Pietro  Bembo

Gli Asolani

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PRIMO  LIBRO

[1.I.] Suole a' faticosi navicanti esser caro, quando la notte, da oscuro e tempestoso nembo assaliti e sospinti, né stella scorgono, né cosa alcuna appar loro che regga la lor via, col segno della indiana pietra ritrovare la tramontana, in guisa che, quale vento soffi e percuota conoscendo, non sia lor tolto il potere e vela e governo là, dove essi di giugnere procacciano o almeno dove più la loro salute veggono, dirizzare; e piace a quelli che per contrada non usata caminano, qualora essi, a parte venuti dove molte vie faccian capo, in qual più tosto sia da mettersi non scorgendo, stanno in sul piè dubitosi e sospesi, incontrare chi loro la diritta insegni, sì che essi possano all'albergo senza errore, o forse prima che la notte gli sopragiunga, pervenire. Per la qual cosa avisando io, da quello che si vede avenire tutto dì, pochissimi essere quegli uomini, a' quali nel peregrinaggio di questa nostra vita mortale, ora dalla turba delle passioni soffiato e ora dalle tante e così al vero somiglianti apparenze d'openioni fatto incerto, quasi per lo continuo e di calamita e di scorta non faccia mestiero, ho sempre giudicato grazioso ufficio per coloro adoperarsi, i quali, delle cose o ad essi avenute o da altri apparate o per se medesimi ritrovate trattando, a gli altri uomini dimostrano come si possa in qualche parte di questo periglioso corso e di questa strada, a smarrire così agevole, non errare. Perciò che quale più graziosa cosa può essere che il giovare altrui? O pure che si può qua giù fare, che ad uom più si convenga, che essere a molti uomini di lor bene cagione? E poi, se è lodevole per sé, che è in ogni maniera lodevolissimo, un uom solo senza fallimento saper vivere non inteso e non veduto da persona, quanto più è da credere che lodar si debba un altro, il quale e sa esso la sua vita senza fallo scorgere e oltre a ciò insegna e dona modo ad infiniti altri uomini, che ci vivono, di non fallire? Ma perciò che tra le molte cagioni, le quali il nostro tranquillo navicar ci turbano e il sentiero del buon vivere ci rendono sospetto e dubbioso, suole con le primiere essere il non saper noi le più volte quale amore buono sia e qual reo, il che non saputo fa che noi, le cose che fuggire si devrebbono amando e quelle che sono da seguire non amando, e tal volta o meno o più del convenevole ora schifandole e ora cercandole, travagliati e smarriti viviamo, ho voluto alcuni ragionamenti raccogliere, che in una brigata di tre nostre valorose donne e in parte di madonna la Reina di Cipri, pochi dì sono, tre nostri aveduti e intendenti giovani fecero d'Amore, assai diversamente questionandone in tre giornate, affine che il giovamento e pro che essi hanno a me renduto, da loro che fatti gli hanno sentendogli, che nel vero non è stato poco, possano eziandio rendere a qualunque altro, così ora da me raccolti, piacesse di sentirgli. Alla qual cosa fare, come che in ciascuna età stia bene l'udire e leggere le giovevoli cose e spezialmente questa, perciò che non amare come che sia in niuna stagione non si può, quando si vede che da natura insieme col vivere a tutti gli uomini è dato che ciascuno alcuna cosa sempre ami, pure io, che giovane sono, i giovani uomini e le giovani donne conforto e invito maggiormente. Perciò che a molti e a molte di loro per aventura agevolmente averrà che, udito quello che io mi profero di scriverne, essi prima d'Amore potranno far giudicio che egli di loro s'abbia fatto pruova. Il che, quanto esser debba lor caro, né io ora dirò, e essi meglio potranno ne gli altri loro più maturi anni giudicare. Ma di vero, sì come nel più delle cose l'uso è ottimo e certissimo maestro, così in alcune, e in quelle massimamente che possono non meno di noia essere che di diletto cagione, sì come mostra che questa sia, l'ascoltarle o leggerle in altrui, prima che a pruova di loro si venga, senza fallo molte volte a molti uomini di molto giovamento è stato. Per la qual cosa bellissimo ritrovamento delle genti è da dir che sieno le lettere e la scrittura, nella qual noi molte cose passate, che non potrebbono altramente essere alla nostra notizia pervenute, tutte quasi in uno specchio riguardando e quello di loro che faccia per noi raccogliendo, da gli altrui essempi ammaestrati ad entrare nelli non prima o solcati pelaghi o caminati sentieri della vita, quasi provati e nocchieri e viandanti, più sicuramente ci mettiamo. Senza che infinito piacere ci porgono le diverse lezioni, delle quali gli animi d'alquanti uomini, non altramente che faccia di cibo il corpo, si pascono assai sovente e prendono insieme da esse dilettevolissimo nodrimento. Ma lasciando questo da parte stare e alle ragionate cose d'Amore, che io dissi, venendo, acciò che meglio si possa ogni lor parte scorgere tale, quale appunto ciascuna fu ragionata, stimo che ben fatto sia che, prima che io passi di loro più avanti, come il ragionare avesse luogo si faccia chiaro.

