Pietro Bembo
Gli Asolani
PRIMO LIBRO
[1.XXV.]
Voi vedete, o donne, a che porto la seconda fortuna ci conduce. Ma io, quantunque la morte mi fosse più cara, pure vivo, chente che la mia vita si sia. Molti sono stati, che non sono potuti vivere: così viene a gli uomini grave dopo la molta allegrezza il dolore. Ruppe ad Artemisia la fortuna con la morte del marito la felicità de' suoi amori, per la qual cosa ella visse in pianto tutto il rimanente della sua vita, e alla fine piangendo si morì: il che avenuto non le sarebbe, se ella si fosse mezzanamente ne' suoi piaceri rallegrata. Abandonata dal vago Enea la dolorosa Elisa se medesima miseramente abandonò uccidendosi, alla qual morte non traboccava, se ella meno seconda fortuna avuta avesse ne' suoi amorosi disii. Né parve alla misera Niobe per altro sì grave l'orbezza de' suoi figliuoli, se non perciò che ella a somma felicità l'avergli s'avea recato. Così aviene che, se le misere allegrezze de gli amanti sono di sé sole ben piene, o a morti acerbissime gli conducono o d'eterno dolore gli fanno heredi; se sono di molta noia fregiate, elle senza dubbio alcuno e, mentre durano, gli tormentano e, partendo, niente altro lasciano loro in mano che il pentimento; perciò che di tutte quelle cose che a far prendiamo, quando ci vanno con nostro danno fallite, la penitenza è fine. O amara dolcezza, o venenata medicina de gli amanti non sani, o allegrezza dolorosa, la qual di te nessun più dolce frutto lasci a' tuoi possessori che il pentirsi; o vaghezza che, come fumo lieve, non prima sei veduta che sparisci, né altro di te rimane ne gli occhi nostri che il piagnere; o ali che bene in alto ci levate perché, strutta dal sole la vostra cera, noi con gli omeri nudi rimanendo, quasi novelli Icari, cadiamo nel mare. Cotali sono i piaceri, donne, i quali amando si sentono. Veggiamo ora quali sono le paure.[1.XXVI.]
Fingono i poeti, i quali sogliono alcuna volta favoleggiando dir del vero, che ne gli oscuri abissi tra le schiere sconsolate de' dannati è uno fra gli altri, cui pende sopra 'l capo un sasso grossissimo, ritenuto da sottilissimo filo. Questi, al sasso risguardando e della caduta sgomentandosi, sta continuamente in questa pena. Tale de gl'infelici amanti è lo stato, i quali sempre de' loro possibili danni stando in pensiero, quasi con la grave ruina delle loro sciagure sopra 'l capo, i miseri vivono in eterna paura, e non so che per lo continuo il tristo cuore dicendo loro, tacitamente gli sollecita e tormenta, seco stesso ad ogni ora qualche male indovinando. Perciò che quale è quello amante che de gli sdegni della sua donna in ogni tempo non tema? o che ella forse ad alcuno altro il suo amore non doni? o che per alcun mondo, che mille sempre ne sono, non gli sia tolta a' suoi amorosi piaceri la via? Egli certamente non mi si lascia credere che uomo alcuno viva, il quale amando, comunque il suo stato si stia, mille volte il giorno non sia sollecito, mille volte non senta paura. E che poi, di queste sollecitudini, hassene egli altro danno che il temere? Certo sì, e non uno, ma infiniti, ché questa stessa tema e pavento sono di molti altri mali seme e radice. Perciò che per riparare alle ruine che, lasciate in pendente, crediamo che possano cadendo stritolare la nostra felicità, molti torti pontelli con gli altrui danni o forse con le altrui morti cerchiamo di sottoporre a' lor casi. Uccise il suo fratel cugino, che dalla lunga guerra si ritornava, il fiero Egisto, temendo non per la sua venuta rovinassero i suoi piaceri. Uccise simigliantemente l'impazzato Oreste il suo, e dinanzi a gli altari de gli idii, nel mezzo de' sacrificanti sacerdoti il fe' cadere, perché in piè rimanesse l'amore che egli alla sorella portava. A me medesimo incresce, o donne, l'andarmi cotanto tra tante miserie ravolgendo. Pure se io v'ho a dimostrare quale sia questo Amore, che è da Gismondo lodato come buono, è uopo che io con la tela delle sue opere il vi dimostri; delle quali per aventura tante ne lascio adietro ragionando, quante lascia da poppa alcuna nave gocciole d'acqua marina, quando più ella da buon vento sospinta corre a tutte vele il suo camino.[1.XXVII.]
