Pietro Bembo
Prose della volgar lingua
DI MESSER PIETRO BEMBO
A MONSIGNOR MESSER GIULIO CARDINALE DE' MEDICI
DELLA VOLGAR LINGUA
TERZO LIBRO
[3.I.]
Questa città, la quale per le sue molte e riverende reliquie, infino a questo dí a noi dalla ingiuria delle nimiche nazioni e del tempo, non leggier nimico, lasciate, piú che per li sette colli, sopra i quali ancor siede, sé Roma essere subitamente dimostra a chi la mira, vede tutto il giorno a sé venire molti artefici di vicine e di lontane parti, i quali le belle antiche figure di marmo e talor di rame, che o sparse per tutta lei qua e là giacciono o sono publicamente e privatamente guardate e tenute care, e gli archi e le terme e i teatri e gli altri diversi edificii, che in alcuna loro parte sono in piè, con istudio cercando, nel picciolo spazio delle loro carte o cere la forma di quelli rapportano, e poscia, quando a fare essi alcuna nuova opera intendono, mirano in quegli essempi, e di rassomigliarli col loro artificio procacciando, tanto piú sé dovere essere della loro fatica lodati si credono, quanto essi piú alle antiche cose fanno per somiglianza ravicinare le loro nuove; perciò che sanno e veggono che quelle antiche piú alla perfezion dell'arte s'accostano, che le fatte da indi innanzi. Questo hanno fatto piú che altri, monsignore messer Giulio, i vostri Michele Agnolo fiorentino e Rafaello da Urbino, l'uno dipintore e scultore e architetto parimente, l'altro e dipintore e architetto altresí; e hannolo sí diligentemente fatto, che amendue sono ora cosí eccellenti e cosí chiari, che piú agevole è a dire quanto essi agli antichi buoni maestri sieno prossimani, che quale di loro sia dell'altro maggiore e miglior maestro. La quale usanza e studio, se, in queste arti molto minori posto, e come si vede giovevole e profittevole grandemente, quanto si dee dire che egli maggiormente porre si debba nello scrivere, che è opera cosí leggiadra e cosí gentile, che niuna arte può bella e chiara compiutamente essere senza essa. Con ciò sia cosa che e Mirone e Fidia e Apelle e Vitruvio, o pure il vostro Leon Battista Alberti, e tanti altri pellegrini artefici per adietro stati, ora dal mondo conosciuti non sarebbono, se gli altrui o ancora i loro inchiostri celebrati non gli avessero, di maniera che vie piú si leggessero, della loro creta o scarpello o pennello o archipenzolo le opere, che si vedessero. Quantunque non pur gli artefici, ma tutti gli altri uomini ancora di qualunque stato, essere lungo tempo chiari e illustri non possono altramente. Anzi eglino tanto piú chiari sono e illustri ciascuno, quanto piú uno, che altro, leggiadri scrittori ha de' fatti e della virtú sua. Perché ragionevolmente Alessandro il Magno, quando alla sepoltura d'Achille pervenne, fortunato il chiamò, cosí alto e famoso lodatore avendo avuto delle sue prodezze; quasi dir volesse, che egli, se bene molto maggiori cose facesse, non andrebbe cosí lodato per la successione degli uomini, come già vedeva essere ito Achille, per lo non avere egli Omero che di sé scrivesse, come era avenuto d'avere allui. Il che se cosí è, che essere per certo si vede, facciamo ancor noi, i quali agli studi delle lettere donati ci siamo e in essi ci trastulliamo, quello stesso che far veggiamo agli artefici che io dissi, e per le imagini e forme, che gli antichi uomini ci hanno de' loro animi e del lor valore lasciate, ciò sono le scritture, vie piú che tutte le altre opere bastevoli, diligentemente cercando, a saper noi bene e leggiadramente scrivere appariamo; non dico nella latina lingua, la quale è in maniera di libri ripiena che oggimai vi soprabondano, ma nella nostra volgare, la quale oltra che piú agevolezza allo scrivere ci presterà, eziandio ne ha piú bisogno. Con ciò sia cosa che quantunque dal suo cominciamento infino a questo giorno non pochi siano stati quelli che v'hanno scritto, pochi nondimeno si vede, che sono di loro e in verso e in prosa i buoni scrittori.[3.II.]
E io, acciò che gli altri piú volentieri a questa opera si mettano, veggendo essi da principio tutta la strada per la quale a camminare hanno, che per adietro non s'è veduta, dico, che essendosi il terzo giorno medesimamente a casa mio fratello raunati gli tre, de' quali negli altri libri si disse, per fornire il ragionamento, ad utilità di messer Ercole due dí tra loro avuto, e già d'intorno al fuoco a seder postisi, disse messer Federigo al Magnifico: - Io veggo, Giuliano, che voi piú aventurato sete oggi, di quello che messer Carlo e io questi due dí stati non siamo, perciò che il vento, che infino a stamane cosí forte ha soffiato, ora si tace e niuno strepito fa, quasi egli a voi piú cheta e piú riposata udienza dar voglia, che a noi non ha data -. A cui il Magnifico cosí rispose: - Voi dite il vero, messer Federigo, che ora nessun vento fiede; di che, io testé venendo qui con messer Ercole, amendue ne ragionavamo nella mia barchetta, che piú agevolmente oggi, che ieri e l'altr'ieri non fece, ci portava oltre per queste liquide vie. Ma io sicuramente di ciò mestiero avea, a cui dire convien di cose sí poco per sé piacenti, che se romor niuno si sentisse, appena che io mi creda che voi udir mi poteste, non che voi badaste ad apprendere ciò che io dicessi. Come che tutto quello che io dirò, a messer Ercole fia detto, a cui fa luogo queste cose intendere, non a voi o a messer Carlo, che ne sete maestri. Anzi voglio io, che la condizione ieri da me postavi e da voi accettata, voi la mi osserviate, d'aiutarmi dove io mancassi; affine che per noi a messer Ercole non si manchi, il quale di ciò cosí disiderosamente ci ha richiesti e pregati -. Il che detto e dagli due consentito, piú perché il Magnifico di dire non si rimanesse se essi il ricusassero, che perché lo stimassero a niun bisogno, esso cosí cominciò a parlare:[3.III.]
- Quello, che io a dirvi ho preso, è, messer Ercole, se io dirittamente stimo, la particolare forma e stato della fiorentina lingua, e di ciò che a voi, che italiano siete, a parlar toscanamente fa mestiero; la qual somma, perciò che nelle altre lingue in piú parti si suole dividere, di loro in questa, partitamente e anco non partitamente, sí come ad uopo mi verrà, vi ragionerò. E per incominciar dal Nome, dico che, sí come nella maggior parte delle altre lingue della Italia, cosí eziandio in quella della città mia, i nomi in alcuna delle vocali terminano e finiscono sempre; sí come naturalmente fanno ancora tutte le toscane voci, da alcune pochissime in fuori. E questi nomi altro che di due generi non sono: del maschio e della femina. Quello che da' Latini neutro è detto, ella partitamente non ha; sí come non hanno eziandio le altre volgari, e come si vede la lingua degli Ebrei non avere, e come si legge che non avea quella de' Cartaginesi negli antichi tempi altresí. Usa tuttavia gli due, nella guisa che poi si dirà, e di loro se ne serve in quella vece. Ne' maschi il numero del meno piú fini suole avere. Perciò che egli e nella O termina, che è nondimeno comunemente fine delle altre lingue volgari, e nella I, che proprio fine è della toscana in alquante di quelle voci, che nomi propriamente si chiamano, Neri Geri Rinieri e simili. Perciò che quelli delle famiglie che cosí finiscono, Elisei Cavalcanti Buondelmonti, sono tolti dal numero del piú e non da quello del meno. Termina eziandio nella E, nella quale, tra gli altri generalmente hanno fine que' nomi, che o maschi o di femina o pure neutri che essi siano, nel secondo loro caso d'una sillaba crescono nel latino, Amore Onore Vergine Margine e questo, che io Genere novellamente chiamo, e somiglianti. Il qual fine, quantunque ragionevolmente cosí termini, perciò che usandosi volgarmente una sola forma e qualità per tutti i casi, meglio fu il pigliar quel fine che a piú casi serve nel latino, che quello che serve a meno, nientedimanco hanno gli scrittori alcuna volta usato eziandio il fine del primo caso; sí come fe' Dante che disse Grando, e il Petrarca che disse Pondo e altre, e il Boccaccio che Spirante turbo disse. Oltra che s'è alcuna volta detto Imago e Image da' migliori poeti. Ma tornando alle voci del maschio, egli termina nella E ancora molto toscanamente in molti di que' nomi, li quali comunemente parlandosi nella O finiscono, Pensiere Sentiere Destriere Cavaliere Cinghiare Scolare e somiglianti. Termina ultimatamente ancora nella A, che tuttavia, fuori solamente alcuni pochissimi, è fine di nomi piú tosto d'uffici o d'arti o di famiglie, o per altro accidente sopraposti, che altro. Quantunque a questo nome d'ufficio, che si dice Podestà, diede il Boccaccio l'articolo della femina, quando e' disse: Giudice della Podésta di Forlimpopoli, sí come gli aveano altri toscani prosatori dato avanti allui; e posegli oltre acciò l'accento sopra la sillaba del mezzo, imitando in questo non pure altri scrittori, ma Dante ancora, che fe' nel suo Inferno:Quando verrà lor nemica podésta.
Nella U niuno toscano nome termina, fuori che Tu e Gru; la qual voce cosí si dice nel numero del piú, come in quello del meno, la Gru le Gru. La Virtú e le Virtú, che si dicono, e dell'altre, non sono voci compiute. Ma tuttavolta, in qualunque delle vocali cada il numero del meno nelle voci del maschio, quello del piú sempre in I cade -.
[3.IV.]
