Pietro  Bembo

Gli Asolani

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SECONDO LIBRO

[2.I.] A me pare, quando io vi penso, nuovo, onde ciò sia che, avendo la natura noi uomini di spirito e di membra formati, queste mortali e deboli, quello durevole e sempiterno, di piacere al corpo ci fatichiamo quanto per noi si può generalmente ciascuno, all'animo non così molti risguardano e, per dir meglio, pochissimi hanno cura o pensiero. Perciò che niuno è così vile, che la sua persona d'alcun vestimento non ricuopra, e molti sono coloro che, nelle lucide porpore e nelle dilicate sete e nell'oro stesso cotanto pregiato fasciandola e delle più rare gemme illustrandola, così la portano, per più di grazia e più d'ornamento le dare; dove si veggono senza fine tutto il giorno di quegli uomini, i quali la lor mente non solo delle vere e sode virtù non hanno vestita, ma pure d'alcun velo o filo di buon costume ricoperta né adombrata si tengono. Oltre a ciò sì aviene egli ancora che, per vaghezza di questo peso e fascio terreno, il quale pochi anni disciogliono e fanno in polve tornare, dove a sostenimento di lui le cose agevoli e in ogni luogo proposteci dalla natura ci bastavano, noi pure i campi, le selve, i fiumi, il mare medesimo sollecitando, con molto studio i cibi più preziosi cerchiamo, e per acconcio e agio di lui, potendo ad esso una capannuccia dalle nevi e dal sole difendendolo sodisfare, i più lontani marmi da diverse parti del mondo raunando, in più contrade palagi ampissimi gli fondiamo; e la celeste parte di noi molte volte, di che ella si pasca o dove abiti non curiamo, ponendole pure innanzi più tosto le foglie amare del vizio che i frutti dolcissimi della virtù, nello oscuro e basso uso di quello più spesso rinchiusa tenendola, che nelle chiare e alte operazioni di questa invitandola a soggiornare. Senza che, qualora aviene che noi alcuna parte del corpo indebolita e inferma sentiamo, con mille argomenti la smarrita sanità in lui procuriamo di rivocare; a gli animi nostri non sani poco curiamo di dare ricovero e medicina alcuna. Sarebbe egli ciò forse per questo che, perciò che il corpo più appare che l'animo non fa, più altresì crediamo che egli abbia di questi provedimenti mestiero? Il che tuttavia è poco sanamente considerato. Perciò che non che il corpo nel vero più che l'animo de gli uomini non appaia, ma egli è di gran lunga in questo da.llui evidentemente superato. Con ciò sia cosa che l'animo tante faccie ha, quante le sue operazioni sono, dove del corpo altro che una forma non si mostra giamai. E questa in molti anni molti uomini appena non vedono, dove quelle possono in brieve tempo essere da tutto 'l mondo conosciute. E questo stesso corpo altro che pochi giorni non dura, là dove l'animo sempiterno sempiternamente rimane, e può seco lunghi secoli ritener quello di che noi, mentre egli nel corpo dimora, l'avezziamo. Alle quali cose e ad infinite altre, che a queste aggiugner si potrebbono, se gli uomini avessero quella considerazione che loro s'apparterrebbe d'avere, vie più bello sarebbe oggi il viver nel mondo e più dolce che egli non è, e noi, con bastevole cura del corpo avere, molto più l'animo e le menti nostre ornando e meglio pascendole e più onorata dimora dando loro, saremmo di loro più degni che noi non siamo, e molta cura porremmo nel conservarle sane e, se pure alcuna volta infermassero, con maggiore studio ci faticheremmo di riparare a' lor morbi che noi non facciamo. Tra' quali quanto sembri grave quello che Amore addosso ci reca, assai si può dalle parole di Perottino nel precedente libro aver conosciuto. Quantunque Gismondo, forte da lui discordando, molto da questa openione lontano sia. Perciò che venute il dì seguente le belle donne, sì come ordinato aveano, appresso 'l mangiare co' loro giovani nel giardino, e nel vago praticello accoste la chiara fonte e sotto gli ombrosi allori sedutesi, dopo alquanti festevoli motti sopra i sermoni di Perottino da' due compagni e dalle donne sollazzevolmente gittati, aspettando già ciascuno che Gismondo parlasse, egli così incominciò a dire:

