Pietro  Bembo

Prose della volgar lingua

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DI MESSER PIETRO BEMBO
A MONSIGNOR MESSER GIULIO CARDINALE DE' MEDICI
DELLA VOLGAR LINGUA

TERZO LIBRO

[3.XXVII.] Ma passisi a dire del verbo, nel quale la licenza de' poeti e la libertà medesima della lingua v'hanno piú di malagevolezza portata, che mestier non fa a doverlovi in poche parole far chiaro. Il qual verbo, tutto che di quattro maniere si veda essere cosí nella nostra lingua come egli è nella latina, con ciò sia cosa che egli in alquante voci cosí termina come quello fa, ché Amare Valere Leggere Sentire da noi medesimamente si dice, non perciò usa sempre una medesima regola con esso lui. Anzi egli, in queste altre voci, due vocali solamente ha ne' suoi fini, Ama Vale Legge Sente, dove il latino ne ha tre, come sapete. Di questo verbo, la primiera voce nessun mutamento fa, se non in quanto Seggo eziandio Seggio s'è detto alcuna volta da' poeti, i quali da altre lingue piú tosto l'hanno cosí preso che dalla mia, e Leggo, Leggio; e Veggo, Veggio, traponendovi la I, e Deggio altresí, la qual voce dirittamente non Deggo ma Debbo si dice, e Vegno e Tegno, nelle quali Vengo e Tengo sono della Toscana. Levaronne i poeti alcuna volta, in contrario di quelli, la vocale che propriamente vi sta; quantunque ella, non come vocale, ma come consonante vi stia; e di Seguo fecero Sego, come fe' il Petrarca. E tale volta ne levarono la consonante medesima, da cui piglia regola tutto il verbo; sí come fecero messer Piero dalle Vigne e Guittone nelle lor canzoni, i quali Creo e Veo, in vece di Credo e di Vedo dissero, e messer Semprebene da Bologna oltre a questi, che Crio, in vece di Credo, disse. Né solamente di questa voce, la vocale o la consonante che io dissi, ma ancora tutta intera l'ultima sillaba essi levarono in questo verbo, Vo' in vece di Voglio dicendo; il che imitarono e fecero i prosatori altresí alcuna fiata. Vedo Siedo, non sono voci della Toscana. Nella prima voce poi del numero del piú, è da vedere che sempre vi s'aggiunga la I, quando ella da sé non vi sta. Ché non Amamo Valemo Leggemo, ma Amiamo Valiamo Leggiamo si dee dire. Semo e Avemo, che disse il Petrarca, non sono della lingua, come che Avemo eziandio nelle prose del Boccaccio si legga alcuna fiata, nelle quali si potrà dire che ella, non come natía, ma come straniera già naturata, v'abbia luogo. Quando poscia la I naturalmente vi sta, sí come sta ne' verbi della quarta maniera, è di mestiero aggiugnervi la A in quella vece, perciò che Sentiamo e non Sentimo si dice.

[3.XXVIII.] Nella seconda voce del numero del meno, è solamente da sapere che ella sempre nella I termina, se non quando i poeti la fanno alcuna volta, ne' verbi della prima maniera, terminare eziandio nella E; sí come fe' il Petrarca, che disse:

Ahi crudo Amor, ma tu allor piú m'informe
a seguir d'una fera, che mi strugge,
la voce, i passi e l'orme.

Et è oltre acciò da avertire che, in quelli della seconda maniera, non mostra che questa voce si formi e generi dalla prima, ma da sé; con ciò sia cosa che in Doglio Tengo e simili, non Dogli Tenghi, ma Duoli Tieni si dice. Nella qual voce, oltre acciò che il fine non ha con lei somiglianza, aviene ancor questo, che vi s'aggiugne di nuovo una vocale, per empierlane di piú quel tanto: Doglio Duoli, Voglio Vuoli, Soglio Suoli, Tengo Tieni, Seggo Siedi, Posso Puoi, e altri; come che Vuoli piú è del verso che delle prose, le quali hanno Vuoi e piú anticamente Vuogli, sí come anco Suogli; le quali due voci, piú che le altre, fanno ritratto pure dalla primiera. Di che altra regola dare non vi si può, se non questa: che altre vocali che la I e la U non hanno in ciò luogo; e quest'altra: che nelle voci, nelle quali la A giace nella penultima sillaba, non entran di nuovo queste vocali né veruna altra; ché Vaglio e simili non crescono da questa parte. Passa questo uso nella terza voce del numero del meno medesimamente continuo, ma piú oltre non si stende; se non si stende in questo verbo Siede, nel quale Siedono eziandio si legge, come che Seggono piú toscanamente sia detta. Passa altresí nella quarta maniera, ma solamente, che io mi creda, in questi verbi: Vengo, che Vieni e Viene fa, e Ferisco, che fa Fiere e Fiede, e Chero, che fa Chiere, quantunque egli, non pur come verbo della quarta maniera, anzi ancora come della seconda, Cherire e Cherere ha per voci senza termine, sí come l'altr'ieri si disse. Pongo, che della terza maniera è, tra l'una e tra l'altra si sta di queste regole, perciò che egli né Ponghi ha né Puoni per seconda sua voce, anzi ha Poni, voce nel vero temperata e gentile. Traggo d'altra parte due voci ha, Traggi e Trai detta piú toscanamente, e ciò serba egli in buona parte delle voci di tutto 'l verbo; come che egli nondimeno nelle voci, nelle quali entra la lettera R nella seconda loro sillaba, raddoppiandonela, l'una e l'altra adietro lascia di queste forme. Muoio due voci ha di questa forma: la seconda di questo numero Muoi, e la terza di quello del piú Muoiono; dalle quali tre voci ne vengono tre altre: Muoia e Muoii e Muoiano; le rimanenti di tutto 'l verbo da Moro, che toscana voce non è, hanno forma. Di questa seconda voce, di cui si parla, levò il Boccaccio la vocale ultima, quando e' disse: Haiti tu sentito stamane cosa niuna? tu non mi par desso; e poco dapoi, Tu par mezzo morto. La qual voce non da Pajo, che toscana è, ma da Paro, che è straniera, si forma. E il Petrarca non solamente la detta vocal ne levò, Vien' in vece di Vieni e Tien' in vece di Tieni e Sostien' in vece di Sostieni, ma ancora talor quasi intera e talor tutta intera l'ultima sillaba, Tôi in vece di Togli e Cre' in vece di Credi e Suo' in vece di Suoli, ponendo. Quantunque Tôi eziandio dal medesimo Boccaccio si disse nelle novelle: Dunque tôi tu ricordanza dal sere? Levarono altresí della terza i miei Toscani la vocale ultima spesse volte, quando ella dopo la L o dopo la N si pone, e la voce, che la seguita, si regge dall'accento medesimo del verbo. Non dico già ne' verbi della prima maniera, ne' quali la A, che è la vocale loro ultima, non se ne leva giamai; ma dico in quelli della seconda o ancora della quarta, Duolmi Suolti Vuolsi Vuolvi e Tiemmi e Viemmi e somiglianti. Come che alcuna volta eziandio, quando la voce, che segue, non si regge dall'accento del verbo, ciò si vede che usarono i poeti, Fier in vece di Fiere e Chier in vece di Chiere dicendo; e i prosatori altresí, che Par e Pon e Vien in vece di Pare e Pone e Viene dissero. Levarono in Puote i toscani prosatori, che la intera voce è, tutta la sezzaia sillaba e Può ne fecero, piú al verso lasciandolane che serbandola a sé, il qual verso nondimeno usò parimente e l'una e l'altra. Aggiunsonvene allo 'ncontro un'altra i poeti bene spesso in questo verbo Ha, e fecerne Have, per aventura da' Napoletani pigliandola, che l'hanno in bocca continuo. Falla e Falle, che si legge parimente in questa voce, non sono d'un verbo medesimo, anzi di due; l'uno de' quali della prima maniera si vede che è, Fallare, e tanto vale quanto Mancare e Non bastare; l'altro è della quarta, Fallire, e pigliasi per Fare errore e inganno e pecca, da cui ne viene il Fallo. Cosí forma da sé ciascuno la sua terza voce, da quella dell'altro separata e nella terminazione e nel sentimento. Quantunque sí pure s'è egli per alcuni posto Fallire in sentimento di Mancare, ma Fallare in sentimento di Peccare e d'Errare non mai. Pungo Ungo e di questa forma degli altri, due fini hanno e nella seconda e nella terza voce di questo numero, secondo che essi o prepongono o pospongono la N alla G, che vi sono: Pungi e Pugni, Ungi e Ugni, Punge e Pugne, Unge e Ugne similmente; delle quali quelle, che l'hanno posposta, sono piú toscane. E a questa condizione è Stringo e degli altri, che con le due consonanti, che io dissi, le dette voci chiudono. Esce di regola la terza voce del verbo Sofferire, la quale è Soffera.

