Pietro  Bembo

Gli Asolani

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SECONDO LIBRO

[2.XII.] Per che se a stato alcuno venire né in istato mantenersi, né gli uomini né le donne non possono gli uni senza gli altri, né ha in sé ciascun sesso più che la metà di quello che bisogno fa loro o al poter vivere o al poter venire alla vita, poi che non è il tutto quello, sì come io dissi, che senza altrettanto star non può, ma è il mezzo solamente, non so io vedere, o donne, come noi più che mezzi ci siamo e voi altresì, e come voi la nostra metà, sì come noi la vostra, non vi siate, e infine come la femina e il maschio sieno altro che uno intero. E certo non pare egli a voi, così semplicemente risguardando e estimando, che i vostri mariti l'una parte di voi medesime portino sempre con esso loro? Deh non vi pare egli tuttavia che da' vostri cuori si diparta non so che e finisca ne gli loro, che sempre, dovunque essi vadano, quasi catena gli vi congiunga con inseparabile compagnia? Così è senza fallo alcuno: essi sono la vostra metà e voi la loro, sì come io quella della mia donna e essa la mia. La quale se io amo, che amo per certo e sempre amerò, ma se io amo lei e se ella me ama, non è tuttavia che alcun di noi ami altrui, ma se stesso; e così aviene de gli altri amanti, e sempre averrà. Ora per non far più lunga questa tenzona, se gli amanti amando tra loro amano se stessi, essi deono poter fruire quello che essi amano senza dubbio alcuno, se quello è vero che tu argomentavi, che fruire non si possa solamente dell'altrui. E se essi possono fruir quello che essi amano, poi che il non poter fruire è solo quello che c'impassiona, non veggo io che ne segua quella conchiusione che tu ne traevi, che Amore tenga l'animo de gli uomini sollecito e, come ci dicesti, perturbato. Cotale è il nodo, madonna Berenice, che voi poco avanti come io sciogliere potessi dubitavate; cotale è la tela di Perottino a quel forte subbio, che voi diceste, accomandata; la qual nel vero a me pare che più tosto una di quelle d'Aragne, che a quella di Penelope stata conforme dire si possa che sia. Ma non per tutto ciò si pente, o donne, né si ritiene in parte alcuna, raffrenando la trascorrevole follia de' suoi ragionamenti, Perottino; anzi pure per questo medesimo campo dell'animo più alla scapestrata, quasi morbido giumento fuggendosi, con la lena delle parole vie più lunghi e più stolti discorrimenti ne fa, il suo male medesimo dilettandolo. Ma sì come suole alcuna volta del viandante avenire, il quale alla scielta di due strade pervenuto, mentre e' si crede la sua pigliare, per quella che ad altre contrade il porta mettendosi, quanto egli più al destinato luogo s'affretta d'appressarsi, tanto più da esso caminando s'allontana, così Perottino a dir d'Amore per le passioni dell'animo già entrato, mentre egli si studia forse avisando di giugnere al vero, quanto più s'affanna di ragionarne, tanto egli più, per lo non diritto sentiero avacciandosi, si diparte e si discosta da lui. La qual cosa, quantunque con semplici parole così essere vi potesse da ciascuno assai apertamente venir dimostrata, nondimeno sì perché alle segnate historie di Perottino non pare disdicevole che io un poco più partitamente ne ragioni, e sì ancora perché il così fattamente favellarne alla materia è richiesto, dove con vostro piacer sia, alquanto più ordinatamente parlando, chente sia il suo errore m'accosterò di farvi chiaro. -