Detto che cosí ebbe il Magnifico, per picciolo spazio fermatosi e poscia passare ad altro volendo, mio fratello cosí prese a dire: - Egli non si pare che cosí sia, Giuliano, come voi dite, che nella I tutti i nomi del maschio forniscano, i quali nel numero del piú si mandan fuori, almeno ne' poeti; con ciò sia cosa che si legga:Togliendo gli anima', che sono in terra;
e ancora,
Che v'eran di lacciuo' forme sí nove;
dove si vede che Anima' e Lacciuo' sono voci del numero del piú, e nondimeno nella I non forniscono. E similmente in ogni poeta ve ne sono dell'altre, e in questi medesimi altresí. Dunque affine che messer Ercole, a questi versi o ad altri a questi simili avenendosi, non istea sospeso, scioglietegli questo picciol dubbio e fategliele chiaro -. Perché il Magnifico, a queste parole rispondendo, cosí disse: - Queste voci, messer Ercole, che ora il Bembo da Dante e dal Petrarca ci reca, voci intere non sono, anzi son fatte tali dalla licenza de' poeti. La quale da questa parte nondimeno è leggiera; ché il tor via di loro le due ultime lettere niuna disparutezza si vede che genera, e per aventura direbbe alcuno, che vi si giugne e accresce vaghezza cosí facendo. E io vi ragionava delle intere, che, in queste due, Animali e Lacciuoli sono, delle quali le due ultime lettere sono sí deboli, che poco perdono, se pure non acquistano, le dette voci da questo canto. E sono tuttavia di quelli che nella scrittura niente vogliono che si lievi di loro, anzi si lascino intere; quantunque poscia, leggendo il verso, cosí le mandan fuori, come voi fatto avete. Il che si fa medesimamente in quelle voci, che con tre vocali finiscono, le quali tutte interamente si scrivono, e nondimeno alle volte si leggono e proferiscono non intere:
Non era vinto ancora Montemalo
dal nostro Uccellatoio; che com'è vinto
nel montar su, cosí sarà nel calo
e ancora,
Lasciala tal, che di qui a mill'anni
ne lo stato primaio non si rinselva.
Né solo Dante, ma gli altri toscani poeti ancora questa licenza si presero in altre cosí fatte voci. - Niuna licenza, - disse allora acciò framettendosi messer Federigo - che nuova fosse, si presero i vostri poeti, Giuliano, nel cosí fare come avete detto; perciò che vie di lor prima i Provenzali cosí facevano, che Gioia Noia essi senza la vocale ultima scriveano, e d'una sillaba essere la ne facevano. E ciò usavano in quelle voci, che da noi con le tre vocali, nella detta guisa favellando, si mandan fuori. Il che da essi togliendo, sí come da loro maestri, disse Lupo degli Uberti in un verso rotto delle sue canzoni cosí:
Ch'altra gioia non m'è cara;
e il re Enzo in un altro:
Per meo servir non veggio,
che gioia mi se n'accresca;
e il Boccaccio in uno intero delle sue ballate medesimamente cosí:
Onde 'l viver m'è noia, né so morire.
E dell'altre voci ancora dissero i nostri poeti di questa maniera:
Ecco Cin da Pistoia, Guitton d'Arezzo,
e simili -. E questo detto, si tacque.
[3.V.]
Di che il Magnifico, dopo altre parole sopra ciò dallui e da mio fratello dette, che il dire di messer Federigo raffermavano, nel suo ragionar si rimise, cosí dicendo: - Nelle voci della femina, il numero del meno nella A o nella E, quello del piú nella E o nella I suole fornire, con una cotal regola, che porta che tutte le voci finienti in A nel numero del meno, in E finiscano in quello del piú, e le finienti in E in quello del meno, in I poi finiscano nell'altro; levandone tuttavolta la Mano e le Mani, che fine di maschio ha nell'un numero e nell'altro, e alquante voci, che sotto regola non istanno, tolte cosí da altre lingue, Dido Saffo e simili. E se, in questa voce Fronda, il numero del piú ora la E e quando la I aver si vede per fine, è perciò che ella, in quello del meno, i due fini dettivi della A e della E ha medesimamente; perciò che Fronde, non meno che Fronda, si legge nel primier numero. E a tal condizione sono alcune altre voci, Ala Arma Loda Froda, perciò che e Ale e Arme e Lode e Frode si sono eziandio nel numero del meno dette. In maniera che dire si può terminatamente cosí, che tutte quelle voci di femina, che in alcuno de' due numeri due di questi fini aver si veggono, di necessità i due altri hanno eziandio nell'altro, come che non ciascuno di questi fini sia in uso ugualmente o nella prosa o nel verso; levandone tuttavia quelle voci, che per accorciamento dell'ultima sillaba che si gitta, cosí nel numero del piú come in quello del meno si dicono nelle prose: la Città le Città, di cui sono i diritti, la Cittate le Cittati, che dire si sogliono alle volte nel verso. Nel qual verso ancora mutano i poeti le piú volte la T, consonante loro ultima, nella D, Cittade e Cittadi dicendo. Il che tutto adiviene medesimamente in moltissime altre voci di questa maniera, e in alquante ancora, che di questa maniera non sono, e sono cosí del maschio come della femina, Matre Patre, che Madre e Padre si dissero, e Piè in vece di Piede e di Piedi e altre.[3.VI.]
Le voci poi, che sono del neutro nel latino, e io dissi nel volgare non aver proprio luogo, l'articolo e il fine di quelle del maschio servano nel numero del meno. In quello del piú, usano con l'articolo della femina un proprio e particolare loro fine, che è in A sempre, e altramente non giamai. Con la qual regola si vede che parlò il Boccaccio, quando e' disse: Messo il capo per la bocca del doglio, che molto grande non era, e, oltre a quello, l'uno delle braccia con tutta la spalla; e non disse l'una delle braccia o altramente. Né dico io ciò, perché tutti quelli nomi, che sono nel latino neutri, usino di sempre cosí fare nel toscano, che no 'l fanno; con ciò sia cosa che moltissimi di loro la terminazione e l'articolo delle voci del maschio ritengono in amendue i numeri, sí come sono il Regno, il Segno, il Tormento, il Sospiro, il Bene, il Male, il Lume, il Fiume, e i Regni, i Segni, i Tormenti, i Sospiri, i Beni, i Mali, i Lumi, i Fiumi. Ma dicolo perciò che qualunque voce si dice neutralmente nel numero del piú nella nostra lingua, ella quel tanto a differenza dell'altre usa e serva continuo, che io dissi: le Fila, le Ciglia, le Ginocchia, le Membra, le Fata, le Peccata, e quella che una volta usò il Petrarca neutralmente nel sonetto, che ieri messer Federigo ci recitò,Di vaga fera le vestigia sparse.
Il che aviene ancora di molte di quelle voci, che maschiamente si dicono nel latino, le Dita, le Letta, le Risa, e simili; come che elle vie piú tosto della prosa siano, che del verso. Di queste e di quelle voci, se molte eziandio maschiamente si dicono, i Letti, i Diti, i Vestigi, i Peccati, è ciò piú tosto da altre lingue tolto, che egli natía forma sia di quella della mia città; il che da questo veder si può, che egli è piú tosto uso del verso che della prosa, e degli ultimi poeti che de' primieri: e ultimo chiamo il Petrarca, dopo 'l quale non si vede gran fatto che sia veruno buon poeta stato infino a' nostri tempi. Quantunque gli antichi Toscani un altro fine ancora nel numero del piú, in segno del loro neutro, assai sovente usarono nelle prose, e alcuna volta nel verso; sí come sono Arcora Ortora Luogora Borgora Gradora Pratora e altri. Né solamente i piú antichi, o pure Dante, che disse Corpora e Ramora, dalla qual voce s'è detto Ramoruto; ma il Boccaccio ancora, che nelle sue novelle e Latora e Biadora e Tempora disse.
[3.VII.]
E questo che fin qui s'è detto, può, come io aviso, essere a bastanza detto di que' nomi, i quali, col verbo posti, in piè soli star possono e reggonsi da sé senza altro. Di quelli appresso, che con questi si pongono, né stato hanno altramente, dire si può che le voci del maschio due fini solamente hanno: la O e la E nel numero del meno, Alto Puro Dolce Lieve, e la I in quello del piú, Alti Lievi; e quelle della femina due altri: la A e la medesima E, che ad amendue questi generi è comune, Alta Pura Dolce Lieve, nel numero del meno, e la E e la I in quello del piú, Pure Lievi; levandone la voce Pari, che cosí in ciascun genere e in ciascun caso e in ciascun numero si disse, come che Pare si sia alcuna volta detto da' poeti nel numero del meno; e quelle ancora con le quali si numera, i Due, che Duo si disse piú spesso e piú leggiadramente nel verso, e le Due, e Tre e Sei e Dieci, che Diece piú anticamente si disse, e Trenta e Cento e gli altri, i quali non si torcono; come che Dante torcesse la voce Tre, e Trei ne facesse nel suo Inferno. Et è sovente che nelle voci del maschio si lascia la O e la E nel numero del meno, in que' nomi che la R v'hanno per loro ultima consonante, Pensier Primier e Amar e Dur, che una volta disse il Petrarca, Miglior Piggior; o in quelli che per consonante loro ultima v'hanno la N, Van Stran Pien Buon, i quali tutti eziandio nel numero del piú si son detti. È il vero, che Fier in vece di Fiero, e Leggier in vece di Leggieri, e Signor in vece di Signori, o pure ancora Peregrin in vece di Peregrini, che disse Dante:Ma noi sem peregrin come voi sete,
non si direbbon cosí spesso nelle prose come nel verso. Non si fa cosí nelle voci della femina, che la A vi si lasci medesimamente, perciò che ella non vi si lascia giamai. Lasciavisi alle volte la E, in quelle che v'hanno la L, e dicesi Debil vista, Sottil fiamma, nel numero del meno; e la I alcune poche volte in quello del piú: il Petrarca,
Con voce allor di sí mirabil tempre.
Et è poi, che si lascia in quello del piú eziandio la L, nelle voci del maschio e della femina; sí come la lasciò il medesimo Petrarca:
Qua' figli mai, qua' donne,
furon materia a sí giusto disdegno?
e ancora,
Da ta' due luci è l'intelletto offeso;
e il Boccaccio, che disse:
Con le tue armi e co' crude' roncigli
e ancora,
Ne' padri e ne' figliuo',
in vece di dire Crudeli e Figliuoli. Né pure la medesima O, di cui sopra si disse, ma ancora tutta intera la sillaba si lascia in questa voce, Santo, maschilemente detta, e in quest'altre, Prode Grande; e piú ancora che la intera sillaba in queste, Belli e Quelli, vi si lascia, e in Cavalli la lasciò il Boccaccio, che disse Cava' nella sua Teseide. Come che la voce Grande, troncamente detta, non piú al maschio si dà che alla femina. Nulla, allo 'ncontro, si lascia di quelle voci, che con piú consonanti empiono la loro ultima sillaba, Destro Silvestro Ferrigno Sanguigno, e somiglianti. Mutasi alcuna volta della voce Grave la vocal primiera, e fassene Greve nel verso.
