Pietro  Bembo

Prose della volgar lingua

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DI MESSER PIETRO BEMBO
A MONSIGNOR MESSER GIULIO CARDINALE DE' MEDICI
DELLA VOLGAR LINGUA

[SECONDO LIBRO]

[2.XII.] Di queste tre guise adunque di rime, e di tutte quelle rime che in queste guise sono comprese, che possono senza fallo esser molte, piú grave suono rendono quelle rime che sono tra sé piú lontane; piú piacevole quell'altre che piú vicine sono. Lontane chiamo quelle rime che di lungo spazio si rispondono, altre rime tra esse e altri versi traposti avendo; vicine, allo 'ncontro, quell'altre che pochi versi d'altre rime hanno tra esse; piú vicine ancora, quando esse non ve n'hanno niuno, ma finiscono in una medesima rima due versi; vicinissime poscia quell'altre, che in due versi rotti finiscono; e tanto piú vicine ancora e quelle e queste, quanto esse in piú versi interi e in piú rotti finiscono, senza tramissione d'altra rima. Quantunque, non contenti de' versi rotti, gli antichi uomini eziandio ne' mezzi versi le trametteano, e alle volte piú d'una ne traponevano in un verso. Ritorno a dirvi che piú grave suono rendono le rime piú lontane. Perché gravissimo suono da questa parte è quello delle sestine, in quanto maravigliosa gravità porge il dimorare a sentirsi che alle rime si risponda primieramente per li sei versi primieri, poi quando per alcun meno e quando per alcun piú, ordinatissimamente la legge e la natura della canzone variandonegli. Senza che il fornire le rime sempre con quelle medesime voci genera dignità e grandezza; quasi pensiamo, sdegnando la mendicazione delle rime in altre voci, con quelle voci, che una volta prese si sono per noi, alteramente perseverando lo incominciato lavoro menare a fine. Le quali parti di gravità, perché fossero con alcuna piacevolezza mescolate, ordinò colui che primieramente a questa maniera di versi diede forma, che dove le stanze si toccano nella fine dell'una e incominciamento dell'altra, la rima fosse vicina in due versi. Ma questa medesima piacevolezza tuttavia è grave; in quanto il riposo che alla fine di ciascuna stanza è richiesto, prima che all'altra si passi, framette tra la continuata rima alquanto spazio, e men vicina ne la fa essere, che se ella in una stanza medesima si continuasse. Rendono adunque, come io dissi, le piú lontane rime il suono e l'armonia piú grave, posto nondimeno tuttavolta che convenevole tempo alla ripetizione delle rime si dia. Che se voleste voi, messer Ercole, per questo conto comporre una canzone, che avesse le sue rime di moltissimi versi lontane, voi sciogliereste di lei ogni armonia da questo canto, non che voi la rendeste migliore. A servare ora questa convenevolezza di tempo, l'orecchio piú tosto, di ciascun che scrive, è bisogno che sia giudice, che io assegnare alcuna ferma regola vi ci possa. Nondimeno egli si può dire che non sia bene generalmente framettere piú che tre, o quattro, o ancora cinque versi tra le rime; ma questi tuttavia rade volte. Il che si vede che osservò il Petrarca; il qual poeta, se in quella canzone, che incomincia Verdi panni, trapassò questo ordine, dove ciascuna rima è dalla sua compagna rima per sette versi lontana, sí l'osservò egli maravigliosamente in tutte le altre; e questa medesima è da credere che egli componesse cosí, piú per lasciarne una fatta alla guisa, come io vi dissi, molto usata da' provenzali rimatori, che per altro. Né dirò io che egli non l'osservasse in tutte le altre, perciò che nella canzone Qual piú diversa e nova si vegga una sola rima piú lontana, che per quattro o ancora per cinque versi. Anzi dirò io, che e in tutta Verdi panni essere uscito di questo ordine, e di questa in una sola rima, giugne grazia a questo medesimo ordine, diligentissimamente dallui osservato in tutte le altre canzoni sue; trattone tuttavolta le ballate, dette cosí perché si cantavano a ballo, nelle quali, perciò che l'ultima delle due rime de' primi versi, che da tutta la corona si cantavano, i quali due o tre o il piú quattro essere soleano, si ripeteva nell'ultimo di quelli che si cantavano da un solo, affine che si cadesse nel medesimo suono, avere non si dee quel risguardo, che io dico; e trattone le sestine, le quali stare non debbono sotto questa legge, con ciò sia cosa che perciò che le rime in loro sempre si rispondono con quelle medesime voci, se elle piú vicine fossero, senza fallo genererebbono fastidio, quanto ora fanno dignità e grandezza.

2.XIII.] Dico medesimamente, dall'altra parte, che la vicinità delle rime rende piacevolezza tanto maggiore, quanto piú vicine sono tra sé esse rime. Onde aviene che le canzoni, che molti versi rotti hanno, ora piú vago e grazioso, ora piú dolce e piú soave suono rendono, che quelle che n'hanno pochi; perciò che le rime piú vicine possono ne' versi rotti essere che negl'interi. Sono di molti versi rotti alquante canzoni del Petrarca, tra le quali due ne sono di piú chell'altre. Ponete ora mente quanta vaghezza, quanta dolcezza, e, in somma, quanta piacevolezza è in questa:

Chiare, fresche e dolci acque,
ove le belle membra
pose colei, che sola a me par donna;
gentil ramo, ove piacque
(con sospir mi rimembra)
a lei di far al bel fianco colonna;
erba, e fior, che la gonna
leggiadra ricoverse
con l'angelico seno;
aer sacro sereno,
ov'Amor co' begli occhi il cor m'aperse;
date udienzia inseme
a le dolenti mie parole extreme.

D'un verso rotto piú in quello medesimo e numero e ordine di versi è la sorella di questa canzone, nata con lei ad un corpo. Veggiamo ora, se maggior dolcezza porge il verso rotto dell'una, che dell'altra lo intero:

Se 'l pensier che mi strugge,
com'è pungente e saldo,
cosí vestisse d'un color conforme,
forse tal m'arde e fugge,
ch'avria parte del caldo,
e desteriasi Amor là dove or dorme;
men solitarie l'orme
fôran de' miei piè lassi
per campagne e per colli,
men gli occhi ad ognior molli,
ardendo lei, che come un ghiaccio stassi,
e non lascia in me dramma,
che non sia foco e fiamma.

È dolce suono, sí come voi vedete, messer Ercole, quello di questa rima posta in due vicini versi, l'uno rotto e l'altro intero:

Date udienzia inseme
a le dolenti mie parole extreme.

