Pietro Bembo
Prose della volgar lingua
DI MESSER PIETRO BEMBO
A MONSIGNOR MESSER GIULIO CARDINALE DE' MEDICI
DELLA VOLGAR LINGUA
SECONDO LIBRO
[2.I.]
Due sono, monsignor messer Giulio, per comune giudicio di ciascun savio, della vita degli uomini le vie; per le quali si può, caminando, a molta loda di sé con molta utilità d'altrui pervenire. L'una è il fare le belle e le laudevoli cose; l'altra è il considerare e il contemplare, non pur le cose che gli uomini far possono, ma quelle ancora che Dio fatte ha, e le cause e gli effetti loro e il loro ordine, e sopra tutte esso facitor di loro e disponitore e conservator Dio. Perciò che e con le buone opere, e in pace e in guerra, si fa in diversi modi e alle private persone e alle comunanze de' popoli e alle nazioni giovamento, e per la contemplazione diviene l'uom saggio e prudente e può gli altri di molta virtú abondevoli fare similmente, loro le cose da sé trovate e considerate dimostrando. E in tanto furono l'una e l'altra per sé di queste vie dagli antichi filosofi lodata, che ancora la quistion pende, quale di loro preporre all'altra si debba e sia migliore. Ora se alle buone opere e alle belle contemplazioni la penna mancasse, né si trovasse chi le scrivesse, elle cosí giovevoli non sarebbono di gran lunga, come sono. Con ciò sia cosa che essendo lor tolto il modo del poter essere da tutte genti, e per molti secoli, conosciute, esse né con l'essempio gioverebbono né con l'insegnamento, se non in picciola e menomissima parte a rispetto di quel tanto, che far possono con la memoria e col testimonio degl'inchiostri; a' quali, quando elle state sono raccomandate con vaga e leggiadra maniera, non solo gran frutto rendono, ma ancora maraviglioso diletto apportano alle umane menti, vaghe naturalmente sempre d'intendere e di sapere. Per la qual cosa primieramente da quelli d'Egitto infinite cose si scrissero, infinite poscia da' Fenici, dagli Assirii, da' Caldei e da altre nazioni sopra essi; infinite sopra tutto da' Greci, che di tutte le scienze e le discipline e di tutti i modi dello scrivere stati sono grandi e diligenti maestri; infinite ultimatamente da' Romani, i quali co' Greci garreggiarono della maggioranza delle scritture, istimando per aventura, sí come nelle arti della cavalleria e del signoreggiare fatto aveano, di vincernegli cosí in questa, nella quale tanto oltre andarono; che la latina lingua n'è divenuta tale, chente la vediamo.[2.II.]
È ora, monsignor messer Giulio, e a questi ultimi secoli successa alla latina lingua la volgare; et è successa cosí felicemente, che già in essa, non pur molti, ma ancora eccellenti scrittori si leggono, e nel verso e nella prosa. Perciò che da quel secolo, che sopra Dante infino ad esso fu, cominciando, molti rimatori incontanente sursero, non solamente della vostra città e di tutta Toscana, ma eziandio altronde; sí come furono messer Piero dalle Vigne, Buonagiunta da Lucca, Guitton d'Arezzo, messer Rinaldo d'Acquino, Lapo Gianni, Francesco Ismera, Forese Donati, Gianni Alfani, Ser Brunetto, Notaio Jacomo da Lentino, Mazzeo e Guido Giudice messinesi, il re Enzo, lo 'mperador Federigo, messer Onesto e messer Semprebene da Bologna, messer Guido Guinicelli bolognese anch'egli, molto da Dante lodato, Lupo degli Uberti, che assai dolce dicitor fu per quella età senza fallo alcuno, Guido Orlandi, Guido Cavalcanti, de' quali tutti si leggono ora componimenti; e Guido Ghisilieri e Fabrizio bolognesi e Gallo pisano e Gotto mantovano, che ebbe Dante ascoltatore delle sue canzoni, e Nino sanese e degli altri, de' quali non cosí ora componimenti, che io sappia, si leggono. Venne appresso a questi e in parte con questi, Dante, grande e magnifico poeta, il quale di grandissimo spazio tutti adietro gli si lasciò. Vennero appresso a Dante, anzi pure con esso lui, ma allui sopravissero, messer Cino, vago e gentil poeta e sopra tutto amoroso e dolce, ma nel vero di molto minore spirito, e Dino Frescobaldi, poeta a quel tempo assai famoso ancora egli, e Iacopo Alaghieri, figliuol di Dante, molto, non solamente del padre, ma ancora di costui minore e men chiaro. Seguí a costoro il Petrarca, nel quale uno tutte le grazie della volgar poesia raccolte. Furono altresí molti prosatori tra quelli tempi, de' quali tutti Giovan Villani, che al tempo di Dante fu e la istoria fiorentina scrisse, non è da sprezzare; e molto meno Pietro Crescenzo bolognese, di costui piú antico, a nome del quale dodici libri delle bisogne del contado, in volgare fiorentino scritti, per mano si tengono. E alcuni di quelli ancora che in verso scrissero, medesimamente scrissero in prosa, sí come fu Guido Giudice di Messina, e Dante istesso e degli altri. Ma ciascun di loro vinto e superato fu dal Boccaccio, e questi medesimo da sé stesso; con ciò sia cosa che tra molte composizioni sue tanto ciascuna fu migliore, quanto ella nacque dalla fanciullezza di lui piú lontana. Il qual Boccaccio, come che in verso altresí molte cose componesse, nondimeno assai apertamente si conosce che egli solamente nacque alle prose. Sono dopo questi stati, nell'una facultà e nell'altra, molti scrittori. Vedesi tuttavolta che il grande crescere della lingua a questi due, al Petrarca e al Boccaccio, solamente pervenne; da indi innanzi, non che passar piú oltre, ma pure a questi termini giugnere ancora niuno s'è veduto. Il che senza dubbio a vergogna del nostro secolo si trarrà; nel quale, essendosi la latina lingua in tanto purgata dalla ruggine degl'indotti secoli per adietro stati, che ella oggimai l'antico suo splendore e vaghezza ha ripresa, non pare che ragionevolmente questa lingua, la quale a comperazione di quella di poco nata dire si può, cosí tosto si debba essere fermata, per non ir piú innanzi. Per la qual cosa io per me conforto i nostri uomini, che si diano allo scrivere volgarmente, poscia che ella nostra lingua è, sí come nelle raccontate cose, nel primo libro raccolte, si disse. Perciò che con quale lingua scrivere piú convenevolmente si può e piú agevolmente, che con quella con la quale ragioniamo? Al che fare, acciò che maggiore agevolezza sia lor data, io a spor loro verrò, in questo secondo libro, il ragionamento del secondo giorno, tra quelli medesimi fatto, de' quali nel primo si disse.[2.III.]
