Pietro  Bembo

Gli Asolani

linecol.gif (2432 byte)

PRIMO LIBRO 

[1.XIII.] Le quali maniere di maraviglie, come che tutte s'usino nell'oste che Amor conduce, pure l'ultima, che io dissi, v'è più sovente che altra e, tra molta dissonanzia d'infiniti dolori, ella quasi giusta corda più spesso al suono della verità risponde, sì come quella che è la più propria di ciascuno amante e in sé la più vera, ciò è che essi la lor vita cercano e abbracciano la lor morte tuttavia. Con ciò sia cosa che mentre essi vanno cercando i diletti loro e quelli si credono seguitare, dietro alle lor noie inviati e d'esse invaghiti sì come di ben loro, tra mille guise di tormenti disconvenevoli e nuovi alla fin fine si procacciano di perire, chi in un modo e chi in altro, miseramente e stoltamente ciascuno. E chi negherà che stoltamente e miseramente non perisca chiunque, da semplice follia d'amore avallato, trabocca alla sua morte così leggiero? Certo niuno, se non quei che 'l fanno; a' quali spesse volte tra per soverchio di dolore e per mancamento di consiglio è così grave il vivere, che pure non che la schifino, anzi essi le si fanno incontro volentieri: chi perché ad esso pare così più speditamente che in altra maniera poter finire i suoi dolori, e chi per far venire almeno una volta pietà di sé ne gli occhi della sua donna, contento di trarne solamente due lagrime per guiderdone di tutte le sue pene. Non pare a voi nuova pazzia, o donne, che gli amanti per così lievi e istrane cagioni cerchino di fuggire la lor propria vita? Certo sì dee parere; ma egli è pure così. E non che io in me una volta provato l'abbia, ma egli è buon tempo che, se mi fosse stato conceduto il morire, a me sarebbe egli carissimo stato e sarebbe ora più che mai. A questo modo, o donne, s'ingegnano gli amanti contro al corso della natura trovar via; la quale, avendo parimente ingenerato in tutti gli uomini natio amore di loro stessi e della lor vita e continua cura di conservarlasi, essi odiandola e di se stessi nimici divenuti amano altrui, e non solamente di conservarla non curano, ma spesso ancora, contro a se medesimi incrudeliti, volontariamente la rifiutano dispregiando. Ma potrebbe forse dire alcuno: ‘Perottino, coteste son favole a quistione d'innamorato più convenevoli, sì come le tue sono, che a vero argomentare di ragionevole uomo. Perciò che se a te fosse stato così caro il morire, come tu di', chi te n'averebbe ritener potuto, essendo così in mano d'ogni uomo vivo il morire, come non è più il vivere in poter di quelli che son già passati? Queste parole più follemente si dicono che i fatti non si fanno di leggiere’. Maravigliosa cosa è, o donne, ad udir quello che io ora dirò; il che, se da me non fosse stato provato, appena che io ardissi d'imaginarlomi, non che di raccontarlo. Non è, sì come in tutte l'altre qualità d'uomini, ultima doglia il morire ne gli amanti; anzi loro molte volte in modo è la morte dinegata, che già dire si può che in somma e strema miseria felicissimo sia colui che può morire. Perciò che aviene bene spesso, il che forse non udiste voi, donne, giamai, né credevate che potesse essere, che, mentre essi dal molto e lungo dolor vinti sono alla morte vicini e sentono già in sé a poco a poco partire dal penoso cuore la lor vita, tanto d'allegrezza e di gioia sentono i miseri del morire, che questo piacere, confortando la sconsolata anima tanto più, quanto essi meno sogliono aver cosa che loro piaccia, ritorna vigore ne gl'indeboliti spiriti, i quali a forza partivano, e dona sostentamento alla vita che mancava. La qual cosa, quantunque paia nuova, quanto sia possibile ad essere in uomo innamorato, io ve ne potrei testimonianza donare, che l'ho provata, e recarvi in fede di ciò versi, già da me per lo adietro fatti, che lo discrivono, se a me non fosse dicevole vie più il piagnere che il cantare. -

[1.XIV.] Quivi, come da cosa molto disiata sopragiunta e tutta in se stessa subitamente recatasi, madonna Berenice: - Deh - disse - se questo Idio ti conceda, Perottino, il vivere lietamente tutti gli anni tuoi, prima che tu più oltre vada ragionando, dicci questi tuoi versi. Perciò che buona pezza è che io son vaga sommissimamente d'udire alcuna delle tue canzoni, e certa sono che tu, le ne dicendo, diletterai insiememente queste altre due che t'ascoltano, né meno di me son vaghe d'udirti; perciò che ben sappiamo quanto tra gl'intendenti giovani sieno le tue rime lodate -.
         A cui Perottino, un profondissimo sospiro con le parole mandando fuora, in questa guisa rispose: - Madonna, questo Idio, male per me troppo bene conosciuto, i miei anni lieti non può egli più fare né farà giamai, quando ancora esso far lieti quegli di tutti gli altri uomini potesse, sì come non puote. Perciò che la mia ingannevole fortuna di quel bene m'ha spogliato, dopo il quale niuna cosa mi può essere, né sarà mai, né lieta né cara, se non quella una che è di tutte le cose ultimo fine; la quale io ben chiamo assai spesso, ma ella sorda, con la mia fortuna accordatasi, non m'ascolta, forse perché io, soverchio vivendo, rimanga per essempio de' miseri bene lungamente infelice. Ora poscia che io ho già preso ad ubidirvi e ho a voi fatto palese quello che nascondere arei potuto, e sarebbe il meglio stato, ché men male suole essere il morirsi uom tacendo che lamentandosi, quantunque le mie rime da esser dette a donne liete e festeggianti non siano, io le pure dirò. - Mossono a pietà i pieghevoli cuori delle donne queste ultime parole di Perottino; quando egli, che con fatica grandissima le lagrime a gli occhi ritenne, alquanto riavutosi, così incominciò a dire:

      Quand'io penso al martire,
Amor, che tu mi dai, gravoso e forte,
Corro per gir a morte,
Così sperando i miei danni finire.
      Ma poi ch'i' giungo al passo,
Ch'è porto in questo mar d'ogni tormento,
Tanto piacer ne sento,
Che l'alma si rinforza, ond'io no 'l passo.
      Così 'l viver m'ancide,
Così la morte mi ritorna in vita:
O miseria infinita,
Che l'uno apporta e l'altra non recide.

[1.XV.] Lodavano le donne e gli altri giovani la canzone da Perottino recitata, e esso interrompendogli, soverchio delle sue lode schifevole, volea seguitando alle prime proposte ritornare, se non che madonna Berenice, ripigliando il parlare: - Almeno - disse - sii di tanto contento, Perottino, poi che l'essere lodato contra l'uso di tutti gli altri uomini tu pure a noia ti rechi, che, dove acconciamente ti venga così ragionando alcun de' tuoi versi ricordato, non ti sia grave lo sporloci; perciò che e noi tutte e tre, che del tuo onore vaghissime siamo, e i tuoi compagni medesimamente, i quali son certa che come fratello t'amino, quantunque essi altre volte possano le tue rime avere udite, sollazzerai con tua pochissima fatica grandemente -.
         A queste parole rispostole Perottino che come potesse il farebbe, così rientrò nel suo parlare: - E che si potrà dir qui, se non che per certo tanto stremamente è misera la sorte de gli amanti, che essi, vivendo, perciò che vivono, non possono vivere e, morendo, perciò che muoiono, non possono morire? Io certamente non so che altro succhio mi sprema di così nuovo assenzo d'amore se non quest'uno, il quale quanto sia amaro siate contente, giovani donne, il cui bene sempre mi fie caro, di conoscere più tosto sentendone ragionare che gustandolo. Ma, o potenza di questo Idio, non so qual più noievole o maravigliosa, non si contenta di questa loda né per somma la vuole de' suoi miracoli Amore; il quale, perciò che si può argomentare che, sì come la morte può ne gli amanti cagionar la noia del vivere, così può bastare a cagionarvi la vita la gioia che essi sentono del morire, vuole tal volta in alcuno non solamente che esso non possa morire senza cagione avere alcuna di vita, ma fa in modo che egli di due manifestissime morti, da esse fierissimamente assalito, sì come di due vite si vive. A me medesimo tuttavia, donne, pare oltre ogni maniera nuovo questo stesso che io dico; e pure è vero: certo così non fosse egli stato, che io sarei ora fuori d'infinite altre pene, dove io dentro vi sono. Perciò che avendo già per li tempi adietro Amore il mio misero e tormentato cuore in cocentissimo fuoco posto, nel quale stando egli conveniva che io mi morissi, con ciò sia cosa che non avrebbe la mia virtù potuto a cotanto incendio resistere, operò la crudeltà di quella donna, per lo cui amore io ardeva, che io caddi in uno abondevolissimo pianto, del quale l'ardente cuore bagnandosi opportuna medicina prendeva alle sue fiamme. E questo pianto averebbe per sé solo in maniera isnervati e infieboliti i legamenti della mia vita e così vi sarebbe il cuore allagato dentro, che io mi sarei morto, se stato non fosse che, rassodandosi per la cocitura del fuoco tutto quello che il pianto stemperava, cagione fu che io non mancai. In questa guisa l'uno e l'altro de' miei mali pro facendomi, e da due mortalissimi accidenti per la loro contraoperazione vita venendomene, si rimase il cuore in istato, ma quale stato voi vedete, con ciò sia cosa che io non so quale più misera vita debba potere essere, che quella di colui è, il quale da due morti è vivo tenuto e, perciò che egli doppiamente muore, egli si vive. -

[1.XVI.] Così avendo detto Perottino, fermatosi e poi a dire altro passar volendo, Gismondo con la mano in ver di lui aperta sostandolo, a madonna Berenice così disse: - Egli non v'attien, Madonna, quello che egli v'ha testé promesso di sporvi delle sue rime, potendol fare. Perciò che egli una canzone fe' già che di questo miracolo medesimo racconta, vaga e gentile, e non la vi dice. Fate che egli la vi dica, che ella vi piacerà. -
        