[1.II.] Asolo adunque, vago e piacevole castello posto ne gli stremi gioghi delle nostre alpi sopra il Trivigiano, è, sì come ogniuno dee sapere, di madonna la Reina di Cipri, con la cui famiglia, la quale è detta Cornelia, molto nella nostra città onorata e illustre, è la mia non solamente d'amistà e di dimestichezza congiunta, ma ancora di parentado. Dove essendo ella questo settembre passato a' suoi diporti andata, avenne che ella quivi maritò una delle sue damigielle, la quale, perciò che bella e costumata e gentile era molto e perciò che da bambina cresciuta se l'avea, assai teneramente era da lei amata e avuta cara. Per che vi fece l'apparecchio delle nozze ordinare bello e grande, e, invitatovi delle vicine contrade qualunque più onorato uomo v'era con le lor donne, e da Vinegia similmente, in suoni e canti e balli e solennissimi conviti l'un giorno appresso all'altro ne menava festeggiando con sommo piacer di ciascuno. Erano quivi tra gli altri, che invitati dalla Reina vennero a quelle feste, tre gentili uomini della nostra città, giovani e d'alto cuore, i quali, da' loro primi anni ne gli studi delle lettere usati e in essi tuttavia dimoranti per lo più tempo, oltre a ciò il pregio d'ogni bel costume aveano, che a nobili cavalieri s'appartenesse d'avere. Costor per aventura, come che a tutte le donne che in que' conviti si trovarono, sì per la chiarezza del sangue loro e sì ancora molto più per la viva fama de' loro studi e del lor valore fosser cari, essi nondimeno pure con tre di loro belle e vaghe giovani e di gentili costumi ornate, perciò che prossimani eran loro per sangue e lunga dimestichezza con esse e co' lor mariti aveano, i quali tutti e tre di que' dì a Vinegia tornati erano per loro bisogne, più spesso e più sicuramente si davano che con altre, volentieri sempre in sollazzevoli ragionamenti dolci e oneste dimore traendo. Quantunque Perottino, che così nominare un di loro m'è piaciuto in questi sermoni, poco e rado parlasse, né fosse chi riso in bocca gli avesse solamente una volta in tutte quelle feste veduto. Il quale eziandio molto da ogniuno spesse volte si furava, sì come colui che l'animo sempre avea in tristo pensiero; né quivi venuto sarebbe, se da' suoi compagni, che questo studiosamente fecero, acciò che egli tra gli allegri dimorando si rallegrasse, astretto e sospinto al venirvi non fosse stato. Né pure solamente Perottino ho io con infinta voce in questa guisa nomato, ma le tre donne e gli altri giovani ancora; non per altro rispetto, se non per tôrre alle vane menti de' volgari occasione, i loro veri nomi non palesando, di pensar cosa in parte alcuna meno che convenevole alla loro onestissima vita. Con ciò sia cosa che questi parlari, d'uno in altro passando, a brieve andare possono in contezza de gli uomini pervenire, de' quali non pochi sogliono esser coloro che le cose sane le più volte rimirano con occhio non sano.

[1.III.] Ma alle nozze della Reina tornando, mentre che elle così andavano come io dissi, un giorno tra gli altri nella fine del desinare, che sempre era splendido e da diversi giuochi d'uomini che ci soglion far ridere e da suoni di vari strumenti e da canti ora d'una maniera e quando d'altra rallegrato, due vaghe fanciulle per mano tenendosi, con lieto sembiante al capo delle tavole, là dove la Reina sedea, venute, riverentemente la salutarono; e poi che l'ebbero salutata, amendue levatesi, la maggiore, un bellissimo liuto che nell'una mano teneva al petto recandosi e assai maestrevolmente toccandolo, dopo alquanto spazio col piacevole suono di quello la soave voce di lei accordando e dolcissimamente cantando, così disse:

      Io vissi pargoletta in festa e 'n gioco,
De' miei pensier, di mia sorte contenta:
Or sì m'afflige Amor e mi tormenta,
Ch'omai da tormentar gli avanza poco.
      Credetti, lassa, aver gioiosa vita
Da prima entrando, Amor, a la tua corte;
E già n'aspetto dolorosa morte:
O mia credenza, come m'hai fallita.
      Mentre ad Amor non si commise ancora,
Vide Colco Medea lieta e secura;
Poi ch'arse per Iason, acerba e dura
Fu la sua vita infin a l'ultim'ora.

Detta dalla giovane cantatrice questa canzone, la minore, dopo un brieve corso di suono della sua compagna che nelle prime note già ritornava, al tenor di quelle altresì come ella la lingua dolcemente isnodando, in questa guisa le rispose:

      Io vissi pargoletta in doglia e 'n pianto,
De le mie scorte e di me stessa in ira:
Or sì dolci pensieri Amor mi spira,
Ch'altro meco non è che riso e canto.
      Arei giurato, Amor, ch'a te gir dietro
Fosse proprio un andar con nave a scoglio;
Così là 'nd'io temea danno e cordoglio,
Utile scampo a le mie pene impetro.
      Infin quel dì, che pria la punse Amore,
Andromeda ebbe sempre affanno e noia;
Poi ch'a Perseo si diè, diletto e gioia
Seguilla viva, e morta eterno onore.

Poi che le due fanciulle ebber fornite di cantare le lor canzoni, alle quali udire ciascuno chetissimo e attentissimo era stato, volendo esse partire per dar forse a gli altri sollazzi luogo, la Reina, fatta chiamare una sua damigiella, la quale, bellissima sopra modo e per giudicio d'ogniun che la vide più d'assai che altra che in quelle nozze v'avesse, sempre quando ella separatamente mangiava di darle bere la serviva, le impose che alle canzoni delle fanciulle alcuna n'aggiugnesse delle sue. Per che ella, presa una sua vivola di maraviglioso suono, tuttavia non senza rossore veggendosi in così palese luogo dover cantare, il che fare non era usata, questa canzonetta cantò con tanta piacevolezza e con maniere così nuove di melodia, che alla dolce fiamma, che le sue note ne' cuori degli ascoltanti lasciarono, quelle delle due fanciulle furono spenti e freddi carboni:

      Amor, la tua virtute
Non è dal mondo e da la gente intesa,
Che, da viltate offesa,
Segue suo danno e fugge sua salute.
Ma se fosser tra noi ben conosciute
L'opre tue, come là dove risplende
Più del tuo raggio puro,
Camin dritto e securo
Prenderia nostra vita, che no 'l prende,
E tornerian con la prima beltade
Gli anni de l'oro e la felice etade.