[2.II.] - Assai vezzosamente fece hieri, sagge e belle donne, Perottino; il quale nella fine della sua lunga querimonia ci lasciò piangendo, acciò che quello, che aver non gli parea con le parole potuto guadagnare, le lagrime gli acquistassero, ciò è la vostra fede alle cose che egli intendea di mostrarvi. Le quai lagrime tuttavia, quello che in voi operassero, io non cerco: me veramente mossero elle a tanta pietà de' suoi mali, che io, come poteste vedere, non ritenni le mie. E questa pietà in me non pure hieri solamente ebbe luogo; anzi ogni volta che io alle sue molte sciagure considero, duolmene più che mezzanamente, e sonomi sempre gravi le sue fatiche, sì come di carissimo amico che egli m'è, forse non guari meno che elle si sieno a lui. Ma queste medesime lagrime, che in me esser possono meritevolmente lodate, come quelle che vengono da tenero e fratellevole animo, veda bene Perottino che in lui non sieno per aventura vergognose. Perciò che ad uomo nelle lettere infin da fanciullo assai profittevolmente essercitato, sì come egli è, più si conviene calpestando valorosamente la nimica fortuna ridersi e beffarsi de' suoi giuochi, che, lasciandosi sottoporre a.llei, per viltà piagnere e ramaricarsi a guisa di fanciullo ben battuto. E se pure egli ancora non ha da gli antichi maestri tanto di sano avedimento appreso, o seco d'animo dalle culle recato, che egli incontro a' colpi d'una femina si possa o si sappia schermire, ché femina pare che sia la fortuna se noi alla sua voce medesima crediamo, assai avrebbe fatto men male e cosa ad uom libero più convenevole Perottino, se, confessando la sua debolezza, egli di se stesso doluto si fosse, che non è stato, dolendosi d'uno strano, avere in altrui la propria colpa recata. Ma che? Egli pure così ha voluto e, per meglio colorire la sua menzogna e il suo difetto, lamentandosi d'Amore, accusandolo, dannandolo, rimproverandolo, ogni fallo, ogni colpa volgendo in lui, s'è sforzato di farlovi in poco d'ora di liberalissimo donatore di riposo, di dolcissimo apportator di gioia, di santissimo conservatore delle genti, che egli sempre è stato, rapacissimo rubator di quiete, acerbissimo recator d'affanno, sceleratissimo micidiale de gli uomini divenire; e come se egli la sentina del mondo fosse, in lui ha ogni bruttura della nostra vita versata, con sì alte voci e così diverse sgridandolo, che a me giova di credere oggimai che egli, più aveduto di quello che noi stimiamo, non tanto per nasconderci le sue colpe, quanto per dimostrarci la sua eloquenza, abbia tra noi di questa materia in così fatta guisa parlato. Perciò che dura cosa pare a me che sia il pensare che egli ad alcun di noi, che pure il pesco dalla mela conosciamo, abbia voluto fare a credere che Amore, senza il quale niun bene può ne gli uomini aver luogo, sia a noi d'ogni nostro male cagione. E certamente, riguardevoli donne, egli ha in uno canale derivate cotante bugie, e quelle così bene col corso d'apparente verità inviate dove gli bisognava, che senza dubbio assai acqua m'arebbe egli addosso fatta venire, sì come le sue prime minaccie sonarono, se io ora dinanzi a così intendenti ascoltatrici non parlassi, come voi sete, le quali ad ogni raviluppatissima quistione sciogliere, non che alle sciolte giudicare, come questa di qui a poco sarà, sete bastanti. La qual cosa, acciò che senza più oltra tenervi incominci ad aver luogo, io a gli effetti me ne verrò, solo che voi alcuna attenzion mi prestiate. Né vi sia grave, o donne, il prestarlami, ché più a me si conviene ella oggi che a Perottino hieri non fece. Perciò che oltre che lo snodare gli altrui groppi più malagevole cosa è che l'annodargli non è stato, io, la verità dinanzi a gli occhi ponendovi, conoscere vi farò quello che è sommamente dicevole alla vostra giovane etade e senza il che tutto il nostro vivere morte più tosto chiamar si può che vita; dove egli, la menzogna in bocca recando, vi dimostrò cosa, la quale posto che fosse vera, non che a gli anni vostri non convenevole, ma ella sarebbe vie più a' morti che ad alcuna qualità di vivi conforme. -

