basta, poscia che essi ne cercano, leggiermente cercarne e d'ogni primo trovamento contentarsi; perciò che se a gli altri, che ne hanno cerco, non si dee subitamente credere tutto quello che essi ne dicono, perché si sono ingannar potuti, né a noi doveremo credere subitamente, che ingannare altresì ci possiamo; e sì ancora perciò che la debolezza de' nostri giudicii è molta, e di poche cose aviene che una prima e non molto considerata e con lunghe disputazioni essaminata openione sia ben sana. Che se alla debolezza de' nostri giudicii s'aggiugne la oscurità del vero, che naturalmente pare che sia in tutte le cose, vedranno chiaro questi cotali niuna altra differenza essere tra essi e quelli che di nulla cercano, che sarebbe tra chi, assalito da contrari venti sopra il nostro disagevole porto, non sperando di poterlo pigliare, levasse dal governo la mano e del tutto in loro balìa si lasciasse, né di porto né di lito procacciando, e chi, con speranza di doverlo poter pigliare, pure al terreno si piegasse, ma dove fossero i segni che la entrata dimostrano non curasse di por mente. La qual cosa non faranno quegli uomini e quelle donne che me ascolteranno; anzi, quanto essi vedranno essere e maggiore la oscurità nelle cose e ne' nostri giudicii minore e meno penetrevole la veduta, tanto più né a gli altri quistionanti ogni cosa crederanno, senza prima diligente considerazione avervi sopra, né, quando del vero in alcun dubbio cercheranno, appagheranno se stessi per cercarne poco, e meno a quello, che trovato averanno ne' primi cercari, comunque loro paia potersene sodisfare, si terranno appagati, estimando che se più oltre ne cercheranno, altro ancora ne troverranno, come quel tanto hanno fatto, che più loro sodisfarà. Né essi della natura si verran dolendo, come quelli fanno, perciò che ella non ci abbia in aperto posta la verità delle conoscibili cose, quando ella né l'argento, né l'oro, né le gemme ha in palese poste, ma nel grembo della terra per le vene de gli aspri monti e sotto la rena de' correnti fiumi e nel fondo de gli alti mari, sì come in più segreta parte, sotterate. Che se ella questi più cari abbellimenti della nostra caduca e mortal parte ha, come si vede, nascosi, che dovea ella fare della verità, non bellezza solamente e adornamento, ma luce e scorta e sostegno dell'animo, moderatrice de' soverchievoli disii, delle non vere allegrezze, delle vane paure discacciatrice e delle nostre menti ne' suoi dolori serenatrice e d'ogni male nimica e guerriera? Le cose da ogniuno agevolmente possedute sono a ciascuno parimente vili, e le rare giungono vie più care. Quantunque io stimo che saranno molti che mi biasimeranno in ciò, che io alla parte di queste investigazioni le donne chiami, alle quali più s'acconvenga ne gli uffici delle donne dimorarsi, che andare di queste cose cercando. De' quali tuttavia non mi cale. Perciò che se essi non niegano che alle donne l'animo altresì come a gli uomini sia dato, non so io perché più ad esse che a noi si disdica il cercare che cosa egli sia, che si debba per lui fuggire, che seguitare; e sono queste tra le meno aperte quistioni, e quelle per aventura d'intorno alle quali, sì come a perni, tutte le scienze si volgono, segni e berzagli d'ogni nostra opera e pensamento. Che se esse tuttavolta a quegli uffici, che diranno que' tali esser di donna, le loro convenevoli dimore non togliendo, ne gli studi delle lettere e in queste cognizioni de' loro otii ogni altra parte consumeranno, quello che alquanti uomini di ciò ragionino non è da curare, perciò che il mondo in loro loda ne ragionerà quando che sia. E ora le quistioni eziandio di Lavinello, il terzo giorno a maggior corona, che quelle de' suoi compagni non furono, recitate, ascoltiamo.[3.II.]
Perciò che, cercandosi il dì dinanzi delle tre donne per quelle che dimorar con esso loro soleano, nello andare che elle fecero nelle feste, e trovato che elle erano nel giardino e la cagione risaputasi, pervenne la novella di bocca in bocca a gli orecchi della Reina, la quale ciò udendo e sentendo che belle cose si ragionavano tra quella brigata, ma più avanti di loro non sapendole perciò alcuna ben dire, mossa dal chiaro grido che i tre giovani aveano di valenti e di scienziati, ne le prese talento di volere intendere quali stati fossero i loro ragionamenti. Per che la sera, poscia che festeggiato si fu e cenato e confettato, né altro attendendosi che quello che la Reina commandasse, avendo ella tra le più vicine a sé madonna Berenice, il viso e le parole verso lei dirizzando lietamente disse: - Chente v'è paruto il nostro giardino, madonna Berenice, questi dì, e che ce ne sapete dire? perciò che noi abbiamo inteso che voi con vostre compagne vi sete stata.[3.III.]