Ma passiamo nel dolore, acciò che più tosto si venga a fine di questi mali. Il qual dolore, quantunque abbia le sue radici nel disiderio, sì come hanno le altre due passioni altresì, pure tanto egli più e men crescie, quanto prima i rivi dell'allegrezza l'hanno potuto più o meno largamente inaffiare. Assai sono adunque di quegli amanti i quali, da una torta guatatura delle lor donne o da tre parole proverbiose quasi da tre ferite traffitti, non pensando più oltre quanto elle spesse volte il soglian fare senza sapere il perché, vaghe d'alcuno tormentuzzo de' loro amanti, si dogliono, si ramaricano, si tormentano senza consolazione alcuna. Altri, perché a pro non può venire de' suoi disii, pensa di più non vivere. Altri, perché venutovi compiutamente non gode, a questo apparente male v'aggiugne il continuo rancore e fallo veramente esistente e grave. E molti, per morte delle lor donne a capo delle feste loro pervenuti, s'attristano senza fine, e altro già che quelle fredde e pallide imagini, dovunque essi gli occhi e il pensier volgono, non viene loro innanzi. A' quali tutti il tempo, sì come né anco il verno le foglie a tutti gli alberi, la doglia non ne leva, anzi, sì come ad alquante piante sopra le vecchie frondi ne crescono ogni primavera di nuove, così ad alquanti di questi amanti duolo sopra duolo s'aumenta e, più che essi dopo le loro amate donne vivono, più vivono tormentati e miseramente di giorno in giorno fanno le loro piaghe più profonde, pure in sul ferro aggravandosi che gl'impiaga. Né mancherà poi chi, per crudeltà della sua donna dalla cima della sua felicità quasi nel profondo d'ogni miseria caduto, a doversi dilungare nel mondo per farla ben lieta si dispone. E questi nel suo essiglio di niuna altra cosa è vago se non di piagnere, niente altro disidera che bene stremamente essere infelice. Questo vuole, di questo si pasce, in questo si consola, a questo esso stesso s'invia. Né sole, né stella, né cielo vede mai che gli sia chiaro. Non erbe, non fonti, non fiori, non corso di mormoranti rivi, non vista di verdeggiante bosco, non aura, non fresco, non ombra veruna gli è soave. Ma solo, chiuso sempre ne' suoi pensieri, con gli occhi pregni di lagrime, le meno segnate valli o le più riposte selve ricercando, s'ingegna di far brieve la sua vita, talora in qualche trista rima spignendo fuori alcun de' suoi rinchiusi dolori, con qualche tronco secco d'albero o con alcuna soletaria fiera, come se esse lo 'ntendessero, parlando e agguagliando il suo stato. Ora daratti il cuore, Gismondo, di dimostrarci che cosa buona Amor sia? Che Amore sia buono, Gismondo, daratti l'animo dicci dimostrare?[1.XXVIII.]
Conosciuti adunque separatamente questi mali, o donne, del disiderio, dell'allegrezza, della sollecitudine e del dolore, a me piace che noi mescolatamente e senza legge alquanto vaghiamo per loro. E prima che io più ad un luogo che ad un altro m'invii, mi si para davanti la novità de' principii che questo malvagio lusinghiero dà loro ne gli animi nostri, quasi se di sollazzo e giuoco, non di doglia e di lagrime e di manifesto pericolo della nostra vita fossero nascimento. Perciò che mille fiate adiviene che una paroletta, un sorriso, un muover d'occhio con maravigliosa forza ci prendono gli animi, e sono cagione che noi ogni nostro bene, ogni onore, ogni libertà tutta nelle mani d'una donna riponiamo, e più avanti non vediamo di lei. E tutto 'l giorno si vede che un portamento, un andare, un sedere sono l'esca di grandissimi e inestinguibili fuochi. E oltre a ciò quante volte avenne, lasciamo stare le parti belle del corpo, delle quali spesse fiate la più debole per aventura stranamente ci muove, ma quante volte avenne che d'un pianto ci siamo invaghiti? e di quelle, il cui riso non ci ha potuti crollare di stato, una lagrimetta ci ha fatti correre con frezzolosi passi al nostro male? A quanti la pallidezza d'una inferma è stata di piggior pallidezza principio? e loro, che gli occhi vaghi e ardenti non presero ne' dilettevoli giardini, i mesti e caduti nel mezzo delle gravose febbri legarono, e furono ad essi di più perigliosa febbre cagione? Quanti già finsero d'esser presi e, nel laccio per giuoco entrati, poi vi rimasero mal loro grado con fermissimo e strettissimo nodo miserabilmente ritenuti? Quanti volendo spegnere l'altrui fuoco, a se medesimi l'accesero e ebbero d'aiuto mestiero? Quanti sentendo altrui ragionar d'una donna lontana, essi stessi s'avicinarono mille martiri? Ahi lasso me, questo solo vorre' io aver taciuto. -[1.XXIX.]