Il che udito, la donna subitamente disse: - Dunque ci manchi tu, Perottino, della tua promessa così tosto? O noi ti credavamo uom di fede. - E con tai parole e con altre scongiurandol tutte, non solamente a dir loro quella canzone della quale Gismondo ragionava, ma ancor dell'altre, se ad uopo venissero di quello che egli dir volea, il constrinsero, e fattolsi ripromettere più d'una volta, egli alla canzone venendo con voce compassionevole così disse:

      Voi mi poneste in foco,
Per farmi anzi 'l mio dì, Donna, perire;
E perché questo mal vi parea poco,
Col pianto raddoppiaste il mio languire.
Or io vi vo' ben dire:
Levate l'un martire,
Ché di due morti i' non posso morire.
      Però che da l'ardore
L'umor che ven de gli occhi mi difende,
E che 'l gran pianto non ditempre il core
Face la fiamma che l'asciuga e 'ncende.
Così quanto si prende
L'un mal, l'altro mi rende,
E giova quello stesso che m'offende.
      Che se tanto a voi piace
Veder in polve questa carne ardita,
Che vostro e mio mal grado è sì vivace,
Perché darle giamai quel che l'aita?
Vostra voglia infinita
Sana la sua ferita,
Ond'io rimango in dolorosa vita.
      E di voi non mi doglio,
Quanto d'Amor che questo vi comporte;
Anzi di me, ch'ancor non mi discioglio".
Ma che poss'io? con leggi inique e torte
Amor regge sua corte.
Chi vide mai tal sorte:
Tenersi in vita un uom con doppia morte?

[1.XVII.] E così detto seguitò: - Parti, Lisa, che a questi miracoli si convenga che il loro facitore sia Idio chiamato? Parti che non senza cagione que' primi uomini gli abbiano imposto cotal nome? Perciò che tutte le cose che fuori dell'uso naturale avengono, le quali per questo si chiamano miracoli, che maraviglia a gli uomini recano o intese o vedute, non posson procedere da cosa che sopranaturale non sia, e tale sopra tutte l'altre è Dio. Questo nome adunque diedero ad Amore, sì come a colui la cui potenza sopra quella della natura ad essi parea che si distendesse. Ma io a dimostrarloti, più vago de' miei mali che de gli altrui, non ho quasi adoperato altro, sì come tu hai veduto, che la memoria d'una menomissima parte de' miei infiniti e dolorosi martiri; i quali però insieme tutti, avenga che essi di soverchia miseria fare essempio mi potessero a tutto il mondo in fede della potenza di questo Idio, se bene in maggior numero non si stendessero che questi sono, de' quali tu hai udito, pure, a comperazione di quelli di tutti gli altri uomini, per nulla senza fallo riputar si possono o per poco. Che se io t'avessi voluto dipignere ragionando le historie di centomila amanti che si leggono, sì come nelle chiese si suole fare, nelle quali dinanzi ad uno Idio non la fede d'un uom solo, ma d'infiniti, si vede in mille tavolette dipinta e raccontata, certo non altramente maravigliata te ne saresti che sogliano i pastori, quando essi primieramente nella città d'alcuna bisogna portati, a una ora mille cose veggono che son loro d'infinita maraviglia cagione. Né perché io mi creda che le mie miserie sien gravi, come senza fallo sono, è egli perciò da dire che lievi sieno l'altrui, o che Amore ne' cuori di mille uomini per aventura non s'aventi con tanto impeto, con quanto egli ha fatto nel mio, e che egli cotante e così strane maraviglie non ne generi, quante e quali son quelle che egli nel mio ha generate. Anzi io mi credo per certo d'avere di molti compagni a questa pruova per grazia del mio signore, quantunque essi non così tutti vedere si possano da ciascuno e conoscere, come io me stesso conosco. Ma è appresso le altre questa, una delle sciocchezze de gli amanti, che ciascuno si crede essere il più misero e di ciò s'invaghisce, come se di questa vittoria ne gli venisse corona, né vuole per niente che alcuno altro viva, il quale amando possa tanto al sommo d'ogni male pervenire, quanto egli è pervenuto. Amava Argia sanza fallo oltre modo, se alle cose molto antiche si può dar fede, la quale chi avesse udita, quando ella sopra le ferite del suo morto marito gittatasi piagneva, sì come si dee pensare che ella facesse, averebbe inteso che ella il suo dolore sopra quello d'ogni altra dolente riponeva. E pure leggiamo d'Evadna, la quale in quella medesima sorte di miseria e in un tempo con lei pervenuta, sdegnando alteramente la propria vita, il suo morto marito non pianse solamente, ma ancora seguìo. Fece il somigliante Laodomia nella morte del suo, fece la bella asiana Pantea, fece in quella del suo amante la infelice giovane di Sesto questa medesima pruova, fecero altresì di molt'altre. Per che comprender si può ogni stato d'infelicità potersi in ogni tempo con molti altri rassomigliare; ma non di leggier si veggono, perciò che la miseria ama sovente di star nascosa. Tu dunque, Lisa, dando alle mie angoscie quella compagnia che ti parrà poter dare, senza che io vada tutte le historie ravolgendo, potrai agevolmente argomentare la potenza del tuo Idio tante volte più distendersi di quello che io t'ho co' miei essempi dimostrato, quanti possono esser quelli che amino come fo io, i quali possono senza fallo essere infiniti. Perciò che ad Amore è per niente, che può essere, solo che esso voglia, ad un tempo parimente in ogni luogo, di cotali prodezze, a rischio della vita de gli amanti, in mille di loro insieme insieme far pruova. Egli così giuoca e, quello che a noi è d'infinite lagrime e d'infiniti tormenti cagione, suoi scherzi sono e suoi risi non altramente che nostri dolori. E già in modo ha sé avezzo nel nostro sangue e delle nostre ferite invaghito il crudele, che di tutti i suoi miracoli quello è il più maraviglioso, quando egli alcuno ne fa amare, il qual senta poco dolore. E perciò pochissimi sono quegli amanti, se pure alcuno ve n'è, che io no 'l so, che possano nelle lor fiamme servar modo; dove in contrario si vede tutto 'l giorno, lasciamo stare che di riposati, di riguardosi, di studiosi, di filosofanti, molte volte rischievoli andatori di notte, portatori d'arme, salitori di mura, feritori d'uomini diveniamo, ma tutto dì veggiamo mille uomini, e quelli per aventura che per più costanti sono e per più saggi riputati, quando ad amar si conducono, palesemente impazzare.