Perciò che ritornati gli tre, desinato che essi ebbero, a casa mio fratello, sí come ordinato aveano, e facendo freddo per lo vento di tramontana, che ancor traeva, d'intorno al fuoco raccoltisi, preso prima da ciascun di loro un buon caldo, essi a seder si posero, e mio fratello con esso loro altresí. Il che fatto e cosí un poco dimorati, cominciò Giuliano verso gli altri cosí a dire: - Io non so, se la gran voglia che io ho, che messer Ercole si disponga allo scrivere e comporre volgarmente, ha fatto che io ho questa notte un sogno veduto, che io raccontar vi voglio; o se pure alcuna virtú de' cieli o forse delle nostre anime, la quale alle volte per questa via le cose che a venir sono, prima che avengano, sí come avenute usi agli uomini far vedere, se l'ha operato; il che a me giova di credere piú tosto. Ma come che sia, a me parea, dormendo io questa notte come io dico, essere sopra una bellissima riva d'Arno, ombrosa per molti allori e tutta d'erbe e di fiori coperta infino all'acqua, che purissima e alta, con piacevole lentezza correndo, la bagnava. E per tutto il fiume, quanto io gli occhi potea stendere, mi parea che bianchissimi cigni s'andassero sollazzando; e quale compagnia di loro, che erano in ogni parte molti, incontro al fiume le palme de' piedi a guisa di remo sovente adoperando montava; quale col corso delle belle acque accordatasi si lasciava da loro portare, poco movendosi; e altri nel mezzo del fiume o accanto le verdi ripe, il sole, che purissimo gli fería, ricevendo, si diportavano; da' quali tutti uscire sí dolci canti si sentivano e sí piacevole armonia, che il fiume e le ripe e l'aere tutto e ogni cosa d'intorno, d'infinito diletto parea ripieno. E mentre che io gli occhi e gli orecchi di quella vista e di quel concento pasceva, un candidissimo cigno e grande molto, che per l'aria da mano manca veniva, chinando a poco a poco il suo volo, in mezzo il fiume soavemente si ripose, e, ripostovisi, a cantare incominciò ancora egli, strana e dolce melodia rendendo. A questo uccello molto onore parea che rendessero tutti gli altri, allegrezza della sua venuta dimostrando e larga corona delle loro schiere facendogli. Della qual cosa maravigliandomi io, e la cagione cercandone, m'era non so da cui detto, che quel cigno, che io vedea, era già stato bellissimo giovane, del Po figliuolo, e quegli altri similmente erano uomini stati, come io era. Ma questi in grembo del padre cangiata forma, e nel Tevere a volo passando, avea le ripe di quel fiume buon tempo fatte risonare delle sue voci, e ora ad Arno venuto, volea quivi dimorarsi altrettanto; di che facevano maravigliosa festa quegli altri, che sapevano tutti quanto egli era canoro e gentile. Lasciommi appresso a questo il sonno; laonde io sopra le vedute cose pensando, e al presente stato di messer Ercole, per gli ragionamenti fatti ieri, traendolene, piglio speranza che egli da noi persuaso, abbia in brieve a rivolgere alla volgar lingua il suo studio, e con essa ancora tante cose e cosí perfettamente a scrivere, chenti e quali egli ha per adietro scritte nella latina. Di che io per me son acconcio a niuna cosa tacergli, che io sappia, della quale esso m'addomandi, come ci disse ieri di voler fare. E medesimamente conforto voi, messer Federigo e messer Carlo, che facciate; e cosí insieme tutti e tre ogni diligenza, che tornare a suo profitto ci possa, usiamo. - Usiamo, - disse incontanente messer Federigo - né vi si manchi da verun lato per noi; il che fare tanto piú volentieri ci si doverà, quanto ce ne invita il sogno di Giuliano, il quale io per me piglio in luogo d'arra, e parmi già vedere messer