[3.VIII.]
Dànnosi oltre acciò, per chi vuole, in compagne di tutte queste e simili voci, quelle ancora che da' verbi della prima maniera si formano; sí come si forma Impiegato Disagiato Ingombrato, alquante delle quali usarono gli scrittori d'accorciare nelle rime, un altro fine dando loro. Perciò che, in vece di questa, Ingombrato che io dissi e Sgombrato che si dice, essi alle volte dissero Ingombro Sgombro; e in vece di Macerato, Macero; e di Dubbioso, Dubbio; e di Cercato, Cerco; e di Separato, Sevro, sí come quelli che Severare in vece di Separare dicevano, e nelle prose altresí, e Scieverare e Discieverare ancora piú anticamente; e di Inchinato, Inchino, e per aventura dell'altre; e i prosatori parimente, che ancora essi Cerco e Desto e Uso e Vendico e Dimentico e Dilibero, in vece di Cercato e Destato e Usato e Vendicato e Dimenticato e Diliberato, dissero. Il che fecero gli antichi Toscani alle volte ancora nelle voci che da sé si reggono, Santà e Infertà in vece di Sanità e Infermità dicendo. Lasso e Franco e Stanco e per aventura dell'altre, in vece delle compiute, sono cosí in usanza, che piú tosto propriamente dette paiono che altramente. Usarono nondimeno i detti antichi alcune di queste voci, pure in luogo di voci che da sé si reggono; sí come Caro in vece di Caristia, che dissero: Nel detto anno in Firenze ebbe grandissimo caro; e somigliantemente dissero: Scarso di vittovaglia, in vece di Scarsità; e Faccendo molesto alla città, quando cresciea, e Che infino a que' tempi stavano in molte dilizie e morbidezze e tranquillo, in vece di dire Molestia e Tranquillità; e, quello che pare piú nuovo, Per lunga dura in vece di Per lunga durata, alcuna volta si disse. Usarono eziandio alquante di queste voci, in luogo di quelle particelle, che a' nomi si danno e per casi o per numeri o per generi non si torcono, sí come si vede non solo ne' poeti, che dissero:Qui vid'io gente, piú ch'altrove, troppa,
in vece di dire, troppo piú che altrove; e ancora,
Quella, che giva intorno, era piú molta,
in vece di dire molto piú; ma ne' prosatori ancora: Giovan Villani, Per la qual cosa i Lucchesi furono molti ristretti e afflitti; e il Boccaccio, Ma veggendosi molti meno, che gli assalitori, cominciarono a fuggire; il che ora, popolarescamente ragionando, si fa tutto giorno. Né mancò ancora che essi non ponessero alle volte di queste voci, col fine del maschio, dandole nondimeno a reggere a voci di femina; sí come pose il Boccaccio, che disse: E subitamente fu ogni cosa di romore e di pianto ripieno, e altrove, Essendo freddi grandissimi, e ogni cosa pieno di neve e di ghiaccio. Dove si vede, che quella voce Ogni cosa si piglia in vece di Tutto, e perciò cosí si disse Ogni cosa pieno, come se detto si fosse Tutto pieno -.
[3.IX.]
Avea queste cose ragionato il Magnifico e tacevasi, forse pensando a quello che dire appresso dovea; a cui messer Federigo, veggendolo star cheto, disse: - Io non so già, se voi, Giuliano, parte de' nomi essere vi credete quella, che chiamaste ieri articoli, del Signorso ragionandoci di cui si disse, Il La Li Le e gli altri; con ciò sia cosa che essi senza i nomi avere luogo non possono in modo alcuno, né i nomi per la maggior parte in piè si reggono senza essi. Ma come che ciò sia, che poco nondimeno importa, voi non potete de' nomi avere a bastanza detto, se degli articoli eziandio non ci ragionate quello, che dire se ne può e bene è che messer Ercole intenda. Né solamente degli articoli, ma ancora di quelli, che segni sono d'alcuni casi, e alle volte senza gli articoli si pongono, e talora insieme con essi: Di Pietro, A Pietro, Da Pietro; Del fiume, Al fiume, Dal fiume; de' quali alcuni, senza dubbio, proponimenti mostra che siano piú tosto, che segni di caso. Il che comunque si prenda, che medesimamente di molta importanza non può essere, gli usi nondimeno di loro e le differenze non sono per aventura da essere adietro lasciate di questi ragionamenti. - Dunque non si lascino, - disse il Magnifico - se pare, messer Federigo, cosí a voi, il che pare eziandio a me - e, un poco fermatosi, seguitò: - È l'articolo del maschio nel numero del meno, quando la voce, a cui esso si dà, incomincia da lettera che consonante sia, quello che voi diceste, Il; e quando da vocale, Lo; il quale nondimeno si vede alcuna volta usato eziandio dinanzi alle consonanti, e piú spesso da' piu antichi che da' meno. Suole tuttafiata questo articolo dinanzi alle vocali lasciare sempre adietro la vocal sua, L'ardore L'errore, sí come quello altresí la sua dopo le vocali, Da 'l cielo Co 'l mondo Su 'l fiume Inverso 'l monte. Usa eziandio l'articolo della femina, che è quell'uno, che voi diceste La, nel numero del meno medesimamente lasciare adietro la vocal sua, quando la seguente voce incomincia da vocale: L'onda L'erba e simili. E aviene alle volte che, essendo questi due articoli del maschio e della femina dinanzi a vocal posti, essi ora ne mandan fuori la detta vocale, Lo 'nganno Lo 'nvito La 'ngiuria La 'nvidia, ora oltre acciò ne mandan fuori ancor la loro, e in vece delle due scacciate ne pigliano una di fuori, la qual nondimeno è sempre la E: L'envio L'envoglia nel verso, in vece di dire La invoglia Lo invio. Nel numero del piú è l'articolo del maschio I dinanzi a consonante, I buoni I rei, e alcuna volta Li, usato solamente da' poeti, e da' miglior poeti piú rade volte. Dinanzi a vocale è il detto articolo Gli: Gli uomini Gli animali. È il vero che quando la voce incomincia dalla S, dinanzi ad alcun'altra consonante posta pure dinanzi la V che in vece di consonante vi stia, cosí né piú né meno si scrive, come se ella da vocale incominciasse Gli sbanditi Gli sciocchi Gli scherani Gli sgannati Gli sventurati. Nelle quali voci, medesimamente al numero del meno Lo e non Il è richiesto, cosí nel verso come nelle prose; che non si dirà Il spirito Il stormento, ma Lo spirito Lo stormento, e cosí gli altri. Questo stesso, nell'un numero e nell'altro, è stato ricevuto ad usarsi dopo la particella Per, Per lo petto Per li fianchi. Usasi l'uno ancora dopo la voce Messere, che si dice Messer lo frate Messer lo giudice. Et è da sapere che questo medesimo Lo, dinanzi ad altre consonanti che alla S, accompagnata come si disse, il Petrarca non diede mai se non a voci d'una sillaba. Di quello poi della femina, che è questo Le, niente altro si muta, se non che dinanzi alle voci, che da vocale hanno principio, non sempre si lascia di lei adietro la vocal sua, come io dissi che nel numero del meno si faceva. Ma tale volta si lascia, e ciò è nel verso bene spesso, e tale altra non si lascia, il che si fa per lo piú nelle prose.[3.X.]
È tuttavia da sapere che, nelle medesime prose, la consonante di questi due articoli s'è raddoppiata da gli antichi quasi sempre e ora si raddoppia da' moderni, nell'un numero e nell'altro, quando essi hanno dinanzi a sé il segno del secondo caso, Dell'uomo Della donna Delli uomini Delle donne; quantunque l'usanza abbia poscia voluto che Degli uomini si dica, piú tosto che Delli uomini; o quando essi v'hanno le particelle A e Da, o ancora la Ne, quando ella stanza e luogo dimostra, o pure alcuna volta eziandio la particella Con, di cui nondimeno la consonante ultima nella L, che si piglia, si muta. Tutto che la particella A, che Ad eziandio si dice, è cagione che ancora ad altre voci, e non pur agli articoli, la consonante molte volte si raddoppia, a cui ella sta dinanzi; sí come è Lui, che Allui si dice, e Ciò, Acciò, e Sé, Assé, e questo ultimo piú si legge nelle antiche che nelle nuove scritture, e dell'altre; e Affrettare e Allettare e simili. Ma queste, che ne' verbi si raddoppiano o nelle voci nate da loro, ancora ne' versi hanno luogo. Usasi ciò fare eziandio con la particella Ra, ché Raccogliere Raddoppiare Rafforzare Rappellare e degli altri si leggono. E questo non per altro si fa, se non perché alla particella Ad, quando ella a verbi si dà, Accogliere Addoppiare Afforzare Appellare, si giugne la R, e fansene le dette voci; onde ne viene, che quando si dice Ricogliere, la C non si raddoppia, con ciò sia cosa che alla voce Cogliere la particella Ri si dà, che dalla Re latina si toglie, e non alla voce Accogliere; la qual R tuttavia si prende da questa medesima Ri, e tanto è a dire Raccogliere quanto sarebbe Riaccogliere, e cosí l'altre.[3.XI.]