[1.XVIII.] Ma perciò che, fatto Idio da gli uomini Amore per queste cagioni che tu vedi, Lisa, parve ad essi convenevole dovergli alcuna forma dare, acciò che esso più interamente conosciuto fosse, ignudo il dipinsero, per dimostrarci in quel modo non solamente che gli amanti niente hanno di suo, con ciò sia cosa che essi stessi sieno d'altrui, ma questo ancora, che essi d'ogni loro arbitrio si spogliano, d'ogni ragione rimangono ignudi; fanciullo, non perché egli si sia garzone, che nacque insieme co' primi uomini, ma perciò che garzoni fa divenire di conoscimento quei che 'l seguono e, quasi una nuova Medea, con istrani veneni alcuna volta gli attempati e canuti ribambire; alato, non per altro rispetto se non perciò che gli amanti, dalle penne de' loro stolti disideri sostentati, volan per l'aere della loro speranza, sì come essi si fanno a credere, leggiermente infino al cielo. Oltre a.cciò una face gli posero in mano accesa, perciò che, sì come del fuoco piace lo splendore ma l'ardore è dolorosissimo, così la prima apparenza d'Amore, in quanto sembra cosa piacevole, ci diletta, di cui poscia l'uso e la sperienza ci tormentano fuor di misura. Il che se da noi conosciuto fosse prima che vi si ardesse, o quanto meno ampia sarebbe oggi la signoria di questo tiranno e il numero de gli amanti minore che essi non sono. Ma noi stessi, del nostro mal vaghi, sì come farfalle ad essa n'andiam per diletto; anzi pure noi medesimi spesse volte ce l'accendiamo, onde poi, quasi Perilli nel proprio toro, così noi nel nostro incendio ci veggiamo manifestamente perire. Ma per dar fine alla imagine di questo Idio, male per gli uomini di sì diversi colori della loro miseria pennellata, a tutte queste cose, Lisa, che io t'ho dette, l'arco v'aggiunsero e gli strali, per darci ad intendere che tali sono le ferite che Amore ci dà, quali potrebbono essere quelle d'un buono arciere che ci saettasse; le quali però in tanto sono più mortali, che egli tutte le dà nel cuore, e questo ancora più avanti hanno di male, che egli mai non si stanca od a pietà si muove, perché ci vegga venir meno, anzi egli tanto più s'affretta nel ferirci, quanto ci sente più deboli e più mancare. Ora io mi credo assai apertamente averti, Lisa, dimostrato quali fossero le cagioni che mosser gli uomini a chiamare Idio costui, che noi Amore chiamiamo, e perché essi così il dipinsero, come tu hai veduto; il quale, se con diritto occhio si mira, non che egli nel vero non sia Idio, il che essere sarebbe sceleratezza pure a pensare non che mancamento a crederlo, anzi egli non è altro se non quello che noi medesimi vogliamo. Perciò che conviene di necessità che Amore nasca nel campo de' nostri voleri, senza il quale, sì come pianta senza terreno, egli aver luogo non può giamai. È il vero che, comunque noi, ricevendolo, nell'animo gli lasciamo aver piè e nella nostra volontà far radici, egli tanto prende di vigore da se stesso, che poi nostro mal grado le più volte vi rimane, con tante e così pungenti spine il cuore affligendoci e così nuove maraviglie generandone, come ben chiaro conosce chi lo pruova.