Ma venuto il dì e desinatosi e ciascuno alle sue dimore ritornato, presa la Reina quella compagnia di donne e di gentili uomini, che le parve dover pigliare, con le tre donne e co' tre giovani n'andò nel giardino e, messasi ancor lei a sedere sopra la verde e dipinta erbetta all'ombra de gli allori, come l'altre, in su due bellissimi origlieri, che quivi posti dalle sue damigielle l'aspettavano, e ciascuno altro delle donne e de gli uomini secondo la loro qualità, chi più presso di lei e chi meno, rassettatisi, altro che il dire di Lavinello non s'attendeva: il quale, fatta riverenza alla Reina, incominciò: - Poscia che io intesi, Madonna, esser piacere di Vostra Maestà che io in presenza di voi ragionassi quello, che alla picciola nostra brigata di questi due dì avere a ragionare mi credea, stetti buona pezza sopra me, alla debolezza del mio ingegno e all'importanza delle cose propostemi e al convenevole di Vostra Altezza ripensando; e pareami avere mal fatto quando io, alle nostre donne e a' miei compagni promettendo di dire, accettai questo peso. Perciò che, quantunque io allora estimassi come che sia poter per aventura sodisfare al loro disio, nondimento tosto che io mi pensai che le mie parole alle vostre orecchie doveano pervenire, e la imagine di voi mi posi innanzi, subitamente e le mie forze più brievi e la materia più ampia essere m'apparvono d'assai, che elle non m'erano per lo adietro parute. Per che io mi tenni essere a stretto partito infino a tanto che, all'infinita vostra naturale umanità rivolto il pensiero, da lei confortato ripresi animo, estimando di non dover potere errare ubidendovi, perciò che io d'ogni mio possibile fallo ne la conoscea vie maggiore. Oltre che poi, più altre parti d'intorno a questo fatto considerate, compresi che se la fortuna, avendo risguardo alla grandezza delle cose che dir si poteano, avea loro maggiore ascoltatrice e più alta giudice apparecchiata, ciò a me non dovea essere discaro, quando da voi e perdono, dove io errassi, e aiuto, dove io mancassi, venire abondevolmente mi potea e non altro. Senza che, se io risguardo più avanti, buona arra mi può esser questa di dovere ancora poter vincere la presente quistione da Gismondo propostaci, e da lui e da Perottino disputata, il vedere allo ascoltamento de' miei amorosi ragionamenti datami la Reina di Cipri, la qual cosa non avenne de gli loro. Vagliami adunque il così preso di voi augurio, Madonna, in quella parte che io il prendo, e aspiri ora in ciò che io debbo dire il dolce raggio della vostra salutevole assidenza, nell'ampio favor della quale distendendo le sue ali il mio picciolo e pauroso ardire, con buona licenza di voi io incomincierò.[3.IV.]
Comportevoli poteano essere amendue le openioni, Madonna, hieri a voi dalle nostre donne e loro questi giorni da' miei compagni recitate, e di volontà si sarebbe la lor lite terminar potuto senza nuovo giudicio alcuno, se, l'uno dalla noia e l'altro dalla gioia, che essi amando sentono, sollecitati, la giusta misura nel giudicare passata non avessero e la libertà del dire portata ciascuno in troppo stretto e rinchiuso luogo. Perciò che, per comprendere in brieve spazio tutto quello in che essi occuparono lunga ora, se, come hanno voluto dimostrarci, l'uno che Amore sempre è reo, né può esser buono, e l'altro che egli sempre è buono, né può reo essere, avessero così detto che egli è buono e che egli è reo, e oltre a.cciò non si fossero iti ristrignendo, di meno si sarebbe potuto fare di dare ora questo disagio a Vostra Maestà d'ascoltarmi. Perciò che nel vero così è, che Amore, di cui ragionato ci s'è, può essere e buono e reo, sì come io m'accostarò di far lor chiaro. E quantunque, di queste loro tali e così fatte openioni, manifestamente ne segua convenirsi di necessità confessare che almeno l'una non sia vera, perciò che esse tra sé si discordano, non pertanto eglino sopra ciò in cotal guisa le vele diedero de i loro ragionamenti, che senza fallo e l'una e l'altra sono potute a gli ascoltanti parer vere, o almeno quale sia la men vera sciorre non si può agevolmente; il che tuttavia che amendue sieno false non è picciol segno, con ciò sia cosa che la verità, quando ella è tocca, saglie quasi favilla fuori delle bugie, subitamente manifestandosi a chi vi mira. E certo molte cose hae raccolte Perottino, molte novelle, molti argomenti recati per dimostrarci che Amore sempre è amaro, sempre è dannoso; molti dall'altra parte Gismondo in farci a credere che egli altro che dolcissimo e giovevolissimo essere non possa giamai. L'uno doglioso, l'altro festoso è stato. Quegli piangendo ha fatto noi piagnere, questi motteggiando ci ha fatti ridere più volte. E mentre che in diverse maniere ciascuno e con più amminicoli s'è ingegnato di sostentare la sua sentenza, dove gli altri per trarne il vero disputano, che in dubbio sia, essi con le loro dispute l'hanno posto in quistione dove egli non v'era. Ora non aspettino i miei compagni che io a ciascuna parte m'opponga delle loro contese, che sono per lo più di soverchio. Io di tanto con loro garreggierò, di quanto fie bastevole a fargli racconoscenti delle loro torte e mal prese vie.[3.V.]