[2.XIII.] A questo rispostogli dalle belle donne che tanto di loro piacere era, quanto era di suo, e che dove a lui non increscesse il favellare, comunque egli il facesse, a loro l'ascoltarlo non increscerebbe giamai, esso cortesemente ringraziatenele, e già atteso da ciascuna, poi che egli ebbe il braccio sinistro alquanto inverso le attendenti donne sporto in fuori, pregandole che attentamente l'ascoltassero, perciò che, dove poche delle parole che egli a dire avea si perdesse, niente gioverebbe l'aver parlato, del pugno che chiuso era due dita forcutamente levando inverso il cielo, così incominciò e disse: - In due parti, o donne, dividono l'animo nostro gli antichi filosofi: nell'una pongono la ragione, la quale con temperato passo muovendosi lo scorge per calle spedito e sicuro; dall'altra fanno le perturbazioni, con le quali esso travalicando discorre per dirottissimi e dubbiosissimi sentieri. E perciò che ogni uomo, quello che bene pare ad esso che sia, e di tener disidera e, tenuto, si rallegra di possedere, e similmente niuno è che il pendente male non solleciti, e pochi sono coloro che il sopracaduto non gravi, quattro fanno gli affetti dell'animo altresì: Disiderio, Allegrezza, Sollecitudine e Dolore; de' quali, due dal bene, o presente o futuro, e due medesimamente dal male, o avenuto o possibile ad avenire, hanno origine e nascimento. Ma perciò che e il disiderar delle cose, dove con sano consiglio si faccia è sano, dove da torto appetito proceda è dannoso; e il rallegrarsi non è biasimato in alcuno, se non in quanto egli ha i termini del convenevole trapassati; e lo schifar de' mali che avenir possono, secondo che noi o bene o male temiamo, così egli e di lodevole piglia qualità e di vituperoso, quinci aviene che questi tre affetti in buoni e in non buoni dividendo, a quella parte dell'animo, che con la ragione s'invia, danno l'onesto disiderio, l'onesta allegrezza, l'onesto temere; all'altra gli stremi loro, che sono il soverchio disiderare, il soverchio rallegrarsi, la soverchia paura. Il quarto, che è de' mali presenti la maninconia, non dividono come gli altri; ma perciò che dicono d'alcuna cosa, che avenga nella vita, il prudente e costante uomo né affligersi né attristarsi giamai, e soverchio e vano sempre essere ogni dolore delle avenute cose, questo solo affetto intero pongono nelle perturbazioni. Così aviene che tre sono le sagge e regolate maniere de gli affetti dell'animo, e quattro le stolte e intemperate. Oltre a ciò, perciò che certissima cosa è che male alcuno la natura far non può, e che solamente buone sono le cose da lei procedenti, le tre maniere, sì come quelle che buone sono, affermano ne gli uomini essere naturali altresì, le quattro dicono in noi fuori del corso della natura aver luogo; quelle ragionevoli affetti secondo natura, queste contro natura disordinate perturbazioni chiamando e nominando. Sono adunque due, sì come di sopra s'è detto, le strade dell'animo, o donne: l'una della ragione, per la quale ogni naturale movimento s'incamina; l'altra delle perturbazioni, per cui hanno i non naturali a' loro traboccamenti la via. Ora non credo io che voi crediate che alcun non naturale movimento possa con la ragione dimorare, perciò che, dimorando con esso lei, bisognerebbe che egli fosse naturale; ma naturale come può esser cosa che naturale non sia? Né è da dire altresì che affetto alcuno naturale si mescoli nelle perturbazioni, con ciò sia cosa che mescolandosi tra loro gli bisognerebbe essere non naturale; ma naturale e non naturale per certo niuna cosa essere puote giamai. Divise adunque le passioni dell'animo e trattate nella maniera che udito avete, recatevi questo sovente per la memoria, che affetto naturale alcuno non può ne gli animi nostri con le perturbazioni aver luogo. Ora ritorniamo a Perottino, il quale pose Amore nelle perturbazioni, e ragioniamo così: che se Amore è cosa che contro natura venga in noi, non può altrove essere il cativello che dove l'ha posto Perottino; ma se egli pure è affetto a gli animi nostri donato dalla natura, sì come cosa a cui buona conviene essere altresì, con la natura caminando, non potrà in maniera alcuna nelle perturbazioni ree e ne gli affetti dell'animo sinistri e orgogliosi trapassare. Ora che vi voglio io, avedute giovani, o pure che vi debbo io più oltre dire? Bisogna egli che io vi dimostri che naturale è l'amore in noi? Questo si fe' pur dianzi, quando noi dell'amore che a' padri, a' figliuoli, a' congiunti, a gli amici si porta ragionavamo. Senza che io mi credo che non pur voi, che donne siete, anzi ancora questi allori medesimi, che ci ascoltano, se essi parlar potessero, ne darebbono testimonianza. -

[2.XIV.] Di poco avea così detto Gismondo, quando Lavinello, il quale lungamente s'era taciuto, con queste parole gli si fe' incontro: - Cattivi testimoni aresti trovati, Gismondo, se questi allori parlassero, a quello che tu intendi di provarci. Perciò che se essi ritratto fanno al primo loro pedale, sì come è natura delle piante, essi non amarono giamai. Perciò che non amò altresì quella donna che primieramente diè al tronco forma, del quale questi tutti sono rampolli, se quello vero è che se ne scrive.
      - Male stimi, Lavinello, e male congiugni le cose da natura separate - rispose incontanente Gismondo. - Perciò che questi allori bene fanno ritratto al primo loro pedale, sì come tu di', ma non alla donna, la quale se stessa lasciò, quando ella primieramente la buccia di lui prese.
      Questi, come anco quello fece, amano e sono amati altresì, essi la terra e la terra loro, e di tale amor pregni partoriscono al lor tempo ora talli, ora orbache, ora frondi, secondo che esso, da cui tutti nacquero, partoriva, né mai ha fine il loro amore, se non insieme con la lor vita. Il che volesse Idio che fosse ne gli uomini, che Perottino non arebbe forse ora cagion di piagnere così amaramente, come egli fa vie più spesso che io non vorrei. Ma la donna non amò già essendo amata, sì come tu ragioni; la qual cosa perciò che fu contro natura, forse meritò ella di divenir tronco, come si scrive. E certo che altro è, lasciando le membra umane, albero e legno farsi, che, gli affetti naturali abandonando molli e dolcissimi, prendere i non naturali, che sono così asperi e così duri? che se questi allori parlassero e le nostre parole avessero intese, a me giova di credere che noi ora udiremmo che essi non vorrebbono tornare uomini, poi che noi contro la natura medesima operiamo, la qual cosa non aviene in loro; non che essi buoni testimoni non fossero, Lavinello, a quello che io ti ragiono.