[1.XIX.] Ma perciò che io buona via mi sono teco venuto ragionando, tempo è da ritornare a Gismondo, il quale io lasciai, dalla tua voce richiamato, già su ne' primi passi del mio camino, avendom'egli dimandato come ciò vero fosse, che io dissi, che amare senza amaro non si puote. Il che quantunque possa senza dubbio assai esser chiaro conosciuto per le precedenti ragioni da chi per aventura non volesse a suo danno farsi sofistico contra 'l vero, pure sì perché a voi, donne, maggiore utilità ne segua, le quali, perciò che femine siete e per questo meno nel vivere dalla fortuna essercitate che noi non siamo, più di consiglio avete mestiero, e sì perché a me già nel dolermi aviato giova il favellare bene in lungo de' miei mali, sì come a' miseri suole avenire, più oltre ancora ne parlerò; e così forse ad una ora a voi m'ubrigherò ragionando e disubrigherò consigliando e per le cose, che possono a chi non l'entendesse di molta infelicità esser cagione, discorrendo e avisando -. Avea dette queste parole Perottino e tacevasi, apparecchiandosi di riparlare, quando Gismondo, riguardate l'ombre del sole che alquanto erano divenute maggiori, alle donne rivoltosi, così disse: - Care donne, io ho sempre udito dire che il vincere più gagliardo guerriere fa la vittoria maggiore. Per che di quanto più rinforza Perottino argomentando le sue ragioni e più lungamente nella iniqua sua causa s'affatica, aguzzando la punta del suo ingegno, di parlare, di tanto egli alle mie tempie va tessendo più lodevole e più graziosa corona. Ma io temo, se io gli arò a rispondere, che non mi manchi il tempo, se noi vorremo, sì come usati siamo, all'ora del festeggiare insieme con gli altri nel palagio ritrovarci. Perciò che il sole già verso il vespro s'inchina e a noi forse non fie guari più d'altrettanto spazio di qui dimorarci conceduto, di quello che c'è passato poi che noi ci siamo; e l'ora è sì fuggevole e così ci pigliano l'animo le vezzose parole di Perottino, che a me pare d'esserci apen'apena venuto -.
         A cui Sabinetta, che la più giovane era delle tre donne, e nel principio di questi ragionamenti postasi a sedere nell'erbetta sotto gli allori, quasi fuori de gli altri stando e ascoltando, poi che Perottino a favellare incominciò, niente ancora avea parlato, anzi acerbetta che no, disse: - Ingiuria si farebbe a Perottino se tu, Gismondo, per cotesto dir volessi che egli a ristrignere dovesse avere i suoi sermoni. Parlisi a suo bell'agio egli oggi quanto ad esso piace: tu gli potrai rispondere poscia domani, con ciò sia cosa che e a noi fie più dilettevole il pigliarci questo solazzo e diporto medesimamente dell'altre volte, che qui abbiamo più dì a starci, e a te potrà essere più agevole il rispondere, che averai avuto questo mezzo tempo da pensarvi. -

[1.XX.] Piacque a ciascuno l'aviso di Sabinetta, e così conchiuso che si facesse, in quello medesimo luogo il seguente giorno ritornando, poi che ogniun si tacque, Perottino incominciò: - Sì come delle vaghe e travagliate navi sono i porti riposo e delle cacciate fiere le selve loro, così de' quistionevoli ragionamenti sono le vere conclusioni; né giova, dove queste manchino, molte voci rotonde e segnate raunando e componendo, le quali per aventura più da coloro sono con istudio cercate, che più da sé la verità lontana sentono, occupar gli animi de gli ascoltanti, se essi non solamente la fronte e il volto delle parole, ma il petto ancora e il cuor di loro con maestro occhio rimirano. Il che temo io forte, o donne, non domani avenga a Gismondo, il quale più del suo ingegno confidandosi che avendo risguardo a quello di ciascuna di voi o pure alla debolezza della sua causa rispetto e pensiero alcuno, spera di questa giostra corona. Nella quale sua speranza assai gli sarebbe la fortuna favorevole stata, più lungo spazio da prepararsi alla risposta concedendogli che a me di venire alla proposta non diede, se egli alla verità non fosse nimico. E perché egli in me non ritorni quello che io ora appongo a lui, alla sua richiesta venendo, dico che quantunque volte adiviene che l'uom non possegga quello che egli disidera, tante volte egli dà luogo in sé alle passioni; le quali, ogni pace turbandogli, sì come città da' suoi nimici combattuta, in continuo tormento il tengono più e men grave, secondo che più o men possenti i suoi disideri sono. E possedere qui chiamo non quello che suole essere ne' cavalli o nelle veste o nelle case, delle quali il signore è semplicemente possessor chiamato, quantunque non egli solo le usi o non sempre o non a suo modo, ma possedere dico il fruire compiutamente ciò che altri ama, in quella guisa che ad esso è più a grado. La qual cosa perciò che è per se stessa manifestissima, che io altramente ne quistioni non fa mestiero. Ora vorre' io saper da te, Gismondo, se tu giudichi che l'uomo amante altrui possa quello che egli ama fruire compiutamente giamai. Se tu di' che sì, tu ti poni in manifesto errore, perciò che non può l'uom fruir compiutamente cosa che non sia tutta in lui; con ciò sia cosa che le strane sempre sotto l'arbitrio della fortuna stiano e sotto il caso e non sotto noi, e altri, quanto sia cosa istrana, dalla sua voce medesima si fa chiaro. Se tu di' che no, confessare adunque ti bisognerà, né ti potranno gli amanti difendere, o Gismondo, che chiunque ama, senta e sostenga passione a ciascun tempo. E perciò che non è altro l'amaro dell'animo che il fele delle passioni che l'avelenano, di necessità si conchiude che amare senza amaro non è più fattibile che sia che l'acque asciughino o il fuoco bagni o le nevi ardano o il sole non dia luce. Vedi tu ora, Gismondo, in quanto semplici e brievi parole la pura verità si rinchiude? Ma che vo io argomentando di cosa che si tocca con mano? che dico io con mano? anzi pur col cuore. Né cosa è che più a drento si faccia sentire o più nel mezzo d'ogni nostra midolla penetrando traffigga l'anima di quello che Amore fa, il quale, sì come potentissimo veneno, al cuore ne manda la sua virtù e quasi ammaestrato rubator di strada, nella vita de gli uomini cerca incontanente di por mano.