[3.XXIX.] Semplice e regolata è poscia in tutto la seconda voce del numero del piú. E sarebbe altresí la terza, la quale serba la A nella penultima sillaba ne' verbi della prima maniera e la O in quegli dell'altre e ha sempre somiglianza con la prima voce del numero del meno, Pongo Pongono; se non che ella è alle volte per questo in picciola parte di sé di due maniere, sí come in Saglio e Doglio e Toglio ché Sagliono Dogliono Togliono e Salgono Dolgono Tolgono s'è detto; e queste ancora piú toscanamente, perciò che e Salgo e Dolgo e Tolgo nelle prime loro voci, s'è altresí piú toscanamente detto. Quantunque Sagliendo tuttavia il sole piú alto e Sagliente su per le scale, che disse il Boccaccio, piú toscane voci sieno, che Salendo e Salente non sono. Ponno; che in vece di Possono disse alcuna volta il Petrarca, non è nostra voce, ma straniera. È piú nostra voce Deono, che in vece di Debbono alle volte si disse. Il che può aver ricevuto forma dalla prima voce del numero del meno, che alcuna volta Deo dagli antichi rimatori toscani s'è detta, sí come in Guittone si vede. Da questa primiera voce Deo, la quale in uso non è della lingua, s'è per aventura dato forma alla terza di quello stesso numero Dee, che è in uso, e De' medesimamente in quella vece; quantunque De' eziandio nella seconda voce, in luogo di Dei, s'è parimente detto: De' mi tu far sempremai morire a questo modo?. Debbe, che la diritta voce è, dalle prose rifiutata, solo nel verso ha luogo, e Deve altresí. Dansi Fansi, per accorciamento dette, e simili, sono pure in uso del verso solamente e non delle prose.

[3.XXX.] Seguita, appresso queste, la prima voce del numero del meno, di quelle che pendentemente si dicono, Amava Valeva Leggeva Sentiva, che medesimamente si dice nella terza; nella quale Profereva, che si legge nelle prose, non da Proferire, ma da Proferere, che è eziandio della lingua, si forma. In queste due voci nondimeno, fuori solamente quelle della prima maniera, s'è usato di lasciare spesse volte adietro la V e dirsi, Volea Leggea Sentia; come che il Petrarca in questa voce Fea, detta in vece di Facea, piú che una vocal ne levasse. Il quale uso non è stato dato alle voci del numero del piú, se non in parte; con ciò sia cosa che bene si lascia indifferentemente, per chi vuole, adietro la V nella terza voce, e dicesi Soleano Leggeano Sentiano, ma Soleamo Leggeamo Sentiamo non giamai. Et è di tanto ita innanzi questa licenza, che ancora s'è la A, che necessariamente pare che sia richiesta a queste voci, cangiata nella E, et èssi cosí anticamente e toscanamente nelle prose detta: Avièno Morièno Servièno e Contenièno e Ponièno e, quel che disse il Petrarca,

Come veniéno i miei spirti mancando

e ancora,

Ma scampar non potiémmi ale né piume

in vece di dire Potiènomi, e degli altri; sí come Avie Udie Sentie, in vece di Avea Udia Sentia, nel numero del meno si disse. Al qual tornando, dico che è di lui la seconda voce questa, Amavi Valevi Leggevi Sentivi; della quale eziandio in alcun verbo s'è da' poeti gittata via la medesima V, et èssi detto Potei Solei Volgei, in vece di Potevi Solevi Volgevi; il che non è stato ricevuto dalle prose, né s'è tuttavolta ciò detto nel verso medesimo, se non di rado. Resterebbe, nelle pendenti voci, a dirsi della seconda del numero del piú, che è questa, Amavate Valevate Leggevate Udivate; ma ella altra mutazione non fa se non questa, che la vocale, la quale innanzi alla penultima si sta, si mutava dagli antichi, di quella che ella dee essere, nella A, Vedavate Leggiavate Venavate, quasi per lo continuo; come che essi alle volte ciò facevano ancora nella prima voce di questo numero, Leggiavamo Venavamo e similmente dicendo.

[3.XXXI.] Nelle voci poi che si danno al passato, la prima di loro, ne' verbi della prima maniera, in due vocali sempre termina cosí, Amai Portai; fuori solamente queste, che son di due sillabe, Stetti Diedi Feci, che Fei eziandio si disse nel verso; nella qual licenza è nondimeno rimasa in piè la I, che par fine molto richiesto a questa voce. Non la lasciò in piè il Petrarca, quando e' disse:

I' die' in guardia a san Pietro,

e altrove,

Ch'i' li die' per colonna
de la sua frale vita,

dove Die', in vece di Diedi, si legge. Né pure il Petrarca nelle rime cosí fece, ma il Boccaccio ancora cosí ci ragionò nelle prose, il qual disse: Ma io mi posi in cuore di darti quello che tu andavi cercando, e dietelo; e altrove: Signor, questa donna è quello leale e fedel servo, del quale io poco avanti vi fe' la dimanda. Levasi tuttavia la detta vocal nelle prose piú spesso, quando alcun'altra voce le si dà che dall'accento di lei si regga, e Dilibera'mi in vece di Diliberaimi, e cotali altre senza risparmio si dicono toscanamente. Non cosí semplicemente dire si può, che quella della seconda e della terza maniera ne mandi il fin suo; tra le quali alquanta piú di varietà si vede essere. Perciò che quantunque ella nella I sempre termini, sí come fa in tutte, vi termina nondimeno nell'una e nell'altra maniera in diversi modi, con ciò sia cosa che nella seconda piú fini v'han luogo. Perciò che in que' verbi, che la C per loro naturale consonante v'hanno, Giacere Tacere, ella con esso lei C e con la Q apresso termina, Giacqui Tacqui. In quelli che v'hanno la L, essa v'aggiugne la S, e Valsi Dolsi ne fa, che Dolfi eziandio si disse. Solamente Volli la sua consonante raddoppia, come che pure nel verso egli alle volte fa come quelli. Raddoppiano medesimamente quegli altri, che delle altre consonanti v'hanno naturalmente, Caddi Tenni Seppi Ebbi Bevvi, e quest'altri, Sedetti Temetti Dovetti, che ha eziandio Dovei nel verso, i quali oltre acciò una sillaba di piú v'aggiunsero. Dissi Bevvi, perciò che quantunque Bere toscanamente si dica, egli pure da Bevere n'uscí, la qual voce e qui e in altre parti della Italia è ad usanza. Escono di questa regola Godei Capei Potei e Vidi e Providi, che ha nondimeno Provedetti nelle prose, e Parvi, che Parsi medesimamente nel verso ha, e Offersi, che da Offerere si genera.

[3.XXXII.] Hanno piú fini luogo medesimamente nella terza maniera, a' quali tutti, che molti e diversi sono, conoscere, una cotal regola dare, messer Ercole, vi si può: che alla voce di loro, la quale di verbo e di nome pure nel passato tempo partecipa, riguardando, ogni volta che cosí uscire Renduto Perduto Compiuto ne la troverete, diate alla voce, di cui si ragiona, questo fine Rendei Perdei Compiei. Dissi Compiuto, perciò che Compito, che piú leggiadramente si dice nel verso, non è della lingua. Fuori solamente queste: Vivuto, che ha Vissi, perciò che Visso della lingua non è, come che ella altresí piú vagamente cosí si dica nel verso, e Conceduto, che ha Concedetti, con ciò sia cosa che Concesso, che alcuna volta si legge, altresí della lingua non è et è solo del verso; e Creduto, che Credetti ha, quantunque messer Piero dalle Vigne, Cretti, in vece di Credetti, dicesse nella canzona, che cosí comincia:

Assai cretti celare,
ciò che mi convien dire.

E fuori ancora alquante altre poche voci, poste alcuna volta dagli antichi a questa guisa, come che elle vengano da' verbi della quarta maniera; sí come è Smarruto, in vece di Smarrito, che disse Bonagiunta e messer Cino nelle loro canzoni; e Vestuta in vece di Vestita, che pose Dante nelle rime della sua Vita Nuova; e Feruto, in vece di Ferito, e Feruta, per voce che da sé si regge, detta non solo da altri, ma dal Petrarca ancora; e Pentuta, che disse il Boccaccio nelle sue Novelle alcuna fiata; e Venuto, sempre e da ciascuno cosí detta. Ogni altra volta che la scorgerete di quest'altro modo Letto Scritto e simili, che se n'escono con le due T, e voi quest'altro fine delle due S le darete, Lessi Scrissi e somiglianti. Quando poscia ve ne fia un altro di questa maniera, Pianto Spento Finto, parimente Piansi Spensi Finsi nella detta voce saperete di dover dire. E cosí né piú né meno Risi Offesi Arsi Tolsi Mossi, quandunque volta Riso Offeso Arso Tolto Mosso nelle participanti loro voci saranno, come s'è detto; nelle quali Sparto, in vece di Sparso, che alcuna volta si legge, solamente è del verso. Escono nondimeno di quest'ordini Dissi, che ha Detto, e Strinsi, che ha Stretto, e Conobbi, che ha Conosciuto, e Nocqui, che ha Nociuto, e Misi, che ha Messo per voce che partecipa, e Posi, che ha Posto altresí. E se Mordei eziandio Morsi si disse, è perciò che Morduto e Morso egli medesimamente ha per voci che partecipano, come che Morduto piú rade volte si truovi detta e solamente nelle prose.