[2.III.] Avea così detto Gismondo e tacevasi, quando Lisa verso madonna Berenice baldanzosamente riguardando:
      - Madonna, - disse - egli si vuole che noi Gismondo attentamente ascoltiamo, poscia che di tanto giovamento ci hanno a dovere essere i suoi sermoni; la qual cosa se egli così pienamente ci atterrà, come pare che animosamente ci prometta, certa sono che Perottino abbia oggi non men fiero difenditore ad avere, che egli hieri gagliardo assalitore si fosse. - Rispose madonna Berenice a queste parole di Lisa non so che, e rispostole, tutta lieta e aspettante d'udire si taceva; là onde Gismondo così prese a dire: - Una cosa sola, leggiadre donne, e molto semplice oggi ho io a dimostrarvi, e non solamente da me e dalla maggior parte delle nostre fanciulle, che a questi ragionamenti argomento hanno dato, ma da quanti ci vivono, che io mi creda, almeno in qualche parte, solo che da Perottino, conosciuta, se egli pure così conosce come ci ragiona; e questa è la bontà d'Amore, nella quale tanto di rio pose hieri Perottino, quanto allora voi vedeste e, sì come ora vederete, a gran torto. Ma perciò che a me conviene, per la folta selva delle sue menzogne passando, all'aperto campo delle mie verità far via, prima che ad altra parte io venga, a' suoi ragionamenti rispondendo, in essi porrem mano. E lasciando da parte stare il nascimento che egli ad Amore diè, di cui io ragionar non intendo, questi due fondamenti gittò hieri Perottino nel principio delle sue molte voci e, sopra essi edificando le sue ragioni, tutta la sua querela assai acconciamente compose: ciò sono che amare senza amaro non si possa, e che da altro non venga niuno amaro e non proceda che da solo Amore. E perciò che egli di questo secondo primieramente argomentò, a voi, madonna Berenice, ravolgendosi, la quale assai tosto v'accorgeste quanto egli, già nell'entrar de' suoi ragionamenti andava tentone, sì come quegli che nel buio era, di quinci a me piace d'incominciare, con poche parole rispondendogli, perciò che di molte a così scoperta menzogna non fa mestiero. Dico adunque così, che folle cosa è a dire che ogni amaro da altro non proceda che d'Amore. Perciò che se questo vero fosse, per certo ogni dolcezza da altro che da odio non verrebbe e non procederebbe giamai, con ciò sia cosa che tanto contrario è l'odio all'amore, quanto è dall'amaro la dolcezza lontana. Ma perciò che da odio dolcezza niuna procedere non può, ché ogni odio, in quanto è odio, attrista sempre ogni cuore e addolora, pare altresì che di necessità si conchiuda che da amore amaro alcuno procedere non possa in niun modo giamai. Vedi tu, Perottino, sì come io già truovo armi con le quali ti vinco? Ma vadasi più avanti, e a più strette lotte con le tue ragioni passiamo. Perciò che dove tu, alle tre maniere de' mali appigliandoti, argomenti che ogni doglia da qualche amore, sì come ogni fiume da qualche fonte, si diriva, vanamente argomentando, ad assai fievole e falsa parte t'appigli con fievoli e false ragioni sostentata. Perciò che se vuoi dire che, se noi prima non amassimo alcuna cosa, niun dolore ci toccherebbe giamai, è adunque amore d'ogni nostra doglia fonte e fondamento, e che per ciò ne segua che ogni dolore altro che d'amore non sia; deh perché non ci di' tu ancora così, che, se gli uomini non nascessero, essi non morrebbono giamai, è adunque il nascere d'ogni nostra morte fondamento, e perciò si possa dire che la cagion della morte di Cesare o di Nerone altro che il loro nascimento stata non sia? Quasi che le navi che affondano nel mare, de' venti che loro dal porto aspirarono secondi e favorevoli, non di quelli che l'hanno vinte nimici e contrari, si debbano con le balene ramaricare, perciò che, se del porto non uscivano, elle dal mare non sarebbono state ingozzate. E posto che il cadere in basso stato a coloro solamente sia noioso i quali dell'alto son vaghi, non perciò l'amore che alle ricchezze o a gli onori portiamo, sì come tu dicesti, ma la fortuna, che di loro ci spoglia, ci fa dolere. Perciò che se l'amarle parte alcuna di doglia ci recasse nell'animo, con l'amor di loro, possedendole noi o non possedendole, verrebbe il dolore in noi. Ma non si vede che noi ci dogliamo, se non perdendole; anzi manifesta cosa è egli assai che in noi nulla altro il loro amore adopera, se non che quelle cose, che la fortuna ci dà, esso dolci e soavi ce le fa essere: il che se non fosse, il perderle, che se ne facesse, e il mancar di loro, non ci potrebbe dolere. Se adunque nell'amar questi beni di fortuna doglia alcuna non si sente, se non in quanto essa fortuna, nel cui governo sono, gli permuta, con ciò sia cosa che Amore più a grado solamente ce gli faccia essere, e la fortuna, come ad essa piace, e ce gli rubi e ce gli dia, perché giova egli a te di dire che del dolore, il quale le loro mutazioni recano a gli uomini, Amore ne sia più tosto che la fortuna cagione? Certo se mangiando tu a queste nozze, sì come tutti facciamo, il tuo servente contro tua voglia ti levasse dinanzi il tuo piatello pieno di buone e di soavi cose, il quale egli medesimo t'avesse recato, e tu del cuoco ti ramaricassi, e dicessi che egli ne fosse stato cagione, che il condimento dilicato sopra quella cotal vivanda fece, per che ella ti fu recata e tu a mangiarne ti mettesti, pazzo senza fallo saresti tenuto da ciascuno. Ora se la fortuna nostro mal grado si ritoglie que' beni che ella prima ci ha donati, de' quali ella è sola recatrice e rapitrice, tu Amore n'encolperai, che il conditor di loro è, e non ti parrà d'impazzare? Certo non vorrei dir così, ma io pure dubito, Perottino, che oggimai non t'abbiano in cotali giudicii gran parte del debito conoscimento tolto le ingorde maninconie. Questo medesimamente, senza che io mi distenda nel parlare, delle ricchezze dell'animo e di quelle del corpo ti si può rispondere, quali unque sieno di loro i ministratori. E se le tue fiere alcun de' loro poppanti figliuoli perdendo si dogliono, il caso tristo che le punge, non l'amore che la natura insegna loro, le fa dolere. D'intorno alle quali tutte cose, oggimai che ne posso io altro dire, che di soverchio non sia, se non che mentre tu con queste nuvole ti vai ombreggiando la tua bugia, niuna soda forma ci hai ritratta del vero? Se per aventura più forte argomento non volessimo già dire che fosse dell'amaritudine d'Amore quello dove tu di' che Amore da questa voce Amaro assai acconciamente fu così da prima detto, affine che egli bene nella sua medesima fronte dimostrasse ciò che egli era. Il che io già non sapea, e credea che non le somiglianze de' sermoni, ma le sustanze delle operagioni fossero da dovere essere ponderate e riguardate. Che se pure le somiglianze sono delle sustanze argomento, di voi, donne, sicuramente m'incresce, le quali non dubito che Perottino non dica che di danno siate alla vita de gli uomini, con ciò sia cosa che così sono inverso di sé queste due voci, Donne e Danno conformi, come sono quest'altre due, Amore e Amaro, somiglianti. -

[2.IV.] Aveano a piacevole sorriso mosse le ascoltanti donne queste ultime parole di Gismondo, e madonna Berenice tuttavia sorridendo, all'altre due rivoltasi così disse: - Male abbiam procacciato, compagne mie care, poi che sopra di noi cadono le costoro quistioni.
      A cui Sabinetta, della quale la giovanetta età e la vaga bellezza facevano le parole più saporose e più care, tutta lieta e piacevole rispose: - Madonna, non vi date noia di ciò: elle non ci toccano pure. Perciò che dimmi tu, Gismondo, qua' donne volete voi che sien di danno alla vostra vita: le giovani o le vecchie? Certo delle giovani secondo il tuo argomentare non potrai dire, se non che elle vi giovino; con ciò sia cosa che Giovani e Giovano quella medesima somiglianza hanno in verso di sé che tu delle Donne e del Danno dicesti. Il che se tu mi doni, a noi basta egli cotesto assai: le vecchie poi sien tue.
      - Sieno pure di Perottino, - rispose tutto ridente Gismondo - la cui tiepidezza e le piagnevoli querele, poi che le somiglianze hanno a valere, assai sono alla fredda e ramarichevole vecchiezza conformi. A me rimangano le giovani, co' cuori delle quali, lieti e festevoli e di calde speranze pieni, s'avenne sempre il mio, e ora s'aviene più che giamai, e certo sono che elle mi giovino, sì come tu di'. - A queste così fatte parole molte altre dalle donne e da' giovani dette ne furono, l'uno all'altro scherzevolmente ritornando le vaghe rimesse de' vezzosi parlari. E di giuoco in giuoco per aventura garreggiando più oltre andata sarebbe la vaga compagnia, nella quale solo Perottino si tacea, se non che Gismondo in questa maniera parlando alla loro piacevolezza pose modo:

[2.V.] - Assai ci hanno, mottegiose giovani, dal diritto camino de' nostri ragionamenti traviati le somiglianze di Perottino, le quali, perciò che a noi di più giovamento non sono che elle state sieno utili a lui, oggimai a dietro lasciando, più avanti ancora de' suoi ramarichi passiamo. E perché avete assai chiaro veduto quanto falsa l'una delle sue proposte sia, dove egli dice che ogni amaro altro che d'Amore non viene, veggasi ora quanto quell'altra sia vera, dove egli afferma che amare senza amaro non si puote. Nella quale una egli ha cotante guise d'amari portate e raunate, che assai utile lavorator di campi egli per certo sarebbe, se così bene il loglio, la felce, i vepri, le lappole, la carda, i pruneggiuoli e le altre erbe inutili e nocive della sua possessione sciegliesse e in un luogo gittasse, come egli ha i sospiri, le lagrime, i tormenti, le angoscie, le pene, i dolor tutti e tutti i mali della nostra vita sciegliendo, quegli solamente sopra le spalle de gl'innocenti amanti gittati e ammassati. Alla qual cosa fare, acciò che egli d'alcuno apparente principio incominciasse, egli prese argomento da gli scrittori, e disse che quanti d'Amor parlano, quello ora fuoco e ora furor nominando e gli amanti sempre miseri e sempre infelici chiamando, in ogni lor libro, in ogni lor foglio si dolgono, si lamentano di lui, né pure di sospiri o di lagrime, ma di ferite e di morti de gli amanti tutti i loro volumi son macchiati. Il che è da.llui con assai più sonanti parole detto che con alcuna ragionevole pruova confermato, sì come quello che non sente del vero. Perciò che chi non legge medesimamente in ogni scrittura gli amorosi piaceri? Chi non truova in ogni libro alcuno amante che, non dico le sue venture, ma pure le sue beatitudini non racconti? Delle quali se io vi volessi ora recitare quanto potrei senza molto studio ramentarmi, certo pure in questa parte sola tutto questo giorno logorerei, e temerei che prima la voce che la materia mi venisse mancata. Ma perciò che egli con le sue canzoni i gravi ramarichi de gli amanti e la ferezza d'Amore vi volle dimostrare, e fece bene, perciò che egli non arebbe di leggiero potuto altrove così nuovi argomenti ritrovare, come che a' proprii testimoni non si creda, pure, se a voi, donne, non ispiacerà, io altresì con alcuna delle mie quanto d'Amore si lodino gli uomini e quanto abbiano da lodarsi di lui non mi ritrarrò di farvi chiaro. -

[2.VI.] Volea a Gismondo ciascuna delle donne rispondere e dire che egli dicesse, ma Lisa, che più vicina gli era, con più tostana risposta fece l'altre tacere così dicendo: - Deh sì, Gismondo, per Dio; e non che egli ci piaccia, ma noi te ne preghiamo: anzi avea io per me già pensato di sollecitartene, se tu non ti proferevi.
      - Me non bisogna egli che voi preghiate o sollecitiate, - rispose incontanente Gismondo - perciò che delle mie rime, quali che elle si sieno, solo che a voi giovi d'ascoltarle, a me di sporlevi egli sommamente gioverà. E oltre acciò, se voi vi degnaste per aventura di lodarlemi, dove a Perottino parve che fosse grave, io a molta gloria mi recherei e rimarre'vene sopra il pregio ubrigato.
      - Cotesto farem noi volentieri, - rispose madonna Berenice - sì veramente che farai ancora tu che noi così te possiamo lodare come potevam lui.
      - Dura condizione m'avete imposta, Madonna, - disse alora Gismondo - e io senza condizione vi parlava, troppo più vago richieditore delle vostre lode che buono stimatore delle mie forze divenuto. Ma certo, avengane che può, io ne pure farò pruova.
      E questo detto, piacevolmente incominciò:

      Né le dolci aure estive,
Né 'l vago mormorar d'onda marina,
Né tra fiorite rive
Donna passar leggiadra e pellegrina,
Fûr giamai medicina,
Che sanasse pensero infermo e grave,
Ch'io non gli aggia per nulla
Di quel piacer, che dentro mi trastulla
L'anima, di cui tene Amor la chiave:
Sì è dolce e soave.

Pendeano dalla bocca di Gismondo le ascoltanti donne, credendo che più oltre avesse ad andare la sua canzona, e egli tacendosi diede lor segno d'averla fornita. Là onde in questa maniera madonna Berenice a lui rincominciò: - Lieta e vaghetta canzona dicesti, Gismondo, senza fallo alcuno; ma vuoi tu essere per così poca cosa lodato?
      - Madonna mia, no - rispose egli. - Ben vorrei che mi dicesse Perottino dove sono in questa quelli suoi cotanti dolori, che egli disse che in ogni canzone si leggeano. Ma prima che egli mi risponda, oda quest'altra ancora:

      Non si vedrà giamai stanca né sazia
Questa mia penna, Amore,
Di renderti, signore,
Del tuo cotanto onore alcuna grazia.
A cui pensando, volentier si spazia
Per la memoria il core,
E vede 'l tuo valore,
Ond'ei prende vigore e te ringrazia.
      Amor, da te conosco quel ch'io sono:
Tu primo mi levasti
Da terra e 'n cielo alzasti,
E al mio dir donasti un dolce suono;
E tu colei, di ch'io sempre ragiono,
A gli occhi miei mostrasti,
E dentro al cor mandasti
Pensier leggiadri e casti, altero dono.
      Tu sei, la tua mercé, cagion ch'io viva
In dolce foco ardendo,
Dal qual ogni ben prendo,
Di speme il cor pascendo onesta e viva;
E se giamai verrà ch'i' giunga a riva,
Là 've 'l mio volo stendo,
Quanto piacer n'attendo,
Più tosto no 'l comprendo, ch'io lo scriva.
      Vita gioiosa e cara
Chi da te non l'impara, Amor, non have.