[2.XV.] È adunque, né bisogna che io ne quistioni, o donne, naturale affetto de gli animi nostri Amore, e per questo di necessità e buono e ragionevole e temperato. Onde quante volte aviene che l'affetto de' nostri animi non è temperato, tante volte non solamente ragionevole né buono è più, ma egli di necessità ancora non è Amore. Udite voi ciò che io dico? Vedete voi a che parte la pura e semplice verità m'ha portato? Che dunque è, potrestemi voi dire, se egli non è Amore? ha egli nome alcuno?. Sì bene che egli n'ha, e molti, e per aventura quelli stessi che Perottino quasi nel principio de' suoi sermoni gli diè, pure di questo medesimo ragionando quello, che egli d'Amor si credea favellare: fuoco, furore, miseria, infelicità e, oltre a questi, se io porre ne gli posso uno, egli si può più acconciamente che altro chiamare ogni male, perciò che in Amore, sì come poco appresso vi fie manifesto, ogni bene si rinchiude. Che vi posso io dire più avanti? Né v'ingannino queste semplici voci, o donne, che senza fatica escono di bocca altrui, d'amore, d'amante, d'innamorato, che voi crediate che incontanente Amor sia tutto quello che è detto Amore, e tutti sieno amanti quelli che per amanti sono tenuti e per innamorati. Questi nomi piglia ciascuno per lo più co' primi disii, i quali esser possono non meno temperati che altramente e, così presi, comunque poi vada l'opera, esso pure se gli ritiene, aiutato dalla sciocca e bamba oppenione de gli uomini che, senza discrezion fare alcuna con diverse appellazioni alle diverse operazion loro, così chiamano amanti quelli che male hanno disposti gli affetti dell'animo loro nelle disiderate cose e cercate, come quelli che gli han bene. Ahi come agevolmente s'ingannano le anime cattivelle de gli uomini, e quanto è leggiera e folle la falsa e misera credenza de' mortali. Perottino, tu non ami; non è amore, Perottino, il tuo; ombra sei d'amante, più tosto che amante, Perottino. Perciò che se tu amassi, temperato sarebbe il tuo amore, e essendo egli temperato, né di cosa che avenuta ne sia ti dorresti, né quello che per te avere non si può disidereresti tu o cercheresti giamai. Perciò che, oltre che soverchio e vano è sempre il dolore per sé, stoltissima cosa è e fuori d'ogni misura stemperata, quello che avere non si possa, pur come se egli aver si potesse, andare tuttavia disiderando e cercando. La qual follia volendo significarci i poeti, fecero i Giganti che s'argomentassero di pigliare il cielo, guerreggianti con gl'Idii, a cui essi non erano bastanti. Che se la fortuna t'ha della tua cara donna spogliato, dove tu amante di lei voglia essere, poscia che altro fare non se ne può, non la disiderare, e quello che perduto vedi essere, tieni altresì per perduto. Amala semplice e puramente, sì come amare si possono molte cose, come che d'averle niuna speranza ne sia. Ama le sue bellezze, delle quali tanto ti maravigliasti già e lodastile volentieri; e dove il vederle con gli occhi ti sia tolto, contentati di rimirarle col pensiero, il che niuno ti può vietare. E in fine ama di lei quello che oggi poco s'ama nel mondo, mercé del vizio che ogni buon costume ha discacciato, l'onestà dico, sommo e spezialissimo tesoro di ciascuna savia, la qual sempre ci dee esser cara, e tanto più ancora maggiormente, quanto più care ci sono le donne amate da noi; sì come io m'ingegnai di fare già, che ella fosse a me cara nella persona della mia donna, non men di quello che la sua bellezza m'era graziosa, quantunque ne' primi miei disii, sì come veggiamo tutto dì a' cavalli non usati essere la sella e il freno, ella dura e gravetta mi fosse alquanto nell'animo a sopportare. Di che io allora ne feci in testimonio questa canzone; la quale tanto più volentieri vi sporrò, graziose giovani, quanto a voi, che non meno oneste sete che belle, ella più che alcuna dell'altre già dette s'acconviene.

Sì rubella d'Amor, né sì fugace
Non presse erba col piede,
Né mosse fronda mai Ninfa con mano,
Né trezza di fin oro aperse al vento,
Né 'n drappo schietto care membra accolse
Donna sì vaga e bella, come questa
Dolce nemica mia.
      Quel che nel mondo, e più ch'altro mi spiace,
Rade volte si vede,
Fanno in costei, pur sovra 'l corso umano,
Bellezza e castità dolce concento.
L'una mi prese il cor come Amor volse,
L'altra l'impiaga, sì leggiera e presta,
Ch'ei la sua doglia oblia.
      Sola in disparte, ov'ogni oltraggio ha pace,
Rosa o giglio non siede,
Che l'alma non gli assembri a mano a mano,
Avezza nel desio ch'i' serro drento,
Quel vago fior, cui par uom mai non colse.
Così l'appaga e parte la molesta
Secura leggiadria.
      Caro armellin, ch'innocente si giace,
Vedendo, al cor mi riede
Quella del suo penser gentile e strano
Bianchezza, in cui mirar mai non mi pento:
Sì novamente me da me disciolse
La vera maga mia che, di rubesta,
Cangia ogni voglia in pia.
      Bel fiume, alor ch'ogni ghiaccio si sface,
Tanta falda non diede,
Quanta spande dal ciglio altero e piano
Dolcezza, che pò far altrui contento;
E sé dal dritto corso unqua non tolse.
Né mai s'inlaga mar senza tempesta,
Che sì tranquillo sia.
      Come si spegne poco accesa face,
Se gran vento la fiede,
Similemente ogni piacer men sano
Vaghezza in lei sol d'onestate ha spento.
O fortunato il velo, in cui s'avolse
L'anima saga e lei, ch'ogni altra vesta
Men le si convenia.
      Questa vita per altro a me non piace,
Che per lei, sua mercede,
Per cui sola dal vulgo m'allontano;
Ch'avezza l'alma a gir là 'v'io la sento,
Sì ch'ella altrove mai orma non volse;
E più s'invaga, quanto men s'arresta
Per la solinga via.
      Dolce destin, che così gir la face,
Dolci del mio cor prede,
Ch'altrui sì presso, a me 'l fan sì lontano;
Asprezza dolce e mio dolce tormento,
Dolce miracol, che veder non suolse,
Dolce ogni piaga, che per voi mi resta
Beata compagnia.
      Quanto Amor vaga, par beltate onesta
Né fu giamai, né fia.