[3.XXXIII.] Semplice e regolato è ultimamente nella quarta maniera di questa voce il fine, il qual sempre con la natía consonante del verbo, dinanzi la I posta, termina e con l'accento sopra esse, Udí Sentí; se non in quanto ha tale volta l'uso della lingua nelle prose la medesima I raddoppiata, Udíi Sentíi; come che Dante le recasse nel verso. Allo 'ncontro delle quali levarono d'alcun verbo non solamente della prima maniera, com'io dissi, ma delle altre ancora, i poeti alle volte la medesima I, che di necessità star vi suole, e Compie' in vece di Compiei dissero. Non cosí lungamente fa bisogno che si ragioni della seconda voce di questo tempo, essendo ella solamente una in tutti i verbi, dalla terza loro semplice voce del presente tempo per lo piú formandosi in questa guisa, che vi si giugne una sillaba di tre lettere cotali STI; fuori che queste due , Sta, che Desti e Stesti formano. Dissi semplice, in differenza di quelle che v'aggiungono la I o veramente la U, come s'è detto; perciò che queste due vocali raggiunte non entrano giamai in questa voce: Ama Amasti, Tiene Tenesti, Duole Dolesti, Legge Leggesti. E dissi ancora per lo piú, in quanto non cosí in tutto si formano le voci della quarta maniera, ché non Sentesti e Odesti, anzi Sentisti e Udisti si dice. Come che in Udisti e in tutte le altre voci di questo verbo, che in qualunque guisa si danno al passato tempo e a quello che a venire è, eziandio si muta di lui la prima lettera, che è la vocale O, e fassene U: Udí Udisti Udirono e Udito e Udirò e le altre. Di questa seconda voce è alle volte che se ne levano le due ultime lettere, non solo nel verso:

Come non vedestú negli occhi suoi
quel, che vedi ora,

e altrove,

Già non fostú nodrita in piume al rezzo;

ma ancora nelle prose: Ove fostú stamane poco avanti al giorno e Odistú in quella cosa niuna della quale tu dubiti.

[3.XXXIV.] Non avien cosí della terza voce del detto numero del meno, perciò che ella tre fini ha, con ciò sia cosa che e nella O e nella E e nella I termina. Ma nella O hanno fine le voci de' verbi, che sono della prima maniera, Amò Levò Pigliò Lasciò. Nella E finiscono quelle delle due seguenti, Volse Tolse Perdé; e della prima altresí, quando i verbi, nella lor prima voce, sono d'una sillaba e non piú, Diede Fece, de' quali Do e Fo sono le prime voci. Delle quali voci tutte dire si può, che a quelle di loro solamente l'accento sopra l'ultima sillaba sia richiesto, le quali nella prima voce due vocali hanno per loro fine, Amai Amò, Potei Poté, Perdei Perdé, e non altre. Alla quarta maniera poscia si dà la I e l'accento medesimamente sopra essa, Udí Sentí Dipartí; fuori solamente il verbo Venire, che ha Venni nella prima e Venne nella terza voce del numero del meno e Vennero in quella del piú, e il verbo Aprire, che Apersi e Aperse ha, e il verbo Coprire; le quali voci sotto regola non istanno, come che Aprí in vece d'Aperse, e Coprí in vece di Coperse, si legga nel verso. Dissi che si dà l'accento sopra essa, forse perciò che le intere voci erano primieramente queste, Udío Sentío Dipartío; le quali nondimeno in ogni stagione si sono alle volte dette e ne' versi e nelle prose; uso per aventura preso da' Ciciliani, che l'hanno in bocca molto, come che essi usino ciò fare, non solo ne' verbi della quarta maniera, ma ancora in quegli dell'altre. Il che tuttavia non è stato ricevuto dalla Toscana, se non in poca parte e da' suoi piú antichi, sí come furono messer Semprebene e messer Piero dalle Vigne, i quali Passao Mostrao Cangiao Toccao Domandao dissero ne' loro versi; quantunque il Boccaccio ancora, che cosí antico non fu, Discerneo dicesse ne' suoi. Di queste voci della quarta maniera levandosi, come io dico, l'ultima loro sillaba, che è la O, l'accento pure nel suo luogo rimase. Feo, oltre a questi, s'è alle volte da' toscani poeti detto, e Poteo e per aventura Perdeo. Né Feo qui si prende come voce di verbo della prima maniera, ma della terza; perciò che quantunque Fare sí come Amare si dica, non si formano perciò da questa le altre voci di lui, anzi da quest'altra Facere, che in uso della mia lingua non è, non altramente che se ella in uso fosse. È oltre acciò alcuna volta, che questa voce ha parimente due fini, sí come ha la prima di cui si disse, perciò che e Volle e Volse e Dolse e Dolfe si dice. Di questi nondimeno piú nuovo pare a dire Dolfe, con ciò sia cosa che la F non sia lettera di questo verbo, né in alcuna altra parte di lui abbia luogo, se non in questo tempo, nel quale Dolfi e Dolfero eziandio alcuna volta dagli antichi s'è detto. Beo ancora egli due fini pare che abbia in questa voce, perciò che e Bebbe e Bevve si legge nelle buone scritture; il che è piú tosto da dire che un fine sia, per la somiglianza che hanno verso di sé queste due lettere B e V, di maniera che Spesse volte si piglia una per altra. Formasi nondimeno Bevve da questa voce Beve, che tuttavia toscana non è, raddoppiandovisi la V, sí come da Piove, Piovve in questa medesima guisa si forma. Ha due fini medesimamente in questi verbi, ma in altra guisa, Diede e Die', Fece e Fe', non solo ne' poeti, ma ancora alle volte nelle prose. Dette Cadette Tacette Seguette e altre simili, che posero e Dante e il Boccaccio ne' loro versi, o esse della lingua propriamente non sono, o sono della molto antica e di quella, che piú di ruvidezza in sé ha che di leggiadria. E se Penté e Converté nel medesimo Dante si leggono, è perciò che elle da Pentere e da Convertere, verbi della terza maniera, si formano, e Pentei e Convertei hanno, o almeno aver debbono, per loro prime voci di questo tempo.

[3.XXXV.] La primiera voce appresso del numero del piú ha in sé una necessità e regola e non piú; che ella sempre raddoppia la M nell'ultima sillaba, Amammo Valemmo Leggemmo Sentimmo, né altramente può aver stato. La seconda medesimamente ne ha un'altra, che ella in E si vede sempre fornire in questa guisa, Amaste Valeste Legeste Sentiste, e non altramente. La terza non cosí d'una regola si contenta; perciò che ne' verbi della prima maniera ella in questa guisa termina, Amarono Portarono, la A nell'avanti penultima loro sillaba sempre avendo; e la I in quelli della quarta, Udirono Sentirono. Nelle altre due maniere ella termina poscia cosí, Volsero Lessero e simili, alla terza loro voce del numero del meno la sillaba, che voi udite, sempre giugnendo, per questa del piú formare, come vedete. Né vi muova ciò, che Disse nella terza voce del numero del meno, e Dissero in quella del piú medesimamente si dice, come che Dire paia voce della quarta maniera; perciò che tutto il verbo per lo piú da Dicere, la qual voce non è in uso della fiorentina lingua, e non da Dire si forma; sí come Fecero da Fece e questa da Facere, del qual si disse, e non Fare, altresí. Diedero e Stettero, senza avere onde formarsi altro che da Dare e da Stare, fuori della detta regola solamente escono, che io mi creda, e non altri. È oltre acciò che si leva spesso di queste voci la vocale loro ultima, e nel verso e nelle prose, Dieder Disser; e alle volte ancora si gitta tutta intera l'ultima sillaba, Andaro Passaro Accordaro e Partiro e Sentiro e Assaliro e dell'altre, che Giovan Villani disse. Né mancò poi che eziandio due sillabe non si siano via tolte di queste voci, non solo nel verso, che usa Fur invece di Furono, ma ancora nelle prose; sí come si vede nel Boccaccio, il qual disse: Fer vela e Dier de' remi in acqua e andar via, e ciò fece egli in altre voci ancora, Comperar Domandar Diliberar, in vece delle compiute ponendo; e Giovan Villani altresí. Dierono, che è la compiuta voce di Dier, e Diedono, oltre a tutti questi, si truova che si son dette toscanamente, e Uccisono e Rimasono e per aventura in questa guisa dell'altre. Denno e Fenno e Piacquen e Mossen, che disse il Petrarca, non sono toscane.

[3.XXXVI.] Dànnosi al passato tempo, come io dissi, queste voci. A quello poscia, che nel pendente pare che stia del passato, non si danno voci semplici e particolari del verbo, anzi generali e mescolate in questa guisa, che pigliandosi sempre le voce del pendente di questo verbo Avere, si giugne e compone con esso loro una sola voce del passato tempo di quel verbo, del quale s'ha a fornire il sentimento: Io avea fatto, Tu avevi detto, Giovanni aveva scritto e simili; e cosí si va facendo nel numero del piú. È il vero che la voce del verbo, del quale il sentimento si forma, si muta, per chi vuole, ora in quella della femina, ora nell'un numero e quando nell'altro: Io aveva posta ogni mia forza e Tu avevi ben consigliati i tuoi cittadini e somiglianti. E questo uso di congiugnere una voce del verbo Avere, con un'altra di quel verbo, con cui si forma il sentimento, non solamente in ciò, ma ancora nel traccorso tempo, di cui s'è già detto, ha luogo; perciò che medesimamente si dice: Io ho amato, Tu hai goduto, Giovanni ha pianto, Coloro hanno sentito e le altre; e Amata e Godute e Pianti altresí. Ho visto, che disse il Petrarca, in vece di Ho veduto, non è della Toscana. Né solo con questo verbo Avere, ma con quest'altro Essere, ciò ancora si fa, in que' verbi dico, che il portano: La donna s'è doluta, Voi vi sete ramaricati, Coloro si sono ingegnati, e somiglianti. E questi verbi sono tutti quelli, de' quali le voci che fanno, in sé ritornano quello che si fa; sí come ritornano in questi essempi che si son detti. E di tanto è ito a usanza il dare a questa voce del passato il fine, che si tira dietro la persona che fa, La donna s'è doluta, Voi vi sete ramaricati; che ancora alcuna volta s'è ciò fatto, essendo il ragionare in altra forma disposto, sí come qui: Il che molto a grado l'era; sí come a colei, alla quale parecchi anni, a guisa quasi di sorda e di mutola, era convenuta vivere, per lo non aver persona inteso. Dove Alla quale era convenuta vivere disse il Boccaccio, in vece di dire Era convenuto. Ora tra queste due usanze di dire, Io feci e Io ho fatto, altra differenza non mostra che vi sia, se non questa: che l'una piú propriamente si dà al passato di lungo tempo, e questa è Io feci, e l'altra al passato di poco. Ché se io volessi dire d'aver scritti alcuni fogli, che io testé avessi forniti di scrivere, io direi Io gli ho scritti, e non direi Io gli scrissi. E se io questo volessi dire d'altri, che io di lungo tempo avessi scritti, direi Io gli scrissi diece anni sono, e non direi Io gli ho scritti -.