Appena ebbe così detto Perottino, che de gli occhi gli caddero alquante subite lagrime e la presta parola gli morì in bocca. Ma poi che, tacendosi ogniuno, vinti dalla pietà di quella vista, esso si riebbe, così con voce rotta e spessa seguitando riprese a dire: - Di cotai faville, o donne, poi che vede gli animi nostri raccesi questo vezzoso fanciullo e fiero, aggiugne nutrimento al suo fuoco, di speranza e di disiderio pascendolo, de' quali quantunque alcuna volta manchi la prima in noi, sì come quella che da istrani accidenti si crea, non perciò menoma il disiderio né cade sempre con lei. Perciò che, oltra che noi, dura gente mortale, da natura tanto più d'alcuna cosa c'invogliamo, quanto ella c'è più negata, ha questo Amore assai sovente in sé che, quanto sente più in noi la speranza venir meno, tanto più con disiderii soffiando nelle sue fiamme le fa maggiori; le quali come crescono, così s'aumentano le nostre doglie, e queste poi e in sospiri e in lagrime e in strida miseramente del petto si spargon fuori, e le più delle volte in vano: di che noi stessi ravedutici tanto sentiamo maggior dolore, quanto più a' venti ne vanno le nostre voci. Così aviene che, delle nostre lagrime spargendolo, diviene maravigliosamente il nostro fuoco più grave. Allora, vicini ad ucciderci, morte per estremo soccorso chiamiamo. Ma pure con tutto ciò, quantunque il dolerci in questa maniera ci accresca dolore e misera cosa sia l'andarsi così lamentando senza fallo alcuno, è tuttavia ne' grandi dolori alcuna cosa il potersi dolere. Ma più misera e di più guai piena è in ogni modo il non poter noi nelle nostre doglie spandere alcuna voce o dire la nociva cagione, qualora più disideriamo e abbiam di dirla mestiero. Malvagissima e dolorosissima poi fuor di misura il convenirci la doglia nascondere sotto lieto viso solo nel cuore, né poter dare uscita pure per gli occhi a gli amorosi pensieri, i quali rinchiusi non solamente materia sostentante le fiamme sono, ma aumentante, perciò che quanto più si strigne il fuoco, tanto egli con più forza cuoce. E questi tutti vengono accidenti non meno domestici de gli amanti che sien dell'aere i venti e le pioggie famigliari. Ma che dico io questi? essi pure sono infiniti e ciascuno è per sé doloroso e grave.[1.XXX.]