[1.IV.] Ora soleva la Reina per lo continuo, fornito che s'era di desinare e di vedere e udire le piacevoli cose, con le sue damigielle ritrarsi nelle sue camere, e quivi o dormire o, ciò che più le piacea di fare facendo, la parte più calda del giorno separatamente passarsi, e così concedere chell'altre donne di sé facessero a lor modo, infino a tanto che venuto là dal vespro tempo fosse da festeggiare; nel qual tempo tutte le donne e gentili uomini e suoi cortigiani si raunavano nelle ampie sale del palagio, dove si danzava gaiamente e tutte quelle cose si facevano che a festa di reina si conveniva di fare. Cantate adunque dalla damigiella e dalle due fanciulle queste canzoni e a tutti gli altri sollazzi di quella ora posto fine, levatasi dall'altre donne la Reina, come solea, e nelle sue camere raccoltasi, e ciascuno similmente partendo, rimase per aventura ultime, le tre donne, che io dissi, co' loro giovani per le sale si spaziavano ragionando, e quindi, da' piedi e dalle parole portate, ad un verone pervennero, il quale da una parte delle sale più rimota sopra ad un bellissimo giardino del palagio riguardava. Dove come giunsero, maravigliatesi della bellezza di questo giardino, poi che di mirare in esso alquanto al primo disiderio sodisfatto ebbero, ora a questa parte ora a quella gli occhi mandando dal disopra, Gismondo, che il più festevole era de' suoi compagni e volentieri sempre le donne in festa e onesto giuoco teneva, a loro rivoltosi così disse: - Care giovani, il dormire dopo 'l cibo a questa ora del dì, quantunque in niuna stagion dell'anno non sia buono, pure la state, perciò che lunghissimi sono i giorni, come quello che cosa piacevole è, da gli occhi nostri volentieri ricevuto, alquanto meno senza fallo ci nuoce. Ma questo mese si incomincia egli a perder molto della sua dolcezza passata e a farsi di dì in dì più dannoso e più grave. Per che, dove voi questa volta il mio consiglio voleste pigliare, le quali stimo che per dormire nelle vostre camere a quest'ora vi rinchiudiate, io direi che fosse ben fatto, lasciando il sonno dietro le cortine de' nostri letti giacere, che noi passassimo nel giardino, e quivi al rezzo, nel fresco dell'erbe ripostici, o novellando o di cose dilettevoli ragionando, ingannassimo questa incresciosa parte del giorno, infin che l'ora del festeggiare venuta nelle sale ci richiamasse con gli altri ad onorare la nostra novella sposa -.
         Alle donne, le quali molto più le ombre de gli alberi e gli accorti ragionamenti de' giovani che il sonno delle coltre regali e le favole dell'altre donne dilettavano, piacque il consiglio di Gismondo. Per che, scese le scale, tutte liete e festose insieme con lui e cogli altri due giovani n'andarono nel giardino.

[1.V.] Era questo giardino vago molto e di maravigliosa bellezza; il quale, oltre ad un bellissimo pergolato di viti, che largo e ombroso per lo mezzo in croce il dipartiva, una medesima via dava a gl'intranti di qua e di là, e lungo le latora di lui ne la distendeva; la quale, assai spaziosa e lunga e tutta di viva selce soprastrata, si chiudeva dalla parte di verso il giardino, solo che dove facea porta nel pergolato, da una siepe di spesissimi e verdissimi ginevri, che al petto avrebbe potuto giugnere col suo sommo di chi vi si fosse accostar voluto, ugualmente in ogni parte di sé la vista pascendo, dilettevole a riguardare. Dall'altra onorati allori, lungo il muro vie più nel cielo montando, della più alta parte di loro mezzo arco sopra la via facevano, folti e in maniera gastigati, che niuna lor foglia fuori del loro ordine parea che ardisse di si mostrare; né altro del muro, per quanto essi capevano, vi si vedea, che dall'uno delle latora del giardino i marmi bianchissimi di due finestre, che quasi ne gli stremi di loro erano, larghe e aperte, e dalle quali, perciò che il muro v'era grossisimo, in ciascun lato sedendo si potea mandar la vista sopra il piano a cui elle da alto riguardano. Per questa dunque così bella via dall'una parte entrate nel giardino le vaghe donne co' loro giovani caminando tutte difese dal sole, e questa cosa e quell'altra mirando e considerando e di molte ragionando, pervennero in un pratello che 'l giardin terminava, di freschissima e minutissima erba pieno e d'alquante maniere di vaghi fiori dipinto per entro e segnato; nello stremo del quale facevano gli allori, senza legge e in maggior quantità cresciuti, due selvette pari e nere per l'ombre e piene d'una solitaria riverenza; e queste tra l'una e l'altra di loro più a drento davan luogo ad una bellissima fonte, nel sasso vivo della montagna, che da quella parte serrava il giardino, maestrevolmente cavata, nella quale una vena non molto grande di chiara e fresca acqua, che del monte usciva, cadendo e di lei, che guari alta non era dal terreno, in un canalin di marmo, che 'l pratello divideva, scendendo, soavemente si facea sentire e, nel canale ricevuta, quasi tutta coperta dall'erbe, mormorando s'affrettava di correre nel giardino.