[2.VII.] Assai era alle intendenti donne piaciuta questa canzone e sopra essa, lodandola, diverse cose parlavano. Ma Gismondo, a cui parea che l'ora fuggisse, sì come quegli che avea assai lungamente a parlare, interrompendole, in questa maniera i suoi ragionamenti riprese: - Amorose giovani, che le mie rime vi piacciano, se così è come voi dite, a me piace egli sopra modo. Ma voi allora le vostre lode mi darete, quando io ad Amore arò date le sue. Perciò che onesta cosa non è che voi prima me di così bella merce paghiate, che io il mio sì poco lavorio vi fornisca. Ora venendo a Perottino, quanto egli falsamente argomenti, che ne' versi che d'Amor parlano niente altro si legga che dolore, voi vedete. Né pure queste tra le mie rime, che uno sono tra gli amanti, solamente si leggono lodanti e ringrazianti il loro signore, ma molte altre ancora, delle quali io, perciò che ad altre parti ho a venire, né bisogna che lungo tempo in questa sola mi dimori ragionando, secondo che elle mi verranno in bocca, alcuna ne racconterò, per le quali voi meglio il folle errore di Perottino comprenderete. E certo se egli avesse detto che più sono stati di quegli amanti che d'Amor si sono ne' loro scritti doluti, che quelli non sono stati che lodati di lui si sono, e più ragionevole sarebbe stato il suo parlare, e io per poco gliele arei conceduto; né perciò sarebbe questo buono argomento stato a farci credere che amare senza amaro non si possa, perché non così molti d'Amor si lodassero, quanti veggiamo che si lamentano di lui. Perciò che, lasciamo stare che da natura più labili siamo ciascuno a ramaricarci delle sciagure che a lodarci delle venture, ma diciamo così, che quelli che felicemente amano, tanta dolcezza sentono de' loro amori, che di quella sola l'animo loro e ogni lor senso compiutamente pascendo e di ciò interissima sodisfazione prendendo, non hanno di prosa, né di verso, né di carte vane e sciocche mestiero. Ma gl'infelici amanti, perciò che non hanno altro cibo di che si pascere né altra via da sfogar le loro fiamme, corrono a gl'inchiostri e quivi fanno quelli cotanti romori che si leggono, simili a questi di Perottino, che egli così caldamente ci ha raccontati. Onde non altramente aviene nella vita de gli amanti che si vegga nel corso de' fiumi adivenire, i quali dove sono più impediti e da più folta siepe o da sassi maggiori attraversati, più altresì rompendo e più sonanti scendono e più schiumosi; dove non hanno che gl'incontri e da niuna parte il loro camino a sé vietato sentono, riposatamente le loro umide bellezze menando seco, pura e cheta se ne vanno la lor via. Così gli amanti, quanto più nel corso de' loro disii hanno gl'intoppi e gl'impedimenti maggiori, tanto più in essi rotando col pensiero e lunga schiuma de' loro sdegni traendo dietro, fanno altresì il suono de' lor lamenti maggiore; felici e fortunati e in ogni lato godenti de' loro amori, né da alcuna opposta difficultà nell'andare ad essi ritenuti, spaziosa e tranquilla vita correndo, non usano di farsi sentire. La qual cosa se così è, che è per certo, né potrà fare in maniera Perottino del vero co' suoi nequitosi argomenti che egli pure vero non sia, potrassi dire che le molte ramaricazioni degli amanti infelici sien quelle che facciano che esser non ne possano ancora de' felici? E chi dubita che egli non si possa? Che perché in alcuno famoso tempio dipinte si veggano molte navi, quale con l'albero fiacco e rotto e con le vele raviluppate, quale tra molti scogli sospinta o già sopravinta dall'onde arare per perduta, e quale in alcuna piaggia sdruscita, testimonianza donar ciascuna de' loro tristi e fortunosi casi, non si può per questo dire che altrettante state non sien quelle che possono lieto e felice viaggio avere avuto, quantunque elle, sì come di ciò non bisognevoli, alcuna memoria delle loro prospere e seconde navigazioni lasciata non abbiano.