Altri articoli che del maschio e della femina la volgar lingua non si vede avere. Di questi articoli quello del maschio, nel numero del piú e nel verso, assai si lascia sovente nella penna; ma nelle prose quasi per lo continuo; e gittasi o pure sottentra nella vocale che dinanzi gli sta, quando quelli, che voi, messer Federigo, diceste essere o proponimenti o segni di casi, si danno alle voci, e le voci incominciano da consonanti: A piè de' colli cioè De i colli, De' buoni A' buoni Da' buoni e ancora Ne' miei danni Co' miei figliuoli, in vece di dire De i buoni A i buoni Da i buoni Ne i miei danni Con i miei figliuoli; gittandosi tuttavia in questa voce non solamente la vocale dell'articolo, ma ancora la sua consonante, senza in altra cangiarla. Il che medesimamente in quest'altra particella si fa, di cui si disse, che si suole alle volte molto toscanamente dir cosí: Pel mio potere Pe' fatti loro, ciò è Per lo mio potere e Per li fatti loro. E questo vi può essere a bastanza detto, messer Ercole, degli articoli; e de' segni de' casi vi potrà quest'altro, che al segno del secondo caso, quando alla voce non si dà l'articolo, qualunque ella si sia, diciate Di e cosí usiate continuo: Io ho disio di bene, Tu ti puoi credere uno di noi, Le donne sono use di piagnere; quando e' si dà l'articolo o conviene che si dia, diciate sempre De, e altramente non mai: Del pubblico, Della città, Degli abitanti, Delle castella, Del vivere, Del morire; e ancora De' malvagi, De' rei; il che si fa per abbreviamento di queste voci, De i malvagi, De i rei, levandone l'una vocale, che vi sta oziosamente. Oltra che alcuna volta eziandio il segno medesimo si leva via di questo secondo caso; sí come levò il Boccaccio, il quale nelle sue prose disse: Al colei grido, Per lo colui consiglio, Per lo costoro amore, e altre; e Dante che nelle sue canzoni fe':Che 'l tuo valor, per la costei beltate,
mi fa sentir nel cor troppa gravezza;
e il Petrarca, che disse medesimamente nelle sue:
Il manco piede
giovinetto pos'io nel costui regno.
Il che s'usa di fare con questa voce Altrui assai sovente: Nell'altrui forza, Nelle altrui contrade; ma molto piú con quest'altre due, Cui e Loro, che con alcuna altra: Il cui valore, I cui amori, Onde fosti e cui figliuolo, Del padre loro, Alle lor donne, Co' loro amici. Quantunque non solamente in queste voci, che in luogo di nomi si pongono, Colui Costui Loro Coloro Cui Altrui e somiglianti, è ita innanzi questa usanza di levar loro il segno del secondo caso; ma eziandio ne' nomi medesimi alcuna fiata; sí come si pare in queste parole del Boccaccio: A casa le buone femine, In casa questi usurai, in luogo di dire: A casa delle buone femmine, e di questi usurai; e Non che la Dio mercé ancora non mi bisogna cosí fare, e altrove: Poco prezzo mi parrebbe la mia vita a dover dare, per la metà diletto di quello che con Guiscardo ebbe Gismonda, in vece di dire: La mercé di Dio, e la metà di diletto; e come ora, ne' nostri ragionamenti, tutto dí si vede che diciamo. Né pure il segno solo del secondo caso si toglie sovente a quella voce Loro, come io dissi; ma quello del terzo ancora: Diede lor credere, Fece lor bene; e a quell'altra Altrui: Io stimo, che egli sia gran senno a pigliarsi del bene, quando Domeneddio ne manda altrui; della qual licenza e uso tutte le rime si veggono e tutte le prose ripiene.
[3.XII.]
Potrei, oltre a questo, d'un altro uso ancora della mia lingua d'intorno al medesimo articolo, quando egli al secondo caso si dà, non piú del maschio che della femina, ragionarvi; il quale è che alle volte si pon detto articolo con alquante voci, e con alquante altre non si pone: Il mortaio della pietra, La corona dello alloro, Le colonne del porfido, e d'altra parte: Ad ora di mangiare et Essendo arche grandi di marmo et Essi eran tutti di fronda di quercia inghirlandati, che disse il Boccaccio; e dirvi sopra esso, perché è che egli all'une voci si dia, e all'altre non si dia, e come saper si possa questa distinzion fare ne' nostri ragionamenti. Ma ella è assai agevole a scorgere; e per aventura non fa mestiero di porla in quistione. - Anzi, sí fa, - disse incontanente mio fratello - e puovisi errar di leggiere, e dicovi piú, che radissimi sono quelli che non vi pecchino a questi tempi. Perciò che assai pare a molti verisimile, che cosí si possa dire il mortaio di pietra, come della pietra, e Ad ora del mangiare, come di mangiare, e cosí gli altri. Perciò, acciò che messer Ercole non vi possa error prendere, sponetegliele in ogni modo -. Al quale il Magnifico rispose senza dimora, che volentieri, e disse: - La ragione della differenza, messer Ercole, brievemente è questa; che quando alla voce, che dinanzi a queste voci del secondo caso si sta o dee stare, delle quali essa è voce, si danno gli articoli, diate eziandio gli articoli ad esse voci; quando poi allei gli articoli non si danno, e voi a queste voci non gli diate altresí; sí come in quegli essempi si diedero e non si diedero, che si son detti, e parimente in quest'altri: Nel vestimento del cuoio, Nella casa della paglia, e Con la scienza del maestro Gherardo Nerbonese, che disse il Boccaccio, e A la miseria del maestro Adamo, che disse Dante, e Tra le chiome de l'or, che disse il Petrarca; e Guido Giudice ancor disse piú volte, Il vello dell'oro, ma Il vello d'oro non mai; e cosí ancora, Bionde come fila d'oro, e In caso di morte, e Me uom d'arme, e Che ella n'è divenuta femina di mondo, e molte altre voci di questa maniera. E perciò All'ora del mangiare e Ad ora di mangiare, Le imagini della cera e Una imagine di cera nel medesimo Boccaccio si leggono, e infinite altre cose cosí si dissero da' buoni e regolati scrittori di que' secoli, che rade volte uscirono di queste leggi. Le quali tuttavia da' poeti non si servano cosí minutamente, anzi si tralasciano senza risguardo; e oltre acciò non hanno luogo nelle voci de' nomi, che propriamente si dicono, e di quelli che a' luoghi si danno altresí. Quantunque non solamente nelle voci del secondo caso, ma eziandio in altre voci e altramente dette, ciò che io dissi si fece assai sovente; ché si disse: Come la neve al sole e Come ghiaccio a sole. Il che piú spesso ancora si vede avenire di questo secondo modo, nel quale non si pon l'articolo; e spezialmente quando le particelle Da e In, movimento dimostranti, si danno alle voci: Che venir possa fuoco da cielo, che tutte v'arda e Recatosi suo sacco in collo, e somiglianti. Nelle quali parole ancora questo medesimo dire, Recatosi suo sacco, piú tosto che Il suo sacco, pare che abbia piú di leggiadria in sé, che di regola che dare vi se ne potesse. Il che si vede, che parve eziandio al Petrarca, quando e' disse:I' dicea fra mio cor: perché paventi?
piú tosto che Fra 'l mio core. Ma lasciando ciò da parte, aviene, oltra le dette cose, che quando alle parti del corpo o pure al corpo, le dette particelle o ancora la particella Di si danno, eziandio che l'articolo si dia alla voce dinanzi ad esse posta, egli poi non si dà alle dette parti, anzi si toglie il piú delle volte: Gittatogli il braccio in collo, Le mise la mano in seno, Levatasi la laurea di capo, Egli mi trarrà l'anima mia di corpo, Essendo allui il calendario caduto da cintola; e qui disse il Boccaccio Da cintola, sí come si direbbe Da lato.
[3.XIII.]
Ma passiamo a dire di quelle voci, che in vece di nomi si pongono, Io Tu e gli altri. De' quali questi due, nel numero del meno e negli altri loro casi, perciò che a questa guisa detti sono nel primo, come che Io eziandio I' si disse nel verso, ogni volta che eglino dinanzi al verbo si pongono, vicini e congiunti ad esso, né segno di caso o proponimento hanno seco alcuno, essi cosí si scrivono, Mi diede, Ti disse, finienti nella I; se dopo 'l verbo, medesimamente cosí, Diedemi, Dísseti, Amarmi, Onorarti. Il che si fa eziandio, qualora le voci che in vece di Lui e di Lei e di Loro si pongono, delle quali si dirà poi, giacciono tra 'l verbo e loro, Darlomi, Farloti, Darallemi, Farolleti. Perciò che qualunque volta elle giacciono dopo essi, eglino nella E se n'escon sempre, Darmelo, Fartelo e Sassel chi n'è cagion, che disse il Petrarca, e Tengasel bene a mente, e Facciasegli buoni esso, e somiglianti. Dopo 'l verbo dissi, e quando essi sotto l'accento del verbo si ristringono, né altra voce sotto quello accento medesimo si sta dopo essi. Con ciò sia cosa che quando essi altramente vi stanno, si scrive cosí e fannosi terminare nella E: Me la diè, Te gli tolse,Ferir me di saetta in quello stato,
Conchiuse, te essere solo colui, nel quale la sua salute riposta sia,
Vommene in guisa d'orbo senza luce,
Io ci tornerò, e darottene tante, che io ti farò tristo.
Quivi traponendosi messer Federigo: - E perché - disse - è egli, Giuliano, che in
quel verso del Petrarca, che voi allegato ci avete, Ferir me di saetta, si convenga
piú tosto il dire Ferir me, che Ferir mi? - Per questo - rispose il
Magnifico - che io dissi che il Me ha l'accento sopra esso e non si regge da quello
del verbo, e in Ferirmi il Mi non l'ha, ma da quello del verbo si regge. -
Ora perché è egli - disse messer Federigo - che l'uno ha l'accento e l'altro non l'ha,
come voi dite? - È perciò - rispose il Magnifico - che qualora ciò aviene, che si dica
il Me o il Te di maniera che rispetto s'abbia ad altrui, di cui eziandio
convenga dirsi, egli s'usa di por l'accento sopra essi in questa guisa, dal verbo un poco
scostandogli e aspettandone quello che segue, sí come aviene nel detto verso:
Ferir me di saetta in quello stato.
Perciò che rispetto s'ha al Voi che segue, e s'aspetta ad udire:
A voi armata non mostrar pur l'arco.
Che se ciò non avesse avuto a dirsi, Ferirmi e non Ferir me si sarebbe detto. Sí come eziandio dal medesimo Petrarca in questi versi:
Diti schietti soavi a tempo ignudi
consente or voi, per arricchir me Amore,
s'è rispetto avuto al Voi con la voce Me; e però e' disse Per arricchir me, e non Arricchirmi -.