Dico adunque, Madonna, che con ciò sia cosa che Amore niente altro è che disio, il quale come che sia d'intorno a quello che c'è piaciuto si gira, perciò che amare senza disio non si può, o di goder quello che noi amiamo o d'altramente goderne, che noi non godiamo, o di goderne sempre, o di bene, che noi con la volontà all'amate cose cerchiamo; e disio altro non è che amore, perciò che disiderare cosa che non s'ami non è di nostra possa, né può essere in alcun modo: ogni amore e ogni disio sono quel medesimo e l'uno e l'altro. E questi sono in noi di due maniere solamente, o naturali o di nostra volontà. Naturali sono, sì come è amare il vivere, amare lo intendere, amare la perpetuagione di se medesimi, i figliuoli, e le giovevoli cose che la natura senza mezzo alcuno ci dà, e sempre durano e sono in tutti gli uomini ad un modo. Di nostra volontà sono poi quegli altri, che in noi separatamente si creano, secondo che essa volontà, invitata da gli obbietti, muove a disiderare or uno or altro, or questa cosa or quella, or molto or poco; e questi disii e scemano e crescono, e si lasciano e si ripigliano, e bastano e non bastano, e in quest'animo d'una maniera e in quello sono d'altra, sì come noi medesimi vogliamo e acconci siamo a dar loro ne' nostri animi alloggiamento e stato. Ma non a ventura né a caso ci furono così date queste guise di disii, Madonna, che io vi ragiono, anzi con ordinato consiglio di chiunque s'è colui, che è di noi e di tutte le cose prima e verissima cagione. Perciò che volendo egli che la generazion de gli uomini, sì come anco quelle de gli altri animali, s'andasse col mondo perpetuando, ricoverandosi di tempo in tempo, s'avide essere di necessità crear in tutti noi altresì, come in loro, questo amor di vita, che io dissi, e de' figliuoli e delle cose che giovano e fanno a nostro migliore e più perfetto stato; il quale amore se stato non fosse, sarebbe co' primi uomini la nostra spezie finita, che ancor dura. Ma perciò che, avendoci esso a maggiori cose e a più alto fine creati, che fatto gli altri animali non avea, aggiunse ne' nostri animi le parti della ragione, fu di mestiero, acciò che ella in noi vana e oziosa non rimanesse, che egli la volontà, che io dissi, eziandio aggiugnesse in noi libera e di nostro arbitrio, con la quale e disiderare e non disiderare potessimo d'intorno alle altre cose, secondo che a noi venisse parendo il migliore. Così aviene che nelle naturali e primiere nostre voglie tutti amiamo e disideriamo ad un modo, sì come fanno gli altri animali medesimi, i quali procacciano di vivere e di bastare al meglio che essi possono ciascuno; ma nelle altre non così, perciò che io tale ne potrò amare, che non amerà Perottino, e tale amerà egli, che io per aventura non amerò, o egli molto l'amerà, dove io l'amerò poco. Ora è da saper quello di che hieri Gismondo ci ragionò, che, perciò che la natura non s'inganna, i disii, che naturali sono, sono similmente buoni sempre, né possono rei essere in alcuna maniera giamai; ma gli altri, il che non ci ragionò già hieri Gismondo, perciò che la nostra volontà può ingannarsi, e più sovente il fa che io non vorrei, e buoni e rei esser possono altresì, come sono i fini a cui ella dirizza il disio. E di questa maniera di disii è quello di cui ci propose il ragionare Gismondo, e il quale Amore generalmente chiamano le genti tutto dì, e per lo quale noi Amanti comunemente ci chiamiamo; con ciò sia cosa che secondo l'arbitrio di ciascuno amiamo e disamiamo, e diversamente amiamo, e non necessariamente sempre e tutti quel medesimo e ad un modo, sì come aviene ne' naturali disii. Per che egli e buono e reo esser può, secondo la qualità del fine che dalla nostra volontà gli è dato. Quantunque Gismondo per sostegno delle sue ragioni, che cadeano, co' naturali disii ne 'l mescolasse, volendoci dimostrar per questo che egli buono fosse sempre, né potesse malvagio essere in alcun tempo. Perciò che chi non sa che se io gentile e valorosa