Questi segue una donna crudele, il quale pregando, amando, lagrimando, dolente a morte, tra mille angosciosi pensieri durissima fa la sua vita, sempre più nel disio raccendendosi. A colui, servente d'una pietosa divenuto, la fortuna niega il potere nelle sue biade por mano, onde egli tanto più si snerva e si spolpa, quanto più vicina si vede la disiderata cosa e più vietata, e sentesi sciaguratamente, quasi un nuovo Tantalo, nel mezzo delle sue molte voglie consumare. Quell'altro, di donna mutabile fatto mancipio, oggi si vede contento, domani si chiama infelice e, quali le schiume marine dal vento e dall'onde sospinte ora innanzi vengono e quando adietro ritornano, così egli, or alto or basso, or caldo or freddo, temendo, sperando, niuna stabilità non avendo nel suo stato, sente e pate ogni sorte di pena. Alcun altro, solo di poca e debole e colpata speranza pascendosi, sostenta miseramente a più lungo tormento gli anni suoi. E fie chi, mentre ogni altra cosa prima che la sua promessa fede o il suo lieto stato crede dovere poter mancare e rompersi, s'avede quanto sono di vetro tutte le credenze amorose e, nel secco rimanendo de' suoi pensieri, sta come se il mondo venuto gli fosse meno sotto a' piedi. Surgono oltre a queste repentinamente mille altre guise di nuove e fiere cose, involatrici d'ogni nostra quiete e donatrici d'infinite sollecitudini e di diversi tormenti apportatrici. Perciò che alcuno piagne la sùbita infermità della sua donna, la quale nel corpo di lei l'anima sua miseramente tormenta e consuma. Alcuno, d'un nuovo rivale avedutosi, entra in subita gelosia e dentro tutto ardendo vi si distrugge, con agro e nimichevole animo ora il suo aversario accusando e ora la sua donna non iscusando, né sente pace se non tanto, quanto egli solo la si vede. Alcuno, dalle nuove nozze della sua turbato, non con altro cuore gli apparecchi e le feste che vi si fanno riceve, né con più lieto occhio le mira, che se elle gli arnesi fossero e la pompa della sua sepoltura. Altri piangono in molte altre maniere tutto dì, da subita occasion di pianto sventuratamente soprapresi, delle quali se forse il caso o la virtù alcuna ne toglie via, in luogo di quella molte altre ne rinascono più acerbe spesse volte e più gravi; onde vie men dura condizione avrebbe chi con la fiera Hidra d'Hercole avesse la sua battaglia a dover fare, che quegli non ha, a cui conviene delle sue forze con la ferezza d'Amore far pruova. E quello che io dico de gli uomini, suole medesimamente di voi, donne, avenire, e forse, ma non l'abbiate voi, giovani, a male, delle quali io non ragiono, come che io mi parli con voi, forse, dico, molto più. Perciò che da natura più inchinevoli solete essere e più arrendevoli a gli assalti d'Amore che noi non siamo, e voi le vostre fiamme più chiaramente ardono che noi le nostre non soglion fare; quantunque poi molti particolari accidenti, che a ciascuna soprastanno, vie più, che noi non siamo, sopravedute vi facciano e riguardose.[1.XXXI.]
Oltre a ciò sono i primi ardori, se ne gli animi fanciulli s'apprendono, sì come il caldo alle tenere frondi, così essi loro più dannosi; se nell'età matura si fanno sentire, più impetuosi senza fallo e più fieri, non altramente che il cielo soglia fare, il quale tanto più sconciamente si turba, quanto più lungamente chiaro e sereno è stato. A questo modo, o giovani o attempati che noi di questo male infermiamo, a strano passo, a dura condizione, a molto fiero partito sta isposta la nostra vita. Ma tutti gli amorosi morbi, quanto più invecchiano, sì come quelli del corpo, tanto meno sono risanabili e meno alcuna medicina lor giova. Perciò che in amore pessima cosa è la lusinghevole usanza, nella quale di giorno in giorno senza considerazione più entrati, quasi nel labirinto trascorsi senza gomitolo, poi, quando ce ne piglia disio, tornare a dietro le più volte non possiamo. E aviene alcuna fiata che in maniera ci naturiamo nel nostro male, che uscir di lui, eziandio potendo, non vogliamo. Sono poi, oltre a tutto questo, le lunghe discordie crudeli; sono le brievi angosciose; sono le riconciliagioni non sicure; sono le rinovagioni de gli amori passati perigliose e gravi, in quanto più le seconde febbri sogliono sopravenendo offendere i ricaduti infermi che le primiere; sono le rimembranze de' dolci tempi perduti acerbissime, e di somma infelicità è maniera l'essere stato felice. Durissime sono le dipartenze, e quelle massimamente che con alcuna disiata notte e lamentata e con abbracciamento lungo e sospiroso e lagrimevole si chiudono, nelle quali e' pare che i cuori de gli amanti si divellano dalle lor fibre o schiantinsi per lo mezzo in due parti. Ohimè, quanto amare sono le lontananze, nelle quali niun riso si vede mai nell'amante, niuna festa il tocca, niun giuoco; ma fisso alla sua donna stando ad ogni ora col pensiero, quasi con gli occhi alla tramontana, passa quella fortuna della sua vita in dubbio del suo stato, e con un fiume sempre d'amarissime lagrime intorno al tristo cuore e con la bocca piena di dolenti sospiri, dove col corpo esser non può, con l'animo vi sta in quella vece, né cosa vede, come che poche ne miri, che non gli sia materia di largo pianto. Sì come ora col mio misero essempio vi potete, donne, far chiare, di cui tale è la vita, chente suonano le canzoni, e vie ancora piggiore; delle quali per aventura quest'altre due, appresso le ramemorate, poi che tanto oltre sono passato, non mi penterò di ricordarmi.[1.XXXII.]