[3.XIV.]
E questo detto, e ciascun tacendosi, egli nel suo ragionar rientrò e disse: - Cade sotto le dette regole eziandio il Sé, il quale non solo nel numero del meno come questi, ma ancora in quello del piú medesimamente ha luogo. È il vero che egli primo caso non ha come hanno questi; anzi tanta somiglianza hanno queste tre voci tra loro, Me Te Sé, che ancora, qualunque volta qualunque s'è l'una delle due primiere o dinanzi o dopo 'l verbo si truova, posta con l'altra o con questa terza tra 'l verbo e lei, cosí si scrive quella che piú lontana è dal verbo come l'altra: Io mi ti do in preda, Ella ti si fe' incontro, Io son contento di darmiti prigione, Il suono incomincia a farmisi sentire. Dartimi o Farsimi non si dicono, ma diconsi i detti in quella vece: Tu se' contento di darmiti prigione, e simili. Dissi tra 'l verbo e lei; perciò che qualunque volta tra lei e il verbo altro v'ha, la Si nella Se si muta, rimanendo nondimeno la dinanzi allei, senza mutamento fare alcuno per questo; sí come si muta nel Boccaccio, che disse: E questo chi che ti se l'abbia mostrato, o come tu il sappi, io no 'l niego. Usasi medesimamente ciò fare, e servasi la regola già detta, eziandio con queste due voci che luogo dimostrano, Vi Ci: Le acque mi ti paion dolci, Queste ombre ti ci debbono essere a bisogno la state e Paionmivi dolci et Essertici a bisogno altresí. Ma, tornando alla somiglianza delle tre voci, dico che in essa tuttavia una dissomiglianza v'ha, la quale è questa; che quando essi dopo 'l verbo si pongono e sotto l'accento di lui, senza da sé averne, dimorano, il primiero e il terzo di loro nelle rime e in I e in E si son detti, e veggonsi all'una guisa e all'altra posti ne' buoni antichi scrittori; ma il secondo a una guisa sola, cioè finiente in I, ma in E non giamai. Perciò che Dolermi, Consolarme, Duolmi, Valme, Dolersi, Celarse, Stassi, Fasse, si leggono nel Petrarca, il che non si fa del secondo, che lo hanno sempre, et esso e gli altri antichi, posto come io dico, Consolarti, Salutarti, e non altramente. Il che pare a dir nuovo; ché se mi si conciede il dire Onorarme, perché non debbo io poter dire eziandio Onorarte? Nondimeno l'opera sta, come voi udite; dico appo gli antichi, ché da' moderni s'è pure usato alcuna volta per alcuno, il porlo eziandio in quella maniera. È ancora da avertire, che quando il terzo predetto si pone finiente in E, si ponga solo nel numero del meno; perciò che in quello del piú la I gli si convien sempre, Dansi, Fansi, e non Danse o Fanse, che sarebbe vizio; solo che quando esso si ponesse dopo 'l verbo, e avesse nondimeno l'accento da sé, sí come del Me e del Te dissi, in questa guisa: Essi fecero sé e gli altri arricchire.[3.XV.]
Dissi delle due primiere voci, che in vece di nomi si pongono, nel numero del meno; ora dico che elle, in quello del piú, quando sono intere niuna varietà fanno, ma cosí si dicono, Noi Voi, per tutti i casi. Ma qualora esse la lettera del mezzo lasciano adietro, la prima ad un modo si scrive sempre cosí, Ne, o ne' versi che ella entri o nelle prose; la seconda medesimamente ad un modo cosí, Vi, in tutti gli altri luoghi; solo che o nella rima, quando ella sotto l'accento si sta del verbo, che si ponga senza termine, I nel qual luogo, secondo che alla rima mette bene, e Vi e Ve parimente dire si può, Farvi, Darve; o pure quando ella si pon con questa particella Ne, perciò che in quel caso ella medesimamente in E finisce continuo: Mi ve ne dolsi: Mi ve ne sia doluta. La qual particella tanto ha di forza, che ancora con le altre già dette voci posta, in E le fa finire similmente: Me ne rendo sicuro, Te ne do licenzia, Vi se ne conviene. A volere ora intendere, quando le intere di queste voci usar si debbano e quando le non intere, oltra quello che detto s'è, altro sapere non vi bisogna; se non che a qualunque guisa Io e Tu, e a qualunque guisa Me e Te, aventi sopra sé gli accenti, si pongono, poniate Voi e Noi medesimamente; a quelle maniere poscia del dire, alle quali Mi e Ti si danno, o pure Me e Te, che da altri accenti si reggano, come io dissi, diate le non intere. È oltre acciò, che si vede la Ci, in vece della Ne, comunemente usarsi da' prosatori: Noi ci siamo aveduti che ella ogni dí tiene la cotal maniera, e altrove: Egli non sarà alcuno che, veggendoci, non ci faccia luogo e lascici andare. Da' poeti ella non cosí comunemente si vede usata, anzi di rado e sopra tutti dal Petrarca, il qual nondimeno la pose ne' suoi versi alcuna volta. Questa Ci tuttavia muta la sua vocale nella E, a quella guisa medesima che del Vi, vegnente dal Voi, si disse: Tu non ce ne potresti far piú, e somiglianti.[3.XVI.]
Ora il nostro ragionamento ripigliando, dico che sono degli altri, che in vece di nome si pongono sí come si pone Elli, che è tale nel primo caso, come che Ello alle volte si legga dagli antichi posto in quella vece e nel Petrarca altresí, e ha Lui negli altri, nel numero del meno; la qual voce s'è in vece di Colui alle volte detta, e da' poeti, sí come si disse dal Petrarca:Morte biasmate, anzi laudate lui,
che lega e scioglie,
o pure:
Poi piacque a lui, che mi produsse in vita;
e da' prosatori, sí come si vede nel Boccaccio, il qual disse: Ma egli fa Adamo maschio et Eva femina; e allui medesimo, che volle per la salute della umana generazione sopra la croce morire, quando con un chiovo e quando con due i piè gli conficca in quella. Né solamente negli altri casi, ma ancora nel primo caso pose il Boccaccio questa voce in luogo di Colui, quando e' disse: Si vergognò di fare al monaco quello, che egli, sí come lui, avea meritato. Con ciò sia cosa che quando alla particella Come si dà alcun caso, quel caso se le dà, che ha la voce con cui la comperazione si fa; sí come si diede qui: Donne mie care, voi potete, sí come io, molte volte avere udito; il che tuttavia è cosí chiaro, che non facea bisogno recarvene testimonianza. Anzi, se altro caso si vede che dato alcuna volta le sia, ciò si dee dire che per inavertenza sia stato detto, piú che per altro. Posela eziandio Dante nel primo caso in quella vece, quando e' disse nel suo Convito: Dunque se esso Adamo fu nobile, tutti siamo nobili, e se lui fu vile, tutti siamo vili. Nel numero del piú egli serba la primiera sua voce per aventura in tutti i casi, dal terzo in fuori. E questo numero non entra nelle prose se non di rado, con ciò sia cosa che le prose usano il dire Essi nel primier caso, e negli altri Loro in quella vece; ma è del verso. Le quali prose nondimeno, accrescendonelo d'una sillaba negli antichi scrittori, l'hanno alle volte usato nel primo caso cosí, Ellino. E queste voci, che al maschio tuttavia si danno, i meno antichi dissero Egli et Eglino piú sovente. Ella apresso et Elle, che si danno alla femina, et Elleno medesimamente, non si sono mutate altramente. Sono nondimeno comunalmente ora, Eglino et Elleno, in bocca del popolo piú che nelle scritture, come che Dante ne ponesse l'una nelle sue canzoni. Quellino eziandio disse una volta Giovan Villani nella sua istoria, in vece di Quelli. Ma lasciando da parte quelle del maschio, ha Ella, che voce del primo caso è, similmente Lei negli altri casi sempre, solo che dove alcuna volta Lei, in vece di Colei, s'è posta altresí, come Lui, in vece di Colui, come io dissi; et Elle ha Loro. Dico nelle prose, nelle quali questa regola si serva continuo; ma nel verso sí si leggono Ella nel numero del meno et Elle in quello del piú, molte volte poste in tutti gli altri casi, dal terzo in fuori; e massimamente nel sesto caso, operandolo la licenza de' poeti piú che ragione alcuna che addurre vi si possa -.
[3.XVII.]
Di poco avea cosí detto il Magnifico, quando messer Federigo, ad esso rivoltosi, disse: - Egli si par bene, Giuliano, che la natura di queste voci porti che Ella solamente al primo caso si dia, e Lei agli altri, come diceste usarsi nelle prose; ma sí come si vede, e voi diceste ancora, che nei poeti si truova alle volte Ella posta negli altri casi, cosí pare che si truovi eziandio Lei, nel primo caso posta, appo il Petrarca, quando e' disse:E ciò che non è lei,
già per antica usanza odia e disprezza.
Con ciò sia cosa che al verbo È solo il primo caso si dà, e dinanzi e dopo, come diede il Boccaccio, che disse: Io non ci fu' io, e ancora, E so, che tu fosti desso tu; o pure io non intendo, come queste regole si stiano -. Alle quali parole il Magnifico cosí rispose: - Lo avere il Petrarca posto questa voce Lei col verbo È, non fa, messer Federigo, che ella sia voce del primo caso; perciò che è alle volte, che la lingua a quel verbo il quarto caso appunto dà, e non il primo; il qual primo caso non mostra che la maniera della toscana favella porti che gli si dia; sí come non gliele diede il medesimo Boccaccio, il quale nella novella di Lodovico disse: Credendo egli che io fossi te, e non disse, che io fossi tu, che la lingua no 'l porta; e altrove: Maravigliossi forte Tebaldo, che alcuno intanto il somigliasse, che fosse creduto lui, e non disse, che fosse creduto egli. Tra le quali parole se bene v'è il verbo Creduto, egli nondimeno vi sta nel medesimo modo. Né vi muovano que' luoghi, che voi diceste, Io non ci fu' io, e So che tu fosti desso tu; perciò che in essi solamente la voce che fa, si replica e dicesi due volte, niente del sentimento mutandosi, nel quale primieramente si pone: Io non ci fu' io, e Tu fosti desso tu; e come si replica eziandio in questo verso delle sue ballate:
Qual donna canterà, s'io non cant'io.