donna amerò e di lei lo 'ngegno, l'onestà, la cortesia, la leggiadria e l'altre parti dell'animo, più che quelle del corpo, né quelle del corpo per sé, ma in quanto di quelle dell'animo sono fregio e adornamento, chi non sa, dico, che se io così amerò, il mio amore sarà buono, perciò che buona sarà la cosa da me amata e disiderata? E allo 'ncontro, se io ad amare disonesta e stemperata donna mi disporrò, o pure di casta e di temperata quello, che suole essere obbietto d'animo disonesto e stemperato, come si potrà dire che tale amore malvagio e fello non sia, con ciò sia cosa che quello che si cerca è in se medesimo fello e malvagio? Certo, sì come a chi in quella guisa ama, le più volte aviene che quelle venture lo seguono, che ci disse Gismondo che seguivano gli amanti: risvegliamento d'ingegno, sgombramento di sciocchezza, accrescimento di valore, fuggimento d'ogni voglia bassa e villana e delle noie della vita in ogni luogo in ogni tempo dolcissimo e salutevolissimo riparo, così a chi in questa maniera disia, altro che male avenire non gliene può, perciò che bene spesso quell'altre sciagure lo 'ncontrano, nelle quali ci mostrò Perottino che incontravano gli amanti, cotante e così gravi: scorni, sospetti, pentimenti, gielosie, sospiri, lagrime, dolori, manchezza di tutte le buone opere, di tempo, d'onore, d'amici, di consiglio, di vita e di se medesimo perdezza e distruggimento.[3.VI.]
Ma non credere tuttavia, Gismondo, perciò che io così parlo, che io per aventura stimi buono essere lo amare nella guisa che tu ci hai ragionato. Io tanto sono da te, quanto tu dalla verità lontano, dalla quale ti discosti ogni volta che fuori de' termini de' duo primi sentimenti e del pensiero ti lasci dal tuo disiderio traportare, e di loro amando non stai contento. Perciò che è verissima openione, a noi dalle più approvate scuole de gli antichi diffinitori lasciata, nulla altro essere il buono amore che di bellezza disio. La qual bellezza che cosa è se tu con tanta diligenza per lo adietro avessi d'intendere procacciato, con quanta ci hai le parti della tua bella donna voluto hieri dipignere sottilmente, né come fai ameresti tu già, né quello, che ti cerchi amando, aresti a gli altri lodato come hai. Perciò che ella non è altro che una grazia che di proporzione e di convenenza nasce e d'armonia nelle cose, la quale quanto è più perfetta ne' suoi suggetti, tanto più amabili essere ce gli fa e più vaghi, e è accidente ne gli uomini non meno dell'animo che del corpo. Perciò che sì come è bello quel corpo, le cui membra tengono proporzione tra loro, così è bello quello animo, le cui virtù fanno tra sé armonia; e tanto più sono di bellezza partecipi e l'uno e l'altro, quanto in loro è quella grazia, che io dico, delle loro parti e della loro convenenza, più compiuta e più piena. È adunque il buono amore disiderio di bellezza tale, quale tu vedi, e d'animo parimente e di corpo, e a lei, sì come a suo vero obbietto, batte e stende le sue ali per andare. Al qual volo egli due finestre ha: l'una, che a quella dell'animo lo manda, e questa è l'udire; l'altra, che a quella del corpo lo porta, e questa è il vedere. Perciò che sì come per le forme, che a gli occhi si manifestano, quanta è la bellezza del corpo conosciamo, così con le voci, che gli orecchi ricevono, quanta quella dell'animo sia comprendiamo. Né ad altro fine ci fu il parlare dalla natura dato, che perché esso fosse tra noi de' nostri animi segno e dimostramento. Ma perciò che il passare a' loro obbietti per queste vie la fortuna e il caso sovente a' nostri disiderii tôr possono, da loro, sì come spesso aviene, lontanandoci, ché, come tu dicesti, a cosa, che presente non ci sia, l'occhio né l'orecchio non si stende, quella medesima natura, che i due sentimenti dati n'avea, ci diede parimente il pensiero, col quale potessimo al godimento delle une bellezze e delle altre, quandunque a noi piacesse, pervenire. Con ciò sia cosa che, sì come ci ragionasti tu hieri