Ma piú dolce in ogni modo è il suono di quest'altra, della quale amendue i versi son rotti:

E non lascia in me dramma,
che non sia foco e fiamma.

Il che aviene per questo, che ogni indugio e ogni dimora nelle cose è naturalmente di gravità indizio; la qual dimora, perciò che è maggiore nel verso intero, che nel rotto, alquanto piú grave rendendolo, men piacevole il lascia essere di quell'altro. E questo ultimo termine è della piacevolezza, che dal suono delle rime può venire; se non in quanto piú che due versi porre vicini si possono d'una medesima rima. Ma di poco tuttavia e rade volte passare si può questo segno, che la piacevolezza non avilisca. Dissi ultimo termine; perciò che non che piú dolcezza porgano i versi, che le rime hanno piú vicine, sí come sono quelli che le hanno nel mezzo di loro; ma essi sono oltre acciò duri e asperi, sí perché, ponendosi lo scrittore sotto cosí ristretta regola di rime, non può fare o la scielta o la disposizione delle voci a suo modo, ma conviengli bene spesso servire al bisogno e alla necessità della rima, e sí ancora perciò che quello cosí spesso ripigliamento di rime genera strepito piú tosto che suono; sí come dalla canzone di Guido Cavalcanti si può comprendere, che incomincia cosí:

Donna mi prega, perch'io voglio dire
d'un accidente, che sovente è fero,
et è sí altero, che si chiama Amore.

Il qual modo e maniera di rime prese Guido e presero gli altri Toschi da' Provenzali, come ieri si disse, che l'usarono assai sovente. Fuggilla del tutto il Petrarca; dico, in quanto egli non pose giamai due vicine rime nel mezzo d'alcun suo verso. Posene alle volte una; e questa una, quanto egli la pose piú di rado nelle sue canzoni, tanto egli a quelle canzoni giunse piú di grazia; e meno ne diede a quell'altre, nelle quali ella si vede essere piú sovente; sí come si vede in quell'altra:

Mai non vo' piú cantar, com'io solea.

La qual canzone chi chiamasse per questa cagione alquanto dura, forse non errerebbe soverchio. Ma egli tale la fe', acciò traendonelo la qualità della canzone, la quale egli proposto s'avea di tessere tutta di proverbi, sí come s'usò di fare a quel tempo; i quali proverbi, postivi in moltitudine e cosí a mischio, non possono non generare alcuna durezza e asprezza. Ma, tornando alle due canzoni, che io dissi, del Petrarca, sí come elle sono per gli detti rispetti piacevolissime, cosí per gli loro contrari è quell'altra del medesimo poeta gravissima. La quale, quando io il leggo, mi suole parere fuori dell'altre, quasi donna tra molte fanciulle, o pure come reina tra molte donne, non solo d'onestà e di dignità abondevole, ma ancora di grandezza e di magnificenza e di maestà; la qual canzone tutti i suoi versi, da uno per istanza in fuori, ha interi, e le stanze sono lunghe piú che d'alcuna altra:

Nel dolce tempo de la prima etade,
che nascer vide et ancor quasi in erba
la fera voglia, che per mio mal crebbe.

E senza fallo alcuno, chiunque di questa canzone con quelle due comperazione farà, egli scorgerà agevolmente quanto possano a dar piacevolezza le rime de' versi rotti, e quelle degl'interi ad accrescere gravità. E detto fin qui vi sia del suono.

[2.XIV.] Ora a dire del numero passiamo, facitore ancora esso di queste parti, in quanto per lui si può, che non è poco; il qual numero altro non è che il tempo che alle sillabe si dà, o lungo o brieve, ora per opera delle lettere che fanno le sillabe, ora per cagione degli accenti che si danno alle parole, e tale volta e per l'un conto e per l'altro. E prima ragionando degli accenti, dire di loro non voglio quelle cotante cose che ne dicono i Greci, piú alla loro lingua richieste che alla nostra. Ma dico solamente questo, che nel nostro volgare in ciascuna voce è lunga sempre quella sillaba, a cui essi stanno sopra, e brievi tutte quelle, alle quali essi precedono, se sono nella loro intera qualità e forma lasciati; il che non avien loro o nel greco idioma o nel latino. Onde nasce, che la loro giacitura piú in un luogo che in un altro, molto pone e molto leva o di gravità o di piacevolezza, e nella prosa e nel verso. La qual giacitura, perciò che ella uno di tre luoghi suole avere nelle voci, e questi sono l'ultima sillaba o la penultima o quella che sta alla penultima innanzi, con ciò sia cosa che piú che tre sillabe non istanno sott'uno accento comunemente, quando si pone sopra le sillabe, che alle penultime sono precedenti, ella porge alle voci leggerezza, perciò che, come io dissi, lievi sempre sono le due sillabe a cui ella è dinanzi, onde la voce di necessità ne diviene sdrucciolosa. Quando cade nell'ultima sillaba, ella acquista loro peso allo 'ncontro; perciò che giunto che all'accento e il suono, egli quivi si ferma, e come se caduto vi fosse, non se ne rileva altramente. E intanto sono queste giaciture, l'una leggiera e l'altra ponderosa, che qual volta elle tengono gli ultimi loro luoghi nel verso, il verso della primiera cresce dagli altri d'una sillaba, et è di dodici sempre, ché le ultime due sillabe, per la giacitura dell'accento, sono sí leggiere, che dire si può che in luogo d'una giusta si ricevano:

Già non compié di tal consiglio rendere;

e quello dell'altra, d'altro canto, d'una sillaba minore degli regolati è sempre, e piú che dieci avere non ne può, il che è segno che il peso della sillaba, a cui egli soprastà, è tanto, che ella basta e si piglia per due:

Con esso un colpo per la man d'Artú.