Ercole, dalle romane alle fiorentine Muse passando, quasi cigno divenuto, nuovi canti mandar fuori, e spargere per l'aere in disusata maniera soavissimi concenti e dolcezze -. Allora disse mio fratello: - Se allo scrivere volgarmente si darà lo Strozza giamai, il che io voglio credere, messer Federigo, che possa essere agevolmente altresí come voi credete, ché non do men fede al sogno di Giuliano che diate voi, sicuramente egli non pur cigno ci parrà che sia, ma ancora fenice, in maniera per lo cielo ne 'l porterà quel suo rarissimo e felicissimo ingegno. Perché io il saperei confortare, che egli a sé stesso non mancasse; e io, quanto appartiene a me, ne lo agevolerò volentieri, se saperò come o quando il poter fare. - Voi di troppo piú m'onorate, - disse a queste parole lo Strozza - che io non ardisco di disiderare, non che io stimi che mi si convenga. E il sogno di Giuliano, veramente sogno è in tutte le altre sue parti, in questa sola potrebbe egli forse essere visione, che io sia per iscrivere volgarmente a qualche tempo, se io averò vita; perciò che, da poca ora in qua, tanto disio me ne sento per le vostre persuasioni esser nato, che non fia maraviglia se io procaccierò, quando che sia, di trarmene alcuna voglia. Ma tornando alle nostre quistion d'ieri, per le quali fornire oggi ci siamo qui venuti, io vorrei, messer Carlo, da voi sapere, poscia che detto ci avete che egli si dee sempre nello scrivere a quella maniera che è migliore appigliarsi, o antica e de' passati uomini che ella sia, o moderna e nostra, in che modo e con qual regola hass'egli a fare questo giudicio, e a quale segno si conoscono le buone volgari scritture dalle non buone e, tra due buone, quella che piú è migliore e quella che meno, e in fine di questa medesima forma di componimenti, della quale si ragionò ieri, de' presenti toscani uomini, e voi dite non essere cosí buona come è quella con la quale scrisse il Boccaccio e il Petrarca, perché si dee credere e istimare che cosí sia. - Per questo, se io vi voglio brievemente rispondere, - disse mio fratello - che ella cosí lodati scrittori non ha come ha quella. Che perciò che, come sapete, tanto ciascuno scrittore è lodato, quanto egli è buono, ne viene che dalla fama fare si può spedito argomento della bontà. Ché sí come tra' greci scrittori, né poeta niuno si vede essere né oratore di tanto grido, di chente Omero e Demostene sono; né tra' Latini è alcuno, al quale cosí piena loda sia data, come a Virgilio si dà e a Cicerone; per la qual cosa dire si può che essi migliori scrittori siano, sí come sono, di tutti gli altri; cosí medesimamente dico, messer Ercole, del nostro volgare avenire. Che perciò che, tra tutti i toscani rimatori e prosatori, niuno è la cui maniera dello scrivere di loda e di grido avanzi o pure agguagli quella di costor due che voi dite o, credere si dee che le guise delle loro scritture migliori sieno che niune altre. Oltra che se alcuno eziandio volesse, senza por mente alla fama degli scrittori, pure da' loro scritti pigliarne il giudicio e darne sentenza, sí si può questo fare per chi diligentemente considera le parti tutte delle scritte cose, che sono in quistione, e cosí facendosi, piú certa e piú sicura sperienza se ne piglierebbe, che in altra maniera. Con ciò sia cosa che egli può bene avenire che alcuno viva, il quale miglior poeta sia o migliore oratore, che niuno degli antichi, e nondimeno egli non abbia tanto grido e tanta fama raccolta dalle genti, quanta hanno essi; perciò che il grido non viene cosí subitamente a ciascuno, e pochissimi sono quelli che, vivendo, tanto n'abbiano, quanto si convien loro.[2.IV.]