lungamente, e le bellezze del corpo e quelle dell'animo ci si rappresentano col pensarvi, e pìgliassene, ogni volta che a noi medesimi piace, senza alcuno ostacolo godimento. Ora, sì come alle bellezze dell'animo aggiugnere né fiutando, né toccando, né gustando non si può, così non si può né più né meno eziandio a quelle del corpo, perciò che questi sentimenti tra le siepi di più materiali obbietti si rinchiudono, che non fanno quegli altri. Che perché tu fiutassi di questi fiori o la mano stendessi tra quest'erbe o gustassine, bene potresti tu sentire quale di loro è odorante, quale fiatoso, quale amaro, quale dolce, quale aspero, quale morbido, ma che bellezza sia la loro, se tu non gli mirassi altresì, mica non potresti tu conoscere, più di quello che potesse conoscere un cieco la bellezza d'una dipinta imagine, che davanti recata gli fosse. Per che se il buono amore, come io dissi, è di bellezza disio, e se alla bellezza altro di noi e delle nostre sentimenta non ci scorge che l'occhio e l'orecchio e il pensiero, tutto quello che è da gli amanti con gli altri sentimenti cercato, fuori di ciò che per sostegno della vita si procaccia, non è buono amore, ma è malvagio; e tu in questa parte amatore di bellezza non sarai, o Gismondo, ma di sozze cose. Perciò che sozzo e laido è l'andare di que' diletti cercando, che in straniera balìa dimorano e avere non si possono senza occupazione dell'altrui e sono in se stessi e disagevoli e nocenti e terrestri e limacciosi, potendo tu di quelli avere, il godere de' quali nella nostra potestà giace e godendone nulla s'occupa, che alcuno tenga proprio suo, e ciascuno è in sé agevole, innocente, spiritale, puro. Questi bastava che tu hieri ci avessi lodati, o Gismondo, questi potrai tu ad ogni tempo con le prose e con le rime inalzare, ché sopra il convenevole senza fallo alcuno essi giamai non saranno inalzati. Di quegli altri se tu pure ragionar ci volevi, biasimandogli a tuo potere e avallandogli dovevi tu farlo, che il buono amore aresti lodato acconciamente in questa guisa, dove tu l'hai sconciamente in quella maniera vituperato. Il quale, perciò che grande idio si dice essere, io ti conforterei, Gismondo, che tu ora il contrario facessi in amenda del tuo errore, di quello che fe' già Stesicoro ne gli antichi tempi in amenda del suo; perciò che, avendo egli co' suoi versi la greca Helena vituperata, e fatto per questo cieco, da capo in sua loda ricantandone, tornò sano; così tu oggi contrariamente tanto di loro ci rifavellassi disprezzandogli, quanto tu hieri ci hai apprezzandogli ragionato, e sì riaverai tu la luce del diritto giudicio, che hai perduta. - [3.VII.] Tacque Lavinello così un poco, detto che egli ebbe infin qui, e, come aviene che si fa ragionando, sostatosi, ricoglieva spirito per riparlare, quando la Reina, soavemente alquanto sopra sé recatasi, così a.llui con sereno aspetto cominciò, e disse: - Bene avete fatto, Lavinello, per certo a sovenirci ora di quello, poeti e versi ricordandoci, di che per aventura la vaghezza de' vostri ragionamenti, tacendol voi, ci arebbe tenuta obliosa. Perciò che, avendo i vostri compagni, sì come noi abbiamo inteso, tra gli loro ragionamenti di questi dì cotante e così belle rime mescolate, che le vostre donne udite hanno, non volete ancor voi ora alcuna delle vostre mescolare e tramettere in questi parlari, che noi eziandio ascoltiamo, poscia che le loro non abbiamo ascoltate?Perché 'l piacer a ragionar m'invoglia,
E di sua propria man mi detta Amore,
Né da l'un, né da l'altro ardisco aitarmi;
Sgombrimisi del petto ogni altra voglia,
E sol questa mercede appaghi il core,
Tanto ch'io dica e possa contentarmi;
C'aver dinanzi sì bel viso parmi,
Sì pure voci e tanto alti pensieri,
Che, perch'io mai non speri
Per forza di mio ingegno o per altr'arte,
Cose leggiadre e nove,
Che 'n mill'anni volgendo il ciel non piove,
Qual'io le sento al cor, stender in carte,
Pur le mie ferme stelle
Portan ad or ad or ch'io ne favelle.