[1.VI.] Piacque maravigliosamente questo luogo alle belle donne, il quale poi che da ciascuna di loro fu lodato, madonna Berenice, che per età alquanto maggiore era dell'altre due e per questo da esse onorata quasi come lor capo, verso Gismondo riguardando disse: - Deh come mal facemmo, Gismondo, a non ci esser qui tutti questi dì passati venute, ché meglio in questo giardino che nelle nostre camere aremmo quel tempo, che senza la sposa e la Reina ci corre, trapassato. Ora, poi che noi qui per lo tuo avedimento più che per lo nostro ci siamo, vedi dove a te piace che si segga, perciò che l'andare altre parti del giardin riguardando il sole ci vieta, che invidiosamente, come tu vedi, se le riguarda egli tuttavia.
         A cui Gismondo rispose: - Madonna, dove a voi così piacesse, a me parrebbe che questa fonte non si dovesse rifiutare, perciò che l'erba è più lieta qui che altrove e più dipinta di fiori. Poi questi alberi ci terranno sì il sole, che, per potere che egli abbia, oggi non ci si accosterà egli giamai -.
         - Dunque - disse madonna Berenice - sediamvici, e dove a te piace, quivi si stia; e acciò che di niente si manchi al tuo consiglio seguire, col mormorio dell'acque che c'invitano a ragionare e con l'orrore di queste ombre che ci ascoltano, disponti tu a dir di quello che a te più giova che si ragioni, perciò che e noi volentieri sempre t'ascoltiamo e, poi che tu ad essi così vago luogo hai dato, meritamente dee in te cadere l'arbitrio de' nostri sermoni -.
        Dette queste parole da madonna Berenice, e da ciascuna dell'altre due invitato Gismondo al favellare, esso lietamente disse: - Poscia che voi questa maggioranza mi date, e io la mi prenderò -.
         E poi che, fatta di loro corona, a sedere in grembo dell'erbetta posti si furono, chi vicino la bella fonte e chi sotto gli ombrosi allori di qua e di là del picciol rio, Gismondo, accortamente rassettatosi e pel viso d'intorno piacevolmente le belle donne riguardate, in questa guisa incominciò a dire: - Amabili donne, ciascuno di noi ha udite le due fanciulle e la vaga damigiella, che dinanzi la Reina, prima che si levassero le tavole, due lodando Amore e l'altra di lui dolendosi, assai vezzosamente cantarono le tre canzoni. E perciò che io certo sono che chiunque di lui si duole e mala voce gli dà, non ben conosce la natura delle cose e la qualità di lui e di gran lunga va errando dal diritto camin del vero, se alcuna di voi è, belle donne, o di noi, che so che ce ne sono, che creda insieme con la fanciulla primiera che Amore cosa buona non sia, dica sopra ciò quello che ne gli pare, che io gli risponderò, e dammi il cuore di dimostrargli quanto egli con suo danno da così fatta openione ingannato sia. La qual cosa se voi farete, e doverete voler fare, se volete che mio sia quello che una volta donato m'avete, assai bello e spazioso campo aremo oggi da favellare -.
         E, così detto, si tacque.

[1.VII.] Stettero alquanto sopra sé le oneste donne, intesa la proposta di Gismondo, e già mezzo tra se stessa si pentiva madonna Berenice d'avergli data troppa libertà nel favellare. Pure, riguardando che, quantunque egli amoroso giovane e sollazzevole fosse, per tutto ciò sempre altro che modestamente non parlava, si rassicurò e con le sue compagne cominciò a sorridere di questo fatto; le quali insieme con lei altresì dopo un brieve pentimento rassicurate, s'accorsero, raccogliendo le parole di Gismondo, che egli la fiera tristizia di Perottino pugneva e lui provocava nel parlare, perciò che sapevano che egli di cosa amorosa altro che male non ragionava giamai. Ma per questo niente rispondendo Perottino e ogniuno tacendosi, Gismondo in cotal guisa riparlò: - Non è maraviglia, dolcissime giovani, se voi tacete; le quali credo io più tosto di lodare Amore che di biasimarlo v'ingegnereste, sì come quelle cui egli in niuna cosa può aver diservite giamai, se onesta vergogna e sempre in donna lodevole non vi ritenesse. Quantunque d'Amore si possa per ciascun sempre onestissimamente parlare. Ma de' miei compagni sì mi maraviglio io forte, i quali doverebbono, se bene altramente credessero che fosse il vero, scherzando almeno favoleggiar contra lui, affine che alcuna cosa di così bella materia si ragionasse oggi tra noi; non che dovessero essi ciò fare, essendovene uno per aventura qui, che siede, il quale male d'Amor giudicando tiene che egli sia reo, e sì si tace -.
         Quivi non potendosi più nascondere Perottino, alquanto turbato, sì come nel volto dimostrava, ruppe il suo lungo silenzio così dicendo: - Ben m'accorgo io, Gismondo, che tu in questo campo me chiami, ma io sono assai debole barbero a cotal corso. Per che meglio farai se tu, in altro piano e le donne e Lavinello e me, se ti pare, provocando, meno sassosi e rincrescievoli aringhi ci concederai poter fare -.
         Ora quivi furono molte parole e da Gismondo e da Lavinello dette, che il terzo compagno era, acciò che Perottino parlasse; ma egli, non si mutando di proposito, ostinatamente il ricusava. La qual cosa madonna Berenice e le sue compagne veggendo, lo 'ncominciaron tutte instantemente a pregare che egli e per piacer di ciascuno e per amor di loro alcuna cosa dicesse, disiderose di sentirlo parlare; e tanto intorno a ciò con dolci parole or una or altra il combatterono, che egli alla fine vinto rendendosi disse loro così: - E il tacere e il parlare oggimai ugualmente mi sono discari, perciò che né quello debbo, né questo vorrei. Ora vinca la riverenza, donne, che io a' vostri commandamenti sono di portar tenuto, non già a quelli di Gismondo, il quale poteva con suo onore, miglior materia che questa non è proponendoci, e voi e me e se stesso ad un tratto dilettare, dove egli tutti insieme con sua vergogna ci attristerà. Perciò che né voi udirete cose che piacevoli sieno ad udire, e io di noiose ragionerò, e esso per aventura ciò che egli non cerca sì si troverà; il quale, credendosi d'alcuna occasion dare a' suoi ragionamenti col mio, ogni materia si leva via di poter, non dico acconciamente, ma pure in modo alcuno favellare. Perciò che ravedutosi, per quello che a me converrà dire, in quanto errore non io, cui egli vi crede essere, ma esso sia, che ciò crede, se egli non ha ogni vergogna smarrita, esso si rimarrà di prender l'arme contra 'l vero; e quando pure ardisse di prenderlesi, fare no 'l potrà, perciò che non gli fia rimaso che pigliare.
         - O armato o disarmato - rispose Gismondo - in ogni modo ho io a farla teco questa volta, Perottino. Ma troppo credi, se tu credi che a me non debba rimaner che pigliare, il quale non posso gran fatto pigliar cosa che arma contra te non sia. Ma tu nondimeno àrmati, ché a me non parrebbe vincere, se bene armato non ti vincessi -.