[1.XXI.] Lasciando adunque da parte con Gismondo i silogismi, o donne, al quale più essi hanno rispetto, sì come a.llor guerriere, che a voi che ascoltatrici siete delle nostre quistioni, con voi me ne verrò più apertamente ragionando quest'altra via. E perciò che, per le passioni dell'animo discorrendo, meglio ci verrà la costui amarezza conosciuta, sì come quella che egli si trae dall'aloe loro, poi che in esse col ragionare alquanto già intrati siamo e a voi piace che il favellare oggi sia mio, il quale poco innanzi a Gismondo donato avevate, seguitando di loro vi parlerò, più lunga tela tessendovi de' lor fili. Sono adunque, o donne, le passioni dell'animo queste generali e non più, dalle quali tutte le altre dirivando in loro ritornano: soverchio disiderare, soverchio rallegrarsi, soverchia tema delle future miserie e nelle presenti dolore. Le quali passioni, perciò che sì come venti contrari turbano la tranquillità dell'animo e ogni quiete della nostra vita, sono per più segnato vocabolo perturbazioni chiamate da gli scrittori. Di queste perturbazioni, quantunque propria d'Amore sia la primiera, sì come di quello che altro che disiderio non è, pure egli, non contento de' suoi confini, passa nelle altrui possessioni, soffiando in modo nella sua fiaccola, che miseramente tutte le mette a fuoco; il quale fuoco, gli animi nostri consumando e distruggendo, trae spesse volte affine la nostra vita o, se questo non ne viene, a vita peggior che morte senza fallo ci conduce. Ora per incominciar da esso disiderio, dico questo essere di tutte le altre passioni origine e capo e da questo ogni nostro male procedere, non altramente che faccia ogni albero da sue radici. Perciò che comunque egli d'alcuna cosa s'accende in noi, incontanente ci sospigne a seguirla e a cercarla, e così seguendola e cercandola a trabocchevoli e disordinati pericoli e a mille miserie ci conduce. Questo sospigne il fratello a cercare dalla male amata sorella gli abominevoli abbracciamenti, la matrigna dal figliastro e alcuna volta, il che pure a dirlo m'è grave, il padre medesimo dalla verginetta figliuola: cose più tosto mostruose che fiere. Le quali, perciò che vie più bello è il tacersi che il favellarne, lasciando nella loro non dicevole sconvenevolezza stare e di noi favellando, così vi dico, che questo disio i nostri pensieri, i nostri passi, le nostre giornate dispone e scorge e trae a dolorosi e non pensati fini. Né giova spesse volte che altri gli si opponga con la ragione, perciò che quantunque d'andare al nostro male ci accorgiamo, non pertanto ce ne sappiam ritenere o, se pure alcuna volta ce ne riteniamo, da capo, come quelli che il male abbiam dentro, al vomito con maggior violenza di stomaco ritorniamo. E aviene poi che, sì come quel sole, nel qual noi gli occhi tenevamo stamane quando e' surgea, ora dilungatosi fra 'l giorno abbaglia chi lo rimira, così bene scorgiamo noi da prima il nostro male alle volte, quando e' nasce, il quale medesimo, fatto grande, accieca ogni nostra ragione e consiglio.