Era ne la stagion che 'l ghiaccio perde
Da le viole, e 'l sol cangiando stile
La faccia oscura a le campagne ha tolta,
Quando tra 'l bel cristallo e 'l dolce verde
Mi corse al cor la mia donna gentile,
Che correr vi dovea sol una volta.
Mia ventura in quel punto avea disciolta
La treccia d'oro, e quel soave sguardo,
Lieto, cortese e tardo,
Armavan sì felici e cari lumi,
Che quant'io vidi poi,
Vago amoroso e pellegrin fra noi,
Rimembrando di lor, tenni ombre e fumi;
E dicea fra me stesso:
Amor senz'alcun dubbio è qui da presso.
Ben diss'io 'l ver, che come 'l dì col sole,
Così con la mia donna Amor ven sempre,
Che da' begli occhi mai non s'allontana;
Poi senti' ragionando dir parole
E risonar in sì soavi tempre,
Che già non mi sembiâr di lingua umana:
Correa da parte una chiara fontana,
Che vide l'acque sue quel dì più vive
Avanzar per le rive,
E 'ncontro i raggi de le luci sante
Ogni ramo inchinarsi
Del bosco intorno e più frondoso farsi,
E fiorir l'erbe sotto le sue piante,
E quetar tutti i venti
Al suon de' primi suoi beati accenti.
Quante dolcezze con amanti unquanco
Non eran state certo infin quel giorno,
Tutte fûr meco, e non la scorsi apena:
Vincea la neve il vestir puro e bianco
Dal collo a' piedi, e 'l bel lembo d'intorno
Avea virtù da far l'aria serena;
L'andar toglieva l'alme a la lor pena
E ristorava ogni passato oltraggio;
Ma 'l parlar dolve e saggio,
Che m'avea già da me stesso diviso,
E i begli occhi e le chiome,
Che fûr legami a le mie care some,
De le cose parean di paradiso
Scese qua giuso in terra,
Per dar al mondo pace e torli guerra.
Deh se per mio destin voci mortali,
E son di donna pur queste bellezze,
Beato chi l'ascolta e chi la mira;
Ma se non son, chi mi darà tante ali
Ch'io segua lei, s'aven ch'ella non prezze
Di star là 've si piagne e si sospira?.
Così pensava, e 'n quanto occhio si gira,
Vidi un che 'l dolce volto dipingea
Parte, e parte scrivea
Ne l'alma dentro le parole e 'l suono,
Dicendo: Queste omai
Penne da gir con lei tu sempre arai.
Alor mi scossi e, qual io qui mi sono,
Tal la mia donna bella
M'era nel petto in viso e in favella.
Rimanti qui, canzon, poi che de l'alto
Mio tesoro infinito
Così poveramente t'hai vestito.
[3.IX.]
Detta questa canzone, volea Lavinello a' suoi ragionamenti ritornare, ma la Reina, che del suo dire di tre canzoni nate ad un corpo non s'era dimenticata, essendonele questa piaciuta, volle che egli eziandio alle altre due passasse, onde egli la seconda in questa guisa incominciando seguitò, e disse:Se ne la prima voga mi rinvesca
L'anima desiosa, e pur un poco
Per levarmi da lei l'ale non stende,
Meraviglia non è, di sì dolc'esca
Movono le faville e nasce il foco,
Ch'a ragionar di voi, donna, m'accende.
Voi sete dentro, e ciò che fuor risplende
Esser altro non pò che vostro raggio;
Ma perch'io poi non aggio
In ritrarlo ad altrui le rime accorte.
Ben ha da voi radice
Tutto quel che per me se ne ridice.
Ma le parole son debili e corte;
Che se fosser bastanti,
Ne 'nvaghirei mille cortesi amanti.
Però che da quel dì, ch'io feci imprima
Seggio a voi nel mio cor, altro che gioia
Tutto questo mio viver non è stato;
E se per lunghe prove il ver s'estima,
Quantunque ch'io mi viva o ch'io mi moia,
Non spero d'esser mai se non beato,
Sì fermo è 'l piè del mio felice stato.
E certo sotto 'l cerchio de la luna
Sorte gioiosa alcuna,
E un ben, quanto 'l mio, non si ritrova;
Ché s'altri è lieto alquanto,
Immantenente poi l'assale il pianto;
Ma io non ho dolor che mi rimova
Da la mia festa pura,
vostra mercé, Madonna, e mia ventura.
E se duro destin a ferir viemmi
Con più forza talor, di là non passa
Da la spoglia, ond'io vo caduco e frale;
Ché 'l piacer, di che Amor armato tiemmi,
Sostiene il colpo e gir oltra no 'l lassa,
Là 've sedete voi, che 'l fate tale.