[1.VIII.] Riser le donne delle parole di due pronti cavalieri a battaglia. Ma Lisa, che l'una dell'altre due così mi piacque di nominare, a cui parea che Lavinello tacendosi occasione fugisse di parlare, a lui sorridendo disse: - Lavinello, a te fie di vergogna, se tu, combattendo i tuoi compagni, con le mani a cintola ti starai: egli conviene che entri in campo ancor tu -.
         A cui il giovane con lieta fronte rispose: - Anzi non posso io, Lisa, in cotesto campo più entrare, che egli di vergogna non mi sia. Perciò che come tu vedi, poi che i miei compagni già si sono ingaggiati della battaglia tra loro, onesta cosa non è che io, con un di lor mettendomi, l'altro, a cui solo converria rimanere, faccia con due guerrieri combattitore. - Non t'è buona scusa cotesta, Lavinello - risposero le donne quasi con un dire tutt'e tre; e poi Lisa, raffermatesi l'altre due, che a lei lasciavano la risposta, seguitò: - E non ti varrà, nello non volere pigliar l'arme, il difenderti per cotesta via. Perciò che non sono questi combattimenti di maniera, che quello si debba osservare che tu di', che da due incontro ad uno non si vada. Egli non ne muore niuno in così fatte battaglie: entravi pure e appigliati comunquemente tu vuoi -.
         - Lisa, Lisa, tu hai avuto un gran torto - rispose allora Lavinello, così con un dito per ischerzo minacciandola giochevolmente. Indi, all'altre due giratosi disse: - Io mi tenni, testé, donne, tutto buono, estimando, per lo vedervi intente alla zuffa di costor due, che a me non doveste volger l'animo, né dare altro carico di trappormi a queste contese. Ora, poscia che a Lisa non è piaciuto che io in pace mi stia, acciò che almeno doler di me non si possano i miei compagni, lasciamgli far da loro a lor modo; come essi si rimarranno dalla mischia, non mancherà che, sì come i buoni schermidori far sogliono, che a sé riservano il sezzaio assalto, così io le lasciate arme ripigliando, non pruovi di sodisfare al vostro disio. -

[1.IX.] Così detto e risposto e contentato, dopo un brieve silenzio di ciascuno, Perottino, quasi da profondo pensiero toltosi, verso le donne levando il viso, disse:
         - Ora piglisi Gismondo ciò che egli si guadagnerà; e non si penta, poscia che egli questo argine ha rotto, se per aventura e a lui maggiore acqua verrà addosso che bisogno non gli sarebbe d'avere, e di voi altramente averrà che il suo aviso non sarà stato. Ché, come che io non speri di potere in maniera alcuna, quanto in così fatta materia si converrebbe, di questo universale danno de gli uomini, di questa generalissima vergogna delle genti, Amore, o donne, raccontarvi, perciò che non che io il possa, che uno e debole sono, ma quanti ci vivono, pronti e accorti dicitori il più, non ne potrebbono assai bastevolmente parlare; pure e quel poco che io ne dirò, da che io alcuna cosa ne ho a dire, parrà forse troppo a Gismondo, il quale altramente si fa a credere che sia il vero, che egli non è, e a voi ancora potrà essere di molto risguardo, che giovani sete, ne gli anni che sono a venire, il conoscere in alcuna parte la qualità di questa malvagia fiera -.
         Il che poi che esso ebbe detto, fermatosi e più alquanto temperata la voce, cotale diede a' suoi ragionamenti principio: - Amore, valorose donne, non figliuolo di Venere, come si legge nelle favole de gli scrittori, i quali tuttavia in questa stessa bugia tra se medesimi discordando il fanno figliuolo di diverse Idie, come se alcuno diverse madri aver potesse, né di Marte o di Mercurio o di Volcano medesimamente o d'altro Idio, ma da soverchia lascivia e da pigro ozio de gli uomini, oscurissimi e vilissimi genitori, nelle nostre menti procreato, nasce da prima quasi parto di malizia e di vizio; il quale esse menti raccolgono e, fasciandolo di leggierissime speranze, poscia il nodriscono di vani e stolti pensieri, latte che tanto più abonda, quanto più ne sugge l'ingordo e assetato bambino. Per che egli crescie in brieve tempo e divien tale, che egli ne' suoi ravolgimenti non cape. Questi, come che, di poco nato, vago e vezzoso si dimostri alle sue nutrici e maravigliosa festa dia loro della prima vista, egli nondimeno alterando si va le più volte di giorno in giorno e cangiando e tramutando, e prende in picciolo spazio nuove faccie e nuove forme, di maniera che assai tosto non si pare più quello che egli, quando e' nacque, si parea. Ma tuttavia, quale che egli si sia nella fronte, egli nulla altro ha in sé e nelle sue operazioni che amaro, da questa parola, sì come io mi credo, assai acconciamente così detto da chiunque si fu colui il quale prima questo nome gli diè, forse a fine che gli uomini lo schifassero, già nella prima faccia della sua voce avedutisi ciò che egli era. E nel vero chiunque il segue, niuno altro guiderdone delle sue fatiche riceve che amaritudine, niuno altro prezzo merca, niuno appagamento che dolore, perciò che egli di quella moneta paga i suoi seguaci, che egli ha, e sì n'ha egli sempre grande e infinita dovizia, e molti suoi tesorieri ne mena seco che la dispensano e distribuiscono a larga e capevole misura, a quelli più donandone, che di se stessi e della loro libertà hanno più donato al lusinghevole signore. Per la qual cosa non si debbono ramaricar gli uomini se essi amando tranghiottono, sì come sempre fanno, mille amari e sentono tutto 'l giorno infiniti dolori, con ciò sia cosa che così è di loro usanza, né può altramente essere; ma che essi amino, di questo solo ben si debbono e possonsi sempre giustamente ramaricare. Perciò che amare senza amaro non si può, né per altro rispetto si sente giamai e si pate alcuno amaro che per amore. -