[3.XXXVII.] Cosí diceva il Magnifico, quando mio fratello il ritenne, cosí dicendo: - Voi m'avete con questi due modi di passato tempo, Giuliano, a memoria fatto tornare un altro modo ancora di questo medesimo tempo, che la vostra lingua, non cosí continuo, usa nondimeno assai sovente, e ciò è questo: Ebbi detto, Ebbe fatto, Ebber pensato, e le altre voci similmente. Laonde, se egli non vi grava, diteci che differenza il cosí dire abbia da quegli altri, acciò che a messer Ercole e questo ancora si faccia chiaro -. A cui il Magnifico cosí rispose: - Io m'aveggo che rade volte altri può di tutto ciò, che uopo gli fa, ramemorarsi; perciò che quantunque io, poscia che io jersera vi lasciai, sopra le cose, che io oggi a dire avea, questa notte alquanta ora pensato v'abbia, nondimeno egli non mi soveniva testé di ragionarvi di cotesto modo di passato tempo; del quale, poiché voi, messer Carlo, piú di me aveduto, la differenza, che tra esso e gli altri è, richiedendomene mi ricordate, e io la vi dirò. La quale nondimeno è poca, et è tuttavia questa: che gli altri due passati tempi soli e per sé star possono ne' ragionamenti, Io scrissi, Giovanni ha parlato, ma questo non mai; perciò che non si può cosí dire, Io ebbi scritto, Giovanni ebbe parlato, se altro o non s'è prima detto o poi non si dice. Anzi, o veramente sempre alcuna delle particelle gli si dà, che si danno al tempo, Poi Prima Guari e simili: Poi che la donna s'ebbe assai fatta pregare e Né prima veduta l'ebbe e Né ebbe guari cavato, dopo le quali parole, altre parole fa bisogno che seguano a fornire il sentimento; o veramente questo modo di dire si pon dopo alcun'altra cosa detta, da cui esso pende e senza la quale star non può; sí come non può in queste parole: E questo detto, alzata alquanto la lanterna, ebber veduto il cattivel d'Andreuccio, nelle quali Ebber veduto si pone dopo E questo detto e Alzata la lanterna; o in quest'altre: Il famigliare, ragionando co' gentili uomini di diverse cose, per certe strade gli trasviò, e a casa del suo signore condotti gli ebbe, dove Condotti gli ebbe si dice, dapoi che s'è detto, Gli trasviò; o pure in quest'altre del Petrarca:

Non volendomi Amor perder ancora
ebbe un altro lacciuol fra l'erba teso,

nelle quali medesimamente veder si può, che poscia che non l'ha voluto Amor perdere, Ebbe teso si dice. E finalmente, come che questo modo di passato tempo si dica; egli sempre in compagnia si pon d'altro verbo, come io dissi; dove gli altri due si dicono, senza necessità di cosí fare -.

[3.XXXVIII.] Di che rimanendo mio fratello e gli altri sodisfatti di questa risposta, Giuliano, il suo ragionar seguendo, disse: - Nel tempo che è a venire, la primiera voce del numero del meno una necessità porta seco, e ciò è d'aver l'accento sempre sopra l'ultima sillaba, Amerò Dolerò Leggerò Udirò, e la terza altresí, Amerà Dolerà e l'altre. Era di necessità eziandio che, in tutti i verbi della prima maniera, la A si ponesse nella penultima sillaba; sí come in quegli della seconda e della terza la E, e in quegli della quarta la I necessariamente si pongono. Ma l'usanza della lingua ha portato che vi si pone la E in quella vece, e dicesi Amerò Porterò. Il che si serba nelle altre voci tutte di questo tempo, le quali voci, sí come quelle de' tempi già detti, da questa prima pigliandosi, agevolmente si formano. Solo è da sapere, che nella terza del numero del piú, sempre si raddoppia la N, consonante di necessità richiesta a queste terze voci e alla maggior parte dell'altre del numero del piú di tutti i verbi. Usasi ancora spesse volte ne' verbi, che hanno il D nella penultima sillaba della prima voce di questo tempo, levarsi via la vocal loro e dirsi cosí, Vedrò Udrò e l'altre, ma solamente nel verso; come che Potrò in vece di Poterò, e Potrai in vece di Poterai e le rimanenti a queste, ancora nelle prose hanno luogo, anzi non si dicono giamai altramente. Usasi eziandio in alquanti verbi levarsene la detta sillaba, raddoppiando in quella vece la R, che è lettera di necessità richiesta a questo tempo, Dorrò Corrò Porrò Verrò Sarrò e Merrò e Perrò e Sofferrò in vece di Dolerò Coglierò Ponerò Venirò Salirò e Menerò e Penerò e Sofferirò, e degli altri; e ciò è in uso, non solo del verso, ma ancora delle prose, e fassi parimente in tutte le altre voci di questo tempo. Et è alcuna volta, che non si dice giamai altramente; sí come si fa in questo verbo Voglio, che non si dice Voglierò, ma Vorrò; e il somigliante si fa di questo tempo in tutte le altre sue voci, anzi pure in tutte le altre voci di questo verbo, nelle quali entra la lettera R, da due in fuori che son queste: Volere e Volessero. È oltre a tutto questo, che gli antichi Toscani hanno fatto uscire la prima voce di questo tempo alcuna volta cosí: Ancideraggio Serviraggio, in vece di dire Anciderò e Servirò, che posero messer Onesto da Bologna e Buonagiunta da Lucca nelle loro canzoni, e messer Cino Falliraggio Avraggio Morraggio Saraggio altresí, da altre lingue tuttavia pigliandolesi, e Risapraggio e Diraggio, che pose il Boccaccio nelle sue; e ciò vi sia, messer Ercole, detto piú tosto perché il sappiate, che l'usiate. Et è ancora stato, che ella è uscita alcuna volta cosí, Torrabbo in vece di Torrò; il che tuttavia schifar si deve, sí come duro e orrido e spiacevole fine.

[3.XXXIX.] Possono dopo queste seguitar le voci che, quando altri commanda e ordina che che sia, si dicono per colui; le quali non sono altre che due in tutti i verbi, e queste sono la seconda del numero del meno e la seconda medesima del numero del piú, con ciò sia cosa che commandare a chi presente non è, propriamente non si può, e a' presenti altre voci non si danno, per chi ordina, che queste. Ora queste due voci ordinanti e commandanti, come io dico, nel tempo che corre mentre l'uom parla, sono quelle medesime, che noi poco fa veramente seconde dicemmo essere di tutti i verbi; fuori solamente quella, che seconda è del numero del meno della prima maniera, la quale in questo modo di ragionari non nella I ma nella A termina, l'una nell'altra vocale tramutando cosí: Ama Porta Vola. E aviene ancora che in alcuni verbi di questa maniera non si muta la I nella A, come io dico, ma solamente si leva via; ne' quali nondimeno la A vi rimane, che vi sta naturalmente, Fa Dà e simili. Sapere tuttavia fuori si sta di questa regola, che ha Sappi, e Avere che fa Abbi, tolte per aventura da altra guisa di voci e poste in questa, e Sofferire altresí che ha Soffera e Soffra, che talora s'è detta nel verso. Levasi di queste voci alle volte la I, che necessariamente vi sta, e dicesi Vien Sostien Pon Muor, in vece di Vieni e Sostieni e Poni e Muori, il che si fa non solo nel verso, ma ancora nelle prose. Co' e Racco', che da' presenti nostri uomini, in vece di Cogli e Raccogli, per abbreviamento si dicono, e Te' in vece di Togli, che pare ancora piú nuovo, e dicesi nella guisa che si dice Ve' in vece di Vedi, è nondimeno uso antico. Leggesi in Dante, che disse:

Dimandal tu, che piú te li avicini,
e dolcemente, sí che parli, accolo,

in vece di dire Accoglilo, cioè Raccoglilo e Ricevilo; e nel Boccaccio, che disse nelle novelle: Te', fa compiutamente quello che il tuo e mio signore t'ha imposto; e nel suo Filocolo: Te' la presente lettera, la quale è secretissima guardiana delle mie doglie; che To' piú gravemente disse il Petrarca:

To' di me quel che tu pòi:

in vece di Togli. È,oltre a questo, che si piglia la prima voce di quelle che senza termine si dicono, e dassi a questa seconda voce del numero del meno, ogni volta che la particella, con cui si niega, le si pon davanti: Non far cosí, Non dire in quel modo, e come disse il Boccaccio, Or non far vista di maravigliarti, né perder parole in negarlo. Nel tempo poi, che a venire è, sono le dette due voci quelle medesime, delle quali dicemmo, Amerai Amerete, le quali questo modo di ragionare piglia da quello, senza mutazione alcuna farvi. Chi poi eziandio volesse le terze voci formare e giugnere a queste, sí potrebbe egli farlo, da quelli due modi di ragionare pigliandole, dell'uno de' quali si ragiona tuttavia, dell'altro si ragionerà poi.