Temperata giacitura, e di questi due stremi libera, o piú tosto mezzana tra essi, è poscia quella che alle penultime si pon sopra; e talora gravità dona alle voci, quando elle di vocali e di consonanti, a ciò fare acconcie, sono ripiene; e talora piacevolezza, quando e di consonanti e di vocali o sono ignude e povere molto, o di quelle di loro, che alla piacevolezza servono, abastanza coperte e vestite. Questa, per lo detto temperamento suo, ancora che ella molte volte una appresso altra si ponga e usisi, non per ciò sazia, quando tuttavolta altri non abbia le carte preso a scrivere et empiere di questa sola maniera d'accento, e non d'altra; là dove le due dell'ultima e dell'innanzi penultima sillaba, agevolmente fastidiscono e sazievoli sono molto, e il piú delle volte levano e togliono e di piacevolezza e di gravità, se poste non sono con risguardo. E ciò dico per questo, che esse medesime, quanto si conviene considerate, e poste massimamente l'una di loro tra molte voci gravi, e questa è la sdrucciolosa, e l'altra tra molte voci piacevoli, possono accrescere alcuna volta quello che elle sogliono naturalmente scemare. Che sí come le medicine, quantunque elle veneno siano, pure, a tempo e con misura date, giovano, dove, altramente prese, nuocono e spesso uccidono altrui, e molti piú sono i tempi, ne' quali elle nocive essere si ritroverebbono, se si pigliassero, che gli altri; cosí queste due giaciture degli accenti, ancora che di loro natura elle molto piú acconcie sieno a levar profitto, che a darne, nondimeno alcuna volta nella loro stagione usate, e danno gravità e accrescono piacevolezza. Ponderosi, oltre a questo, sempre sono gli accenti che cuoprono le voci d'una sillaba; il che da questa parte si può vedere, che essi, posti nella fine del verso, quello adoperano, che io dissi, che fanno gli accenti posti nell'ultima sillaba della voce, quando la voce nella fine del verso si sta, ciò è che bastano e servono per due sillabe:

Quanto posso mi spetro, e sol mi sto.

E se in Dante si legge questo verso, che ha l'ultima voce d'una sillaba, e nondimeno il verso è d'undici sillabe:

E piú d'un mezzo di traverso non ci ha,

è ciò per questo che non si dà l'accento all'ultima sillaba, anzi se le toglie, e lasciasi lei all'accento della penultima; e cosí si mandan fuori queste tre voci Non ci ha, come se elle fossero una sola voce, o come si mandan fuori Oncia e Sconcia, che sono le altre due compagne voci di questa rima. Sono tuttavolta questi accenti piú e meno ponderosi, secondo che piú o meno lettere fanno le loro voci, e piú in sé piene o non piene, e a questa guisa poste o a quell'altra.

[2.XV.] Raccolte ora queste maniere di giacitura, veggiamo se nel vero cosí è come io dico. Ma delle due prima dette, ciò è della giacitura, che sopra quella sillaba sta, che alla penultima è dinanzi, e di quella che sta sopra l'ultima, e ancora di quell'altra che alle voci d'una sillaba si pon sopra, bastevole essempio danno, sí come io dissi, quelli versi che noi sdruccioli per questo rispetto chiamiamo, e quegli altri, a' quali danno fine queste due maniere di giacitura poste nell'ultima sillaba, o nelle voci di piú sillabe, o in quelle d'una sola, i quali non sono giamai di piú che di dieci sillabe, per lo peso che accresce loro l'accento, come s'è detto. Ragioniamo adunque di quell'altra, che alle penultime sta sopra. Volle il Boccaccio servar gravità in questo cominciamento delle sue novelle: Umana cosa è l'avere compassione agli afflitti; perché egli prese voci di qualità, che avessero gli accenti nella penultima per lo piú, la qual cosa fece il detto principio tutto grave e riposato. Che se egli avesse preso voci che avessero gli accenti nella innanzi penultima, sí come sarebbe stato il dire: Debita cosa è l'essere compassionevole a' miseri, il numero di quella sentenza tutta sarebbe stato men grave, e non avrebbe compiutamente quello adoperato, che si cercava. E se vorremmo ancora, senza levar via alcuna voce, mutar di loro solamente l'ordine, il quale mutato, conviene che si muti l'ordine degli accenti altresí, e dove dicono: Umana cosa è l'avere compassione agli afflitti, dire cosí: L'avere compassione agli afflitti umana cosa è, ancora piú chiaro si vedrà quanto mutamento fanno pochissimi accenti, piú ad una via posti che ad altra nelle scritture. Volle il medesimo compositore versar dolcezza in queste parole di Gismonda, sopra 'l cuore del suo morto Guiscardo ragionate: O molto amato cuore, ogni mio ufficio verso te è fornito; né piú altro mi resta a fare, se non di venire con la mia anima a fare alla tua compagnia; perché egli prese medesimamente voci che nelle penultime loro sillabe gli accenti avessero per la gran parte, e quelle ordinò nella maniera, che piú giovar potesse a trarne quello effetto che ad esso mettea bene che si traesse. Le quali voci se in voci d'altri accenti si muteranno, e dove esso dice: O molto amato cuore, ogni mio ufficio, noi diremo: O sventuratissimo cuore, ciascun dover nostro; o pure se si muterà di loro solamente l'ordine, e farassi cosí: Ogni ufficio mio, o cuore molto amato, è fornito verso te; né altro mi resta a fare piú, se non di venire a fare compagnia con la mia all'anima tua, tanta differenza potranno per aventura queste voci dolci pigliare, quanta quelle gravi per lo mutamento, che io dissi, hanno pigliata. Ne' quali mutamenti, benché dire si possa che la disposizione delle voci ancora, per altra cagione che per quella degli accenti considerata, alquanto vaglia a generar la disparutezza che essere si vede nel cosí porgere e pronunciare esse voci, nondimeno è da sapere che, a comperazione di quello degli accenti, ogni altro rispetto è poco: con ciò sia cosa che essi danno il concento a tutte le voci, e l'armonia, il che a dire è tanto, quanto sarebbe dare a' corpi lo spirito e l'anima. La qual cosa se nelle prose tanto può, quanto si vede potere, molto piú è da dire che ella possa nel verso; nel qual verso il suono e l'armonia vie piú naturale e proprio e conveniente luogo hanno sempre, che nelle prose. Perciò che le prose, come che elle meglio stiano a questa guisa ordinate, che a quella, ella tuttavolta prose sono; dove nel verso puossi gli accenti porre di modo che egli non rimane piú verso, ma divien prosa, e muta in tutto la sua natura, di regolato in dissoluto cangiandosi; come sarebbe, se alcun dicesse: Voi, ch'in rime sparse ascoltate il suono; e Per far una sua leggiadra vendetta; o veramente Che s'addita per cosa mirabile, e somiglianti. Ne' quali mutamenti, rimanendo le voci e il numero delle sillabe intero, non rimane per tutto ciò né forma né odore alcuno di verso. E questo per niuna altra cagione adiviene, se non per lo essere un solo accento levato del suo luogo in essi versi, e ciò è della quarta o della sesta sillaba in quelli, e della decima in questo. Che, con ciò sia cosa che a formare il verso necessariamente si richiegga che nella quarta o nella sesta e nella decima sillaba siano sempre gli accenti, ogni volta che qualunque s'è l'una di queste due positure non gli ha, quello non è piú verso, comunque poi si stiano le altre sillabe. E questo detto sia non meno del verso rotto, che dello intero, in quanto egli capevole ne può essere. Sono adunque, messer Ercole, questi risguardi non solo a grazia, ma ancora a necessità del verso. A grazia potranno appresso essere tutti quegli altri, de' quali s'è ragionato sopra le prose, dalle quali pigliandogli, quando vi fia mestiero, valere ve ne potrete. Ma passiamo oggimai a dire del tempo, che le lettere generano, ora lungo, ora brieve nelle sillabe; il che agevolmente si potrà fare -.