[2.VIII.] Ora si può accorgere Perottino come, senza volere io ripigliare alcuno antico o moderno scrittore, i suoi frigoli argomenti ripigliati e rifiutati per se stessi rimangono. Ma per non tenervi io in essi più lungamente che uopo ci sia, oggimai ne gli amorosi miracoli e nelle loro discordanze passiamo, dove son quelli che vivono nel fuoco come salamandre, e quegli altri che ritornano in vita morendo e muoiono similmente della lor vita. Alle quali maraviglie sallo Idio che io non so che mi rispondere, che io di Perottino non mi maravigli, il quale, o folle credenza di farloci a credere che lo rassicurasse, o sfrenato disio di ramaricarsi che lo trasportasse, non solamente non s'è ritenuto di così vane favole raccontarci per vere, ma egli ancora con le sue canzoni medesime, quasi come se elle fossero le foglie della Sibilla Cumea o le voci delle indovinatrici cortine di Phebo, ce l'ha volute racconfermare. La qual cosa tuttavia questo ebbe di bene in sé, che a noi le sue canzoni, per quello che io di voi m'accorsi e in me conosco, non poco di piacere e di diletto porsero, ramorbidando gl'inacerbiti nostri spiriti dall'asprezza de' suoi ruvidi e fieri sermoni. Le quali se tanto di verità avessero in sé considerandole, quanto udendole esse hanno avuto di novità e di vaghezza, io incontro di Perottino non parlerei. Ora che vi debbo io dire? Non sa egli per se stesso ciascun di noi, senza che io parli, che queste sono spezialissime licenze, non meno de gli amanti che de' poeti, fingere le cose molte volte troppo da ogni forma di verità lontane? dare occasioni alla lingua o pure alla penna ben nuove, bene per adietro da niuno intese, bene tra se stesse discordanti e alla natura medesima importabili ad essere sofferute giamai? Deh, Perottino, Perottino, come se' tu folle, se tu credi che noi ti crediamo che a gli amanti sia conceduto il poter quello che la natura non può, quasi come se essi non fossero nati uomini, come gli altri soggiacenti alle sue leggi. Dico adunque che i tuoi miracoli altro già che menzogne non sono. Perciò che niente hanno essi più di vero in sé, di quello che de' seminati denti dall'errante Cadmo o delle feraci formiche del vecchio Eaco o dell'animoso arringo di Phetonte si ragioni o di mille altre favole ancora di queste più nuove. Né pure incominci tu questa usanza ora, ma tutti gli amanti, che hanno scritto o scrivono, così fecero e fanno ciascuno, o lieti o infortunati che essi stati sieno o essere si truovino de' loro amori; se pure i lieti a scrivere delle loro gioie o pure a parlarne si dispongono giamai, il che suole alcuna volta di quelli avenire, che tra gli otii soavi delle Muse cresciuti, poi nelle dolci palestre di Venere essercitandosi, non possono sovente non ricordarsi delle loro donne primiere. I quali le più volte di quelli medesimi affetti favoleggiano che fanno i dolorosi, non perciò che essi alcuno di que' miracoli pruovino in sé che i miseri e tristi dicono sovente di provare, ma fannolo per porgere diversi suggetti a gl'inchiostri, acciò che con questi colori i loro fingimenti variando, l'amorosa pintura riesca a gli occhi de' riguardanti più vaga. Perciò che del fuoco, col quale si fatica Perottino di rinforzare la maraviglia de gli amorosi avenimenti, quali carte di qualunque lieto amante che scriva non sono piene? né pur di fuoco solamente, ma di ghiaccio insieme e di quelle cotante disagguaglianze, le quali più di leggiero nelle carte s'accozzano che nel cuore? Chi non sa dire che le sue lagrime sono pioggia, e venti i suoi sospiri, e mille cotai scherzi e giuochi d'amante non men festoso che doglioso? chi non sa fare incontanente quella che egli ama saettatrice, fingendo che gli occhi suoi feriscano di pungentissime saette? La qual cosa per aventura più acconciamente finsero gli antichi uomini, che delle cacciatrici Ninfe favoleggiarono assai spesso e delle loro boscareccie prede, pigliando per le vaghe Ninfe le vaghe donne che con le punte de' loro penetrevoli sguardi prendono gli animi di qualunque uomo più fiero. Chi non suole ora sé ora la sua donna a mille altre più nuove sembianze ancora, che queste non sono, rassomigliare? Aperto e comune e ampissimo è il campo, o donne, per lo quale vanno spaziando gli scrittori, e quelli massimamente sopra tutti gli altri che, amando e d'Amore trattando, si dispongono di coglier frutto de' loro ingegni e di trarne loda per questa via. Perciò che oltra che egli si fingono le impossibili cose, non solamente a ciascun di loro sta, qualunque volta esso vuole, il pigliar materia del suo scrivere o lieta o dolorosa, sì come più gli va per l'animo o meglio li mette o più agevolmente si fa, e sopra essa le sue menzogne distendere e i suoi pensamenti più strani, ma essi ancora uno medesimo suggetto si recheranno a diversi fini, e uno il si dipignerà lieto, e l'altro se lo adombrerà doloroso, sì come una stessa maniera di cibo, per dolce o amara che di sua natura ella si sia, condire in modo si può, che ella ora questo e ora quell'altro sapore averà, secondo la qualità delle cose che le si pongon sopra.

[2.IX.] Perciò che quantunque molti amanti, fingendo la lontananza del loro cuore, a lagrime e a lamenti e a dolorosi martiri la si tirino, sì come potete avere udito molte fiate, non è per questo che io altresì in una delle mie fingendola, a maraviglioso giuoco e a dilettevole sollazzo non me l'abbia recata. E acciò che io a voto non ragioni, udite ancora de' miei miracoli alcuno:

      Preso al primo apparir del vostro raggio,
Il cor, che 'n fin quel dì nulla mi tolse,
Da me partendo, a seguir voi si volse;
E come quei che trova in suo viaggio
Disusato piacer, non si ritenne
Che fu ne gli occhi, onde la luce uscia,
Gridando: A queste parti Amor m'invia.

Vedete voi sì come fingono gli amanti che i loro cuori con piacere e con gioia di loro pure partir da loro si possono? Ma questo non è ad essi cosa molto ancora maravigliosa. Di più maraviglia è quello che segue:

      Indi tanta baldanza appo voi prese
L'ardito fuggitivo a poco a poco,
Ch'ancor per suo destin lasciò quel loco
Dentro passando, e più oltra si stese,
Che 'n quello stato a lui non si convenne;
Fin che poi giunto ov'era il vostro core,
Seco s'assise e più non parve fore.

Già potete vedere non solamente che i nostri cuori da noi si partono, ma che essi sanno eziandio far viaggio. Udite tuttavia il rimanente:

      Ma quei, come 'l movesse un bel desire
Di non star con altrui del regno a parte,
O fosse 'l ciel che lo scorgesse in parte
Ov'altro signor mai non devea gire,
Là, onde mosse il mio, lieto sen'venne:
Così cangiaro albergo, e da quell'ora
Meco 'l cor vostro e 'l mio con voi dimora.