- Ora le parti, messer Carlo, che voi dite che da considerar sarebbono, - disse lo Strozza - per chi volesse trarne questo giudicio, quali sono? - Elle sono in gran parte quelle medesime, - disse mio fratello - che si considerano eziandio ne' latini componimenti; e queste non fa mestiero che io vi raccoglia, a cui elle vie piú conte sono e piú manifeste che a me. Delle altre, che non sono perciò molte, si potrà vedere, se pure a voi piacerà che se ne cerchi. - Io non voglio che voi guardiate, messer Carlo, - disse lo Strozza - quello che della latina lingua mi sia chiaro o non chiaro, che io ne potrei far perdita; e trovarestemi in ciò di gran lunga meno intendente, che per aventura non istimate. Né voglio ancora che separiate quelle parti della volgare favella, che cadono medesimamente nella latina, da quelle che non vi cadono, ché egli si potrebbe agevolmente piú penare a far questa scielta, che a sporre tutta la somma. Ma io cerco, e di ciò vi stringo e gravo, che senza rispetto avere alcuno alle latine cose, mi diciate quali sono quelle parti tutte, per le quali si possa sopra la quistione, che io dico, quel giudicio fare e quella sentenza trarne, che voi dite. - Io non so già, messer Ercole, - rispose mio fratello - se io cosí ora le potessi tutte raccogliere interamente, le quali sono senza fallo molte, particolarmente e minutamente considerate. Ma le generali possono esser queste: la materia o suggetto, che dire vogliamo, del quale si scrive, e la forma o apparenza, che a quella materia si dà, e ciò è la scrittura. Ma perciò che non della materia, dintorno alla quale alcuno scrive, ma del modo col quale si scrive, s'è ragionato ieri e ragionasi oggi tra noi, di questa seconda parte favellando, dico ogni maniera di scrivere comporsi medesimamente di due parti: l'una delle quali è la elezione, l'altra è la disposizione delle voci. Perciò che primieramente è da vedere, con quali voci si possa piú acconciamente scrivere quello che a scrivere prendiamo; e appresso fa di mestiero considerare, con quale ordine di loro e componimento e armonia, quelle medesime voci meglio rispondano che in altra maniera. Con ciò sia cosa che né ogni voce di molte, con le quali una cosa segnar si può, è grave o pura o dolce ugualmente; né ogni componimento di quelle medesime voci uno stesso adornamento ha, o piace e diletta ad un modo. Da sciegliere adunque sono le voci, se di materia grande si ragiona, gravi, alte, sonanti, apparenti, luminose; se di bassa e volgare, lievi, piane, dimesse, popolari, chete; se di mezzana tra queste due, medesimamente con voci mezzane e temperate, e le quali meno all'uno e all'altro pieghino di questi due termini, che si può. È di mestiero nondimeno in queste medesime regole servar modo, e schifare sopra tutto la sazietà, variando alle volte e le voci gravi con alcuna temperata, e le temperate con alcuna leggera, e cosí allo 'ncontro queste con alcuna di quelle, e quelle con alcuna dell'altre né piú né meno. Tuttafiata generalissima e universale regola è in ciascuna di queste maniere e stili, le piú pure, le piú monde, le piú chiare sempre, le piú belle e piú grate voci sciegliere e recare alle nostre composizioni, che si possa. La qual cosa come si faccia, lungo sarebbe il ragionarvi; con ciò sia cosa che le voci medesime o sono proprie delle cose delle quali si favella, e paiono quasi nate insieme con esse, o sono tratte per somiglianza da altre cose, a cui esse sono proprie, e poste a quelle di cui ragioniamo, o sono di nuovo fatte e formate da noi; e queste voci poscia, cosí divise e partite, altre parti hanno e altre divisioni sotto esse, che tutte da saper sono. Ma voi potete da quelli scrittori ciò imprendere, che ne scrivono latinamente.[2.V.]
E se pure aviene alcuna volta, che quello che noi di scrivere ci proponiamo, isprimere non si possa con acconcie voci, ma bisogni recarvi le vili o le dure o le dispettose, il che appena mi si lascia credere che avenir possa, tante vie e tanti modi ci sono da ragionare e tanto variabile e acconcia a pigliar diverse forme e diversi sembianti e quasi colori è la umana favella, ma se pure ciò aviene, dico che da tacere è quel tanto, che sporre non si può acconciamente, piú tosto che, sponendolo, macchiarne l'altra scrittura; massimamente dove la necessità non istringa e non isforzi lo scrittore, dalla qual necessità i poeti, sopra gli altri, sono lontani. E il vostro Dante, Giuliano, quando volle far comperazione degli scabbiosi, meglio avrebbe fatto ad aver del tutto quelle comperazioni taciute, che a scriverle nella maniera che egli fece:E non vidi giamai menare stregghia
a ragazzo aspettato da signorso;
e poco appresso:
E si traevan giú l'unghie la scabbia,
come coltel di scardova le scaglie.
Come che molte altre cose di questa maniera si sarebbono potute tralasciar dallui senza biasimo, ché nessuna necessità lo strignea piú a scriverle che a non scriverle; là dove non senza biasimo si son dette. Il qual poeta non solamente se taciuto avesse quello che dire acconciamente non si potea, meglio avrebbe fatto e in questo e in molti altri luoghi delle composizioni sue, ma ancora se egli avesse voluto pigliar fatica di dire con piú vaghe e piú onorate voci quello che dire si sarebbe potuto, chi pensato v'avesse, et egli detto ha con rozze e disonorate, sí sarebbe egli di molto maggior loda e grido, che egli non è; come che egli nondimeno sia di molto. Che quando e' disse:
Biscazza, e fonde la sua facultate,
Consuma o Disperde avrebbe detto, non Biscazza, voce del tutto dura e spiacevole; oltra che ella non è voce usata, e forse ancora non mai tocca dagli scrittori. Non fece cosí il Petrarca, il quale, lasciamo stare che non togliesse a dire di ciò che dire non si potesse acconciamente, ma, tra le cose dette bene, se alcuna minuta voce era, che potesse meglio dirsi, egli la mutava e rimutava, infino attanto che dire meglio non si potesse a modo alcuno -.
[2.VI.]
Quivi trapostosi Giuliano, verso lo Strozza rivolto, disse: - O quanto è vero, messer Ercole, ciò che il Bembo ci ragiona del Petrarca in questa parte. Perciò che venendomi, non ha guari, vedute alcune carte scritte di mano medesima del poeta, nelle quali erano alquante delle sue rime, che in que' fogli mostrava che egli, secondo che esso le veniva componendo, avesse notate, quale intera, quale tronca, quale in molte parti cassa e mutata piú volte, io lessi tra gli altri questi due versi primieramente scritti a questo modo:Voi, ch'ascoltate in rime sparse il suono
di quei sospir, de' quai nutriva il core.