[2.XVI.] Allora disse lo Strozza: - Deh, se egli non v'è grave, messer Federigo, prima che a dire d'altro valichiate, fatemi chiaro come ciò sia, che detto avete, che comunemente non istanno sott'uno accento piú che tre sillabe. Non istanno elleno sott'un solo accento quattro sillabe in queste voci, Alitano, Germinano, Terminano, Considerano, e in simili? - Stanno, - rispose messer Federigo - ma non comunemente. Noi comunemente osserviamo altresí, come osservano i Greci e Latini, il non porre piú che tre sillabe sotto 'l governo d'un solo accento. È il vero che, perciò che gli accenti appo noi non possono sopra sillaba, che brieve sia, esser posti, come possono appo loro; e se posti vi sono la fanno lunga, come fecero in quel verso del Paradiso: Devoto quanto posso a te supplíco; e come fecero nella voce Piéta, quasi da tutti i buoni antichi poeti alcuna volta cosí detta in vece di Pietà; videro i nostri uomini che molto men male era ordinare, che in queste voci che voi ricordate, e nelle loro somiglianti, ci concedesse che quattro sillabe dovessero d'uno accento contentarsi, che non era una sillaba naturalissimamente brieve mutare in lunga, come sarebbe a dire Alítano e Termínano; il che fare bisognerebbe. Né solamente quattro sillabe, ma cinque ancora pare alle volte che state siano paghe d'un solo accento; sí come in questa voce, Síamivene, e in quest'altra, Portàndosenela, che disse il Boccaccio: E se egli questo negasse, sicuramente gli dite, che io sia stata quella che questo v'abbia detto, e síamivene doluta; e altrove: Perché portàndosenela il lupo, senza fallo strangolata l'avrebbe. Ma ciò aviene di rado. Vada adunque, messer Ercole, l'una licenza e l'una agevolezza per l'altra, e l'una per l'altra strettezza e regola altresí. A' Greci e a' Latini è conceduto porre i loro accenti sopra lunghe e sopra brievi sillabe, il che a noi e vietato; sia dunque a noi conceduto da quest'altro canto quello che loro si vieta: il poter commettere piú che tre sillabe al governo d'un solo accento. Basti, che non se ne commette alcuna lunga, fuori solamente quella, a cui egli sta sopra. - E come, - disse messer Ercole - non se ne commette alcuna lunga? Quando io dico, Uccídonsi, Ferísconsi, non sono lunghe in queste voci delle sillabe, a cui gli accenti sono dinanzi e non istanno sopra? - Sono, messer Ercole, - rispose messer Federigo - ma per nostra cagione, non per loro natura: con ciò sia cosa che naturalmente si dovrebbe dire Uccídonosi, Ferísconosi; il che perciò che dicendo non si pecca, ha voluto l'usanza che non si pecchi ancora no 'l dicendo, pigliando come brieve quella sillaba, che nel vero è brieve quando la voce è naturale e intera. La quale usanza tanto ha potuto, che ancora quando un'altra sillaba s'aggiugne a queste voci, Uccídonsene, Ferísconsene, ella cosí si piglia per brieve, come fa quando sono tali, quali voi avete ricordato.

[2.XVII.] Ora, venendo al tempo che le lettere danno alle voci, è da sapere che tanto maggiore gravità rendono le sillabe, quanto elle piú lungo tempo hanno in sé per questo conto; il che aviene qualora piú vocali o piú consonanti entrano in ciascuna sillaba; tutto che la moltitudine delle vocali meno spaziosa sia che quella delle consonanti, e oltre acciò poco ricevuta dalle prose. Del verso è ella propria e domestichissima, e stavvi ora per via di mescolamento, ora di divertimento; sí come nelle due prime sillabe si vede stare di questo verso, detto da noi altre volte:

Voi ch'ascoltate;

e quando per l'un modo e per l'altro; il che nella sesta di quest'altro ha luogo:

Di quei Sospiri, ond'io nutriva il core;

là dove la moltitudine delle consonanti et è spaziosissima, et entra, oltre acciò, non meno nelle prose che nel verso. Perché volendo il Boccaccio render grave, quanto si potea il piú, quel principio delle sue novelle, che io testé vi recitai, poscia che egli per alquante voci ebbe la gravità con gli accenti e con la maniera delle vocali solamente cercata: Umana cosa è l'avere; sí la cercò egli per alquante altre eziandio, con le consonanti riempiendo e rinforzando le sillabe: Compassione agli afflitti. Il che fece medesimamente il Petrarca, pure nel medesimo principio delle canzoni, Voi ch'ascoltate, non solamente con altre vocali, ma ancora con quantità di vocali e di consonanti, acquistando alle voci gravità e grandezza. E questo medesimo acquisto tanto piú adopera, quanto le consonanti, che empiono le sillabe, sono e in numero piú spesse e in spirito piú piene; perciò che piú grave suono ha in sé questa voce Destro, che quest'altra Vetro, e piú magnifico lo rende il dire Campo, che o Caldo o Casso dicendosi, non si renderà. E cosí delle altre parti si potrà dire della gravità, per le altre posse tutte delle consonanti discorrendo e avertendo. Dissi in che modo il numero divien grave per cagione del tempo che le lettere danno alle sillabe; e prima detto avea in qual modo egli grave diveniva; per cagione di quel tempo che gli accenti danno alle voci. Ora dico che somma e ultima gravità è, quando ciascuna sillaba ha in sé l'una e l'altra di queste parti; il che si vede essere per alquante sillabe in molti luoghi, ma troppo piú in questo verso, che in alcuno altro che io leggessi giamai:

Fior', frond', erb', ombr', antr', ond', aure soavi.

E per dire ancora di questo medesimo acquisto di gravità piú innanzi, dico che come che egli molto adoperi e nelle prose e nelle altre parti del verso, pure egli molto piú adopera e può nelle rime; le quali maravigliosa gravità accrescono al poema, quando hanno la prima sillaba di piú consonanti ripiena, come hanno in questi versi:

Mentre che 'l cor dagli amorosi vermi
fu consumato, e 'n fiamma amorosa arse,
di vaga fera le vestigia sparse
cercai per poggi solitari et ermi,
et ebbi ardir, cantando, di dolermi
d'amor, di lei, che sí dura m'apparse;
ma l'ingegno e le rime erano scarse
in quella etate a pensier novi e 'nfermi.
Quel foco è spento, e 'l copre un picciol marmo.
Che se col tempo fosse ito avanzando,
come già in altri, infino a la vecchiezza,
di rime armato, ond'oggi mi disarmo,
con stil canuto avrei fatto, parlando,
romper le pietre, e pianger di dolcezza.