Però s'io vivo a tempo, che mortale
Fora ad altrui, non è per proprio ingegno:
Io per me nacqui un segno
Ad ogni stral de le sventure umane;
Ma voi sete il mio schermo,
E perch'io sia di mia natura infermo,
Sotto 'l caso di me poco rimane.
Lasso, ma chi pò dire
Le tante guise poi del mio gioire?
Che spesso un giro sol de gli occhi vostri,
Una sol voce in allentar lo spirto
Mi lassa in mezzo 'l cor tanta dolcezza,
Che no 'l porian contar lingue né inchiostri;
Né così 'l verde serva lauro o mirto,
Com'ei le forme d'ogni sua vaghezza;
E ho sì l'alma a questo cibo avezza,
Ch'a lei piacer non pò, né la desvia
Cosa che voi non sia
O col vostro penser non s'accompagne,
E quando il giorno breve
Copre le rive e le piagge di neve,
E quando 'l lungo infiamma le campagne,
E quando aprono i fiori,
E quando i rami poi tornan minori.
Gigli, calta, viole, acanto e rose
E rubini e zafiri e perle e oro
Scopro, s'io miro nel bel vostro volto.
Dolce armonia de le più care cose
Sento per l'aere andar e dolce coro
Di spiriti celesti, s'io v'ascolto.
Tutto quel che diletta, inseme accolto
E posto col piacer, che mi trastulla
Se di voi penso, è nulla.
Né giurerei ch'Amor tanto s'avanzi
Perc'ha la face e l'arco,
Quanto per voi, mio prezioso incarco;
E or me 'l par veder, ch'a voi dinanzi
Voli superbo e dica:
Tanto son io, quanto m'è questa amica.
Né tu per gir, canzon, ad altro albergo,
Del mio ti partirai,
Se quanto rozza sei conoscerai.
[3.X.]
E poi di questa passò Lavinello eziandio alla terza senza dimora, e disse:Dapoi ch'Amor in tanto non si stanca
Dettarmi quel, ond'io sempre ragioni,
E 'l piacer più che mai dentro mi punge,
Ancor dirò; ma se dal vero manca
La voce mia, Madonna il mi perdoni,
Che 'n tutto dal nostr'uso si disgiunge.
E come salirei dov'ella aggiunge,
Io basso e grave e ella alta e leggera?
Basti matino e sera
L'alma inchinarle, quanto si convene,
E qualche pura scorza
Segnar, alor che 'l gran desio mi sforza,
Del suo bel nome, e le più fide arene,
Acciò che 'l mar la chiami
E ogni selva la conosca e ami.
Questo faccia il desir in parte sazio,
Che vorria alzarsi a dir de la mia donna;
Ma tema di cader lo tene a freno.
E se per le sue lode unqua mi spazio,
Ch'è ben d'alto valor ferma colonna,
Non è però ch'io creda dirne a pieno.
Ma perch'altrui lo mio stato sereno
Cerco mostrar, che sol da lei deriva,
Forza è talor ch'io scriva
Com'ogni mio pensier indi si miete:
O di quella soave
Aura, che del mio cor volge la chiave,
O pur di voi, che 'l mio sostegno sete,
Stelle lucenti e care,
Se non quando di voi mi sete avare.
Voi date al viver mio l'un fido porto,
Ché come 'l sol di luce il mondo ingombra
E la nebbia sparisce inanzi al vento,
Così mi ven da voi gioia e conforto
E così d'ogni parte si disgombra
Per lo vostro apparir noia e tormento.
L'altro è quando parlar Madonna sento,
Che d'ogni bassa impresa mi ritoglie
E quel laccio discioglie,
Che gli animi stringendo a terra inclina;
Tal ch'io mi fido ancora,
Quand'io sarò di questo carcer fora,
Far di me stesso a la morte rapina,
E 'n più leggiadra forma
Rimaner de gli amanti exempio e norma.
Il terzo è 'l mio solingo alto pensero,
Col qual entro a mirarla e cerco e giro
Suoi tanti onor, che sol un non ne lasso;
E scorgo il bel sembiante umile altero
E 'l riso, che fa dolce ogni martiro,
E 'l cantar, che potria mollire un sasso.
O quante cose qui tacendo passo,
Che mi stan chiuse al cor sì dolcemente!
Poi raffermo la mente
In un giardin di novi fiori eterno,
E odo dir ne l'erba:
A la tua donna questo si riserba;
Ella potrà qui far la state e 'l verno.
Di cota' viste vago,
Pascomi sempre e d'altro non m'appago.