Là dove in questi, Credendo egli che io fossi te e Che alcuno fosse creduto lui e Ciò che non è lei, il sentimento della voce che fa, si muta in altro; ché Io e Tu non sono una cosa medesima, né Alcuno et Egli, né Ciò et Ella altresí. Oltre che in questo modo di dire, Ciò che non è lei, il verbo è ha quella medesima forza che avrebbe Contiene, o Ha in sé, o Dimostra o somiglianti. E tanto è a dire, Credendo, che io fossi te, quanto che io fossi in te; e tanto che fosse creduto lui quanto che fosse creduto esser lui. E prima che io di queste due voci Lui e Lei fornisca di ragionarvi, non voglio quello tacerne, il che si vede che s'usa nella mia lingua, e ciò è, che elle si pongono alle volte in vece di questa voce Sé, di cui dianzi si disse; sí come si pose dal Boccaccio in questo ragionamento: Essendosi accorta, che costui usava molto con un religioso, il quale quantunque fosse tondo e grosso, nondimeno, perciò che di santissima vita era, quasi da tutti avea di valentissimo uomo fama, estimò costui dovere essere ottimo mezzano tra lei e 'l suo amante. Nel qual ragionamento si vede che Tra lei e 'l suo amante, in vece di dire Tra sé e 'l suo amante, s'è detto. Il che s'usa di fare ancora nel numero del Piú alcuna fiata, sí come si fece qui: Voglio che domane si dica delle beffe, le quali o per amore o per salvamento di loro, le donne hanno già fatte a' lor mariti.
[3.XVIII.]
Ma tornando alla voce Elli, dico che sí come, aggiugnendovi due lettere, la fecero gli antichi d'una sillaba maggiore e dissero Ellino; cosí essi, levandone le due consonanti del mezzo, la fecero d'una sillaba minore, e dissero primieramente Ei, ristrignendola ad essere solamente d'una sillaba, e poscia È, levandole ancora la vocale ultima, per farne questa stessa sillaba piú leggiera. Il che è usatissimo di farsi e nelle prose e nel verso; dico nel numero del meno; quantunque ancora in quello del piú ella s'è pur detta alcuna volta dal Boccaccio: E appresso questo, menati i gentili uomini nel giardino, cortesemente gli dimandò chi e' fossero, e ancora, Come potrei io star cheto? e se io favello, e' mi conosceranno. Èssi eziandio detto Ei nel numero del piú, solamente da' poeti; la quale usanza tuttavia si vede essere ne' migliori poeti piú di rado. Resta, messer Ercole, d'intorno acciò, che io d'una cosa v'avertisca; e ciò è, che questa voce Egli, non sempre in vece di nome si pone; con ciò sia cosa che ella si pon molto spesso per un cominciamento di parlare, il quale niente altro adopera, se non che si dà con quella voce principio e nascimento alle parole che seguono; come diede il Boccaccio: Egli era in questo castello una donna vedova, e altrove, Egli non erano ancora quattro ore compiute. Ponsi medesimamente molto spesso ne' mezzi parlari, come pose il medesimo Boccaccio: Vedendo la donna queste cose, conobbe che egli erano dell'altre savie, come ella fosse, e il Petrarca, che disse:Or quando egli arde il cielo.
Dove si vede che il cosí porla, poco altro adopera che un cotale quasi legamento leggiadro e gentile di quelle parole, che senza grazia si leggerebbono, se si leggessero senza essa. E come che questa voce ad ogni parlare serva, non si può perciò ben dire quale parte di parlare ella sia, se non che si dà sempre al verbo, et è piú tosto per adornamento trovata, che per necessità. Tuttavolta lo adornamento è tale, e cosí l'ha la lingua ricevuta per adietro e usata nelle prose, che ella è ora voce molto necessaria a ben voler ragionare toscanamente. Non la usa molto il verso, cosí interamente detta; usala tronca piú sovente, pigliando di lei solamente la prima lettera E; sí come alle volte si piglia, quando in vece di nome si pone, come io dissi:
E' non si vide mai cervo, né damma;
e ancora,
Orso, e' non furon mai fiumi, né stagni.
Il che non è che alle volte non si dica ancora nelle prose: E' mi dà il cuore, e similmente.
[3.XIX.]
Ora, un poco adietro a dirvi ancora di queste due voci, che in vece di nomi si pongono, Elli o per aventura Ello et Ella, ritornando, è da sapere che elle si ristringono e fannosi piú leggiere e piú brievi eziandio ad un'altra guisa in alcuni casi; ciò sono il terzo e il quarto caso nel numero del meno, e il quarto in quello del piú. Con ciò sia cosa che in vece di Lui s'è preso a dire Li, e Le in vece di Lei nel detto terzo caso, e Lo e La nel quarto altresí, nel numero del meno; e cosí Li e Le in vece di Loro nel quarto caso, in quello del piu. E questo Li dell'uno e dell'altro numero parimente Gli s'è detto: Diedeli e Diedegli, in vece di dire Diede allui, e Diedele, in vece di dire Diede allei, e Preselo e Presela; e cosí le altre che assai agevoli a saper sono, o posposte che elle siano al verbo o preposte: Gli diede, Lo prese, e somiglianti. È il vero che questa voce del maschio del quarto caso nel numero del meno si dice parimente Il:Cieco non già, ma faretrato il veggo.
È oltre acciò che a queste voci, Il e La e Lo, si leva loro bene spesso la vocale, quando hanno altre vocali innanzi o dopo la loro: S'i' 'l dissi mai, in vece di dire Se io il dissi; e Amor l'inspiri, in vece di dire La inspiri; e O chi l'affreni, in vece di dire Lo affreni;
Né mostrerolti,
se mille volte in su 'l capo mi tomi,
che disse Dante; e
Che 'l cor m'avinse, e proprio albergo felse,
che disse il Petrarca; e Dirolti e Dicolti e Vedetelvi voi, che disse il Boccaccio -. Volea il Magnifico, detto questo, passare a dire altro; e mio fratello con queste parole a' suoi ragionamenti si trapose: - E queste voci medesime, quando elle si mescolano con le primiere tre, sí come si mescola questa, Vedetelvi, e le altre, in qual modo si mescolano elle, che meglio stiano? Perciò che e all'una guisa e all'altra dire si può; che cosí si può dire, Vedetevel voi, e Io te la recherò e Tu la mi recherai e Io gli vi donerò volentieri e Io ve gli donerò e Se le fecero allo 'ncontro e Le si fecero. Questo conoscimento, e questa regola, Giuliano, come si fa ella? O pure puoss'egli dire a qual maniera l'uom vuole medesimamente, che niuna differenza o regola non vi sia? - Differenza v'è egli senza dubbio alcuno, e tale volta molta, - rispose il Magnifico - ché molto piú di vaghezza averà questa voce, posta d'un modo in un luogo, che ad un altro. Ma regola e legge che porre vi si possa, altra che il giudicio degli orecchi, io recare non vi saprei, se non questa: che il dire, Tal la mi trovo al petto, è propriamente uso della patria mia; là dove, Tal me la trovo, italiano sarebbe piú tosto che toscano, e in ogni modo meno di piacevolezza pare che abia in sé che il nostro, e per questo è egli per aventura men richiesto alle prose, le quali partire dalla naturale toscana usanza di poco si debbono -.
[3.XX.]
Io - tornò qui a dire mio fratello - tanto credo esser vero, quanto voi dite d'intorno a questa voce; ma egli mi risorge da un'altra parte di lei un altro dubbio, il quale è questo che egli si truova ne' poeti alle volte dupplicata di lei la prima lettera, quando ella è consonante, Aprilla Dipartille, in vece di dire La aprí e Le dipartí. Questo perché si fa? O quando s'ha egli a fare piú in un luogo che in altro? - Fassi - disse il Magnifico - ogni volta che ella, dopo 'l verbo in vocale finiente posta, dall'accento di lui si regge, e il verbo ha l'accento sopra l'ultima sillaba. Perciò che, sí come ci ragionò ieri messer Federigo, l'accento, posto sopra l'ultima sillaba della voce, molto di forza si vede che ha, in tanto che egli ne' versi di dieci sillabe, nella fine del verso posto, opera che la sillaba, sopra cui esso giace, vi sta in vece di due sillabe e basta per quella che al verso manca naturalmente. Perché, sí come egli da questa parte dimostra la sua forza, bastando per una sillaba che non v'è, cosí da quest'altra, quando alcuna di queste voci vi s'aggiugne, la dimostra egli medesimamente, raddoppiando sempre la consonante di lei, come diceste, perché la sillaba ne divenga piú piena: Dàlle Sortille e somiglianti. Né solamente in queste voci ciò aviene, che si raddoppia in quel caso sempre la lettera consonante loro nel verso; anzi in quelle altre ancora che si son dette, Mi Ti Si, e Ne, in vece di Noi detta, ora nel verso e quando nella prosa questo stesso si vede avenire. Perciò che né piú né meno, nel verso, Fammi Mostrommi Stassi Vedrassi, vi si dice sempre, et Etti Faratti Dinne e Dienne nelle prose. Né solo la consonante di queste tali voci si raddoppia, ma ancora la vocal loro primiera quando ella in forza di consonante vi si pone; come si pon nel Voi, che si dice Vi: Favvi Sovvi Puovvi Dievvi, e somiglianti; tuttavia solamente nelle prose, ché nelle rime ciò non ha luogo. Raddoppiavisi medesimamente la consonante di queste due particelle del parlare, Vi Ci, o pure la vocale che in vece di consonante vi sta: et evvi, oltre acciò, l'aere piú fresco, e Porrovvi suso alcun letticello, e Hacci Vacci e simili -. Appena avea cosí detto il Magnifico, che messer Federigo cosí disse: - Egli è il vero che quelle consonanti, che voi detto avete, si raddoppiano, Giuliano, a quelle voci donate, che si son dette. Ma io mi sono aveduto che in alquante altre voci elle non si raddoppiano; il che si pare non solo in Dante, il quale e Quetami e Levami disse, ma ancora nel nostro medesimo Boccaccio, che disse: Farane un soffione alla tua servente, e altrove, Tu hai avuto da me ciò che disiderato hai, e hami straziata quanto t'è piaciuto; e ciò si vede in molti altri luoghi delle sue prose. E pure qui la medesima ragione v'è dell'accento che è in quelle. - E cosí detto, si tacque. Di che il Magnifico rincominciò in questa maniera: - Egli v'è bene, in quelle voci che voi detto avete e in altre somiglianti, l'accento che io dissi, ma egli non v'è in quel modo. Con ciò sia cosa che egli in queste voci non vi sta, sí come in ultima loro sillaba, anzi sí come in penultima; perciò che Quetàimi e Levàimi e Faràine e Hàimi, sono le compiute voci. Là dove in quelle, delle quali vi recai gli essempi, elle vi stanno, sí come in compiute. E perciò che compiendole, come io ora fo, e fuori mandandolene, le consonanti raggiunte loro non si raddoppiano, ché non si potrebbe dire Quetaímmi Ricorderaítti e l'altre, ché bisognerebbe levarne l'accento del suo luogo, vuole l'usanza della lingua che elleno vi rimangano sole e semplici, non altramente che se le voci si dicesser compiute. Il che si fa medesimamente della voce, di cui si ragionava; perciò che, quando la voce, a cui ella si dà, è compiuta, la consonante di lei si raddopia, come si dice. Vedesi in questi versi:Come al nome di Tisbe aperse il ciglio
Piramo in su la morte, e riguardolla.