Non possono cosí le vocali; quantunque ancora di loro dire si può, che elle non istanno perciò del tutto senza opera nelle rime: con ciò sia cosa che alquanto piú in ogni modo piena si sente essere questa voce Suoi nella rima, che quest'altra Poi, e Miei, che Lei, e cosí dell'altre. Resterebbemi ora, messer Ercole, detto che s'è dell'una parte abastanza, dirvi medesimamente dell'altra, e mostrarvi, che sí come la spessezza delle lettere accresce alle voci gravità, cosí la rarità porge loro piacevolezza; se io non istimassi, che voi dalle dette cose, senza altro ragionarne sopra, il comprendeste abastanza; scemando con quelle medesime regole a questo fine, con le quali si giugne e cresce a quell'altro; il che chiude e compie tutta la forza e valore del numero.

[2.XVIII.] Dirò adunque della terza causa, generante ancor lei in comune le dette due parti richieste allo scriver bene; e ciò è la variazione non per altro ritrovata, se non per fuggire la sazietà, della quale ci avertí dianzi messer Carlo che ci fa non solamente le non ree cose, o pure le buone, ma ancora le buonissime verso di sé e dilettevolissime spesse volte essere a fastidio, e allo 'ncontro le non buone alcuna fiata e le sprezzate venire in grado. Per la qual cosa, e nel cercare la gravità, dopo molte voci di piene e d'alte lettere, è da porne alcuna di basse e sottili; e appresso molte rime tra sé lontane, una vicina meglio risponderà, che altre di quella medesima guisa non faranno; e tra molti accenti che giacciano nelle penultime sillabe, si dee vedere di recarne alcuno, che all'ultima e alla innanzi penultima stia sopra; e in mezzo di molte sillabe lunghissime, frametterne alquante corte giugne grazia e adornamento. E cosí, d'altro canto; nel cercare la piacevolezza, non è bene tutte le parti, che la ci rappresentano, girsi per noi sempre, senza alcun brieve mescolamento dell'altre, cercando e affettando. Perciò che là dove al lettore con la nostra fatica diletto procacciamo, sottentrando per la continuazione, or una volta or altra, la sazietà, ne nasce a poco a poco e allignavisi il fastidio, effetto contrario del nostro disio. Né pure in queste cose che io ragionate v'ho, ma in quelle ancora che ci ragionò il Bembo, è da schifare la sazietà il piú che si può e il fastidio. Perciò che e nella scielta delle voci, tra quelle di loro isquisitissimamente cercate vederne una tolta di mezzo il popolo, e tra le popolari un'altra recatavi quasi da' seggi de' re, e tra le nostre una straniera, e una antica tra le moderne, o nuova tra le usate, non si può dire quanto risvegli alcuna volta e sodisfaccia l'animo di chi legge; e cosí un'altra un poco aspera tra molte dilicate, e tra le molte risonanti una cheta, o allo 'ncontro. E nel disporre medesimamente delle voci, niuna delle otto parti del parlare, niuno ordine di loro, niuna maniera e figura del dire usare perpetuamente si conviene e in ogni canto; ma ora isprimere alcuna cosa per le sue proprie voci, ora per alcun giro di parole, fa luogo; e questi medesimi o altri giri, ora di molte membra comporre, ora di poche, e queste membra, ora veloci formare, ora tarde, ora lunghe, ora brievi, e in tanto in ciascuna maniera di componimenti fuggir si dee la sazietà, che questo medesimo fuggimento è da vedere che non sazii, e nell'usare varietà non s'usi continuazione. Oltra che sono eziandio di quelle cose le quali variare non si possono; sí come sono alcune maniere di poemi di quelle rime composti, che io regolate chiamai; con ciò sia cosa che non poteva Dante fuggire la continuazione delle sue terze rime, sí come non possono i Latini, i quali eroicamente scrivono, fuggire che di sei piedi non siano tutti i loro versi ugualmente. Ma queste cose tuttavolta sono poche; dove quelle che si possono e debbono variare, sono infinite. Per la qual cosa né di tutte quelle, delle quali è capevole il verso, né di quelle tutte, che nelle prose truovano luogo, recar si può particolare testimonianza, chi tutto dí ragionare di nulla altro non volesse. Bene si può questo dire che di quelle, la variazione delle quali nelle prose può capere, gran maestro fu, a fuggirne la sazietà, il Boccaccio nelle sue novelle, il quale, avendo a far loro cento proemi, in modo tutti gli variò, che grazioso diletto danno a chi gli ascolta; senza che in tanti finimenti e rientramenti di ragionari, tra dieci persone fatti, schifare il fastidio non fu poco. Ma della varietà che può entrar nel verso, quanto ne sia stato diligente il Petrarca, estimare piú tosto si può, che isprimere bastevolmente; il quale d'un solo suggetto e materia tante canzoni componendo, ora con una maniera di rimarle, ora con altra, e versi ora interi e quando rotti, e rime quando vicine e quando lontane, e in mille altri modi di varietà, tanto fece e tanto adoperò, che, non che sazietà ne nasca, ma egli non è in tutte loro parte alcuna, la quale con disio e con avidità di leggere ancora piú oltra non ci lasci. La qual cosa maggiormente apparisce in quelle parti delle sue canzoni, nelle quali egli piú canzoni compose d'alcuna particella e articolo del suo suggetto; il che egli fece piú volte, né pure con le piú corte canzoni, anzi ancora con le lunghissime; sí come sono quelle tre degli occhi, le quali egli variando andò in cosí maravigliosi modi, che quanto piú si legge di loro e si rilegge, tanto altri piú di leggerle e di rileggerle divien vago; e come sono quelle due piacevolissime, delle quali poca ora fa vi ragionai, perciò che estimando egli che la loro piacevolezza, raccolta per gli molti versi rotti, potesse avilire, egli alquante stanze seguentisi, con le rime acconcie a generar gravità, diè alla primiera, e questa medesima gravità, affine che non fosse troppa, temperò con un'altra stanza, tutta di rime piacevoli tessuta allo 'ncontro. Nel rimanente poi di questa canzone, e in tutta l'altra, e all'une rime e all'altre per ciascuna stanza dando parte, fuggí non solamente la troppa piacevolezza o la troppa gravità, ma ancora la troppa diligenza del fuggirle. Somigliante cura pose molte volte eziandio in un solo verso, sí come pose in quello che io per gravissimo vi recitai:

Fior', frondi, erbe, ombre, antri, onde, aure soavi.