Poi come quegli che dovette pensare, che il dire De' quai nutriva il core non era ben pieno, ma vi mancava la sua persona, oltra che la vicinanza di quell'altra voce, Di quei, toglieva a questa, De' quai, grazia, mutò e fecene Di ch'io nutriva il core. Ultimamente sovenutogli di quella voce, Onde, essendo ella voce piú rotonda e piú sonora per le due consonanti che vi sono, e piú piena; aggiuntovi che il dire Sospiri, piú compiuta voce è, e piú dolce, che Sospir; cosí volle dire piú tosto, come si legge, che a quel modo. Ma voi, messer Carlo, nondimeno seguite -. Il quale i suoi ragionamenti cosí riprese: - Molte altre parti possono le voci avere, che scemano loro grazia. Perciò che e sciolte e languide possono talora essere, oltra il convenevole, o dense e riserrate; pingui, aride; morbide, ruvide; mutole, strepitanti; e tarde e ratte, e impedite e sdrucciolose, e quando vecchie oltra modo, e quando nuove. Da questi diffetti adunque, e da simili, chi piú si guarderà, a' buoni avertimenti dando maggiore opera, colui si potrà dire che nello sciegliere delle voci, una delle parti, che io dissi, generali dello scrivere, migliore compositor sia o di prosa o di verso, e piú loda meriti che coloro che lo fanno meno, quando per la comperazione loro si troverà che cosí sia.
[2.VII.]
Altrettante cose, anzi piú molte ancora si possono, messer Ercole, nella disposizione considerare delle voci, sí come di parte molto piú larga che la primiera. Con ciò sia cosa che lo sciegliere si fa, una voce semplicemente con un'altra voce, o con due, le piú volte comparando; dove, a dispor bene, non solamente bisogna una voce spesse fiate comparare a molte voci, anzi molte guise di voci ancora con molte altre guise di voci comporre e agguagliare fa mestiero il piú delle volte. Dico adunque, che sí come sogliono i maestri delle navi, che vedute potete avere in piú parti di questa città fabricarsi, i quali tre cose fanno principali; perciò che primieramente risguardano quale legno, o quale ferro, o quale fune, a quale legno o ferro o fune compongano, ciò è con quale ordine gli accozzino e congiungano tra loro; appresso considerano quello medesimo legno, che essi a un altro legno o ferro o fune hanno a comporre, in quale guisa comporre il possano che bene stia, o per lo lungo o attraverso o chinato o stante o torto o diritto o come che sia in altra maniera; ultimamente queste funi o questi ferri o questi legni, se sono troppi lunghi, essi gli accorzano, se sono corti, gli allungano, e cosí o gli 'ngrossano o gli ristringono, o in altre guise levandone e giugnendone, gli vanno rassettando in maniera che la nave se ne compone giusta e bella, come vedete; cosí medesimamente gli scrittori tre parti hanno altresí nel disporre i loro componimenti. Perciò che primiera loro cura è vederne l'ordine, e quale voce con quale voce accozzata, ciò è quale verbo a quale nome, o qual nome a qual verbo, o pure quale di queste, o quale altra parte, con quale di queste o delle altre parti del parlare, congiunta e composta bene stia. È bisogno dopo questo, che per loro si consideri queste parti medesime in quale guisa stando, migliore e piú bella giacitura truovino, che in altra maniera; ciò è quella voce, che nome ha ad essere, come e per che via ella essere possa piú vaga, o nel numero del piú o in quello del meno, nella forma del maschio o della femina, nel diritto o negli obliqui casi; medesimamente quello che ha ad esser verbo, se presente o futuro, se attivamente o passivamente o in altra guisa posto, meglio suona; a questo modo medesimo per le altre membra tutte de' nostri parlari, in quanto si può e lo pate la loro qualità discorrendo. Rimane per ultima loro fatica poi, quando alcuna di queste parti, o brieve o lunga o altrimenti disposta, viene loro parendo senza vaghezza, senza armonia, aggiugnervi o scemar di loro, o mutare e trasporre, come che sia, o poco o molto, o dal capo o nel mezzo o nel fine. E se io ora, messer Ercole, vi vo' le minute cose, e piú tosto agli orecchi di nuovo scolare che di dottissimo poeta convenevoli ad ascoltare, e già da voi, mentre eravate fanciullo, ne' latini sgrossamenti udite, raccontando, datene di ciò a voi stesso la colpa che avete cosí voluto -. Quivi: - E se a voi non grava di ciò, - rispose lo Strozza - che io a voi do fatica di raccontarci queste cosí minute cose, messer Carlo, come voi dite, di me non vi caglia; il quale come che in niune non sia maestro, pure in queste sono veramente discepolo. E nondimeno fa mestiero, a chiunque apprendere alcuna scienza disidera, incominciare da' suoi principj, che sono per lo piú deboli tutti e leggieri. E se io alcuna parte di queste medesime cose, che si son dette o sono a dire, ho altra volta, dando alla latina lingua le prime opere, udito, ciò bene mi metterà in questo, che piú agevole mi si farà lo apprendere e ritenere la volgare, se io giamai d'usarla farò pensiero. Perché, di grazia, seguite, niuna cosa in niuna parte per niun rispetto tacendoci -.[2.VIII.]