E chi non sa quanto si gode in cielo
Vedendo Dio per l'anime beate,
Provi questo piacer, di ch'io li parlo.
Da quel dì inanzi mai caldo né gelo
Non temerà, né altra indignitate
Ardirà de la vita unque appressarlo;
E pur ch'un poco mova a salutarlo
Madonna il dolce e grazioso ciglio,
Più di nostro consiglio
Non avrà uopo e vincerà il destino,
Ché quelle vaghe luci
A salir sopra 'l ciel li saran duci,
E mostreranli il più dritto camino,
E potrà gir volando,
Ogni cosa mortal sotto lasciando.
Ove ne vai, canzon, s'ancora è meco
L'una compagna e l'altra?
Già non sei tu di lor più ricca o scaltra.
[3.XI.]
Ispeditosi Lavinello del dire delle tre canzoni, i suoi primieri ragionamenti così riprese: - Questo poco, Madonna, che io v'ho fin qui detto, sarebbe alle nostre donne potuto per aventura bastare per dimostramento della menzogna che l'uno e l'altro de' miei compagni sotto le molte falde delle loro dispute aveano questi giorni, sì come udito avete, assai acconciamente nascosa; ma non a voi, né pure alla vostra fanciulla, che così vagamente l'altr'hieri alle tavole di Vostra Maestà cantando, ci mostrò quello che io dire ne dovea, poscia che i miei compagni, per le pedate dell'altre due mettendosi, aveano a tacerlo. Nella qual cosa tuttavia ben provide senza fallo alcuno al mio gran bisogno la fortuna di questi ragionamenti. Perciò che andando io questa mattina per tempo, da costor toltomi e del castello uscito, solo in su questi pensieri, posto il piè in una vietta per la quale questo colle si sale, che c'è qui dietro, senza sapere dove io m'andassi, pervenni a quel boschetto, che, la più alta parte della vaga montagnetta occupando, cresce ritondo come se egli vi fosse stato posto a misura. Non ispiacque a gli occhi miei quello incontro, anzi, rotto il pensar d'amore e in sul piè fermatomi, poscia che io mirato l'ebbi così dal di fuori, dalla vaghezza delle belle ombre e del selvareccio silenzio invitato, mi prese disiderio di passar tra loro, e messomi per un sentiero, il quale appena segnato, dalla vietta ove io era dipartendosi, nella vaga selva entrava, e per entro passando, non ristetti prima, sì m'ebbe in uno aperto non molto grande il poco parevole tramitello portato. Dove come io fui, così dall'uno de' canti mi venne una capannuccia veduta, e poco da lei discosto tra gli alberi un uom tutto solo lentamente passeggiare, canutissimo e barbuto e vestito di panno simile alle corteccie de' querciuoli, tra' quali egli era. Non s'era costui aveduto di me, il quale in profondo pensiero essendo, sì come a me parea di vedere, tale volta nello spaziare si fermava e, stato ched egli era così un poco, a passeggiare lento lento si ritornava; e così più volte fatto avea, quando io mi pensai che questi potesse essere quel santo uomo, che io avea udito dire che a guisa di romito si stava in questo dintorno, venutovi per meglio potere, nello studio delle sante lettere dimorando, pensare alle alte cose. Per che volentieri mi sarei fatto più avanti per salutarlo e, se egli era colui che io istimava che egli fosse, ricordandomi che io avea oggi a dire dinanzi a Vostra Maestà, per avere da lui eziandio alcun consiglio d'intorno a' miei ragionamenti. Perciò che io avea inteso che egli era scienziatissimo e che, con tutto che egli fosse di santa e disagevole vita, sì come quegli che di radici d'erbe e di coccole salvatiche e d'acqua e sempre solo vivea, egli era nondimeno affabilissimo, e poteasi di ciò, che altri avesse voluto, sicuramente dimandarlo, ché egli a ciascuno sempre dolce e umanissimo rispondea. Ma villania mi parea fare a torlo da' suoi pensieri; e così mirandolo mi stava in pendente. Né stetti guari, che egli si volse verso la parte dove io era e, veggendomi, occasione mi diede a quello che io cercava; perciò che, incontro passandogli, con molta riverenza il salutai. Biblioteca |
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Edizione telematica a cura di: Claudio Paganelli, 1999
Revisione, Edizione HTML e impaginazione a cura di: Giuseppe Bonghi, Aprile 1999
Tratto da: Pietro Bembo, Prose della
volgar lingua, Gli Asolani, Rime, a cura di Carlo Dionisotti, TEA Tascabili Editori
Associati, Milano 1997
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Ultimo aggiornamento: 22 aprile, 1999