[2.XVII.] Ora, perciò che da ritornare è là, onde ci dipartimmo, quinci comprender potete, donne, e quale sia l'errore di Perottino e dove egli l'ha preso. Perciò che dovendo egli mettersi per quella via dell'animo che ad Amor lo scorgesse nel favellare, egli, entrando per l'altro sentiero, alla contraria regione è pervenuto, per lo quale caminando, in quelle tante noie si venne incontrato, in quelle pene, in que' giorni tristi, in quelle notti così dolorose, in quelli scorni, in quelle gelosie, in coloro che uccidono altrui e talora per aventura se stessi, in que' Mezii, in que' Tizii, in que' Tantali, in quelli Isioni, tra' quali ultimamente, quasi come se egli nell'acqua chiara guatato avesse, egli vide se stesso: ma non si riconobbe bene, ché altramente si sarebbe doluto e vie più vere lagrime arebbe mandate per gli occhi fuora che egli non fece. Perciò che credendo sé essere amante e innamorato, mentre egli pure nella sua forma s'incontra imaginando, egli è un solitario cervo divenuto, che poi, a guisa d'Atteone, i suoi pensieri medesimi, quasi suoi veltri, vanno sciaguratamente lacerando; i quali egli più tosto cerca di pascere che di fuggire, vago di terminare innanzi tempo la sua vita, poco mostrando di conoscer quanto sia meglio il vivere, comunque altri viva, che il morire, quasi come se esso oggimai sazio del mondo niuno altro frutto aspettasse più di cogliere per lo innanzi de gli anni suoi, i quali non hanno appena incominciato a mandar fuora i lor fiori. Che quantunque così smaghino la costui giovanezza, donne, e così guastino le lagrime, come voi vedete, non perciò venne egli prima di me nel mondo, il quale pure oltre a tanti anni non ho varcati, quanti sarebbero i giorni del minor mese, se egli di due ancora fosse minore che egli non è. E cotestui, come se egli al centinaio s'appressasse, a guisa de gl'infermi perduti, chiama sovente chi di queste contrade levandolo in altri paesi ne 'l rechi, forse avisandosi, per mutare aria, di risanare. O sciagurato Perottino, e veramente sciagurato poi che tu stesso ti vai la tua disaventura procacciando e, non contento della tua, cerchi di teco far miseri insiememente tutti gli uomini. Perciò che tutti gli uomini amano, e necessariamente ciascuno. Che se gli amanti sempre accompagnano quegli appetiti così trabocchevoli, quelle allegrezze così dolorose, quelle così triste forme di paura, quelle cotante angoscie che tu di', senza fallo non solamente tutti gli uomini fai miseri, ma la miseria medesima costrigni ad essere per se stesso ciascun uomo. Taccio le pene di quelle maraviglie così fiere del tuo Idio, che tu ci raccontasti, le quali non che a.ffar la vita de gli uomini bastassero trista e cattiva, ma, di meno assai, gl'inferni tutti n'averebbono e tutti gli abissi di soverchio. O istolto, quanto sarebbe meglio por fine oggimai alla non profittevole maninconia, che ogni giorno andare meno giovevole ramarichio rincominciando; e alla tua salvezza dar riparo, mentre ella sostiene di riceverlo, che ostinatamente alla tua perdezza trovar via; e pensare che la natura non ti diè al mondo, perché tu stesso ti venissi cagion di tortene, che, tra queste lamentanze favolose vaneggiando e quasi al vento cozzando, dal vero sentimento e dalla tua salute medesima farti lontano.
      Ma lasciamo oggimai da canto con le sue menzogne Perottino, il quale hieri dal molto dolor sospinto e molto d'Amor lamentandosi, alquanto più lunga m'ha oggi fatta tenere questa parte della risposta, che io voluto non arei. Né siamo noi così stolti, donne, che crediamo il dolore altro che da Amore non essere, che pure parte alcuna non ha con lui, o che pensiamo che amare non si possa senza amaro, il qual sapore per niente ne gli amorosi condimenti non può aver luogo. E poscia che l'arme di Perottino, le quali egli contro ad Amore con sì fellone animo impalmate s'avea, nell'altrui scudo, sì come quelle che di piombo erano, si sono rintuzzate agevolmente, veggiamo ora quali sono quelle che Amore porge a chiunque si mette in campo per lui; come che Perottino si credesse hieri che a me non rimanesse che pigliare. Quantunque io né tutte le mi creda poter prendere, ché di troppo mi terrei da più che io non sono, né, se io pure il potessi, mi basterebbe egli il dì tutto intero a ciò fare, non che questo poco d'ora meriggiana che m'è data. Tuttavia dove egli non fosse, dilettose giovani, che voi voleste che io alcun'altra cosa ancora ne sopraragionassi alle raccontate.