Poca fatica piglierei per voi, - rispose mio fratello - e di poco, messer Ercole, vi potreste valer di me, se io questa volentieri non pigliassi. Dunque seguasi; e acciò che meglio quello che io dico vi si faccia chiaro, ragioniamo per atto d'essempio cosí. Potea il Petrarca dire in questo modo il primo verso della canzone, che ci allegò Giuliano: Voi ch'in rime ascoltate. Ma considerando egli che questa voce Ascoltate, per la moltitudine delle consonanti che vi sono e ancora per la qualità delle vocali e numero delle sillabe, è voce molto alta e apparente, dove Rime, per li contrari rispetti, è voce dimessa e poco dimostrantesi, vide che se egli diceva Voi ch'in rime, il verso troppo lungamente stava chinato e cadente, dove, dicendo Voi ch'ascoltate, egli subitamente lo inalzava, il che gli accresceva dignità. Oltra che Rime, perciò che è voce leggiera e snella, posta tra queste due, Ascoltate e Sparse, che sono amendue piene e gravi, è quasi dell'una e dell'altra temperamento. E aviene ancora che in tutte queste voci dette e recitate cosí, Voi ch'ascoltate in rime sparse, et esse piú ordinatamente ne vanno, e fanno oltre acciò le vocali piú dolce varietà e piú soave che in quel modo. Perché meglio fu il dire, come egli fe', che se egli avesse detto altramente. Il che potrà essere avertimento dell'ordine, prima delle tre parti che io dissi. Poteva eziandio il Petrarca, quell'altro verso della medesima canzone dire cosí: Fra la vana speranza e 'l van dolore. Ma perciò che la continuazione della vocale A toglieva grazia, e la variazione della E trapostavi la riponeva, mutò il numero del meno in quello del piú, e fecene Fra le vane speranze; e fece bene, che quantunque il mutamento sia poco, non è perciò poca la differenza della vaghezza, chi vi pensa e considera sottilmente. E cade questo nel secondo modo del disporre detto di sopra. Perciò che nel terzo, che è togliendo alle voci alcuna loro parte, o aggiugnendo o pure tramutando come che sia, cade quest'altro:Quand'era in parte altr'uom da quel ch'i sono;
e quest'altro:
Ma ben veggi'or, sí come al popol tutto
favola fui gran tempo.
Erano Uomo e Popolo le intere voci, dalle quali egli levò la vocale loro ultima; la quale se egli levata non avesse, elle sarebbono state voci alquanto languide e cascanti, che ora sono leggiadrette e gentili. Cadono altresí di molt'altri; sí come è: Che m'hanno congiurato a torto incontra; dove Incontra disse il medesimo poeta, piú tosto che Contra. E Sface molte volte usò, e Sevri alcuna fiata e Adiviene e Dipartío, piú tosto che Disface e Separi e Aviene e Dipartí, e Diemme e Aprilla dovendo dire dirittamente Mi diè e La aprí. E perché io v'abbia, di questi modi del disporre, le somiglianze recate dal verso, non è che essi non cadano eziandio nella prosa, perciò che essi vi cadono. È il vero che questa maniera, ultima delle tre, piú di rado vi cade che le altre; con ciò sia cosa che alla prosa, perciò che ella alla regola delle rime o delle sillabe non sottogiace e può vagare e spaziare a suo modo, molto meno d'ardire e di licenza si dà in questa parte, che al verso. Ora, sí come e nelle sillabe e nelle sole voci queste figure entrano, cosí dico io che elle entrano parimente negli stesi parlari, e per aventura molto piú. Perciò che oltra che non ogni parte che si chiuda con alquante voci, s'acconviene con ogni parte, e meglio giacerà posta prima che poi, o allo 'ncontro; e quella medesima parte non in ogni guisa posta riesce parimente graziosa; e toltone o aggiuntone o mutatone alcuna voce, piú di vaghezza dimostrerà senza comperazione alcuna che altramente; sí aviene egli ancora che il lungo ragionare, e di quelle medesime figure molto piú capevole esser può, che una sola voce non è, e, oltre a questo, egli è di molte altre figure capevole, delle quali non è capevole alcuna sola voce; sí come ne' libri di coloro palese si vede, che dell'arte del parlare scrivono partitamente. A queste cose tutte adunque, messer Ercole, chi risguarderà, quando egli delle maniere di due scrittori, o di prosa o di verso, piglierà a dar sentenza, egli potrà per aventura non ingannarsi, come che io non v'abbia tuttavia ogni minuta parte raccolta, di quelle che c'insegnano questo giudizio -.
[2.IX.]