Quando poi la voce non è compiuta, niente di lei si raddoppia, ma si lascia tale quale ella è naturalmente. Vedesi in quest'altro delle canzoni del medesimo poeta:
E s'altro avesser detto a voi, direlo.
Ne' quali due luoghi si vede, che perciò che Riguardò è voce compiuta, si disse Riguardolla; allo 'ncontro, perciò che Dire' non è compiuta voce, ma tronca, ché la compiuta è Direi, fu di mestiero che si dicesse Direlo, né altramente si sarebbe potuto dire -.
[3.XXI.]
Di tanto mostrandosi pago messer Federigo, cosí rientrò il Magnifico ne' suoi ragionari: - Io posso oltre acciò, messer Ercole, di questo avertirvi, che usanza della mia lingua è il porre questa medesima voce di maniera, che ella ad alcuno per aventura parer potrebbe di soverchio posta; sí come può parere non solo nel Boccaccio, che disse: Dio il sa, che dolore io sento, dove assai bastava che si fosse detto, Dio sa, che dolore io sento; e, Quel cuore, il quale la lieta fortuna di Girolamo non aveva potuto aprire, la misera l'aperse, e, Molto tosto l'avete voi trangugiata questa cena, o pure, Come al Re di Francia per una nascenza, che avuta avea nel petto, et era male stata curata, gli era rimasa una fistola; o pure in quest'altre parole, nelle quali questa voce due volte vi si pare soverchiamente detta: Il che come voi il facciavate, voi il vi sapete, e somiglianti; ma ancora nel Petrarca, il qual disse:E qual è la mia vita, ella sel vede;
dove medesimamente, se egli detto avesse Ella si vede, sí si pare che egli avrebbe a bastanza detto ciò che di dire intendeva, senza altro. Tuttavia egli non è cosí; ché quantunque ciò che in questi luoghi si dice, dire eziandio senza quella voce si potesse, dico in quanto al sentimento degli scrittori, nondimeno, quanto poi all'ornamento e alla vaghezza del parlare, manifestamente veder si può che ella non v'è di soverchio posta, anzi vi sta di maniera, che non poco di grazia vi s'arroge, cosí dicendo. E questo nelle altre voci, Mi e Ti e Vi, parimente si fa, ché si disse: Io mi rimarrò giudeo, come io mi sono, e Deh che non ceni, se tu ti vuoi cenare, e Io non so se voi vi conosceste Talano; e sopra tutte nella Si, con la qual si disse: Io sono stato piú volte già, là dove io ho vedute merendarsi le donne, e Io non so qual mala ventura si facesse a sapere che il marito mio andasse iermattina a Genova, o ancora: O se io avessi avuto pure un pensieruzzo di fare qualunque s'è l'una di queste cose. Il quale uso, passato parimente nel verso, fe' che Dante in molti de' suoi versi disse come in questi:
Bastavasi ne' secoli recenti,
e
Ma ella s'è beata, e ciò non ode;
il che imitando, il Petrarca medesimamente disse:
Beata s'è che può beare altrui,
e altrove
Né so che spazio mi si desse il cielo,
e somiglianti.
[3.XXII.]
Né pure in queste voci solamente, ma ancora nelle particelle Ci, che Ce eziandio si disse, e nella Vi alcuna volta, e nella Ne molto spesso cosí si fece dal medesimo Boccaccio, che disse: Natural ragione è di ciascuno che ci nasce, la sua vita, quanto può, aiutare; e ancora: Deh, se vi cal di me, fate che noi ce ne meniamo una colà su di queste papere; e medesimamente: In tanto che né in tornei, né in giostre, né in qualunque altro atto d'arme niuno v'era nell'isola che quello valesse che egli; e parimente ancora: Avisando che questi accorto non se ne fosse che egli fosse stato dallui veduto. Perché fie bene che voi, messer Ercole, eziandio a questi modi di ragionari poniate mente, e oltre questi ad un altro ancora sopra la medesima voce, che in vece di Lui e di Lei e di Loro si pone, molto usato dalla mia lingua, che può parere per aventura piú nuovo, il quale è questo: che quando a porre avete due volte seguentemente la detta voce dinanzi o dopo 'l verbo a qualunque persona si danno esse voci, solamente che piú che ad una non si diano, e in qualunque numero esse a por s'hanno o di qualunque genere, sempre nelle prose diciate a questa maniera, Gliele, e altramente non mai. Il che si vede in questi ragionamenti del Boccaccio: Anzi mi pregò il castaldo loro, quando io me ne venni, che se io n'avessi alcuno alle mani che fosse da ciò, che io gliele mandassi, e io gliele promisi; e altrove: Paganino da Monaco ruba la moglie a M. Ricciardo di Chinzica, il quale, sappiendo dove ella è, va e diventa amico di Paganino; raddomandagliele, et egli, dove ella voglia, gliele conciede; e altrove: Avenne ivi a non guari tempo, che questo catalano con un suo carico navicò in Alessandria, e portò certi falconi pellegrini al Soldano, e presentógliele. Ma perché vi vo io di questo scrittore essempi sopra ciò raccogliendo? Egli ne sono tutte le sue prose sí abondevoli, che mestier non fa il piú ragionarne. Ma come che io v'abbia gli essempi di questa usanza solo dal Boccaccio recati, non è tuttavia per questo che ella incominciamento dallui avuto abbia, perciò che egli la trovò già vecchia. Con ciò sia cosa che non pur Dante la ponesse nelle sue prose, o ancora Giovan Villani, ma eziandio Pietro Crescenzo per tutti i libri del suo Coltivamento della villa, e Guido Giudice di Messina per tutta la sua istoria della guerra di Troia la si spargessero. Il qual Guido Giudice, come che ciciliano fosse, scrisse nondimeno toscanamente, sí come in quella età che sopra Dante fu, nella quale esso visse, si potea. Fassi in parte questo medesimo, quando dopo la voce Gli si pon la Ne, ché si dice Gliene diedi, Gliene portarono, e somigliantemente.[3.XXIII.]
Ora, piú oltre passando, dico che sono in vece di nomi ancor Quelli, che si disse medesimamente Quei nel verso, e Questi, assai toscanamente cosí detti nel numero del meno, e solamente nel primo caso; come che Quei eziandio in quello del piú si dica e in ciascun caso assai sovente da' poeti, e alcuna volta ancor Questi, ma tuttavia di rado, che poi si disse piú spesso nelle prose. Piú di rado si truova detto Quelli nel numero del piú di esse prose. È Colui, che in ogni caso del numero del meno si dice, e Costui altresí; e servono, in luogo degli altri casi, a Quegli e a Questi che sono pur del primo, come io dissi. Et è Cotesti, tuttavia non molto usato, che si disse alcuna rara volta Cotestui quantunque Cotesti si dica ancora nel numero del piú; e sono tutte voci del maschio, che altramente non forniscono; sí come Quello e Questo e Cotesto sono voci del neutro, che anco non forniscono altramente. E dassi questa voce ultima, Cotesti e Cotesto, solamente a coloro e alle cose, che sono dal lato di colui che ascolta. Ma Quello si dice alle volte Ciò: Fammi ciò che tu vuoi, e Questo altresí: Oltre acciò Sopra ciò; la qual voce non pure neutralmente, ma ancora maschilemente e feminilemente, e cosí nel numero del piú come in quello del meno, s'è molto spesso detta dagli antichi, che dicevano: Ciò fu il fortissimo Ettore, che disse Guido Giudice, e Ciò erano vaghissime giovani, che disse il Boccaccio eCiò furon li vostr'occhi pien d'amore
che Guido Guinicelli disse. Ma tornando alle voci Colui Costui, è alcuna volta che elle si danno alle insensibili cose, e Lui altresí; sí come si diè in Pietro Crescenzo, il quale, ragionando di lino, disse: Nella costui seminazione la terra assai dimagrarsi e offendersi si crede; e in Dante, che di rena parlando, disse:
Non d'altra foggia fatta, che colei,
che fu da' piè di Caton già sopressa;
e nel Boccaccio, che disse: Lei d'una testa morta novellando.
Perché meno è da maravigliarsi, se Questi e Quegli medesimamente si dà
loro. Et è oltre acciò alcuna volta, che in luogo di Questo si dice Esto
da' poeti; e ultimamente nella voce di femina, Sta in vece di Questa, non
solo da' poeti, ma ancora da' prosatori, giunto tuttavia e posto con queste tre voci e non
con altre: Stanotte, Stamane, Stasera. Perciò che quando si dice, Ista
notte, Ista mane, Ista sera, ciò si fa per aggiunta della I, che
a queste cotali voci suole dare, sí come l'altr'ieri messer Federigo ci disse. Come che
eziandio Stamattina dicesse il Boccaccio: Di questo di stamattina sarò io
tenuto a voi -.