Poscia che 'l mio destin fallace e empio
Ne i dolci lumi de l'altrui pietade
Le mie speranze acerbamente ha spento,
Di pena in pena e d'uno in altro scempio
Menando i giorni, e per aspre contrade
Morte chiamando a passo infermo e lento,
Nebbia e polvere al vento
Son fatto e sotto 'l sol falda di neve;
Ch'un volto segue l'alma, ov'ella il fugge,
E un penser la strugge
Cocente sì, ch'ogni altro danno è leve,
E gli occhi, che già fûr di mirar vaghi,
Piangono e questo sol par che gli appaghi.
Or che mia stella più non m'assecura,
Scorgo le membra via di passo in passo
Per camin duro e 'n penser tristo e rio;
Ch'io dico pien d'error e di paura:
Ove ne vo, dolente? e che pur lasso?
Chi mi t'invidia, o mio sommo desio?".
Così dicendo, un rio
Verso dal cor di dolorosa pioggia,
Che può far lacrimar le petre stesse;
E perché sian più spesse
L'angoscie mie, con disusata foggia,
U' che 'l piè movo, u' che la vista giro,
Altro che la mia donna unqua non miro.
Col piè pur meco e col cor con altrui
Vo caminando e de l'interna riva
Bagnando for per gli occhi ogni sentero,
Alor ch'io penso: Ohimè, che son, che fui?
Del mio caro tesoro or chi mi priva,
E scorge in parte, onde tornar non spero?
Deh perché qui non pero,
Prima ch'io ne divenga più mendico?
Deh chi sì tosto di piacer mi spoglia,
Per vestirmi di doglia
Eternamente? ahi mondo, ahi mio nemico
Destin, a che mi trai, perché non sia
Vita dura mortal, quanto la mia!.
Ove men' porta il calle o 'l piede errante,
Cerco sbramar piangendo, anzi ch'io moia,
Le luci, che desio d'altro non hanno;
E grido: "O disaventuroso amante,
Or se' tu al fin della tua breve gioia
E nel principio del tuo lungo affanno".
E gli occhi, che mi stanno
Come due stelle fissi in mezzo a l'alma,
E 'l viso, che pur dianzi era 'l mio sole,
E gli atti e le parole,
Che mi sgombrâr del petto ogni altra salma,
Fan di pensieri al cor sì dura schiera,
Che meraviglia è ben com'io non pera.
Non pero già, ma non rimango vivo;
Anzi pur vivo al danno, a la speranza
Via più che morto d'ogni mia mercede:
Morto al diletto, a le mie pene vivo;
E, mancando al gioir, nel duol s'avanza
Lo cor, ch'ognior più largo a pianger riede;
E pensa e ode e vede
Pur lei, che l'arse già sì dolcemente
E or in tanto amaro lo distilla,
Né sol d'una favilla
Scema 'l gran foco de l'accesa mente,
E me fa gir gridando: "O destin forte,
Come m'hai tu ben posto in dura sorte".
Canzon, omai lo tronco ne ven meno,
Ma non la doglia che mi strugge e sforza;
Ond'io ne vergherò quest'altra scorza.
[1.XXXIII.]
Tacquesi, finiti quei versi, Perottino e, poco taciutosi, appresso alcun doloroso sospiro, che parea che di mezzo il cuore gli uscisse, verissimo dimostratore delle sue interne pene, a questi altri passando seguitò e disse:Lasso ch'i' fuggo e per fuggir non scampo
Né 'n parte levo la mia stanca vita
Del giogo, che la preme ovunque i' vada.
E la memoria, di ch'io tutto avampo,
A raddoppiar i miei dolor m'invita
E testimon lassarne ogni contrada.
Amor, se ciò t'aggrada,
Almen fa con Madonna ch'ella il senta,
E là ne porta queste voci estreme,
Dove l'alta mia speme
Fu viva un tempo e or caduta e spenta
Tanto fa questo exilio acerbo e grave,
Quanto lo stato fu dolce e soave.