Allora messer Federigo, verso mio fratello guardando: - Io volea or ora - disse - a messer Ercole rivolgermi e dirgli che voi fuggivate fatica, perciò che molte dell'altre cose potevate recare ancora che sono con queste congiuntissime e mescolatissime; se voi medesimo confessato non l'aveste. - E quali sono coteste cose, messer Federigo, - disse lo Strozza - che voi dite che messer Carlo avrebbe ancora potuto recarci? - Egli le vi dirà, - rispose messer Federigo - se voi ne 'l dimanderete, che ha le altre dette, che avete udito. - Io sicuramente non so se io me ne ricordassi ora, cercandone, - rispose mio fratello - che sapete come io malagevolmente mi ramemoro le tralasciate cose, sí come son queste; posto che io il pure volessi fare, il che vorrei, se a messer Ercole sodisfare altramente non si potesse. Ma voi, il quale non sete meno di tenace memoria, che siate di capevole ingegno, né leggeste giamai o udiste dir cosa che non la vi ricordiate (e in ciò ben si pare, che monsignor lo duca Guido vostro zio vi sia maggiore) sete senza fallo disubediente, poscia che a messer Ercole, questo da voi chiedente, non sodisfate; non voglio dire poco amorevole, che non volete meco essere alla parte di questo peso -. Perché instando con messer Ercole mio fratello, che egli a messer Federigo facesse dire il rimanente, et esso stringendone lui, e il Magnifico parimente, che diceva che mio fratello aveva detto assai, egli dopo una brieve contesa, piú per non torre a mio fratello il fornire lo incominciato ragionamento fatta che per altro, lietamente a dire si dispose, e cominciò: - Io pure nella mia rete altro preso non arò che me stesso. E bene mi sta, poscia che io tacere quanto si conveniva non ho potuto, che io di quello favelli che men vorrei. Né crediate che io questo dica, perché in ciò la fatica mi sia gravosa, che non è, dove io a qualunque s'è l'uno di voi piaccia, non che a tutti e tre. Ma dicolo perciò che le cose, che dire si convengono, sono di qualità, che malagevolmente per la loro disusanza cadono sotto regola, in modo che pago e sodisfatto se ne tenga chi l'ascolta. Ma come che sia, venendo al fatto, dico che egli si potrebbe considerare, quanto alcuna composizione meriti loda o non meriti, ancora per questa via: che perciò che due parti sono quelle che fanno bella ogni scrittura, la gravità e la piacevolezza; e le cose poi, che empiono e compiono queste due parti, son tre, il suono, il numero, la variazione, dico che di queste tre cose aver si dee risguardo partitamente, ciascuna delle quali all'una e all'altra giova delle due primiere che io dissi. E affine che voi meglio queste due medesime parti conosciate, come e quanto sono differenti tra loro, sotto la gravità ripongo l'onestà, la dignità, la maestà, la magnificenza, la grandezza, e le loro somiglianti; sotto la piacevolezza ristringo la grazia, la soavità, la vaghezza, la dolcezza, gli scherzi, i giuochi, e se altro è di questa maniera. Perciò che egli può molto bene alcuna composizione essere piacevole e non grave, e allo 'ncontro alcuna altra potrà grave essere, senza piacevolezza; sí come aviene delle composizioni di messer Cino e di Dante, ché tra quelle di Dante molte son gravi, senza piacevolezza, e tra quelle di messer Cino molte sono piacevoli, senza gravità. Non dico già tuttavolta, che in quelle medesime che io gravi chiamo, non vi sia qualche voce ancora piacevole, e in quelle che dico essere piacevoli, alcun'altra non se ne legga scritta gravemente, ma dico per la gran parte. Sí come se io dicessi eziandio che in alcune parti delle composizioni loro né gravità né piacevolezza vi si vede alcuna, direi ciò avenire per lo piú, e non perché in quelle medesime parti niuna voce o grave o piacevole non si leggesse. Dove il Petrarca l'una e l'altra di queste parti empié maravigliosamente, in maniera che scegliere non si può, in quale delle due egli fosse maggior maestro.[2.X.]
Ma venendo alle tre cose generanti queste due parti che io dissi, è suono quel concento e quella armonia, che nelle prose dal componimento si genera delle voci, nel verso oltre acciò dal componimento eziandio delle rime. Ora perciò che il concento, che dal componimento nasce di molte voci, da ciascuna voce ha origine, e ciascuna voce dalle lettere, che in lei sono, riceve qualità e forma, è di mestiero sapere, quale suono rendono queste lettere, o separate o accompagnate, ciascuna. Separate adunque rendono suono quelle cinque, senza le quali niuna voce, niuna sillaba può aver luogo. E di queste tutte miglior suono rende la A; con ciò sia cosa che ella piú di spirito manda fuori, perciò che con piú aperte labbra ne 'l manda e piú al cielo ne va esso spirito. Migliore dell'altre poi la E, in quanto ella piú a queste parti s'avicina della primiera che non fanno le tre seguenti. Buono, appresso questi, è il suono della O; allo spirito della quale mandar fuori, le labbra alquanto in fuori si sporgono e in cerchio, il che ritondo e sonoro ne 'l fa uscire. Debole e leggiero e chinato e tuttavia dolce spirito, dopo questo, è richiesto alla I; perché il suono di lei men buono è che di quelle che si son dette, soave nondimeno alquanto. Viene ultimamente la U; e questa, perciò che con le labbra in cerchio, molto piú che nella O ristretto, dilungate si genera, il che toglie alla bocca e allo spirito dignità, cosí nella qualità del suono come nell'ordine è sezzaia. E queste tutte molto migliore spirito rendono, quando la sillaba loro è lunga, che quando ella è brieve; perciò che con piú spazioso spirito escono in quella guisa e piú pieno, che in questa. Senza che la O, quando è in vece della