[1.X.] Avea dette queste parole Perottino, quando madonna Berenice, che attentissimamente le raccoglieva, così a lui incominciò traponendosi: - Perottino, vedi bene già di quinci ciò che tu fai; perciò che, oltra che a Gismondo dia l'animo di pienamente alle tue proposte rispondere, sì come egli testé ci disse, per aventura il non conciederti le sconcie cose eziandio a niuna di noi si disdice. Se pure non c'è disdetto il trametterci nelle vostre dispute, nella qual cosa io per me tuttavia errare non vorrei o esser da voi tenuta senza rispetto e presontuosa.
         - Senza rispetto non potrete voi essere, Madonna, né presontuosa da noi tenuta parlando e ragionando, - disse allora Gismondo - e le vostre compagne similmente, poi che noi tutti venuti qui siamo per questo fare. Per che tramettetevi ciascuna, sì come più a voi piace, ché queste non sono più nostre dispute che elle esser possano vostri ragionamenti.
         - Dunque - disse madonna Berenice - farò io sicuramente alle mie compagne la via -. E, così detto, a Perottino rivoltasi seguitò: - E certo se tu avessi detto solamente, Perottino, che amare senza amaro non si possa, i' mi sarei taciuta, né ardirei dinanzi a Gismondo di parlare; ma lo aggiugnervi che per altro rispetto amaro alcuno non si senta che per amore, soverchio m'è paruto e sconvenevole. Perciò che così potevi dire, che ogni dolore da altro che d'amore cagionato non sia; o io bene le tue parole non appresi.
         - Anzi le avete voi apprese bene e dirittamente, - rispose Perottino - e cotesto stesso dico io, Madonna, che voi dite: niuna qualità di dolore, niun modo di ramarico essere nella vita de gli uomini, che per cagion d'amore non sia, e da lui, sì come fiume da suo fonte, non si dirivi. Il che la natura medesima delle cose, se noi la consideriamo, assai ci può prestamente far chiaro. Perciò che, sì come ciascun di noi dee sapere, tutti i beni e tutti i mali, che possono a gli uomini come che sia o diletto recare o dolore, sono di tre maniere e non più: dell'animo, della fortuna e del corpo. E perciò che dalle buone cose dolore alcuno venir non può, delle tre maniere de' mali, dalle quali esso ne viene, ragioniamo. Gravose febbri, non usata povertà, sceleratezza e ignoranza che sieno in noi, e tutti gli altri danni a questi somiglianti che infinita fanno la loro schiera, ci apportano senza fallo dolore e più e men grave secondo la loro e la nostra qualità; il che non averrebbe se noi non amassimo i loro contrari. Perciò che se il corpo si duole, d'alcuno accidente tormentato, non è ciò se non perché egli naturalmente ama la sua sanità; ché se egli non l'amasse da natura, impossibile sarebbe il potersene alcun dolere, non altramente che se egli di secco legno fosse o di soda pietra. E se, d'alto stato in bassa fortuna caduti, a noi stessi c'incresciamo, l'amore delle ricchezze il fa e de gli onori e dell'altre somiglianti cose, che per lungo uso o per elezione non sana si pon loro. Onde se alcuno è che non le ami, sì come si legge di quel filosofo che nella presura della sua patria niente curò di salvarsi, contento di quello che seco sempre portava, costui certamente de gli amari giuochi della fortuna non sente dolore. Già la bella virtù e il giovevole intendere, che albergano ne' nostri animi, amati sogliono da ciascuno essere per naturale instinto e disiderati; perché ogniuno, da occulto pungimento stimolato, della sua malvagità e della sua ignoranza ravedutosi, si ramarica come di cose dolorose. E se pure si concedesse alcuno potersi trovare, il quale, viziosamente e senza lume d'intelletto vivendo, non s'attristasse alle volte del suo mal vivere come che sia, a costui senza dubbio, o per diffalta estrema di conoscimento o per infinita ostinazione della perduta usanza, il virtuosamente vivere e lo essere intendente in niun modo non sarebbe caro. Né pur questo solamente cade ne gli uomini, ma egli è ancora manifestamente conosciuto nelle fiere; le quali amano i loro figliuoli assai teneramente per lo generale ciascuna, mentre essi novellamente partoriti in loro cura dimorano. Allora, se alcun ne muore o vien lor tolto come che sia, esse si dogliono quasi come se umano conoscimento avessero. Quelle medesime, i loro figliuoli cresciuti e per se stessi valevoli, se poi strozzare dinanzi a gli occhi loro si veggono e sbranare, di niente s'attristano, perciò che esse non gli amano più. Di che assai vi può esser chiaro che, sì come ogni fiume nasce da qualche fonte, così ogni doglia procede da qualche amore e, sì come fiume senza fonte non ha luogo, così conviene esser vero quello che voi diceste, che ogni dolore altro che d'amore non sia. E perciò che non è altro l'amaro che io dissi, che il tormento e dolor dell'animo che egli per alcuno accidente in sé pate, quel medesimo conchiudendo, Madonna, vi raffermo, che voi ripigliaste: che per altra cagione amaro alcuno non si sente da gli uomini, né si pate, che per amore. -