[1.XXI.] Ma non si contenta di tenerci Amore d'una sola voglia, quasi d'una verga sollecitati, anzi sì come dal disiderar delle cose tutte le altre passioni nascono, così dal primo disiderio che sorge in noi, come da largo fiume, mille altri ne dirivano, e questi sono ne gli amanti non men diversi che infiniti. Perciò che quantunque il più delle volte tutti tendano ad un fine, pure, perché diversi sono gli obbietti e diverse le fortune de gli amanti, da ciascuno senza fallo diversamente si disia. Sono alcuni che, per giugnere quando che sia la lor preda, pongono tutte le forze loro in un corso, nel quale o quante gravi e dure cose s'incontrano, o quante volte si cade, o quanti seguaci pruni ci sottomordono i miseri piedi! e spesse fiate aviene che prima si perde la lena che la caccia si tenga. Alcuni altri, possessori della cosa amata divenuti, niente altro disiderano se non di mantenersi in quello medesimo stato, e quivi fisso tenendo ogni loro pensiero e in questo solo ogni opera, ogni tempo loro consumando, nella felicità son miseri e nelle ricchezze mendici e nelle loro venture sciagurati. Altri, di possessione uscito de' suoi beni, cerca di rientrarvi, e con mille dure condizioni, con mille patti iniqui, in prieghi, in lagrime, in strida consumandosi, mentre del perduto contende, pone in quistion pazzamente la sua vita. Ma non si veggono queste fatiche, questi guai, questi tormenti ne' primi disii. Perciò che sì come nell'entrar d'alcun bosco ci pare d'avere assai spedito sentiero, ma quanto più in esso penetriamo caminando, tanto il calle più angusto diviene, così noi primieramente ad alcuno obbietto dall'appetito invitati, mentre a quello ci pare di dover potere assai agevolmente pervenire, ad esso più oltre andando di passo in passo troviamo più ristretto e più malagevole il camino. Il che a noi è delle nostre tribolazioni fondamento, perciò che, per vi pure poter pervenire, ogni impedimento cerchiamo di rimuovere che il ci vieti, e quello che per diritto non si può, conviene che per oblico si fornisca. Quinci le ire nascono, le quistioni, le offese, e troppo più avanti ne segue di male, che nel cominciamento non pare altrui esser possibile ad avenire. E affine che io ogni cosa minuta raccontando non vada, quante volte sono da alcuno state per questa cagione le morti d'infiniti uomini disiderate? e per aventura alcuna volta de' suoi più cari? Quante donne già dall'appetito trasportate hanno la morte de' loro mariti procacciata? Veramente, o donne, se a me paresse poter dire maggior cosa che questa non è, io più oltre ne parlerei. Ma che si può dir più? il letto santissimo della moglie e del marito, testimonio della più secreta parte della lor vita, consapevole de' loro dolcissimi abbracciamenti, per nuovo disio d'amore essere del sangue innocente dell'uno, col ferro dell'altro, tinto e bagnato.

[1.XXIII.] Ora facendo vela da questi duri e importuni scogli del disio, il mare dell'allegrezza fallace e torbido solchiamo. Manifesta cosa vi dee adunque essere, o donne, che tanto a noi ogni allegrezza si fa maggiore, quanto maggiore ne gli animi nostri è stato di quello il disio che a noi è della nostra gioia cagione; e tanto più oltre modo nel conseguire delle cercate cose ci rallegriamo, quanto più elle da noi prima sono state cerche oltra misura. E perciò che niuno appetito ha in noi tanto di forza, né con sì possente impeto all'obbietto propostogli ci trasporta, quanto quello fa che è dalli sproni e dalla sferza d'Amore punto e sollecitato, aviene che niuna allegrezza di tanto passa ogni giusto segno, di quanto quella de gli amanti passar si vede, quando essi d'alcuno loro disiderio vengono a riva. E veramente chi si rallegrerebbe cotanto d'un picciolo sguardo, o chi in luogo di somma felicità porrebbe due tronche parolette o un brieve toccar di mano o un'altra favola cotale, se non l'amante, il quale è di queste stesse novelluzze vago e disievole fuor di ragione? certo, che io creda, niuno. Né perciò è da dire che in questo a miglior condizione, che tutti gli altri uomini, siano gli amanti, quando manifestamente si vede che ciascuna delle loro allegrezze le più volte, o, per dir meglio, sempre, accompagnano infiniti dolori, il che ne gli altri non suole avenire, in modo che quello che una volta sopravanza nel sollazzo è loro mille fiate renduto nella pena. Senza che niuna allegrezza, quando ella trapassa i termini del convenevole, è sana, e più tosto credenza fallace e stolta che vera allegrezza si può chiamare. La quale è ancora per questo dannosa ne gli amanti, che ella in modo gli lascia ebbri del suo veleno che, come se essi in Lete avessero la memoria tuffata, d'ogni altra cosa fatti dimentichi salvo che del lor male, ogni onesto ufficio, ogni studio lodevole, ogni onorata impresa, ogni lor debito lasciato a dietro, in questa sola vituperevolmente pongono tutti i loro pensieri; di che non solamente vergogna e danno ne segue loro, ma oltre a.cciò, quasi di se stessi nimici divenuti, essi medesimi volontariamente si fanno servi di mille dolori. Quante notti miseramente passa vegghiando, quanti giorni sollecitamente perde in un solo pensiero, quanti passi misura in vano, quante carte vergando non meno le bagna di lagrime che d'inchiostro l'infelice amante alcuna volta, prima che egli una ora piacevole si guadagni? la qual per aventura senza noia non gli viene, sì come di lamentevoli parole spesse volte e di focosi sospiri e di vero pianto mescolata, o forse non senza pericolo stando della propria persona o, se alcuna di queste cose no 'l tocca, certo con doloroso pungimento di cuore che ella sì tosto fuggendo se ne porti i suoi diletti, i quali egli ha così lungamente penato per acquistare. Chi non sa quanti pentimenti, quanti scorni, quante mutazioni, quanti ramarichii, quanti pensieri di vendetta, quante fiamme di sdegno il cuocono e ricuocono mille volte, prima che egli un piacere consegua? Chi non sa con quante gelosie, con quante invidie, con quanti sospetti, con quante emulazioni e in fine con quanti assenzi ciascuna sua brevissima dolcezza sia comperata? Certo non hanno tante conche i nostri liti né tante foglie muove il vento in questo giardino, qualora egli più verde si vede e più vestito, quanti possono in ogni sollazzo amoroso esser dolori. E questi medesimi sollazzi, se aviene alcuna fiata che sieno da ogni loro parte di duolo e di maninconia voti, il che non può essere, ma posto che sì, allora per aventura ci sono eglino più dannosi e più gravi. Perciò che le fortune amorose non sempre durano in uno medesimo stato, anzi elle più sovente si mutano che alcuna altra delle mondane, sì come quelle che sottoposte sono al governo di più lieve signore che tutte le altre non sono. Il che quando aviene, tanto ci appare la miseria più grave, quanto la felicità ci è paruta maggiore. Allora ci lamentiamo noi d'Amore, allora ci ramarichiamo di noi stessi, allora c'incresce il vivere, sì come io vi posso col mio misero essempio in queste rime far vedere. Le quali se per aventura più lunghe vi parranno dell'usato, fie per questo, che hanno avuto rispetto alla gravezza de' miei mali, la quale in pochi versi non parve loro che potesse capere.