[2.XVIII.] - Di nulla vogliam ritenerti, - rispose madonna Berenice, prima del volere delle compagne raccertatasi - né crediamo che faccia luogo altresì. E a noi si fa tardi che quello, che tu incominciando il ragionare ci promettesti, si fornisca. Ma tu per aventura non t'affrettare. Perciò che, come che a te paia d'avere già assai lungamente favellato, se al sole guarderai, il tempo che t'avanza è molto infino alle fresche ore. Né te ne dei maravigliare, perciò che più per tempo ci venimmo oggi qui, che noi non femmo hieri. Senza che, quando bene più alquanto ci dimorassimo, sì il poteremmo noi fare, perciò che il festeggiare non incominciò a pezza hieri, a quello che noi credavamo, quando di qui ci levammo con voi. Per che sicuramente, Gismondo, a tuo grandissimo agio potrai ancora di ciò, che più di dire t'aggraderà, lungamente ragionare. - Il giovane, al quale erano le parole della donna piaciute, sì come quegli che tuttavia incominciava mezzo seco stesso venir temendo non dalla strettezza del tempo fosse a' suoi ragionamenti poca ampiezza conceduta, veduto per l'ombre che gli allori facevano che così era come ella diceva, e sperando di quivi più lunga dimora poter fare, che fatto il giorno passato non aveano, contento già era per seguitare. E ecco dal monte venir due colombe volando, bianchissime più che neve, le quali, di fitto sopra i capi della lieta brigata il lor volo rattenendo, senza punto spaventarsi si posero l'una appresso l'altra in su l'orlo della bella fontana, dove per alquanto spazio dimorate, mormorando e basciandosi amorosamente stettero, non senza festa delle donne e de' giovani, che tutti cheti le miravano con maraviglia. E poi chinato i becchi nell'acqua cominciarono a bere, e di questo a bagnarsi sì dimesticamente in presenza d'ogniuno, che alle donne pareano pure la più dolce cosa del mondo e la più vezzosa. E mentre che elle così si bagnavano, fuori d'ogni temenza sicure, una rapace aquila di non so onde scesa giù a piombo, prima quasi che alcuno aveduto se ne fosse, preso l'una con gli artigli, ne la portò via. L'altra per la paura schiamazzatasi nella fonte e quasi dentro perdutane, pure alla fine riavutasi e malagevolmente uscita fuori sbigottita e debole e tutta del guazzo grave, sopra i visi della riguardante compagnia il meglio che poteva battendo l'ali, tutti spruzzandogli, lentamente s'andò con Dio. Avea traffitte le compassionevoli donne la subita presura della colomba, e fu il romore tra lor grande di così fatto accidente, né poteano rifinare di maravigliarsi come quella innocente uccella fosse di mezzo tutti loro così sciaguratamente stata rapita, la maladetta aquila mille volte e più per ciascuna bestemmiandosi, non senza ramarico de' giovani altresì; e tra lor tutti mescolatamente chi della sciagura dell'una e chi dello spavento dell'altra e chi della vaghezza d'amendue e della loro dimestichezza ragionava, e ebbevi di quelli che più altamente estimando vollono credere che ciò che veduto aveano a caso non fosse avenuto; quando Gismondo, poscia che vide le donne rachetate, incominciò: - Se la nostra colomba fosse ora dalla sua rapitrice in quella guisa portata, nella quale fu già il vago Ganimede dalla sua, essere potrebbe men discaro alla sua compagna d'averla perduta, e noi a.ttorto aremmo la fiera aquila biasimata, di cui cotanto ramaricati ci siamo. Ora, perciò che il dolerci più oltra in quelle cose che per noi amendar non si possono è opera senza fallo perduta, queste nostre doglianze con quelle di Perottino dimenticando, nella bontà d'Amore, per venire oggimai alle promesse che io vi feci, entriamo. - Allora Lisa, prima che egli andasse più avanti, tutta piena di dolce vezzo, più per tentarlo che per altro:
      - A mal tempo - disse - lasci tu, Gismondo, i tuoi ragionamenti primieri, dopo il caso, che ci ha ora tutti tenuti sospesi, lasciandonegli. Perciò che se dolore è questo che noi sentiamo, d'avere in piè alla sua nimica la nostra misera bestiuola veduta, e amore quell'altro, che della sua vaghezza n'avea presi, assai pare che ne segua chiaro che insieme e amare e dolere ci possiamo; e potrassi qui contra te dir quello che si dice tutto dì, che di gran lunga il più delle volte sono dal fatto le parole lontane -.
      Quivi Gismondo verso le donne sorridendo disse: - Vedete argomento di costei. Ma non sei però tu per levarmi la verità di mano, Lisa, così agevolmente come la nostra semplice colomba l'aquila di testé fece, ché io ne la difenderò. Tuttavolta tu mi ritorni in quelle siepi, delle quali n'eravamo usciti pur dianzi, quando io ti conchiusi che del perdere delle cose che noi amiamo, non è Amore, che di loro vaghi ci fa, ma la fortuna, che ce ne spoglia, cagione. Per che e amare e dolere, come tu di', bene ci possiamo, ma dolerci per cagion d'Amore non possiamo. Oltra che l'amore, che tra le passioni dell'animo si mescola, non è amore, come che egli sia detto amore e per amore tenuto dalle più genti. Per che non sono io per disposto di più oltra distendermi da capo nelle già dette ragioni d'intorno a questo fatto o in simili, di quello che allora mi stesi, come che io molte ve n'avessi dell'altre. Elle assai essere ti possono bastanti, dove tu per aventura in su l'ostinarti non ti mettessi; il che suole essere alle volte diffetto nelle belle donne, non altramente che soglia essere ne' be' cavalli il restio.
      - Se solamente ne' be' cavalli - rispose Lisa tutta nel viso divenuta vermiglia - cadesse, Gismondo, il restio, io che bella non sono - e era tuttavia bella come un bel fiore - mi crederei dover potere ora parlare a mio senno, senza che tu per ostinata m'avessi. Ma perciò che ancora ne' mal fatti cotesto vizio, e più spesso per aventura che ne gli altri, suole capere, sicuramente tu hai trovata la via da farmi oggi star cheta; ma io te ne pagherò ancora. -