Se in alpe odo passar l'aura fra 'l verde,
Sospiro e piango e per pietà le cheggio
Che faccia fede al ciel del mio dolore;
Se fonte in valle o rio per camin verde
Sento cader, con gli occhi miei patteggio
A farne un del mio pianto via maggiore;
S'io miro in fronda o 'n fiore,
Veggio un che dice: O tristo pellegrino,
Lo tuo viver fiorito è secco e morto.
E pur nel penser porto
Lei, che mi diè lo mio acerbo destino;
Ma quanto più pensando io ne vo seco,
Tanto più tormentando Amor ven meco.
Ove raggio di sol l'erba non tocchi,
Spesso m'assido, e più mi sono amici
D'ombrosa selva i più riposti orrori;
Ch'io fermo 'l penser vago in que' begli occhi,
Ch'i miei dì solean far lieti e felici,
Or gli empion di miserie e di dolori.
E perché più m'accori
L'ingordo error, a dir de' miei martiri
Vengo lor, com'io gli ho di giorno in giorno.
Poi, quando a me ritorno,
Trovomi sì lontan da' miei desiri,
Ch'io resto, ahi lasso, quasi ombra sott'ombra;
Di sì vera pietate Amor m'ingombra.
Qualor due fiere in solitaria piaggia
Girsen pascendo simplicette e snelle
Per l'erba verde scorgo di lontano,
Piangendo a lor comincio: O lieta e saggia
Vita d'amanti, a voi nemiche stelle
Non fan vostro sperar fallace e vano:
Un bosco, un monte, un piano,
Un piacer, un desio sempre vi tene;
Io da la donna mia quanto son lunge?
Deh, se pietà vi punge,
Date udienzia inseme a le mie pene.
E 'n tanto mi riscuoto e veggio expresso
Che per cercar altrui perdo me stesso.
D'erma rivera i più deserti lidi
M'insegna Amor, lo mio aversario antico,
Che più s'allegra, dov'io più mi doglio.
Ivi 'l cor pregno in dolorosi stridi
Sfogo con l'onde, e or d'un ombilico
E de l'arena li fo penna e foglio;
Indi per più cordoglio
Torno al bel viso, come pesce ad esca,
E con la mente in esso rimirando,
Temendo e desiando,
Prego sovente che di me gl'incresca;
Poi mi risento e dico: O penser casso,
Dov'è Madonna?, e 'n questa piango e passo
Canzon, tu viverai con questo faggio
Appresso a l'altra, e rimarrai con lei;
E meco ne verranno i dolor miei.
[1.XXXIV.]
In questa guisa, o donne, Amore da ogni lato ci afflige; così da ogni parte, in ogni stato, fiamme, sospiri, lagrime, angoscie, tormenti, dolori sono de gl'infelici amanti seguaci; i quali, acciò che in loro compiutamente ogni colmo di miseria si ritruovi, non fanno pace giamai né pure triegua con queste lor pene, fuori di tutte l'altre qualità di viventi posti dalla lor fiera e ostinata ventura. Perciò che sogliono tutti gli animali, i quali, creati dalla natura, procacciano in alcun modo di mantener la lor vita, riposarsi dopo le fatiche e con la quiete ricoverar le forze, che sentono esser loro ne gli esercitii logore e indebolite. La notte i gai uccelli ne' lor nidi e tra le frondi soavi de gli alberi ristorano i loro diurni e spaziosi giri; per le selve giacciono l'errabonde fiere; gli erbosi fondi de' fiumi e le lievi alghe marine, per alcun spazio i molli pesci sostenendo, poi gli ritornano alle loro ruote più vaghi; e gli altri uomini medesimi, diversamente tutto 'l giorno nelle loro bisogne travagliati, la sera almeno, agiate le membra ove che sia e il vegnente sonno ricevuto, prendono sicuramente alcun dolce delle loro fatiche ristoro. Ma gli amanti miseri, da febbre continua sollecitati, né riposo, né intramissione, né alleggiamento hanno alcuno de' lor mali: ad ogni ora si dogliono, in ogni tempo sono dalle discordanti lor cure, quasi Metii da' cavalli distraenti, lacerati. Il dì hanno tristo e a noi è loro il sole, sì come quello che cosa allegra par loro che sia, contraria alla qualità del loro stato; ma la notte assai piggiore, in quanto le tenebre più gl'invitano al pianto che la luce, come quelle che alla miseria sono più conformi; nelle quali le vigilie sono lunghe e bagnate, il sonno brieve e penoso e paventevole e spesse fiate non meno delle vigilie dal pianto medesimo bagnato. Che comunque s'adormenta il corpo, corre l'animo e