[3.XL.] Le voci che senza termine si dicono, sono pur quelle le quali noi poco fa raccogliemmo, Amare Volere Leggere Udire, dalle quali piú tosto si reggono e formano tutte l'altre di tutto 'l verbo, che elle sieno da alcuna di loro rette e formate. Le quali tutte, non solamente senza la vocale loro ultima si mandan fuori comunemente, o ancora senza l'una delle due consonanti, ciò è delle due R, quando esse ve l'hanno, sí come hanno in Torre, che si disse Tor via in vece di Torre via, e simili; ma è alle volte che elle mutano la consonante loro ultima, richiesta necessariamente a questa voce, nella consonante della voce, in vece di nome posta, che vi stia appresso e dall'accento si regga di lei; sí come la mutarono nel Petrarca, che disse:

E chi noi crede venga egli a vedella.

E, oltre a questo, è ancora alcuna fiata avenuto, che s'è levata via la vocale E penultima, che necessariamente esser vi dee; sí come levò il medesimo Petrarca in questi versi:

Che poria questa 'l Ren, qualor piú agghiaccia,
arder con gli occhi, e rompre ogni aspro scoglio,

in vece di Rompere; e il Boccaccio, il quale Credre in vece di Credere nelle sue terze rime disse. Ponsi questa voce del verbo, quando ella da altro verbo non si regge, sempre col primo caso: Io ho vivendo tante ingiurie fatte a Domenedio, che per farnegli io una ora sulla mia morte, né piú né meno ne farà; e ancora, Una giovane ciciliana bellissima, ma disposta per picciol preggio a compiacere a qualunque uomo, senza vederla egli, passò appresso di lui. E aviene che questa voce senza termine si pone in vece di nome bene spesso nel numero del meno: il Boccaccio: Signor mio, il volere io le mie poche forze sottoporre a gravissimi pesi, m'è di questa infermità stata cagione. Come che il Petrarca la ponesse eziandio nel numero del piú nelle sue rime:

Quanto in sembianti, e ne' tuo' dir mostrasti;

e ancora,

I vostri dipartir non son sí duri.

Il che non si concederebbe per aventura agevolmente nelle prose.

È ancora da sapere, che questa medesima voce senza termine si pone alcuna volta in luogo di quelle, che altramente stanno nel verbo sí come si pose dal Boccaccio: Ma questa mattina niuna cosa trovandosi, di che poter onorar la donna, per amor della quale egli già infiniti uomini onorati avea, il fe' ravedere, in luogo di dire Di che potesse onorar la donna; e altrove, E quivi di fargli onore e festa non si potevano veder sazi, e spezialmente la donna, che sapeva a cui farlosi, in vece di dire A cui il si faceva; o ancora, Qui è questa cena, e non saria chi mangiarla, ciò è Chi la mangiasse; e altrove, E se ci fosse chi fargli, per tutto dolorosi pianti udiremmo, dove Chi fargli medesimamente disse, ciò è Chi gli facesse; o pure ancora, Coteste son cose da farle gli scherani e i rei uomini, il che tanto a dir viene, quanto Che fanno gli scherani.

[3.XLI.] Ora queste voci tutte al tempo si danno, che corre quando altri parla. A quello che già è traccorso, non si dà voce sola e propria, ma compongonsene due, in quella guisa che già dicemmo, e pigliasi questo verbo Avere e ponsi con quello, del quale noi ragionare intendiamo, cosí: Avere amato Aver voluto Aver letto Avere udito, e Udita e Uditi medesimamente. Et è ancora, che la lingua usa di pigliare alle volte quest'altro verbo Essere in quella voce: Se io fossi voluto andar dietro a' sogni, io non ci sarei venuto, e simili. Il che si fa ogni volta che il verbo, che si pon senza termine, può sciogliersi nella voce, che partecipa di verbo e di nome, sí come si può sciogliere in quella voce Andare, che si può dire Se io fossi andato. Là dove se si dicesse Se io avessi voluto andar dietro a' sogni, non si potrebbe poscia sciogliere e dire Se io avessi andato dietro a' sogni, perciò che queste voci cosí dette non tengono. Fassi questo medesimo co' verbi Voluto e Potuto, che si dice Son voluto venire, Son potuto andare. Perciò che Son venuto e Sono andato si scioglie, là dove Ho venuto e Ho andato non si scioglie. Creduto medesimamente sta sotto questa legge anch'egli; al quale tuttavia si giugne la voce, che in vece di nome si pone, dico il Mi o il Ti o pure il Si: Io mi son creduto, e cosí gli altri. Quantunque alcune rade volte è avenuto, che s'è pur detto Essere voluto, in vece semplicemente di dire Aver voluto; sí come disse il medesimo Boccaccio: E quando ella si sarebbe voluta dormire, o forse scherzar con lui, et egli le raccontava la vita di Cristo. Al tempo, che a venire è, si danno medesimamente le composte voci, sí come tuttavia dico: Essere a venire o Essere a pentirsi e somiglianti -.

[3.XLII.] Mentre il Magnifico queste cosí diceva, i famigliari di mio fratello, veduto che già la sera venuta, co' lumi accesi nella camera entrarono e, quelli sopra le tavole lasciati, si dipartirono. Il che vedendo il Magnifico, che già s'era del suo ragionar ritenuto, disse: - Io, Signori, dalla catena de' nostri parlari tirato, non m'avedea che il dí lasciati ci avesse, come ha. - Né io m'era di ciò aveduto, - disse lo Strozza, - ma tuttavia questo che importa? Le notti sono lunghissime, e potremo una parte di questa, che ci sopravene, donar, Giuliano, al vostro ragionamento, che rimane a dirsi. - Bene avete pensato, messer Ercole - disse apresso messer Federigo. - Noi potremo infino all'ora della cena qui dimorarci, e certo sono che messer Carlo l'averà in grado. - Anzi ve ne priego io grandemente, - rispose loro tutti mio fratello - né si vuole per niente che il dire di Giuliano s'impedisca: ottimamente fate -. E cosí detto, e chiamato uno de' suoi famigliari, e ordinato con lui quello che a fare avesse e rimandatolne, e già ciascuno tacendosi, Giuliano in questa guisa riprese a dire:

[3.XLIII.] - Detto s'era del verbo, in quanto con lui semplicemente e senza condizione si ragiona. Ora si dica di lui in quella parte, nella quale si parla condizionalmente: Io vorrei che tu m'amassi e Tu ameresti me, se io volessi e, come disse il Boccaccio, Che ciò che tu facessi, faresti a forza, il che tanto è a dire, quanto Se tu facessi cosa niuna, tu la faresti a forza. Ne' quali modi di ragionari, piú ricca mostra che sia la nostra volgar lingua, che la latina; con ciò sia cosa che ella una sola guisa di proferimento ha in questa parte, e noi n'abbiam due. Perciò che Vorrei e Volessi non è una medesima guisa di dire, ma due; e Amassi e Ameresti, e Facessi e Faresti altresí. Nelle quali due guise una differenza v'ha, e ciò è che in quella, la quale primieramente ha stato e da cui la particella Che piglia nascimento e forma, o ancora la quale dalla condizione si genera e per cagion di lei adiviene, la R propriamente vi sta, Amerei Vorrei Leggerei Sentirei; come che alcuna volta Amere' in vece d'Amerei s'è detto, e Sare' in vece di Sarei, e Potre' in vece di Potrei, e dell'altre. E alcun'altra volta è avenuto, che i poeti ne hanno levata la E del mezzo, il che s'è d'altre voci ancor detto, sí come levò messer Cino, il quale disse:

E chi conosce morte, od ha riguardo
della beltà? ch'ancor non men' guardrei
io, che ne porto ne lo core un dardo.

in quell'altra poscia, che dalla particella Che incomincia o pure che la condizione in sé contiene, la S raddoppiata, Amassi Valessi Leggessi Sentissi, v'ha luogo. Della prima, è la seconda voce del numero del meno questa, Ameresti Vorresti e l'altre, e la terza quest'altra, che con la B raddoppiata sempre termina toscanamente parlandosi, Amerebbe Vorrebbe e Abitrebbe, che disse il Petrarca in vece di Abiterebbe, e gli altri. È il vero che ella termina eziandio cosí, Ameria Vorria, ma non toscanamente e solo nel verso, come che Saria si legga alcuna volta eziandio nelle prose. Poria poscia, che disse il Petrarca in vece di Potria, è ancora maggiormente dalla mia lingua lontano. Nel qual verso ancora cosí termina alle volte la prima voce Io Ameria Io Vorria, in vece d'Amerei e di Vorrei, e cosí quelle degli altri. Da questa terza voce del numero del meno la terza del numero del piú formandosi, serba similmente questi due fini, generale l'uno e questo è Amerebbono Vorrebbono, particolare l'altro, Ameriano Vorriano, e solo del verso. La qual voce, se pure è stata usurpata dalle prose, il che nondimeno è avenuto alcuna fiata, ella due alterazioni v'ha seco recate. L'una è lo avere la vocale A, che nella penultima sillaba necessariamente ha stato, cangiata nella E, e l'altra, lo avere l'accento, che sopra la I dell'antipenultima sempre suole giacere, gittato sopra la E, che penultimamente vi sta; et èssi cosí detto Avriéno Sariéno in vece di Avriano Sariano, e Guarderiéno e Gitteriéno e per aventura degli altri. Raddoppia medesimamente la prima voce del numero del piú la lettera M, Ameremmo Vorremmo e l'altre, del qual numero la seconda appresso cosí fornisce, Amereste Vorreste. Nelle quali voci tutte; aviene alcuna volta quello che si disse che aveniva nelle voci del tempo che è a venire, ciò è che se ne leva l'una sillaba, raddoppiandovisi in quella vece la lettera R, che necessariamente vi sta, Sosterrei e Dilibererei e Disiderrei parimente, in vece di Sostenirei e Dilibererei e Disidererei, dicendosi; e quello che disse Dante:

Chi volesse
salir di notte, fôra egli impedito
d'altrui, o non sarria, che non potesse

in vece di Saliria. Il che parimente in ciascuna persona e in ciascun numero di questi e d'altri verbi si fa, ne' quali può questo aver luogo. Vedrei poscia e Udrei medesimamente nel verso si disse, e Potrei si disse e nel verso e nelle prose, e ciascuna dell'altre loro voci medesimamente si dissero di questo tempo. E ciò basti con la prima guisa aver detto di questi parlari.

[3.XLIV.] Della seconda si può dire, che in tutte le sue voci conviene che si ponga la S raddoppiata, solo che nella seconda voce del numero del piú. Perciò che nella prima e nella seconda voce del numero del meno, ad un modo solo si dice cosí: Amassi Volessi Leggessi Sentissi. Nella terza, in differenza di queste, solo la I si muta nella E, e dicesi Amasse Volesse e cosí gli altri. Di questa seconda voce levò il Petrarca la sillaba del mezzo, Fessi in vece di Facessi, e l'ultima, Aves in vece di Avessi e Fos in vece di Fossi dicendo:

Ch'un foco di pietà fessi sentire
al duro cor ch'a mezza state gela;

e altrove,

Cosí avestú riposti
de' be' vestigi sparsi
ancor tra fiori e l'erba;

e altrove,

Ch'or fostú vivo, com'io non son morta.

Il che si truova usato eziandio dalle prose, nella prima guisa di questi parlari: Sí potrestú avere covelle, non che nulla. E la terza voce mandò fuori il medesimo poeta con la I della seconda:

Né credo già ch'Amor in Cipro avessi,
o in altra riva sí soavi nidi.

La qual cosa nel vero è fuori d'ogni regola e licenziosamente detta, ma nondimeno tante volte usata da Dante, che non è maraviglia se questo cosí mondo e schifo poeta una volta la si ricevesse tra le sue rime. Nella prima voce del numero del piú, cosí si dice, Amassimo Volessimo e l'altre. La terza due fini ha, raddoppiando nondimeno sempre la S nella penultima sillaba: con la R l'uno, e ciò è proprio della lingua, Amassero; con la N l'altro, Amassono, il che non pare che sia cosí proprio né è per niente cosí usato. Andassen Temprassen Addolcissen Fossin Avessin, che nel Petrarca si leggono, sono voci ancora piú fuori della toscana usanza. Dovrebbe essere, per la regola che la S si raddoppia in tutte queste voci, come s'è detto, che ancora nella seconda del numero del piú, della quale rimane a dirsi, ella si raddopiasse e formassesi cosí, Amessate Volessate Leggessate Sentissate, il che è in uso in quello di Roma, che cosí vi ragionano quelle genti. Ma la mia lingua non lo porta, forse perciò che è paruta voce troppo languida il cosí dire, e per questo Amaste Voleste ne fa, e cosí l'altre.

[3.XLV.] Parlasi condizionalmente eziandio in un'altra guisa, la quale è questa: Io voglio che tu ti pieghi, Tu cerchi che io mi doglia, Ella non teme che 'l marito la colga, Coloro stimano che noi non gli udiamo e simili. Nella qual guisa questa regola dar vi posso: che tutte le voci del numero del meno sono quelle medesime in ciascuna maniera, Io ami Tu ami Colui ami, Io mi doglia Tu ti doglia Colui si doglia, Io legga, Io oda, e cosí le seguenti. E quest'altra ancora: che tutti i verbi della prima maniera queste tre voci nelle prose cosí terminano, come s'è detto, nella I, ma nel verso e nella I e nella E elle escono e finiscono parimente. Quelle poi delle altre tre maniere ad un modo tutte escono nella A, Io voglia Tu legga Quegli oda, e il medesimo appresso fanno le rimanenti a queste. Solo il verbo Sofferire esce di questa regola che ha Sofferi. Doglia e Toglia e Scioglia, Dolga e Tolga e Sciolga si son dette parimente da' poeti, e le altre loro voci di questa guisa, Tolgano Dolgano e simili. Né è rimaso che alcuna di queste non si sia alle volte detta nelle prose, nelle quali non solo ne' verbi s'è ciò fatto, ma eziandio in alcun nome, sí come di Pugna, che è la battaglia, la quale s'è detta Punga molte volte; perché meno è da maravigliarsi che Dante la ponesse nel verso. - Cosí avea detto il Magnifico, e tacevasi quasi come a che che sia pensando, e in tal guisa per buono spazio era stato, quando mio fratello cosí disse: - Egli sicuramente pare che cosí debba essere, Giuliano, come voi detto avete, a chi questo modo di ragionare dirittamente considera. Ma e' si vede che i buoni scrittori non hanno cotesta regola seguitata. Perciò che non solo negli altri poeti, ma ancora nel Petrarca medesimo, si leggono altramente dette queste voci:

O poverella mia, come se' rozza;
credo che tel conoschi,

dove Conoschi disse e non Conosca; e ancora,

Pria che rendi
suo dritto al mar,

dove Rendi, in vece di Renda, medesimamente e' disse; e ciò fece egli, se io non sono errato, eziandio in altri luoghi. Il Boccaccio appresso molto spesso fa il somigliante: E tu non par che mi riconoschi e Guardando bene che tu veduto non sii e Acciò che tu di questa infermità non muoi e, ne' versi medesimi suoi,

Deh io ti prego, Signor, che tu vogli,

e in molte altre parti delle sue scritture, per le quali egli si pare, che cotesta regola non abbia in ciò luogo -. E cosí detto si tacque. Laonde il Magnifico appresso cosí rispose: - Egli si pare, e cosí nel vero è, messer Carlo, che in quella parte, della quale detto avete, la regola, che io vi recai, non tenga. E a questo medesimo pensava io testé, e volea dirvi, che solo nella seconda voce del numero del meno, della quale sono gli essempi tutti che voi raccolti ci avete, altramente si vede che s'è usato per gli scrittori, perciò che non solo nella A, ma ancora nella I essi la fanno parimente uscire, come avete detto. Né io in ciò saprei accusare, chi a qualunque s'è l'uno di questi due modi nello scrivere la usasse; ma bene loderei piú, chiunque sotto la detta regola piú tosto si rimanesse -.

[3.XLVI.] Di tanto parve che sodisfatto si tenesse mio fratello. Perché il Magnifico seguitò: - È appresso la prima voce del numero del piú di tutti i verbi quella medesima, della quale da prima dicemmo, Amiamo Vogliamo e l'altre. Sarebbe altresí la seconda voce quella medesima con la seconda della prima guisa che noi dicemmo, se non fosse che vi si giugne la I nel mezzo, e dicesi Amiate ne' verbi della prima maniera, e in quegli della quarta si giugne la A similmente, Udiate. Quelle appresso dell'altre due maniere, dalla terza loro voce del numero del meno formar si possono, giugnendo loro questa sillaba TE: Voglia Vogliate, Toglia Togliate; dico in que' verbi, ne' quali la I da sé vi sta, come sta in questi. Che dove ella non vi sta, conviene che ella vi si porti, perciò che è lettera necessariamente richiesta a questa voce, Legga Leggiate, Segga Seggiate; come che Sediate e Sediamo piú siano in uso della lingua, voci nel vero piú graziose e piú soavi. La terza ultimamente di questo numero, dalla medesima terza del numero del meno trarre si può, questa sillaba NO in tutte le maniere de' verbi giugnendovi. Le quali amendue terze voci a coloro servir possono, a quali giova che, alla guisa delle voci che comandano, si diano eziandio le terze voci che dianzi vi dissi. E perciò che in questi due verbi Stia e Dia, Stea e Dea s'è detto quasi per lo continuo dagli antichi, Stiano e Diano medesimamente Steano e Deano per loro si disse; come che Dei eziandio, oltre a queste, nella seconda del numero del meno, in vece di Dia o pure Dii, si truova dal Boccaccio detta. È nondimeno da sapere, che, in tutte le voci di questa guisa, la consonante P o la B o la C, che semplicemente e senza alcuno mescolamento di consonanti sta nel verbo, vi si raddoppia; ché non Sapia, sí come Sape, la qual tuttavia non è nostra voce, o Capia, se come Cape, che nostra voce è, ma Sappia e Cappia si dice, e le altre altresí, e cosí Abbia Debbia Faccia Taccia, Abbiamo Debbiamo Facciamo Tacciamo e dell'altre. Il quale uso e regola pare che venga per rispetto della I che alle dette consonanti si pon dietro, la quale abbia di raddoppiarnele virtú e forza. E perciò si dee dire, che non solo in questa guisa, ma in quelle ancora che si son dette, anzi piú tosto in ciascuna voce di qualunque verbo, nel quale ciò aviene, si raddoppino le consonanti che io dico; sí come in Abbiamo, che men toscanamente Avemo s'è detto, e in Taccio Tacciono, Piaccio Piacciono; e ancora la G, con ciò sia cosa che Deggio Veggio e dell'altre eziandio si son dette ne' versi. Onde ne nacque, che in questa voce, che ora si dice Sapendo, disser gli antichi Sappiendo quasi per lo continuo, e Abbiendo in vece di dire Avendo molto spesso, e Dobbiendo in vece di dire Dovendo alcuna fiata.