[2.XIX.] Poscia che tra di queste parole e d'altre e del rossor di Lisa si fu alquanto riso fra la lieta compagnia, Gismondo, tutti gli altri ragionamenti che sviare il potessero troncati, dirittamente a' suoi ne venne in questa maniera: - La bontà d'Amore, o donne, della quale io ora ho a ragionarvi, è senza fallo infinita, né, perché se ne quistioni, si dimostra ella a gli ascoltanti tutta giamai. Nondimeno quello che scorgere favellando se ne può, così più agevolmente si potrà comprendere, se noi quanto ella giovi e quanto ella diletti ragioneremo; con ciò sia cosa che tanto ogni fonte è maggiore, quanto maggiori sono i fiumi che ne dirivano. Dico adunque, dal giovamento incominciando, che senza fallo tanto ogni cosa è più giovevole, quanto ella di più beni è causa e di più maggiori. Ma perciò che non di molti e grandissimi solamente ma di tutti i beni ancora, quanti unque se ne fanno sotto 'l cielo, è causa e origine Amore, si dee credere che egli giovevole sia sopra tutte le altre cose giovevoli del mondo. Io stimo che a voi sembri, giudiciose mie donne, che io troppo ampiamente incominci a dir d'Amore e facciagli troppo gran capo, quasi come se porre sopra le spalle d'un mezzano uomo la testa d'Atalante volessi. Ma io nel vero parlo quanto si dee, e niente per aventura più. Perciò che ponete mente d'ogni'intorno, belle giovani, e mirate quanto capevole è il mondo, quante maniere di viventi cose e quanto diverse sono in lui. Niuna ce ne nasce tra tante, la quale d'Amor non abbia, sì come da primo e santissimo padre, suo principio e nascimento. Perciò che se Amore due separati corpi non congiugnesse, atti a generar lor simili, non ci se ne generarebbe né ce ne nascerebbe mai alcuna. Che quantunque per viva forza comporre insieme si potessero e collegar due viventi, potenti alla generazione, pure se Amore non vi si mescola e gli animi d'amendue a uno stesso volere non dispone, eglino potrebbono così starsi mill'anni, che essi non generarebbono giamai. Sono per le mobili acque nel loro tempo i pesci maschi seguitati dalle bramose femine, e essi loro si concedono parimente, e così danno modo, medesimamente volendo, alla propagazione della spezie loro. Seguonsi per l'ampio aere i vaghi uccelli l'un l'altro. Seguonsi per le nascondevoli selve e per le loro dimore le vogliose fiere similmente. E con una legge medesima eternano la lor brieve vita, tutti amando tra loro. Né pure gli animanti soli, che hanno il senso, senza amore venire a stato non possono né a vita, ma tutte le selve de gli alberi piede né forma non hanno né alcuna qualità senza lui. Ché, come io dissi di questi allori, se gli alberi la terra non amassero e la terra loro, ad essi già non verrebbe fatto in maniera alcuna il potere impedalarsi e rinverzire. E queste erbuccie stesse, che noi tuttavia sedendo premiamo, e questi fiori non arebbono nascendo il loro suolo così vago, come egli è, e così verdeggiante renduto, forse per darci ora più bel tapeto di loro, se naturalissimo amore i lor semi e le lor radici non avesse col terreno congiunte in maniera che, elleno da lui temperato umore disiderando e esso volontariamente porgendogliele, si fossero insieme al generare accordati disiderosamente l'uno l'altro abbracciando. Ma che dico io questi fiori o queste erbe? Certo se i nostri genitori amati tra lor non si fossero, noi non saremmo ora qui, né pure altrove, e io al mondo venuto non sarei, sì come io sono, se non per altro almeno per difendere oggi il nostro non colpevole Amore dalle fiere calunnie di Perottino.

[2.XX.] Né pure il nascere solamente dà a gli uomini Amore, o donne, che è il primo essere e la prima vita, ma la seconda ancora dona loro medesimamente, né so se io mi dico che ella sia pure la primiera, e ciò è il bene essere e la buona vita, senza la quale per aventura vantaggio sarebbe il non nascere o almeno lo incontanente nati morire. Perciò che ancora errarebbono gli uomini, sì come ci disse Perottino che essi da prima facevano, per li monti e per le selve ignudi e pilosi e salvatichi a guisa di fiere, senza tetto, senza conversazione d'uomo, senza dimestichevole costume alcuno, se Amore non gli avesse, insieme raunando, di comune vita posti in pensiero. Per la qual cosa ne' loro disiderii alle prime voci la lingua snodando, lasciato lo stridere, alle parole diedero cominciamento. Né guari ragionarono tra loro, che essi, gli abitati tronchi de gli alberi e le rigide spilunche dannate, dirizzarono le capanne e, le dure ghiande tralasciando, cacciarono le compagne fiere. Crebbe poi a poco a poco Amore ne' primi uomini insieme col nuovo mondo e, crescendo egli, crebbero l'arti con lui. Allora primieramente i consapevoli padri conobbero i loro figliuoli da gli altrui, e i cresciuti figliuoli salutarono i padri loro; e sotto il dolce giogo della moglie e del marito n'andarono santamente gli uomini legati con la vergognosa onestà. Allora le ville di nuove case s'empierono, e le città si cinsero di difendevole muro, e i lodati costumi s'armarono di ferme leggi. Allora il santo nome della riverenda amicizia, il quale onde nasca per se stesso si dichiara, incominciò a seminarsi per la già dimesticata terra e, indi germogliando e cresciendo, a spargerla di sì soavi fiori e di sì dolci frutti coronarnela, che ancora se ne tien vago il mondo; come che poi, di tempo in tempo tralignando, a questo nostro maligno secolo il vero odore antico e la prima pura dolcezza non sia passata. In que' tempi nacquero quelle donne, che nelle fiamme de' loro morti mariti animosamente salirono, e la non mai bastevolmente lodata Alceste, e quelle coppie si trovarono di compagni così fide e così care, e dinanzi a gli occhi della fiera Diana fra Pilade e Oreste fu la magnanima e bella contesa. In que' tempi ebbero le sacre lettere principio, e gli amanti accesi alle lor donne cantarono i primi versi. Ma che vi vo io di queste cose, leggiere e deboli alle ponderose forze d'Amore, lungamente ragionando? Questa machina istessa così grande e così bella del mondo, che noi con l'animo più compiutamente che con gli occhi vediamo, nella quale ogni cosa è compresa, se d'Amore non fosse piena, che la tiene con la sua medesima discordevole catena legata, ella non durerebbe, né avrebbe lungo stato giamai. È adunque, donne, sì come voi vedete, cagion di tutte le cose Amore; il che essendo egli, di necessità bisogna dire che egli sia altresì di tutti i beni, che per tutte le cose si fanno, cagione. E perciò che, come io dissi, colui è più giovevole che è di più beni causa e di più maggiori, conchiudere oggimai potete voi stesse che giovevolissimo è Amore sopra tutte le giovevolissime cose. Ora parti egli, Perottino, che a me non sia rimaso che pigliare? o pure che non sia rimasa cosa, la quale io presa non abbia? -