Con ciò sia cosa che conoscendo egli che se il verso tutto si forniva con voci, e per conto delle vocali, e per conto delle consonanti, e per conto degli accenti pieno di gravità, nella guisa nella quale esso era piú che mezzo tessuto, poteva la gravità venire altrui parendo troppo cercata e affettata e generarsene la sazietà, egli lo forní con questa voce, Soavi, piena senza fallo di piacevolezza, e veramente tale, quale di lei è il sentimento, e a questa piacevolezza tuttavolta passò con un'altra voce in parte grave e in parte piacevole, per non passar dall'uno all'altro stremo senza mezzo. I quali avertimenti, come che paiano avuti sopra leggiere e minute cose, pure sono tali che, raccolti, molto adoperano, sí come vedete.

[2.XIX.] Potrebbesi a queste tre parti, messer Ercole, che io trascorse v'ho, piú tosto che raccontate, al suono, al numero, alla variazione, generanti le due, dico la gravità e la piacevolezza, che empiono il bene scrivere, aggiugnerne ancora dell'altre acconcie a questo medesimo fine, sí come sono il decoro e la persuasione. Con ciò sia cosa che da servare è il decoro degli stili, o convenevolezza che piú ci piaccia di nomare questa virtú, mentre d'essere o gravi o piacevoli cerchiamo nelle scritture, o per aventura l'uno e l'altro; quando si vede che agevolmente procacciando la gravità, passare si può piú oltra entrando nell'austerità dello stile; il che nasce, ingannandoci la vicinità e la somiglianza che avere sogliono i principj del vizio con gli stremi della virtú, pigliando quelle voci per oneste che sono rozze, e per grandi le ignave, e ripiene di dignità le severe, e per magnifiche le pompose. E, d'altra parte, cercando la piacevolezza, puossi trascorrere e scendere al dissoluto; credendo quelle voci graziose essere, che ridicule sono, e le imbellettate vaghe, e le insiepide dolci, e le stridevoli soavi. Le quali pecche tutte, e le altre che aggiugnere a queste si può, fuggire si debbono, e tanto piú ancora diligentemente, quanto piú elleno sotto spezie di virtú ci si parano dinanzi, e, di giovarci promettendo, ci nuocono maggiormente, assalendoci sproveduti. Né è la persuasione, meno che questo decoro, da disiderare e da procacciare agli scrittori, senza la quale possono bene aver luogo e la gravità e la piacevolezza; con ciò sia cosa che molte scritture si veggono, che non mancano di queste parti, le quali non hanno poscia quella forza e quella virtú che persuade; ma elle sono poco meno che vane, e indarno s'adoperano, se ancora questa rapitrice degli animi di chi ascolta esse non hanno dal lor canto. La quale a dissegnarvi e a dimostrarvi bene e compiutamente, quale e chente ella è, bisognerebbe tutte quelle cose raccogliere che dell'arte dell'orare si scrivono, che sono, come sapete, moltissime, perciò che tutta quella arte altro non c'insegna, e ad altro fine non s'adopera, che a persuadere. Ma io non dico ora persuasione in generale e in universo; ma dico quella occulta virtú, che, in ogni voce dimorando, commuove altrui ad assentire a ciò che egli legge, procacciata piú tosto dal giudicio dello scrittore che dall'artificio de' maestri. Con ciò sia cosa che non sempre ha, colui che scrive, la regola dell'arte insieme con la penna in mano. Né fa mestiero altresí in ciascuna voce fermarsi, a considerare se la riceve l'arte o non riceve, e specialmente nelle prose, il campo delle quali molto piú largo e spazioso e libero è, che quello del verso. Oltra che se ne ritarderebbe e intiepidirebbe il calore del componente, il quale spesse volte non pate dimora. Ma bene può sempre, e ad ogni minuta parte, lo scrittore adoperare il giudicio, e sentire, tuttavia scrivendo e componendo, se quella voce o quell'altra, e quello o quell'altro membro della scrittura, vale a persuadere ciò che egli scrive. Questa forza e questa virtú particolare di persuadere, dico, messer Ercole, che è grandemente richiesta e alle gravi e alle piacevoli scritture; né può alcuna veramente grave, o veramente piacevole essere, senza essa. Perché, recando le molte parole in una, quando si farà per noi a dar giudicio di due scrittori, quale di loro piú vaglia e quale meno, considerando a parte a parte il suono, il numero, la variazione, il decoro, e ultimamente la persuasione di ciascun di loro, e quanta piacevolezza e quanta gravità abbiano generata e sparsa per gli loro componimenti, e con le parti, che ci raccolse messer Carlo, dello sciegliere e del disporre, prima da noi medesimamente considerate, ponendole, potremo sicuramente conoscere e trarne la differenza. E perciò che tutte queste parti sono piú abondevoli nel Boccaccio e nel Petrarca, che in alcuno degli altri scrittori di questa lingua, aggiuntovi ancora quello che messer Carlo primieramente ci disse, che valeva a trarne il giudicio, che essi sono i piú lodati e di maggior grido, conchiudere vi può messer Carlo da capo, che niuno altro cosí buono o prosatore o rimatore è, messer Ercole, come sono essi. Che quantunque del Boccaccio si possa dire, che egli nel vero alcuna volta molto prudente scrittore stato non sia; con ciò sia cosa che egli mancasse talora di giudicio nello scrivere, non pure delle altre opere, ma nel Decamerone ancora, nondimeno quelle parti del detto libro, le quali egli poco giudiciosamente prese a scrivere, quelle medesime egli pure con buono e con leggiadro stile scrisse tutte; il che è quello che noi cerchiamo. Dico adunque di costor due un'altra volta, che essi buonissimi scrittori sono sopra tutti gli altri, e insieme che la maniera dello scrivere de' presenti toscani uomini cosí buona non è come è quella nella quale scrisser questi; e cosí si vederà essere infino attanto che venga scrittore, che piú di loro abbia ne' suoi componimenti seminate e sparse le ragionate cose -.