Non sono questi miracoli sopra tutti gli altri? due cuori amanti, da i loro petti partiti, dimorarsi ciascuno nell'altrui, e ciò loro, non pure senza noia, ma ancora da celeste dono avenire? Ma che dico io questi? Egli vi se ne potrebbono, da chiunque ciò far volesse, tanti recare innanzi giochevoli e festevoli tutti, che non se ne verrebbe a capo agevolmente. E perciò questo poco aver detto volendo che mi basti, oggimai i tuoi fieri e gravi miracoli, Perottino, quanto facciano per te tu ti puoi avedere. I quali però tuttavia se sono veri, perciò che tu e i simili a te, tristi e miseri amanti, ne parliate o scriviate, veri debbono essere similmente questi altri vaghi e cari, poi che di loro io e i simili a me, lieti e felici amanti, parlandone o scrivendone ci trastulliamo: per che niuna forza i tuoi ad Amor fanno che egli dolce non possa essere, più di quello che facciano i miei che egli non possa essere amaro. Se sono favole, elle a te si ritornino per favole, quali si partirono, e seco ne portino la tua così ben dipinta imagine, anzi pure la imaginata dipintura del tuo Idio; della quale se tu scherzando ragionato non ci avessi quello tanto che detto ne hai, io da vero alcuna cosa ne parlerei, e arei che parlarne. Ma poi che del tuo fallo tu medesimo ti riprendesti, dicendoci, per amenda di lui, che nel vero non solamente Amore non è Idio, ma che egli pure non è altro che quello che noi stessi vogliamo, se io ora nuova tenzona ne recassi sopra, non sarebbe ciò altro che un ritessere a guisa dell'antica Penelope la poco innanzi tessuta tela. -

[2.X.] Tacquesi, dette queste parole, Gismondo, e raccogliendo prestamente nella memoria quello che dire appresso questo dovea, prima che egli riparlasse, egli incominciò a sorridere seco stesso; il che vedendo le donne, che tuttavia attendevano che egli dicesse, divennero ancora d'udirlo più vaghe. E madonna Berenice, alleggiato di sé un giovane alloro, il quale nello stremo della sua selvetta più vicino alla mormorevole fonte, quasi più ardito che gli altri, in due tronchi schietti cresciuto, al bel fianco di lei doppia colonna faceva, e sopra se medesima recatasi, disse: - Bene va, Gismondo, poi che tu sorridi, là dove io più pensava che ti convenisse di star sospeso. Perciò che, se io non m'inganno, sì sei tu ora a quella parte de' sermoni di Perottino pervenuto, dove egli, argomentando dell'animo, ci conchiuse che amare altrui senza passione continua non si puote. Il qual nodo, come che egli si stia, io per me volentier vorrei, e perdonimi Perottino, che tu sciogliere così potessi di leggiero, come fu all'antica Penelope agevole lo stessere la poco innanzi tessuta tela. Ma io temo che tu il possa; così mi parvero a forte subbio quegli argomenti avolti e accomandati.
      - Altramente vi parranno già testé, Madonna - rispose Gismondo. - Né perciò di quello che essi infino a qui paruti vi sono me ne maraviglio io molto. Anzi ora, dovendo io di questi medesimi favellarvi, sì come voi dirittamente giudicavate, a quel riso che voi vedeste mi sospinse il pensare come sia venuto fatto a Perottino il poter così bene la fronte di sì parevole menzogna dipignere ragionando, che ella abbia troppo più, che di quello che ella è, di verità sembianza. Perciò che se noi alle sue parole risguardiamo, egli ci parrà presso che vero quello che egli vuole che vero ci paia che sia, in maniera n'ha egli col suo sillogizzare il bianco in vermiglio ritornato. Perciò che assai pare alla verità conforme il dire che, ogni volta che l'uom non gode quello che egli ama, egli sente passione in sé; ma non può l'uom godere compiutamente cosa che non sia tutta in lui: adunque l'amare altrui non può in noi senza continua passione aver luogo. Il che, se per aventura pure è vero, saggio fu per certo l'ateniese Timone, del qual si legge che, schifando parimente tutti gli uomini, egli con niuno volea avere amistà, niuno ne amava. E saggi sarem noi altresì se, questo malvagio affannatore de gli animi nostri da noi scaciando, gli amici, le donne, i fratelli, i padri, i proprii figliuoli medesimi, sì come i più stranieri, ugualmente rifiutando, la nostra vita senza amore, quasi pelago senza onda, passeremo; solo che dove noi, a guisa di Narciso, amatori divenir volessimo di noi stessi. Perciò che questo tanto credo io che Perottino non ci vieti, poi che in noi noi medesimi siam sempre. La qual cosa se voi farete e ciascuno altro per sé farà, da questi suoi argomenti ammaestrato, certo sono che egli a brieve andare non solamente Amore averà alla vita de gli uomini tolto via, ma insieme con esso lui ancora gli uomini stessi levatone alla lor vita. Perciò che cessando l'amare che ci si fa, cessano le consuetudini tra sé de' mortali, le quali cessando, necessaria cosa è che cessino e manchino eglino con esso loro insiememente. E se tu qui Perottino mi dicessi che io di così fatto cessamento non tema, perciò che Amore ne gli uomini per alcun nostro proponimento mancar non può, con ciò sia cosa che ad amar l'amico, il padre, il fratello, la moglie, il figliuolo necessariamente la natura medesima ci dispone, che bisognava dunque che tu d'Amore più tosto ti ramaricassi che della natura? Lei ne dovevi incolpare, che non ci ha fatta dolce quella cosa che necessaria ha voluto che ci sia; se tu pure così amara la ti credi come tu la fai. Nella qual tua credenza dove a te piaccia di rimanerti, senza fallo agiatissimamente vi ti puoi spaziare a tuo modo, che compagno che vi.cci venga per occuparlati, di vero, che io mi creda, non averai tu niuno. Perciò che chi è di così poco diritto conoscimento, che creda, lasciamo stare uno che ami te, o amico o congiunto che egli ti sia, ma pure che l'amare un valoroso uomo, una santa donna, amar le paci, le leggi, i costumi lodevoli e le buone usanze d'alcun popolo e esso popolo medesimo, non dico di dolore o d'affanno, ma pure di piacere e di diletto non ci sia? E certo tutte queste cose sono fuor di noi. Le quali, posto che io pure ti concedessi che affanno recassero a' loro amanti, perciò che elle non sieno in noi, vorresti tu però ancora che io ti concedessi che l'amare il cielo e le cose belle che ci son sopra e Dio stesso, perché egli non sia tutto in noi, con ciò sia cosa che, essendo egli infinito, essere tutto in cosa finita non può, sì come noi siamo, ci fosse doloroso? Certo questo non dirai tu giamai, perciò che da cosa beata, sì come sono quelle di là su, non può cosa misera provenire. Non è adunque vero, Perottino, che l'amore che alle cose istrane portiamo, per questo che elle istrane sieno, c'impassioni.