rientra subitamente ne' suoi dolori, e con imaginazioni paurose e con più nuove guise d'angustia tiene i sentimenti sgomentati insidiosamente e tribolati, onde o si turba il sonno e rompesi appena incominciato o, se pure il corpo fiacco e fievole, sì come di quello bisognoso, il si ritiene, sospira il vago cuore sognando, triemano gli spiriti solleciti, duolsi l'anima maninconosa, piangono gli occhi cattivi, avezzi a non men dormendo che vegghiando la imaginazion fiera e trista seguire. Così a gli amanti, quanto sono i lor giorni più amari, tanto le notti vengono più dogliose, e in esse per aventura tante lagrime versano, quanti hanno il giorno risparmiati sospiri. Né manca umore alle lagrime, per lo bene aver fatto lagrimando de gli occhi due fontane; né s'interchiude a mezzo sospiro la via, o men rotti e con minor impeto escono gli odierni del cuore, perché de gli esterni tutto l'aere ne sia pieno. Né per doglie il duolo, né per lamenti il lamento, né per angoscie l'angoscia si fa minore; anzi ogni giorno arroge al danno e esso d'ora in ora divien più grave. Cresce l'amante nelle sue miserie, fecondo di se stesso a' suoi dolori. Questi è quel Tizio che pasce del suo fegato l'avoltoio, anzi che il suo cuore a mille morsi di non sopportevoli affanni sempre rinuova. Questi è quello Isione che, nelle ruota delle sue molte angoscie girando, ora nella cima ora nel fondo portato, pure dal tormento non si scioglie giamai, anzi tanto più forte ad ogni ora vi si lega e inchiodavisi, quanto più legato vi sta e più girato. Non posso, o donne, aguagliar con parole le pene, con le quali questo crudel maestro ci afflige, se io, nello stremo fondo de gl'inferni penetrando, gli essempi delle ultime miserie de' dannati dinanzi a gli occhi non vi paro: e queste medesime sono, come voi vedete, per aventura men gravi. Ma è da porre oggimai a questi ragionamenti modo e da non voler più oltra di quella materia favellare, della quale quanto più si parla, tanto più, a chi ben la considera, ne resta a poter dire.[1.XXXV.]
Assai avete potuto adunque comprender, o donne, per quello che udito avete, che cosa Amore si sia e quanto dannosa e grave; il quale, incontro la maestà della natura scelerato divenuto, noi uomini cotanto a lei cari e da essa dell'intelletto, che divina parte è, per ispeziale grazia donati, acciò che così, più pura menando la nostra vita, al cielo con esso s'avacciassimo di salire, di lui per aventura miseramente spogliandoci, ci tiene col piè attuffati nelle brutture terrene in maniera, che spesse volte disaventurosamente v'affoghiamo. Né solamente ne' men chiari o meno pregiati così fa, come voi udite, anzi egli pur coloro che sono a più alta fortuna saliti, né a dorati seggi né a corone gemmate risguardando, con meno riverenza e più sconciamente sozzandogli, sovrasta miseramente e sopragrava. Per che, se la nostra fanciulla di lui si duole accusandolo, dee ringraziarnela Gismondo; se non in quanto ella contro così colpevole e manifesto micidiale de gli uomini porge poco lamentevole e troppo brieve querela. Ma io, o Amore, a te mi rivolgo, dovunque tu ora per quest'aria forse a' nostri danni ti voli, se con più lungo ramarico t'accuso che ella non fece, non se ne dee alcun maravigliare, se non come io di tanto mi sia dalla grave pressura de' tuoi piedi col collo riscosso, che io fuori ne possa mandar queste voci; le quali tuttavia, sì come di stanco e fievole prigioniere, a quello che alle tue molte colpe, a' tuoi infiniti micidî si converrebbe, sono certissimamente e roche e poche. Tu d'amaritudine ci pasci; tu di dolor ci guiderdoni; tu de gli uomini mortalissimo idio in danno sempre della nostra vita ci mostri della tua deità fierissime e acerbissime pruove; tu de' nostri mali c'indisii; tu di cosa trista ci rallegri; tu ogni ora ci spaventi con mille nuove e disusate forme di paura; tu in angosciosa vita ci fai vivere e a crudelissime e dolorosissime