[1.XI.] Taceva da queste parole soprapresa madonna Berenice e sopra esse pensava, quando Gismondo sogghignando così disse: - Senza fallo assai agevolmente aresti tu oggi stemperata ogni dolcezza d'amore con l'amaro d'un tuo solo argomento, Perottino, se egli ti fosse conceduto. Ma perciò che a me altramente ne pare, quando più tempo mi fie dato da risponderti, meglio si vedrà se cotesta tua cotanta amaritudine si potrà raddolcire. Ora insegnaci quanto quell'altra proposta sia vera, dove tu di' che amare senza amaro non si puote.
         - Quivi ne veniva io testé - rispose Perottino - e di quello che io mi credo che ciascun di noi tuttavia in se stesso pruovi, ragionando, potrei con assai brievi parole, Gismondo, dimostrarloti. Ma poscia che tu pure a questi ragionamenti mi traesti, a me piace che più stesamente ne cerchiamo. Certissima cosa è adunque, o donne, che di tutte le turbazioni dell'animo niuna è così noievole, così grave, niuna così forzevole e violenta, niuna che così ci commuova e giri, come questa fa, che noi Amore chiamiamo; gli scrittori alcuna volta il chiaman fuoco, perciò che, sì come il fuoco le cose nelle quali egli entra egli le consuma, così noi consuma e distrugge Amore; alcuna volta furore, volendo rassomigliar l'amante a quelli che stati sono dalle Furie sollecitati, sì come d'Horeste e d'Aiace e d'alcuni altri si scrive. E perciò che per lunga sperienza si sono aveduti niuna essere più certa infelicità e miseria che amare, di questi due sopranomi, sì come di proprie possessioni, hanno la vita de gli amanti privilegiata, per modo che in ogni libro, in ogni foglio misero amante, infelice amante e si legge e si scrive. Senza fallo esso Amore niuno è che piacevole il chiami, niun dolce, niuno umano il nomò giamai: di crudele, d'acerbo, di fiero, tutte le carte son piene. Leggete d'Amore quanto da mille se ne scrive: poco o niente altro in ciascun troverete che dolore. Sospirano i versi in alcuno; piangono di molti i libri interi; le rime, gl'inchiostri, le carte, i volumi stessi son fuoco. Sospizioni, ingiurie, nimicizie, guerre già in ogni canzone si raccontano, nella quale d'amor si ragioni; e sono questi in amore mediocri dolori. Disperazioni, rubellioni, vendette, catene, ferite, morti, chi può con l'animo non tristo o ancora con gli occhi asciutti trappassare? Né pur di loro le lievi e divolgate favole solamente de' poeti, o ancora quelle che, per essempio della vita, scritte da loro state sono più giovevolmente, ma eziandio le più gravi historie e gli annali più riposti ne son macchiati. Che per tacere de gl'infelici amori di Piramo e di Tisbe, delle sfrenate e illecite fiamme di Mirra e di Bibli e del colpevole e lungo error di Medea e di tutti i loro dolorosissimi fini, i quali, posto che non fosser veri, sì furono essi almeno favoleggiati da gli antichi per insegnarci che tali possono esser quelli de' veri amori; già di Paolo e di Francesca non si dubita che nel mezzo de' loro disii d'una medesima morte e d'un solo ferro amendue, sì come d'un solo amore traffitti, non cadessero. Né di Tarquinio altresì fingono gli scrittori, al quale fu l'amore, che di Lucrezia il prese, e della privazion del regno e dell'essiglio insieme e della sua morte cagione. Né è chi per vero non tenga che le faville d'un Troiano e d'una Greca tutta l'Asia e tutta l'Europa raccendessero. Taccio mille altri essempi somiglianti, che ciascuna di voi può e nelle nuove e nelle vecchie scritture aver letti molte fiate. Per la qual cosa manifestamente si vede Amore essere non solamente di sospiri e di lagrime, né pur di morti particolari, ma eziandio di ruine d'antichi seggi e di potentissime città e delle provincie istesse cagione. Cotali sono le costui operazioni, o donne, cotali memorie egli di sé ha lasciato, affine che ne ragioni chiunque ne scrive. Vedi tu dunque, Gismondo, se vorrai dimostrarci che Amore sia buono, che non ti sia di mestiero mille antichi e moderni scrittori, che di lui come di cosa rea parlano, ripigliare. -