[2.XI.] Ma che diresti tu ancora se io, tutte queste ragioni donandoti amichevolmente, e buono facendoti quello stesso che tu argomenti, che amare altrui non si possa senza dolore, ti dicessi che questo amar le donne, che noi uomini facciamo, e che le donne fanno noi, non è amare altrui, ma è una parte di sé amare e, per dir meglio, l'altra metà di se stesso? Perciò che non hai tu letto che primieramente gli uomini due faccie aveano e quattro mani e quattro piedi e l'altre membra di due de' nostri corpi similmente? I quali poi, partiti per lo mezzo da Giove, a cui voleano tôrre la signoria, furono fatti cotali, chenti ora sono. Ma perciò che eglino volentieri alla loro interezza di prima sarebbono voluti ritornare, come quelli che in due cotanti poteano in quella guisa e di più per lo doppio si valevano che da poi non si sono valuti, secondo che essi si levavano in piè, così ciascuno alla sua metà s'appigliava. Il che poi tutti gli altri uomini hanno sempre fatto di tempo in tempo, e è quello che noi oggi Amore e amarci chiamiamo. Per che se alcuno ama la sua donna, egli cerca la sua metà, e il somigliante fanno le donne, se elle amano i loro signori. Se io così ti favellassi, che mi risponderesti tu, o Perottino? Per aventura quello stesso che io pure ora d'intorno a' tuoi miracoli ragionando ti rispondea, ciò è che questi son giuochi de gli uomini, dipinture e favole e loro semplici ritrovamenti più tosto e pensamenti che altro. Non sono queste dipinture de gli uomini, né semplici ritrovamenti, Perottino. La natura stessa parla e ragiona questo cotanto che io t'ho detto, non alcuno uomo. Noi non siamo interi né il tutto di noi medesimi è con noi, se soli maschi o sole femine ci siamo. Perciò che non è quello il tutto, che senza altrettanto star non può, ma è il mezzo solamente e nulla più, sì come voi, donne, senza noi uomini e noi senza voi non possiamo. La qual cosa quanto sia vera già di quinci veder si può, che il nostro essere o da voi o da noi solamente e separatamente non può aver luogo. Oltre che eziandio quando bene separatamente ci nascessimo, certo, nati, non potremmo noi vivere separatamente. Perciò che se ben si considera, questa vita, che noi viviamo, di fatiche innumerabili è piena, alle quali tutte portare né l'un sesso né.ll'altro assai sarebbe per sé bastante, ma sotto esso mancherebbe; non altramente che facciano là oltre l'Alessandria tale volta i cameli, di lontani paesi le nostre mercatanzie portanti per le stanchevoli arene, quando aviene per alcun caso che sopra lo scrigno dell'uno le some di due pongono i loro padroni, che, non potendo essi durare, cadono e rimangono a mezzo camino. Perciò che come potrebbono gli uomini arare, edificare, navicare, se ad essi convenisse ancora quegli altri essercitii fare che voi fate? O come potremmo noi dare ad un tempo le leggi a' popoli e le poppe a' figliuoli e tra i loro vagimenti le quistioni delle genti ascoltare? o drento a' termini delle nostre case, nelle piume e ne gli agi riposando, menare a tempo le gravose pregnezze e a cielo scoperto incontro a gli assalitori, per difesa di noi e delle nostre cose, col ferro in mano e di ferro cinti discorrendo guerreggiare? Che se noi uomini non possiamo e i vostri uffici e i nostri abbracciare, molto meno si dee dir di voi, che di minori forze sete generalmente che noi non siamo. Questo vide la natura, o donne, questo ella da principio conoscea e, potendoci più agevolmente d'una maniera sola formare come gli alberi, quasi una noce partendo ci divise in due, e quivi nell'una metà il nostro e nell'altra il vostro sesso fingendone, ci mandò nel mondo in quella guisa, abili all'une fatiche e all'altre, a voi quella parte assegnando, che più è alle vostre deboli spalle confacevole, e a noi quell'altra sopraponendo, che dalle nostre più forti meglio può essere che dalle vostre portata; tuttavia con sì fatta legge accomandandoleci e la dura necessità in maniera mescolando per amendue loro, che e a voi della nostra e a noi della vostra tornando uopo, l'uno non può fare senza l'altro; quasi due compagni che vadano a caccia, de' quali l'uno il paniere e l'altro il nappo rechi, che quantunque essi caminando due cose portino, l'una dall'altra separate, non perciò poi, quando tempo è da ricoverarsi, fanno essi ancora così, pure con la sua separatamente ciascuno, anzi sotto ad alcuna ombra riposatisi, amendue si pascono vicendevolmente e di quello del compagno e del suo. Così gli uomini e le donne, destinati a due diverse bisogne portare, entrano in questa faticosa caccia del vivere, e per loro natura tali, che a ciascun sesso di ciascuna delle bisogne fa mestiero, e sì poco poderosi che, oltre alla sua metà del carico, nessun solo può essere bastante; sì come le antiche donne di Lenno e le guerreggevoli Amazone con loro grave danno sentirono, che ne fêr pruova, le quali mentre vollero e donne essere e uomini ad un tempo, per quanto le loro balìe si stenderono, e l'altrui sesso affine recarono e il loro.


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Edizione telematica  a cura di: Claudio Paganelli, 1999
Revisione, Edizione HTML e impaginazione a cura di: Giuseppe Bonghi, Aprile 1999
Tratto da: Pietro Bembo, Prose della volgar lingua, Gli Asolani, Rime, a cura di Carlo Dionisotti, TEA Tascabili Editori Associati, Milano 1997

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Ultimo aggiornamento: 22 aprile, 1999