[2.XX.] Tacevasi messer Federigo dopo queste parole, avendo il suo ragionamento fornito, e insieme con esso lui tacevano tutti gli altri; se non che il Magnifico, veggendo ognuno starsi cheto, disse: - Se a queste cose tutte, che messer Federigo e il Bembo v'hanno raccolte, risguardo avessero coloro che vogliono, messer Ercole, sopra Dante e sopra il Petrarca dar giudicio, quale è di lor miglior poeta, essi non sarebbono tra loro discordanti sí come sono. Ché quantunque infinita sia la moltitudine di quelli, da' quali molto piú è lodato messer Francesco, nondimeno non sono pochi quegli altri, a' quali Dante piú sodisfà, tratti, come io stimo, dalla grandezza e varietà del suggetto, piú che da altro. Nella qual cosa essi s'ingannano; perciò che il suggetto è ben quello che fa il poema, o puollo almen fare, o alto o umile o mezzano di stile, ma buono in sé o non buono non giamai. Con ciò sia cosa che può alcuno d'altissimo suggetto pigliare a scrivere, e tuttavolta scrivere in modo, che la composizione si dirà esser rea e sazievole; e un altro potrà, materia umilissima proponendosi, comporre il poema di maniera che da ogniuno buonissimo e vaghissimo sarà riputato; sí come fu riputato quello del ciciliano Teocrito, il quale, di materia pastorale e bassissima scrivendo, è nondimeno molto piú in prezzo e in riputazione sempre stato tra' Greci, che non fa giamai Lucano tra' Latini, tutto che egli suggetto reale e altissimo si ponesse innanzi. Non dico già tuttavia, che un suggetto, piú che un altro, non possa piacere. Ma questo rispetto non è di necessità, dove quegli altri, de' quali s'è oggi detto, sono molti, e ciascuno per sé necessariissimo a doverne essere il componente lodato e pregiato compiutamente. Onde io torno a dire, che se gli uomini con le regole del Bembo e di messer Federigo essaminassero gli scrittori, essi sarebbono d'un parere tutti e d'una openione in questo giudicio -. Allora disse messer Ercole: - Se io questi poeti, Giuliano, avessi veduti, come voi avete, mi crederei potere ancor io dire affermatamente cosí esser vero come voi dite. Ma perciò che io di loro per adietro niuna sperienza ho presa, tanto solo dirò, che io mi credo che cosí sia, persuadendomi che errare non si possa, per chiunque con tanti e tali avertimenti giudica, chenti son questi che si son detti. Co' quali, messer Carlo, stimo io che giudicasse messer Pietro vostro fratello, del quale mi soviene ora, che essendo egli e messer Paolo Canale, da Roma ritornando e per Ferrara passando, scavalcati alle mie case, e da me per alcun dí a ristorare la fatica del camino sopratenutivi, un giorno tra gli altri venne a me il Cosmico, che in Ferrara, come sapete, dimora, e tutti e tre nel giardino trovatici, che lentamente spaziando e di cose dilettevoli ragionando ci diportavamo, dopo i primi raccoglimenti fatti tra loro, egli e messer Pietro, non so come, nel processo del parlare a dire di Dante e del Petrarca pervennero; nel quale ragionamento mostrava messer Pietro maravigliarsi come ciò fosse, che il Cosmico, in uno de' suoi sonetti, al Petrarca il secondo luogo avesse dato nella volgar poesia. Nella qual materia molte cose furono da lor dette e da messer Paolo ancora, che io non mi ricordo; se non in quanto il Cosmico molto parea che si fondasse sopra la magnificenza e ampiezza del suggetto, delle quali ora Giuliano diceva, e sopra lo aver Dante molta piú dottrina e molte piú scienze per lo suo poema sparse, che non ha messer Francesco. - Queste cose appunto son quelle, - disse allora mio fratello - sopra le quali principalmente si fermano, messer Ercole, tutti quelli che di questa openion sono. Ma se dire il vero si dee tra noi, che non so quello che io mi facessi fuor di qui, quanto sarebbe stato piú lodevole che egli di meno alta e di meno ampia materia posto si fosse a scrivere, e quella sempre nel suo mediocre stato avesse, scrivendo, contenuta, che non è stato, cosí larga e cosí magnifica pigliandola, lasciarsi cadere molto spesso a scrivere le bassissime e le vilissime cose; e quanto ancora sarebbe egli miglior poeta che non è, se altro che poeta parere agli uomini voluto non avesse nelle sue rime. Che mentre che egli di ciascuna delle sette arti e della filosofia e, oltre acciò, di tutte le cristiane cose maestro ha voluto mostrar d'essere nel suo poema, egli men sommo e meno perfetto è stato nella poesia. Con ciò sia cosa che affine di poter di qualunque cosa scrivere, che ad animo gli veniva, quantunque poco acconcia e malagevole a caper nel verso, egli molto spesso ora le latine voci, ora le straniere, che non sono state dalla Toscana ricevute, ora le vecchie del tutto e tralasciate, ora le non usate e rozze, ora le immonde e brutte, ora le durissime usando, e allo 'ncontro le pure e gentili alcuna volta mutando e guastando, e talora, senza alcuna scielta o regola, da sé formandone e fingendone, ha in maniera operato, che si può la sua Comedia giustamente rassomigliare ad un bello e spazioso campo di grano, che sia tutto d'avene e di logli e d'erbe sterili e dannose mescolato, o ad alcuna non potata vite al suo tempo, la quale si vede essere poscia la state sí di foglie e di pampini e di viticci ripiena, che se ne offendono le belle uve -.

[2.XXI.] Io, senza dubbio alcuno - disse lo Strozza - mi persuado, messer Carlo, che cosí sia, come voi dite; poscia che io tutti e tre vi veggo in ciò essere d'una sentenza. E pure dianzi quando messer Federigo ci recò le due comperazioni degli scabbiosi, oltre che elle parute m'erano alquanto essere disonoratamente dette, sí mi parea egli ancora che vi fosse una voce delle vostre, dico di questa città, là in quel verso:

Da ragazzo aspettato da signor so,

nel quale, So, pare detto in vece di Suo, forse piú licenziosamente che a grave e moderato poeta non s'appartiene -. Alle quali parole traponendosi il Magnifico: - Egli è ben vero - disse - che delle voci di questa città sparse Dante e seminò in piú luoghi della sua Comedia che io non arei voluto, sí come sono Fantin e Fantolin, che egli disse piú volte, e Fra, in vece di Frate, e Ca, in vece di Casa, e Polo, e somiglianti. Ma questa voce Signorso, che voi credete, messer Ercole, che sian due, ella altro che una voce non è, e, oltre a questo, è toscana tutta e non viniziana in parte alcuna; quantunque ella bassissima voce sia e per poco solamente dal volgo usata, e per ciò non meritevole d'aver luogo negli eroici componimenti. - Come una voce, - disse messer Ercole - o in qual modo? - Dirollovi - rispose il Magnifico, e seguitò in questa maniera: - Voi dovete, messer Ercole, sapere, usanza della Toscana essere con alquante cosí fatte voci congiugnere questi possessivi Mio, Tuo, Suo, in modo che se ne fa uno intero, traendone tuttavia la lettera del mezzo, ciò è la I e la U, in questa guisa: Signòrso, Signorto, in luogo di Signor suo e Signor tuo; e Fratèlmo, in luogo di Fratel mio; e Pàtremo e Màtrema, in luogo di Patre mio e Matre mia; e Mògliema e Mòglieta, e alcuna volta Figliuòlto, e cosí d'alcune altre; alle quali voci tutte non si dà l'articolo, ma si leva, che non diciamo Dal Signorso o Della Moglieta, ma Di Moglieta e Da Signorso; sí come disse Dante in quel verso, e come si legge nelle novelle del Boccaccio, nelle quali egli e Signorto e Moglieta pose piú d'una volta, e Fratelmo ancora. E dicovi piú, che queste voci s'usano, ragionando tuttodí, non solo nella Toscana, ma ancora in alcuna delle vicinanze sue, che da noi prese l'hanno, e in Roma altresí; e messer Federigo le dee aver udite ad Urbino in bocca di quelle genti molte volte. - Cosí è, Giuliano, - disse incontanente messer Federigo. - Né pure queste voci solamente s'usano tra que' monti, come dite, che vostre siano, ma dell'altre medesimamente, tra le quali una ve n'è loro cosí in usanza, che io ho alle volte creduto che ella non sia vostra. E questa è Avaccio, che si dice in vece di Tosto; con ciò sia cosa che in Firenze, sí come io odo, ella oggimai niente piú s'usa, o poco -. Alle quali parole il Magnifico cosí rispose: - Egli non è dubbio, messer Federigo, che Avaccio, voce nostra, non sia tratta da Avacciare, che è Affrettare, molto antica e dalle antiche toscane prose ricordata molto spesso o, dalle quali pigliare l'hanno Dante e il Boccaccio potuta, che Avacciare, in luogo d'Affrettare, piú volte dissero.

Dal qual verbo si fe' Avaccio, voce molto piú del verso che della prosa, la quale usò il medesimo Boccaccio nelle sue ottave rime, se io non sono errato, alquante volte, e Dante medesimo per la sua Comedia la seminò alquante altre. Né l'una di queste voci né l'altra si vede che abbia voluto usare il Petrarca, ma in luogo d'Avacciare, che ad uopo gli veniva, disse Avanzare, fuggendo la bassezza del vocabolo, come io stimo, e in questo modo inalzandolo:

Sí vedrem chiaro poi, come sovente
per le cose dubbiose altri s'avanza;

o pure ancora:

E ben che 'l primo colpo aspro e mortale
fosse da sé, per avanzar sua impresa
una saetta di pietate ha presa.

La qual voce usò la Toscana assai spesso in questo sentimento di mandare innanzi e far maggiore, non guari dal sentimento d'Avacciare scostandola; con ciò sia cosa che chiunque s'avanza, per questo s'avanza, che egli s'affretta e si sollecita piú volte. Ma, tornando alla prima voce Avaccio, ella poco s'usa oggi nella patria mia come voi dite, divenuta vile, sí come sogliono il piú delle cose, per la sua vecchiezza. Usasi vie piú ne' suoi dintorni, e spezialmente in quel di Perugia, dove le levano tuttavia la prima lettera, e dicono Vaccio -.

[2.XXII.] Avea cosí detto il Magnifico e tacevasi, quando lo Strozza, che attentamente ascoltato l'avea, disse: - Deh, se il cielo, Giuliano, in riputazione e stima la vostra lingua avanzi di giorno in giorno, e voglio io incominciare a ragionar toscanamente da questa voce, che buono augurio mi dà e in speranza mi mette di nuovo acquisto, non fate sosta cosí tosto nel raccontarci delle vostre voci, ma ditecene ancora, e sponetecene dell'altre; che io non vi potrei dire, quanto diletto io piglio di questi ragionamenti. - E che volete voi, che io vi racconti piú oltra? - rispose il Magnifico. - Non avete voi oggi da messer Carlo e da messer Federigo udite molte cose? - Sí di vero, - rispose lo Strozza - che io ne ho molte udite, le quali mi potranno ancora di molta utilità essere o nel giudicare gli altrui componimenti, se io ne leggerò, o nel misurare i miei, se io me ne travaglierò giamai. Ma quelle cose nondimeno sono avertimenti generali, che vagliono piú a ben volere usare e mettere in opera la vostra lingua, a chi appresa l'ha e intendela, che ad appararla: il che a me convien fare, se debbo valermene, ché sono in essa nuovo, come vedete. Per la qual cosa a me sarebbe sopra modo caro che voi, per le parti del vostro idioma discorrendo, le particolari voci di ciascuna, le quali fa luogo a dover sapere, pensaste di ramemorarvi, e di raccontarlemi. - Io volentieri ciò farei, in quanto si potesse per me fare, - rispose il Magnifico - se piú di spazio a quest'opera mi fosse dato, che non è; ché, come potete vedere, il dí oggimai è stanco, e piú tosto gli 'nteri giorni sarebbono a tale ragionamento richiesti, che le brievi ore. - Per questo non dee egli rimanere, - disse mio fratello, a queste parole traponendosi - che a messer Ercole non si sodisfaccia. E poscia che egli fu da noi ieri allo scrivere volgarmente invitato, convenevole cosa è, Giuliano, che noi niuna fatica, che a questo fine porti, rifuggiamo. Vengasi domani ancor qui, e tanto sopra ciò si ragioni, quanto ad esso gioverà e sarà in grado. - Vengasi pure, - disse il Magnifico - e ragionisi, se ad esso cosí piace; tuttavolta con questa condizione che voi, messer Carlo e messer Federigo, m'aiutate; ché io non voglio dire altramente -. A queste parole rispondendo i due, che essi erano contenti di cosí fare, quantunque sapessero che allui di loro aiuto non facea mestiero, e messer Ercole aggiugnendo che esso ne sarebbe loro tenuto grandemente, tutti e tre insieme, sí come il dí dinanzi fatto aveano, dipartendosi, lasciarono mio fratello.


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Edizione telematica  a cura di: Claudio Paganelli, 1999
Revisione, Edizione HTML e impaginazione a cura di: Giuseppe Bonghi, Aprile 1999
Tratto da: Pietro Bembo, Prose della volgar lingua, Gli Asolani, Rime, a cura di Carlo Dionisotti, TEA Tascabili Editori Associati, Milano 1997

© 1999 - by prof. Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 21 aprile, 1999