[1.XXIV.]

      I più soavi e riposati giorni
Non ebbe uom mai né le più chiare notti,
Di quel c'ebb'io, né 'l più felice stato,
Alor ch'io incominciai l'amato stile
Ordir con altro pur che doglia e pianto,
Da prima entrando a l'amorosa vita.
      Or è mutato il corso a la mia vita
E volto il gaio tempo, e i lieti giorni,
Che non sapean che cosa fosse un pianto,
In gravi, travagliate e fosche notti,
Col bel suggetto suo cangiâr lo stile
E con le mie venture ogni mio stato.
      Lasso, non mi credea di sì alto stato
Giamai cader in così bassa vita
Né di sì piano in così duro stile.
Ma 'l sol non mena mai sì puri giorni,
Che non sian dietro poi tante atre notti:
Così vicino al riso è sempre il pianto.
      Ben ebbi al riso mio vicino il pianto
E io non me 'l sapea, che 'n quello stato
Così cantando e 'n quelle dolci notti
Forse avrei posto fine a la mia vita,
Per non tardar al fel di questi giorni,
Che m'ha sì inacerbito e petto e stile.
      Amor, tu che porgei dianzi a lo stile
Lieto argomento, or gl'insegni ira e pianto,
A che son giunti i miei graditi giorni?
Qual vento nel fiorir svelse 'l mio stato
E fe' fortuna a la tranquilla vita
Entro li scogli a le più lunghe notti?
      U' son le prime mie vegghiate notti
Sì dolcemente? u' 'l mio ridente stile
Che potea rallegrar ben mesta vita?
E chi sì tosto l'ha converso in pianto?
C'or foss'io morto alor, quando 'l mio stato
Tinse in oscuro i suoi candidi giorni.
      Sparito è 'l sol de' miei sereni giorni
E raddoppiata l'ombra a le mie notti,
Che lucean più che i dì d'ogni altro stato.
Cantai un tempo e 'n vago e lieto stile
Spiegai mie rime, e or le spiego in pianto,
C'ha fatto amara di sì dolce vita.
      Così sapesse ogniun qual è mia vita
Da indi in qua, ch'e miei festosi giorni,
Chi sola il potea far, rivolse in pianto;
Che pago mi terrei di queste notti,
Senza colmar de' miei danni lo stile;
Ma non ho tanto bene in questo stato.
       Ché quella fera, ch'al mio verde stato
Diede di morso e quasi a la mia vita,
Or fugge al suon del mi' angoscioso stile
Né mai, per rimembrarle i primi giorni
O raccontar de le presenti notti,
Volse a pietà del mio sì largo pianto.
      Eco sola m'ascolta, e col mio pianto
Agguagliando 'l suo duro antico stato,
Meco si duol di sì penose notti;
E se 'l fin si prevede da la vita,
Ad una meta van questi e quei giorni,
E la mia nuda voce fia 'l mio stile.
      Amanti, i' ebbi già tra voi lo stile
Sì vago, ch'acquetava ogni altrui pianto:
Or me non queta un sol di questi giorni.
Così va chi 'n suo molto allegro stato
Non crede mai provar noiosa vita
Né pensa 'l dì de le future notti.
      Ma chi vol si rallegri a le mie notti,
Com'anco quella, che mi fa lo stile
Tornar a vile e 'n odio esser la vita,
Ch'io non spero giamai d'uscir di pianto.
Ella se 'l sa, che di sì lieto stato
Tosto mi pose in così tristi giorni.
      Ite, giorni gioiosi e care notti,
Che 'l bel mio stato ha preso un altro stile,
Per pascer sol di pianto la mia vita.


Biblioteca
vita.gif (1928 byte)
biografia

Introduzione
index.jpg (1118 byte)
indice

Fausernet

Edizione telematica  a cura di: Claudio Paganelli, 1999
Revisione, Edizione HTML e impaginazione a cura di: Giuseppe Bonghi, Aprile 1999
Tratto da: Pietro Bembo, Prose della volgar lingua, Gli Asolani, Rime, a cura di Carlo Dionisotti, TEA Tascabili Editori Associati, Milano 1997

© 1999 - by prof. Giuseppe Bonghi
- E-mail: Giuseppe Bonghi - bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 21 aprile, 1999