[2.XXI.] Quivi, prima che altro si dicesse, trapostasi madonna Berenice e con la sua sinistra mano la destra di Lisa, che presso le sedea, sirochievolmente prendendo e strignendo, come se aiutar di non so che ne la volesse, a Gismondo si rivolse baldanzosa e sì gli disse: - Poscia che tu, Gismondo, così bene dianzi ci sapesti mordere, che Lisa oggimai più teco avere a fare non vuole, e per aventura che tu a questo fine il facesti, acciò che meno di noia ti fosse data da noi, e io pigliar la voglio per la mia compagna, come che tuttavia poco maestra battagliera mi sia. Ma così ti dico che, se Amore è cagione di tutte le cose, come tu ci di', e che per questo ne segua che egli sia di tutti i beni, che per tutte le cose si fanno, cagione, perché non ci di' tu ancora che egli cagion sia medesimamente di tutti i mali che si fanno per loro? la qual cosa di necessità conviene essere, se il tuo argomentare dee aver luogo. Che se il dire delle orazioni, che io fo, dee essere scritto ad Amore, perciò che per Amore io son nata, il male medesimamente, che io dico, dee essere a lui portato, perciò che se io non fossi nata, non ne 'l direi. E così de gli altri uomini e dell'altre cose tutte ti posso conchiudere ugualmente. Ora se Amore non è meno origine di tutti i mali, che egli sia di tutti i beni fondamento, per questa ragione non so io vedere che egli così nocevolissimo come giovevolissimo non sia.
      - Sì sapete sì, Madonna, che io mi creda - rispose incontanente Gismondo - Perciò che non vi sento di così labole memoria, che egli vi debba già essere di mente uscito quello che io pure ora vi ragionai. Ma voi ne volete la vostra compagna vendicare di cosa in che io offesa non l'ho, in quelle dispute medesime, delle quali n'eravamo usciti, altresì come ella ritornandomi. Perciò che non vi ricorda egli che io dissi che, perciò che ogni cosa naturale è buona, Amore, come quello che natural cosa è, buono eziandio è sempre, né può reo essere in alcuna maniera giamai? Per che egli del bene che voi fate è ben cagione, sì come colui che per ben fare solamente vi mise nel mondo; ma del male, se voi ne fate, che io non credo perciò, ad alcun disordinato e non naturale appetito, che muove in voi, la colpa ne date e non ad Amore. Questa vita, che noi viviamo, affine che noi bene operiamo c'è data, e non perché male facendo la usiamo; come il coltello, che alla bisogne de gli uomini fa l'artefice e dàllo altrui, se voi ad uccidere uomini usaste il vostro e io il mio, a noi ne verrebbe la colpa, sì come del misfatto commettitori, non all'artefice che il ferro, del commesso male istrumento, ad alcun mal fine non fece. Ma passiamo, se vi piace, alla dolcezza d'Amore. Quantunque, o donne, grandissimo incarico è questo per certo, a volere con parole asseguire la dimostrazione di quella cosa che, quale sia e quanta, si sente più agevolmente che non si dice. Perciò che sì come il dipintore bene potrà come che sia la bianchezza dipignere delle nevi, ma la freddezza non mai, sì come cosa il giudicio della quale, al tatto solamente conceduto, sotto l'occhio non viene, a cui servono le pinture, similmente ho io testé quanto sia il giovamento d'Amore dimostrarvi pure in qualche parte potuto, ma le dolcezze che cadono in ogni senso e, come sorgevole fontana assai più ancora che questa nostra non è, soprabondano in tutti loro, non possono nell'orecchio solo, per molto che noi ne parliamo, in alcuna guisa capere. Ma una cosa mi conforta, che voi medesime per isperienza avete conosciuto e conosciete tuttavia quali elle sono, onde io non potrò ora sì poco toccarne ragionando, che non vi sovenga il molto; il che per aventura tanto sarà, quanto se del tutto si potesse parlare. Ma donde comincierò io, o dolcissimo mio signore? E che prima dirò io di te e delle tue dolcezze indicibili, incomparabili, infinite? Insegnalemi tu, che le fai, e sì come io debbo andare, così mi scorgi e guida per loro. Ora per non mescolare favellando quelle parti che dilettar ci possono separatamente, delle dolcezze de gli occhi, che in amore sogliono essere le primiere, primieramente e separatamente ragioniamo. -