[3.XLVII.] Ora sí come voce condizionata del presente è questa Io ami, cosí è del passato di questa medesima qualità Io abbia amato, e del futuro Io abbia ad amare overo Io sia per amare. E sí come è altresí condizionata quest'altra pure del presente tempo Io amerei, cosí è del passato Io averei amato, e del futuro Io averei ad amare o Io sarei per amare. E ancora sí come è del medesimo presente condizionata voce Io amassi, cosí è del passato Io avessi amato, e del futuro Io avessi ad amare o pure Io fossi per amare; e queste voci tutte parimente si torcono per le persone e pe' numeri, come le loro presenti fanno, delle quali s'è già detto. È oltre acciò un'altra condizionata voce del tempo che a venire è, e insieme parimente di quello che è passato, ciò è che nel futuro il passato dimostra in questo modo, Io averò desinato; al qual modo di dire la condizione si dà, ché si dice: Io averò desinato, quando tu ti leverai. E questa voce tuttavia, se si pone alle volte senza la condizion seco avere, non vi si pon perciò mai, se non di modo che ella vi s'intende, sí come è a dire Allora io averò desinato o A quel tempo io averò fornito il mio viaggio o somigliantemente; ne' quali modi di dire quella voce Allora, o quell'altre A quel tempo, che si dicono, o simili che si dicessero, ci ritornano o ci ritornerebbono in su la condizione, di cui conviene che si sia davanti detto o si dica poi.

[3.XLVII.] Sono oltre a tutte le dette, medesimamente voci di verbo queste, Amando Tenendo Leggendo Partendo, le quali dalla terza voce del numero del meno di ciascun verbo, Ama Tiene Legge Parte, si formano, quella sillaba e quelle lettere, che voi vedete, ciascuna parimente giugnendovi. È il vero che si lascia di loro adietro quella vocale che nella prima voce non istà, ma si piglia dopo lei, sí come si piglia in Tiene e Puote e simili, che Tengo e Posso avere non si veggono. Anzi se ella ancora nella prima voce avesse luogo, sí come ha in questi verbi Nuoto Scuoto e in altri, ella medesimamente ne la scaccia, e Notando Scotendo ne fa in quella vece. Piglia nondimeno la vocale U in questo verbo Odo, in vece dello O, e dicesi Udendo. La quale O tuttavia in altre che nelle tre prime voci del numero del meno e nella terza del numero del piú delle medesime prime voci e di quelle ancora che si dicono condizionalmente, Odo Odi Ode Odono Oda Odano, non ha luogo. È tuttavia da sapere, che ferma regola è di questa maniera di dire, che sempre il primo caso se le dà, Parlando io, Operandol tu; ché Parlando me e Operandol te da niuno si disse giamai. Né voglio io a questa volta che l'essempio da Dante mi si rechi, che disse:

Latrando lui con gli occhi in giú raccolti,

nel qual luogo Lui, in vece di Colui, non può esser detto. Perciò che egli niuna regola osservò, che bene di trascendere gli mettesse, né ha di lui buono e puro e fedel poeta la mia lingua, da trarne le leggi che noi cerchiamo. E se il Petrarca, che osservantissimo fu di tutte, non solamente le regole, ma ancora le leggiadrie della lingua, disse:

Ardendo lei, che come ghiaccio stassi,

è perciò, che egli pose Lei, in vece di Colei, in questo luogo; sí come l'avea posta Dante prima in quest'altro, il quale in ciò non uscí del diritto:

Ma perché lei, che dí e notte fila,
non gli avea tratta ancora la conocchia.

Il che si fa piú chiaro per la voce Che, che seguita nell'un luogo e nell'altro; perciò che tanto è a dire Lei che, come sarebbe a dire Colei la quale.

[3.XLIX.] E questo tanto potrà forse bastare ad essersi detto che del verbo, in quanto con attiva forma si ragiona di lui. In quanto poi passivamente si possa con esso formar la scrittura, egli nuova faccia non ha, sí come ha la latina lingua. Nella qual cosa vie piú spedita si vede essere la nostra, che tante forme non ammette, alle quali appresso piú di regole e piú d'avertimenti faccia mestiero. Ha nondimeno questo di particolare e di proprio; che pigliandosi di ciascun verbo una sola voce, la quale è quella che io dissi che al passato si dà in questo modo Amato Tenuto Scritto Ferito, e con essa il verbo Essere giugnendosi, per tutte le sue voci discorrendo, si forma il passivo di questa lingua; volgendosi, per chi vuole, la detta voce Amato Tenuto e le altre, nella voce ora di femina e ora di maschio, e quando nel numero del meno pigliandola e quando in quello del piú, secondo che altrui o la convenenza o la necessità trae e porta della scrittura. È nondimeno da sapere che, nelle voci senza termine, suole la lingua bene spesso pigliar quelle, che attivamente si dicono, e dar loro il sentimento della passiva forma: La Reina conoscendo il fine della sua signoria esser venuto, in piè levatasi, e trattasi la corona, quella in capo mise a Panfilo, il quale solo di cosí fatto onore restava ad onorare, nel qual luogo Ad onorare si disse, in vece di dire Ad essere onorato, e poco appresso: La vostra virtú, e degli altri miei sudditi farà sí, che io, come gli altri sono stati, sarò da lodare, in vece di dire Sarò da essere lodato. Vassi Stassi Caminasi Leggesi e simili, sono appresso verbi, che si dicono senza voce alcuna seco avere, che o nome sia o in vece di nome si ponga altresí, come si dicono nel latino, e torconsi come gli altri per li tempi e per le guise loro, tuttavia nella terza voce solamente del numero del meno, dove ella può aver luogo. De' quali non fa uopo che si ragioni altramente, se non si dice, che quando essi sono d'una sillaba, come son questi Va Sta, sempre si raddoppia la S che vi si pone appresso, Vassi Stassi. E ciò aviene per cagion dell'accento, che rinforza la sillaba; il che non aviene in quegli altri.

[3.L.] Ragionare oltre a questo de' verbi, che sotto regola non istanno, non fa lungo mestiero; con ciò sia cosa che essi son pochi, e di poco escono; sí come esce Vo, che Ire e Andare ha per voce senza termine parimente, e del quale le voci tutte del tempo, che corre mentre l'uom parla, a questo modo si dicono, Va Vada. Le altre tutte, da questa, che io dissi Andare, formandosi, cosí ne vanno, Andava Andai Anderò e piú toscanamente Andrò e Andrei. Gire e Gía e Gío e Girei e Gito e simili sono voci del verso, quantunque Dante sparse l'abbia per le sue prose. Esce ancor Sono, che Son e So' alle volte s'è detto e nel verso e nelle prose, e Se' in vece di Sei nella seconda sua voce, del quale è la voce senza termine questa Essere, che con niuna delle altre non s'aviene, se non s'avien con questa Essendo, che si dice eziandio Sendo alcuna volta nel verso. Il qual verbo ha nel passato Fui e Sono stato e Suto, che vale quanto Stato; e nella terza voce del numero del piú Furono, che Fur s'è detto troncamente, e Furo, che non cosí troncamente disse il Petrarca. Quantunque Stato è oltre acciò la voce del passato, che di verbo e di nome partecipa, e torcesi per li generi e per li numeri. Fue, che disse il medesimo Petrarca, in vece di Fu, voce pure del verso, ma non sí che ella non sia eziandio alle volte delle prose, è con quella licenza detto, con la quale molti degli altri poeti a molte altre voci giunsero la medesima E, per cagione della rima, Tue Piue Sue Giue Dae Stae Udie Uscie, e alla terza voce ancora di questo stesso verbo, Ee, che disse Dante, e Mee e ad infinite somiglianti. Dalla quale troppa licenza nondimeno si rattenne il medesimo Petrarca, il quale, oltre a questa voce Fue, altro che Die, in vece di , non disse di questa maniera; e fu egli in ciò piú guardingo ne' suoi versi, che Giovan Villani non è stato nelle sue prose, con ciò sia cosa che in esse Hae e Vae e Seguie e Cosie si leggono. Quantunque Die s'è detto anticamente alcuna volta eziandio nelle prose, perciò che dicevano Nel die giudicio, in vece di dire Nel dí del giudicio. Di questo verbo pose il Boccaccio la terza voce del numero del meno È con quello del piú ne' nomi, Già è molt'anni dicendo. Le terze voci di lui, che si danno al tempo che è a venire, in due modi si dicono, Sarà e Fia e Saranno e Fiano; e poi nel tempo che corre, condizionalmente ragionandosi, Sia e Siano e Fora, voce del verbo, di cui l'altr'ieri si disse, che vale quanto Sarebbe, e Saria quello stesso, che si disse spesse volte Sarie nelle prose; delle quali sono parimente voci Fie e Fieno, Sie e Sieno, in vece delle già dette. Ha il detto verbo quello, che di niuno altro dir si può, e ciò è, che la prima voce sua del numero del meno e la terza di quello del piú sono quelle stesse. Esce Ho anch'egli, in quanto da Avere non pare che si possa ragionevolmente formare cosí questa voce. Piú dirittamente ne viene Abbo, che disse Dante, e degli altri antichi; ma ella è voce molto dura, e perciò ora in tutto rifiutata e da' rimatori e da' prosatori parimente. Non è cosí rifiutata Aggio, che ne viene men dirittamente, sí come voce non cosí rozza e salvatica, e per questo detta dal Petrarca nelle sue canzoni, tolta nondimeno da' piú antichi, che la usarono senza risguardo; dalla quale si formò Aggia e Aggiate, che il medesimo poeta nelle medesime canzoni disse piú d'una volta. Dalla Ho, prima voce del presente tempo molto usata, formò messer Cino la prima altresí del passato Ei, quando e' disse:

Or foss'io morto, quando la mirai,
che non ei poi, se non dolore e pianto,
e certo son ch'io non avrò giamai.