[1.XII.] Detto fin qui da Perottino, Lisa in seder levatasi, che con la mano alla gota e col braccio sopra l'orlo della fonte tutta in sul lato sinistro ascoltandolo si riposava, così ne 'l dimandò e disse: - Perottino, quello che a Gismondo faccia mestiero di ripigliare egli il si veda, che t'ha a rispondere, quando ad esso piacerà o sarà tempo. A me ora rispondi tu. Se è cagione Amore di tanti mali quanti tu di' che i vostri scrittori gli appongono, perché il fanno eglino Idio? Perciò che, sì come io ho letto alcuna fiata, essi il fanno adorar da gli uomini e consacrangli altari e porgongli voti e dannogli l'ali da volare in cielo. Chiunque male fa, egli certamente non è Idio, e chiunque Idio è, egli senza dubbio non può far male. Dunque, se ti piace, dimmi come questo fatto si stia. E per aventura che tu in ciò a madonna Berenice e a Sabinetta non meno che a me piacerai, le quali possono altresì come io altra volta sopra questo dubbio aver pensato, né mai perciò non m'avenne di poterne dimandare così bene o pure così a tempo, come fa ora. - Alle cui parole continuando le due donne e mostrando che ciò sarebbe loro parimente caro a dover da Perottino udire, esso, alquanto prima taciutosi, così rispose:
         - I poeti, Lisa, che furono primi maestri della vita, ne' tempi che gli uomini rozzi e salvatichi non bene insieme ancora si raunavano, insegnati dalla natura, che avea dato loro la voce e lo 'ngegno acconcio a.cciò fare, i versi trovarono, co' quali cantando amollivano la durezza di que' popoli che, usciti de gli alberi e delle spelunche, senza più oltre sapere che cosa si fossero, a caso errando ne menavan la loro vita sì come fiere. Né guari cantarono que' primi maestri le lor canzoni, che essi seco ne traevano quegli uomini selvaggi, invaghiti delle lor voci, dove essi n'andavano cantando. Né altro fu la dilettante cetara d'Orfeo, che le vaghe fiere da' lor boschi e gli alti alberi dalle lor selve e da' lor monti le sode pietre e i precipitanti fiumi da' lor corsi ritoglieva, che la voce d'un di que' primi cantori, dietro alla quale ne venivano quegli uomini che con le fiere tra gli alberi nelle selve e ne' monti e nelle rive de' fiumi dimoravano. Ma altre a.cciò, perciò che, raunata quella sciocca gente, bisognava insegnar loro il vivere e mostrar loro la qualità delle cose, acciò che seguendo le buone dalle ree si ritraessero, né capeva in quegli animi ristretti la grandezza della natura e nelle loro sonnocchiose menti non poteva ragione entrare, che lor si dicesse, trovarono le favole altresì, sotto il velame delle quali la verità, sì come sotto vetro traparente, ricoprivano. A questa guisa del continuo dilettandogli con la novità delle bugie, e alcuna volta tra esse scoprendo loro il vero, ora con una favola e quando con altra gl'insegnarono a poco a poco la vita migliore. In quel tempo adunque che il giovane mondo i suoi popoli poco ammaestrati avea, fu Amore insieme con molti altri fatto Idio, sì come tu di', Lisa, non per altro rispetto, se non per dimostrare a quelle grosse genti con questo nome d'Idio quanto nelle umane menti questa passione poteva. E veramente se noi vogliamo considerando trapassar nel potere, che Amore sopra di noi ha e sopra la nostra vita, egli si vedrà chiaramente infiniti essere i suoi miracoli a nostro gravissimo danno e veramente maravigliosi, cagione giusta della deità dalle genti datagli, sì come io dico. Perciò che quale vive nel fuoco come salamandra, quale ogni caldo vital perdutone si raffredda come ghiaccio, quale come neve a sole si distrugge, quale a guisa di pietra, senza polso, senza spirito, mutolo e immobile e insensibile si rimane. Altri fia che senza cuore si viverà, a donna che mille stratii ad ogni ora ne fa avendol dato; altri ora in fonte si trasmuta, ora in albero, ora in fiera; e chi, portato da forzevoli venti, ne va sopra le nuvole, stando per cadere tuttavia, e chi nel centro della terra e ne gli abissi più profondi si dimora. E se voi ora mi dimandaste come io queste così nuove cose sappia, senza che elle si leggono, vi dico che io tutte le so per pruova e, come per isperienza dotto, così ne favello. Oltra che maravigliosa cosa è il pensare chenti e quali sieno le disagguaglianze, le discordanze, gli errori, che Amore nelle menti de' servi amanti traboccando accozza con gravosa disparità. Perciò che chi non dirà che essi sieno sopra ogni altra miseria infelici, quando e allegrissimi sono e dolorosissimi una stessa ora e da gli occhi loro cadono amare lagrime con dolce riso mescolate, il che bene spesso suole avenire; o quando ardiscono e temono in uno medesimo instante, onde essi, per molto disiderio pieni di caldo e di focoso ardire, impallidiscono e triemano dalla gelata paura; o quando da diversissime angoscie ingombrati e orgoglio e umiltà e improntitudine e tiepidezza e guerra e pace parimente gli assalgono e combattono ad un tempo; o quando, con la lingua tacendo e col volto, parlano e gridano ad alta voce col cuore? e sperano e disperano e la lor vita cercano e abbracciano la lor morte insiememente? e per lo continuo dando luogo in sé a due lontanissimi affetti, il che non suole potere essere nelle altre cose, e da essi straziatamente qua e là in uno stesso punto essendo portati, tra queste e somiglianti distemperatezze il senso si dilegua loro e il cuore? E fannoci a credere che vero sia quello che alcun filosofo già disse, che gli uomini hanno due anime ciascuno, con l'una delle quali essi all'un modo vogliono e con l'altra vogliono all'altro; perciò che egli non pare possibile che con una sola anima si debba poter volere due contrari.


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Edizione telematica  a cura di: Claudio Paganelli, 1999
Revisione, Edizione HTML e impaginazione a cura di: Giuseppe Bonghi, Aprile 1999
Tratto da: Pietro Bembo, Prose della volgar lingua, Gli Asolani, Rime, a cura di Carlo Dionisotti, TEA Tascabili Editori Associati, Milano 1997

© 1999 - by prof. Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 21 aprile, 1999