Quivi messer Ercole, che attentamente
ciò ascoltava, volendo il Magnifico seguir piú oltre, disse: - Deh a voi non gravi,
Giuliano, che io un poco v'addomandi, come ciò sia, che voi detto avete che Quello,
Questo, Cotesto, voci del neutro sono. Quando e' si dice: Quel cane, Quell'uomo,
e Questo fanciullo, e Cotesto uccello e somiglianti, non sono elleno voci
del maschio eziandio queste tutte che io dico? - Sono, - rispose il Magnifico - ma sono
congiunte con altre voci, e da sé non istanno. E io di quelle che da sé stanno vi
ragionava, delle quali propriamente dire si può che in vece di nomi si pongono; il che
non si può cosí propriamente dire di quelle che l'hanno accanto. Sí come sta da sé
solo Questi nel Petrarca:
Questi m'ha fatto men amare Dio,
nel qual luogo non si potrebbe dir Questo; e chi ciò dicesse, intenderebbesi Questa cosa, e non Amore, il che egli vuole che vi s'intenda; sí come in quella medesima canzone s'intende Questo in luogo di Questa cosa, quando e' disse:
Ancor, e questo è quel che tutto avanza,
da volar sopra 'l ciel gli avea dat'ali,
dove non si potrebbe dir Questi, ché non ne uscirebbe il sentimento del poeta, ma altro assai da esso lontano -.
[3.XXIV.]
Stette di tanto contento e pago messer Ercole; laonde Giuliano seguitando cosí disse: - Sono medesimamente nel numero del piú Costoro e Coloro e Loro; la qual voce in vece di Coloro e di Quelli e d'Essi usa di por la mia lingua in tutti i casi, fuori solamente il primo. E come che Costoro paia voce che si dia al maschio, nondimeno si vede che ella s'è data eziandio alla femina. Di queste voci tutte quelle, che alla femina comunalmente si danno, sono sí semplici, che mestier non fa che se ne ragioni altramente; sí come sono Costei e Colei che a tutti i casi ugualmente si danno, né si mutano giamai. Resta che vi sia chiaro che Lei in vece di Colei, sí come Lui in vece di Colui, del qual si disse, s'è alcuna volta detto da' nostri scrittori. È ancora Esso, voce di questa medesima qualità, la quale, come che regolarmente si muti e ne' generi e ne' numeri, ché Esso et Essa, Essi et Esse si dice, niente di meno è alle volte; che il primiero ad ogni genere e ad ogni numero serve, quando con altra voce di queste o ancor d'altre voci si pone, e ponsi innanzi; perciò che e Con esso lui e Con esso lei e Con esso loro e Sovr'esso noi e Con esso le mani e Lungh'esso la camera; medesimamente si dice, toscanamente parlando; come che Essa lei eziandio si legga alcuna volta nelle buone scritture. Dicesi ancor Desso e Dessa, per voce piú ispressa, e nelle prose e nel verso. È appresso quest'altra voce Stesso, che dopo alcuna di quelle che in vece di nomi si pongono, come che sia, si pon sempre e altramente non si regge. E quantunque usino i Toscani di dire Egli stessi, piú tosto che Egli stesso, non perciò si dirà ancora cosí Esso stessi, ma Esso stesso; forse per la diversità de' fini, che è in quelle voci e non è in queste. È Altri nel primo caso del numero del meno e di quello del piú, e ha Altrui negli altri dell'un numero e dell'altro; e diconsi amendue in voce di maschio sempre, come che in sentimento possono darsi, sotto voce di maschio, eziandio alla femina. È Alcuno, che alcuna volta s'è detto Veruno, et è Niuno e Nullo, che vagliono spesse volte quanto quelle, non solo nelle prose, che l'hanno per loro domestiche e famigliari molto, ma alle volte ancora nel verso, nel quale piú volentieri Nessuno che Niuno, sí come voce piú piena, v'ha luogo. Vedesi ciò in questo verso medesimo, di cui vi dissi:I dí miei piú leggier, che nessun cervo,
fuggîr com'ombra.
Et è Qualche quello stesso, e questa in ogni genere e in ogni numero ugualmente ha luogo.
[3.XXV.]
È ultimamente Il quale, voce che si rende a ciascuna delle altre già dette, che in vece di nome si pongono, e ancora ad altre; la qual voce si dice eziandio Che in ogni genere medesimamente e in ogni numero. E questa Che, neutralmente posta, si disse alcuna volta Il che dal Boccaccio: Di che la donna contenta molto si dispose a volere tentare, come quello potesse osservare, il che promesso avea; e ancora: Vi farei goder di quello, senza il che per certo niuna festa compiutamente è lieta. È appresso Chi nel primo caso e ha Cui, negli altri; le quali voci a ciascun numero e a ciascun genere servono. Dissi ciascun genere, ciò è del maschio e della femina; perciò che in quella del neutro, Che si dice in amendue i numeri. Quantunque è alcuna volta, ma tuttavia molto di rado, che si truova Chi posto negli obliqui casi, sí come si vede nel Petrarca, che disse:Fra magnanimi pochi, a chi 'l ben piace,
e ancora,
Come chi 'l perder face accorto e saggio;
e nel Boccaccio, il qual medesimamente disse: O ritornavi mai chi muore? Disse il monaco: sí, chi Dio vuole; e altrove: Come il meglio si poté, per la villa allogata tutta la sua famiglia, chi qua e chi là, e quello che segue. Ora queste tre voci, quando richiedendo si dicono, hanno semplice e brieve sentimento: Chi ti diede? Cui sentisti? Che ti fece? Quando poi si dicono senza richiesta, elle si sciolgono, ciascuna per sé, tale volta in due cotali, Colui il quale:
Chi è fermato di menar sua vita
su per l'onde fallaci;
o Colei la quale:
Se chi tra bella e onesta
qual fu piú lasciò in dubbio;
o Colui al quale: Per mostrare che anche gli uomini sanno beffare, chi crede loro, come essi, da cui elli credono, sono beffati; o pure Quello che: Fa che ti piace, in vece di dire: Fa quello che ti piace; e tale altra si sciolgono in questa sola, Alcuno: Chi fa bene, e chi fa male, cioè Alcuno fa bene, e alcun male; e tale altra in queste due, Alcuno il quale: È chi fa bene, et è chi fa male; o pure in quest'altre due, Ciascuno il quale:
Chi vuol veder quantunque può natura.
E questo Ciascuno, che si dice ancora Ciascheduno anticamente Catuno si disse. Ma queste due ultime un'altra volta si ristringono in una sola, la quale ora è Chiunque e ora Qualunque; tra le quali questa differenza ci ha, che Chiunque si dà al numero solamente degli uomini e da sé si regge:
Chiunque alberga tra Garonna e 'l monte;
e Qualunque si dà alla qualità delle cose, delle quali si ragiona, e posta sola non si regge, ma conviene che seco abbia la voce di quello di che si fa il ragionamento: A qualunque animale alberga in terra; o se non l'ha, vi s'intenda. E come Chiunque maschilemente e feminilemente si dice, cosí Cheunque neutrale sentimento ha in quella medesima forma, e tutte cosí nel numero del piú come in quello del meno si dicono.
[3.XXVI.]
È appresso Tale e Quale, non quando comparazione fanno, ma quando fanno partigione; l'una delle quali si dice alle volte in vece di Chi, sí come la disse il Boccaccio: Laonde fatto chiamare il siniscalco, e domandato qual gridasse, ciò è Chi gridasse; sí come allo 'ncontro Chi si dice alle volte, in vece di dir Quale: il medesimo Boccaccio: La novella di Dioneo era finita; e assai le donne, chi d'una parte e chi d'altra tirando, chi biasimando una cosa, chi un'altra intorno ad essa lodandone, n'avevan ragionato. È ancora che l'una e l'altra si pon neutralmente, e vagliono quanto Alcuna cosa e quanto Qual cosa; sí come vale l'una appo il Petrarca:Tal par gran meraviglia, e poi si sprezza;
e l'altra appo il Boccaccio: E come il vide andato via, cominciò a pensare qual far volesse piú tosto. Viene eziandio a dir Tale alcuna volta, quanto Tale stato e Tal condizione o somigliante cosa, sí come a dir viene pur nel Petrarca:
E or siam giunte a tale,
che costei batte l'ale,
per tornar a l'antico suo ricetto;
e nel Boccaccio ancora: Anzi sono io, per quello che infino a qui ho fatto, a tal venuto, che io non posso fare né poco né molto. Et è altra volta, quando l'articolo vi s'aggiugne, che Tale può quanto Colui, e gli Tali quanto Coloro, e gli Altretali quanto Quegli altri. Et è Cotale, che val quanto Tale, piú ispressamente detta. Sí come si dice Cotanto, piú ispressamente che Tanto: Oimè, misera me, a cui ho io cotanti anni portato cotanto amore!. Ma la voce Cotale s'è alle volte posta in vece della particella Cosí dal Boccaccio: Né fu perciò, quantunque cotal mezzo di nascoso si dicesse, la donna riputata sciocca. Levasi a tutte queste voci che si son dette, che in vece di nome si pongono, le quali hanno la L nell'ultima loro sillaba, o sola o raddoppiata, non solamente la vocale loro ultima o ancora una delle due L comunemente da tutti gli scrittori, quando vogliono o bene lor mette di levarle, Tal Qual Quel e simili, nel numero del meno; ma eziandio alle volte tutta intera la sillaba in quello del piú; e ancora piú che intera la sillaba da' poeti, che Ta' in vece di Tali, e Qua' in vece di Quali, e Que' in vece di Quelli, dissero; come che questa ultima sia stata medesimamente detta da' prosatori.
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Fausernet |
Edizione telematica a cura di: Claudio Paganelli, 1999
Revisione, Edizione HTML e impaginazione a cura di: Giuseppe Bonghi, Aprile 1999
Tratto da: Pietro Bembo, Prose della
volgar lingua, Gli Asolani, Rime, a cura di Carlo Dionisotti, TEA Tascabili Editori
Associati, Milano 1997
© 1999 - by prof. Giuseppe Bonghi
- E-mail: Giuseppe Bonghi - bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 21 aprile, 1999