morti c'insegni la via. E ora ecco di me, o Amore, che giuochi ti fai? il quale, libero venuto nel mondo e da lui assai benignamente ricevuto, nel seno de' miei dolcissimi genitori sicura e tranquilla vita vivendo, senza sospiri e senza lagrime i miei giovani anni ne menava felice, e pur troppo felice, se io te solo non avessi giamai conosciuto. Tu mi donasti a colei, la quale io con molta fede servendo sopra la mia vita ebbi cara, e in quella servitù, mentre a lei piacque e di me la calse, vissi buon tempo, vie più che in qualunque signoria non si vive, fortunato. Ora che sono io? e quale è ora la mia vita, o Amore? Della mia cara donna spogliato, dal conspetto de' miei vecchi e sconsolati genitori diviso, che assai lieta potevano terminar la lor vita se me non avesser generato, d'ogni conforto ignudo, a me medesimo noioso e grave, in trastullo della fortuna lungo tempo di miseria in miseria portato, allo stremo quasi favola del popolo divenuto, meco le mie gravi catene traendo dietro, assai debole e vinto fuggo dalle genti, cercando dove io queste tormentate membra abandoni ciascun die, le quali, più durevoli di quello che io vorrei, ancora tenendomi in vita, vogliono che io pianga bene infinitamente le mie sciagure. Ohimè, che doverebbono più tosto, almeno per pietà de' miei mali, dissolvendosi pascere oggimai della mia morte quel duro cuore, che vuole che io di così penosa vita pasca il mio. Ma io non guari il pascerò. -[1.XXXVI.]
Quinci Perottino, postasi la mano in seno, fuori ne trasse un picciol drappo, col quale egli, sì come un'altra volta fatto avea poi che egli a ragionare incominciò, gli occhi che forte piangevano rasciugandosi e esso, che molle già era divenuto delle sue lagrime, per aventura fiso mirando, in più dirotto pianto si mise, queste altre poche parole nel mezzo del piagnere alle già dette aggiugnendo: - Ahi infelice dono della mia donna crudele, misero drappo e di misero ufficio istrumento, assai chiaro mi dimostrò ella donandomiti quale dovea essere il mio stato. Tu solo m'avanzi per guiderdone dell'infinite mie pene. Non t'incresca, poi che se' mio, che io, quanto arò a vivere, che sarà poco, con le mie lagrime ti lavi. - Così dicendo, con amendue le mani a gli occhi il si pose, da' quali già cadevano in tanta abondanza le lagrime, che niun fu o delle donne o de' giovani che ritener le sue potesse. Il quale, poi che in quella guisa per buona pezza chino stando non si movea, da' suoi compagni e dalle donne, che già s'erano da seder levate, fu molte volte richiamato, e alla fine, perciò che ora parea loro di quindi partirsi, sollevato e dolcemente racconfortato. A cui le donne, acciò che egli da quel pensiero si riavesse, il drappo addimandarono, vaghe mostrandosi di vederlo, e quello avuto, e d'una in altra mano recato, verso la porta del giardin caminando, tutte più volte il mirarono volentieri. Perciò che egli era di sottilissimi fili tessuto e d'ogn'intorno d'oro e di seta fregiato, e per drento alcuno animaluzzo, secondo il costume greco, vagamente dipinto v'avea, e molto studio in sé di maestra mano e d'occhio discernevole dimostrava. Indi usciti del bel giardino i giovani e nel palagio le donne accompagnate, essi, perciò che Perottino non volle quel dì nelle feste rimanere, del castello scesero e, d'uno ragionamento in altro passando, acciò che egli le sue pungenti cure dimenticasse, quasi tutto il rimanente di quel giorno per ombre e per rive e per piagge dilettevoli s'andarono diportando. Biblioteca |
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Edizione telematica a cura di: Claudio Paganelli, 1999
Revisione, Edizione HTML e impaginazione a cura di: Giuseppe Bonghi, Aprile 1999
Tratto da: Pietro Bembo, Prose della
volgar lingua, Gli Asolani, Rime, a cura di Carlo Dionisotti, TEA Tascabili Editori
Associati, Milano 1997
© 1999 - by prof. Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 21 aprile, 1999