[2.XXII.] Il che avendo detto Gismondo, con un brieve silenzio fatta più attenta l'ascoltante compagnia, così incominciò: - Non sono come quelle de gli altri uomini le viste de gli amanti, o donne, né sogliono gl'innamorati giovani con sì poco frutto mirare ne gli obbietti delle loro luci, come quelli fanno, che non sono innamorati. Perciò che sparge Amore col movimento delle sue ali una dolcezza ne gli occhi de' suoi seguaci, la quale, d'ogni abbagliaggine purgandogli, fa che essi, stati semplici per lo adietro nel guardare, mutano subito modo e, mirabilmente artificiosi divenendo al loro ufficio, le cose che dolci sono a vedere essi veggono con grandissimo diletto, là dove delle dolcissime gli altri uomini poco piacere sentono per vederle e il più delle volte non niuno. E come che dolci sieno molte cose, le quali tutto dì miriamo, pure dolcissime sopra tutte le altre, che veder si possano per occhio alcuno giamai, sono le belle donne, come voi siete. Non per tanto elle dolcezza non porgono se non a gli occhi de gli amanti loro, sì come que' soli a' quali Amore dona virtù di passar con la lor vista ne' suoi tesori. E se pure alcuna ne porgono, che tuttavolta non è uom quegli a cui già in qualche parte la vostra vaga bellezza non piaccia, a rispetto di quella de gli amanti ella è come un fiore a comperazione di tutta la primavera. Perciò che aviene spesse volte che alcuna bella donna passa dinanzi a gli occhi di molti uomini, e da tutti generalmente volentieri è veduta: tra' quali, se uno o due ve n'ha che con diletto più vivo la riguardino, cento poi son quelli per aventura che ad essa non mandano la seconda o la terza guatatura. Ma se tra que' cento l'amante di lei si sta e vedela, che a questa opera non suole però essere il sezzaio, ad esso pare che mille giardini di rose se gli aprano allo 'ncontro e sentesi andare in un punto d'intorno al cuore uno ingombramento tale di soavità, che ogni fibra ne riceve ristoro, possente a scacciarne qualunque più folta noia le possibili disaventure della vita v'avessero portata e lasciata. Egli la mira intentamente e rimira con infingevole occhio, e per tutte le sue fattezze discorrendo, con vaghezza solo da gli amanti conosciuta, ora risguarda la bella treccia, più simile ad oro che ad altro, la quale sì come sono le vostre, né vi sia grave che io delle belle donne ragionando tolga l'essempio in questa e nelle altre parti da voi, la quale, dico, lungo il soave giogo della testa, dalle radici ugualmente partendosi e nel sommo segnandolo con diritta scriminatura, per le deretane parti s'avolge in più cerchi; ma dinanzi, giù per le tempie, di qua e di là in due pendevoli ciocchette scendendo e dolcemente ondeggianti per le gote, mobili ad ogni vegnente aura, pare a vedere un nuovo miracolo di pura ambra palpitante in fresca falda di neve. Ora scorge la serena fronte, con allegro spazio dante segno di sicura onestà; e le ciglia d'ebano piane e tranquille, sotto le quali vede lampeggiar due occhi neri e ampi e pieni di bella gravità, con naturale dolcezza mescolata, scintillanti come due stelle ne' lor vaghi e vezzosi giri, il dì che primieramente mirò in loro e la sua ventura mille volte seco stesso benedicendo. Vede dopo questi le morbide guancie, la loro tenerezza e bianchezza con quella del latte appreso rassomigliando, se non in quanto alle volte contendono con la colorita freschezza delle matutine rose. Né lascia di veder la sopposta bocca, di picciolo spazio contenta, con due rubinetti vivi e dolci, aventi forza di raccendere disiderio di basciargli in qualunque più fosse freddo e svogliato. Oltre a.cciò quella parte del candidissimo petto riguardando e lodando, che alla vista è palese, l'altra che sta ricoperta loda molto più ancora maggiormente, con acuto sguardo mirandola e giudicandola: mercé del vestimento cortese, il quale non toglie perciò sempre a' riguardanti la vaghezza de' dolci pomi che, resistenti al morbido drappo, soglion bene spesso della lor forma dar fede, mal grado dell'usanza che gli nasconde. - Trassero queste parole ultime gli occhi della lieta brigata a mirar nel petto di Sabinetta, il quale parea che Gismondo più che gli altri s'avesse tolto a dipignere, in maniera per aventura la vaga fanciulla, sì come quella che garzonissima era, e tra per questo e per la calda stagione d'un drappo schietto e sottilissimo vestita, la forma di due poppelline tonde e sode e crudette dimostrava per la consenziente veste. Per che ella si vergognò veggendosi riguardare, e più arebbe fatto, se non che madonna Berenice, accortasi di ciò, subitamente disse: - Cotesto tuo amante, Gismondo, per certo molto baldanzosamente guata e per minuto, poi che egli infino dentro al seno, il quale noi nascondiamo, ci mira. Me non vorrei già che egli guatasse così per sottile.
      - Madonna, tacete, - rispose Gismondo - ché voi ne avete una buona derrata. Perciò che se io volessi dir più avanti, io direi che gli amanti passano con la lor vista in ogni luogo e, per quello che appare, agevolmente l'altro veggono, che sta nascoso. Per che nascondetevi pure a gli altri uomini a vostro senno, quanto più potete, ché a gli amanti non vi potete voi nascondere, donne mie belle, né dovete altresì. E poi dirà Perottino che ciechi sono gli amanti. Cieco è egli, che non vede le cose che da veder sono, e non so che sogni si va, non dico veggendo, ché veder non si può ciò che non è, anzi pure ciò che non può essere, ma dipingendo: un garzone ignudo, con l'ali, col fuoco, con le saette, quasi una nuova chimera fingendosi, non altramente che se egli mirasse per uno di quelli vetri che sogliono altrui le maraviglie far vedere.


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Edizione telematica  a cura di: Claudio Paganelli, 1999
Revisione, Edizione HTML e impaginazione a cura di: Giuseppe Bonghi, Aprile 1999
Tratto da: Pietro Bembo, Prose della volgar lingua, Gli Asolani, Rime, a cura di Carlo Dionisotti, TEA Tascabili Editori Associati, Milano 1997

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Ultimo aggiornamento: 22 aprile, 1999