[3.LI.] Esce So, che alcuna volta si disse Saccio, sí come si disse dal Boccaccio in persona di Mico da Siena: Temo morire, e già non saccio l'ora, la qual voce tuttavia non è della patria mia; e che ha nella terza voce Sa, e alcuna volta Sape, di cui si disse, per terza voce, e Sapere per voce senza termine. Del qual verbo piú sono ad usanza Saprò e Saprei, che Saperò e Saperei non sono. E questo parimente dire si può di tutte l'altre voci di questi tempi. Esce Fo, che si disse ancora Faccio da' poeti, sí come la disse messer Cino, di cui ne viene Face, poetica voce ancora essa, della qual dicemmo, e Facessi; le quali tutte da Facere, di cui si disse, voce senza termine usata nondimeno in alcuna parte della Italia, piú tosto è da dire che si formino. Escono Riedi e Riede, da' poeti solamente dette, se Dante l'una non avesse recata nelle sue prose, e in tanto ancora escono maggiormente, in quanto elle sole, che in uso siano, cosí escono senza altra. È il vero che 'l medesimo Dante nella sua Comedia, e messer Cino nelle sue canzoni, e il Boccaccio nelle sue terze rime, Redire alcuna volta dissero; ma questa pose Dante eziandio nelle sue prose, e Pietro Crescenzo altresí, e oltre acciò Rediro, in vece di Tornarono nell'istoria di Giovan Villani, e Redí, in vece di Tornò, in piú antiche prose ancora di queste si leggono. Tengo Pongo Vengo e simili, non si può ben dire che escano, come che essi, nella voce senza termine e nella maggior parte dell'altre, la G non ricevano. Escono per aventura degli altri, de' quali, perciò che sono piú agevoli, non ha uopo che si ragioni. E sono di quelli ancora, che poche voci hanno, sí come è Cale, che altre voci gran fatto non ha, se non Calse Caglia Calesse Calere e alcuna volta Caluto e radissime volte Calea e Calerà e antichissimamente Carrebbe, in vece di Calerebbe.

[3.LII.] Sono, oltre a questi, ancora verbi della quarta maniera, che escono in alquante loro voci, e tutti ugualmente, Ardisco Nutrisco Impallidisco e degli altri; con ciò sia cosa che con la loro voce senza termine, Ardire Nutrire Impallidire, questa voce non ha somiglianza. Escono tuttavia nelle loro tre primiere voci del numero del meno, e nell'ultima di quello del piú, Ardisco Ardischi Ardisce Ardiscono, e nelle tre del numero del meno, di quelle che all'uno de' due modi condizionalmente si dicono, che sono nondimeno tutte una sola, Ardisca, o pur due, perciò che la seconda fa eziandio cosí, Ardischi, come si disse; e nella terza parimente del piú, Ardiscano. Quantunque i poeti hanno eziandio regolatamente alle volte usato alcune di queste medesime voci; perciò che Fiere dissero in vece di Ferisce, e Pato e Pate in vece di Patisco e Patisce, e Pero e Pere e Pera e Nutre e Langue e per aventura dell'altre.

[3.LIII.] Deesi, perciò che detto s'è del verbo e per adietro detto s'era del nome, dire appresso di quelle voci che dell'uno e dell'altro col loro sentimento partecipano, e nondimeno separata forma hanno da ciascun di questi, come che ella piú vicina sia del nome che del verbo. Ma egli poco a dire ci ha, con ciò sia cosa che due sole guise di queste voci ha la lingua e non piú. Perciò che bene si dice Amante Tenente Leggente Ubidiente e Amato Tenuto Letto Ubidito, ma altramente non si può dire; perciò che questa voce Futuro, che la lingua usa, s'è cosí tolta dal latino, senza da sé aver forma. Formasi l'una di queste voci da quella voce del verbo, che si dice Amando Tenendo, di cui dicemmo; l'altra è quella stessa voce del passato di ciascun verbo, la quale col verbo Avere o col verbo Essere si manda fuori, di cui medesimamente dicemmo. Di queste due voci, come che l'una paia voce, che sempre al tempo dare si debba, che corre mentre l'uom parla, Amante Tenente, e l'altra, che è Amato Tenuto, medesimamente sempre al tempo che è passato, nondimeno egli non è cosí. Perciò che elle sono amendue voci, che a quel tempo si danno, del quale è il verbo che regge il sentimento: La donna rimase dolente oltra misura, il che tanto è a dire quanto La donna si dolse, perciò che Rimase è voce del passato. E La donna rimarrà dolente se tu ti partirai, dove rimarrà dolente vale come se dicesse Si dorrà, perciò che Rimarrà, del tempo che è a venire, è voce. E ancora, La donna amata dal marito non può di ciò dolersi, nel qual luogo Amata tanto è, quanto a dire La quale il marito ama, e cosí fia del presente, perciò che è del presente voce Può dolersi. O pure La donna amata dal marito non poteva di ciò dolersi, nel qual dire Amata è in vece di dire La quale il marito amava, perciò che Poteva è voce del pendente altresí. E cosí per gli altri tempi discorrendo, si vede che aviene di questa qualità di voci, le quali possono darsi parimente a tutti i tempi.

[3.LIV.] È oltre acciò da sapere quello che tuttavia mi sovien ragionando della detta voce del passato, Restituito Messo e somiglianti, la quale alle volte si dà alla femina, quantunque si mandi fuori nella guisa che si dà al maschio, e, posta nel numero del meno, dassi a quello del piú similmente. Il che si fece non solamente da' poeti, che dissero:

Passato è quella, di ch'io piansi e scrissi,

e altrove,

Che pochi ho visto in questo viver breve,

e somigliantemente assai spesso; ma da' prosatori ancora, e dal Boccaccio in moltissimi luoghi e, tra gli altri, in questo: I gentili uomini, miratola e commendatola molto, e al cavaliere affermando che cara la doveva avere, la cominciarono a riguardare, e in quest'altro: E cosí detto, ad un'ora messosi le mani ne' capelli, e rabbuffatigli e stracciatigli tutti, e appresso nel petto stracciandosi i vestimenti, cominciò a gridar forte. Nel qual modo di ragionare si vede ancor questo, che si dice Miratola e commendatola, in vece di dire Avendola mirata e commendata, e cosí Messosi le mani ne' capelli in vece di dire Avendosi le mani ne' capelli messe. La qual guisa e maniera di dire, sí come vaga e brieve e graziosa molto, fu da' buoni scrittori della mia lingua usata non meno che altra, e dal medesimo Boccaccio sopra tutti. Il quale ancora piú oltre passò di questa guisa di dire, perciò che egli disse eziandio cosí, nella novella di Ghino di Tacco, assai leggiadramente, Concedutogliele il Papa, in vece di dire Avendogliele il Papa conceduto. Né oltre a questo fie per aventura soverchio il dirvi, messer Ercole, che quando la detta voce del passato si pone assolutamente con alcun nome, al nome sempre l'ultimo caso si dia, sí come si dà latinamente favellando, Caduto lui Desto lui; come diede Giovan Villani, che disse: Incontanente, lui morto, si partirono gli Aretini, e altrove, Avuto lui Milano e Chermona, piú grandi signori della Magna e di Francia il vennero a servire; e come diede il medesimo Boccaccio, che disse: Voi dovete sapere, che general passione è di ciascun che vive, il vedere varie cose nel sonno; le quali, quantunque a colui che dorme, dormendo tutte paian verissime, e desto lui, alcune vere, alcune verisimili. Fassi parimente ciò eziandio nella voce del presente di questa maniera: E non potendo comprendere costei in questa cosa aver operata malizia né esser colpevole, volle lei presente vedere il morto corpo -.


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Edizione telematica  a cura di: Claudio Paganelli, 1999
Revisione, Edizione HTML e impaginazione a cura di: Giuseppe Bonghi, Aprile 1999
Tratto da: Pietro Bembo, Prose della volgar lingua, Gli Asolani, Rime, a cura di Carlo Dionisotti, TEA Tascabili Editori Associati, Milano 1997

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Ultimo aggiornamento: 21 aprile, 1999