O latina, in parte eziandio il muta, le piú volte piú alto rendendolo e piú sonoro, che quando ella è in vece della U; sí come si vede nel dire Orto e Popolo, nelle quali la prima O con piú aperte labbra si forma chell'altre, e nel dire Opra, in cui medesimamente la O piú aperta e piú spaziosa se n'esce, che nel dire Ombra e Sopra, e con piú ampio cerchio. Quantunque ancor della E questo medesimamente si può dire: perciò che nelle voci Gente, Ardente, Legge, Miete e somiglianti, la prima E alquanto piú alta esce che non fa la seconda; sí come quella che dalla E latina ne vien sempre, dove le rimanenti vengono dalla I le piú volte. Il che piú manifestamente apparisce in queste parole del Boccaccio: Se tu di Costantinopoli se'. Dove si vede che nel primo Se, perciò che esso ne viene dal Si latino, la E piú chinata esce che non fa quella dell'altro Se, il quale seconda voce è del verbo Essere, e ha la E nel latino e non la I, sí come sapete. Accompagnate, d'altra parte, rendono suono tutte quelle lettere che rimangono oltre a queste, tra le quali assai piena, e nondimeno riposata, e perciò di buonissimo spirito è la Z, la qual sola delle tre doppie, che i Greci usano, hanno nella loro lingua ricevuta i Toscani; quantunque ella appo loro non rimane doppia, anzi è semplice, come l'altre; se non quando essi raddoppiare la vogliono raddoppiando la forza del suono, sí come raddoppiano il P e il T, e dell'altre. Perciò che nel dire, Zafiro, Zenobio, Alzato, Inzelosito e simili, ella è semplice, non solo per questo che nel principio delle voci, o nel mezzo di loro in compagnia d'altra consonante, niuna consonante porre si può seguentemente due volte, ma ancora per ciò che lo spirito di lei è la metà pieno e spesso di quello che egli si vede poscia essere nel dire Bellezza, Dolcezza. Perché dire si può che ella sia piú tosto un segno di lettera, con la quale essi cosí scrivono quello cotale spirito, che la lettera che usano i Greci; quando si vede che niuna lettera di natura sua doppia è in uso di questa lingua; la quale non solamente in vece della X usa di porre la S raddoppiata, quando ella non sia in principio delle voci, dove non possono, come s'è detto, due consonanti d'una qualità aver luogo, o ancor quando nel mezzo la compagnia d'altra lettera non vocale non gliele vieti, ne' quali due luoghi la S semplice sodisfa; ma ancora tutte quelle voci che i Latini scrivono per Ps, ella pure per due S medesimamente scrive sempre. E questa S, quantunque non sia di purissimo suono, ma piú tosto di spesso, non pare tuttavolta essere di cosí schifo e rifiutato nel nostro idioma, come ella solea essere anticamente nel greco; nel quale furono già scrittori, che per questo alcuna volta delle loro composizioni fornirono senza essa. E se il Petrarca si vede avere la lettera X usata nelle sue canzoni, nelle quali egli pose Experto, Extremo, e altre simili voci, ciò fece egli per uscire in questo dell'usanza della fiorentina lingua, affine di potere alquanto piú inalzare i suoi versi in quella maniera; sí come egli fece eziandio in molte altre cose, le quali tutti si concedono al verso, che non si concederebbono alla prosa. Oltre a queste, molle e dilicata e piacevolissima è la L, e di tutte le sue compagne lettere dolcissima. Allo 'ncontro la R aspera ma di generoso spirito. Di mezzano poi tra queste due la M e la N, il suono delle quali si sente quasi lunato e cornuto nelle parole. Alquanto spesso e pieno suono appresso rende la F. Spesso medesimamente e pieno, ma piú pronto il G. Di quella medesima e spessezza e prontezza è il C ma piú impedito di quest'altri. Puri e snelli e ispediti poi sono il B e il D. Snellissimi e purissimi il P e il T, e insieme ispeditissimi. Di povero e morto suono, sopra gli altri tutti, ultimamente è il Q; e in tanto piú ancora maggiormente, che egli, senza la U che 'l sostenga, non può aver luogo. La H, perciò che non è lettera, per sé medesima niente può; ma giugne solamente pienezza e quasi polpa alla lettera, a cui ella in guisa di servente sta accanto. Conosciute ora queste forze tutte delle lettere, torno a dire, che secondamente che ciascuna voce le ha in sé, cosí ella è ora grave, ora leggiera, quando aspera, quando molle, quando d'una guisa e quando d'altra; e quali sono poi le guise delle voci, che fanno alcuna scrittura, tale e il suono, che del mescolamento di loro esce o nella prosa o nel verso, e talora gravità genera e talora piacevolezza.[2.XI.]
È il vero che egli nel verso piglia eziandio qualità dalle rime; le quali rime graziosissimo ritrovamento si vede che fu, per dare al verso volgare armonia e leggiadria, che in vece di quella fosse, la quale al latino si dà per conto de' piedi, che nel volgare cosí regolati non sono. Ad esse adunque passando, dico che sono le rime comunemente di tre maniere: regolate, libere e mescolate. Regolate sono quelle che si stendono in terzetti, cosí detti perciò che ogni rima si pon tre volte, o perché sempre con quello medesimo ordine di tre in tre versi la rima nuova incominciando, si chiude e compie la incominciata. E perciò che questi terzetti per un modo insieme tutti si tengono, quasi anella pendenti l'uno dall'altro, tale maniera di rime chiamarono alcuni Catena; delle quali poté per aventura essere il ritrovator Dante, che ne scrisse il suo poema; con ciò sia cosa che sopra lui non si truova chi le sapesse. Sono regolate altresí quelle, che noi Ottava rima chiamiamo per questo, che continuamente in otto versi il loro componimento si rinchiude; e queste si crede che fossero da' Ciciliani ritrovate, come che essi non usassero di comporle con piú che due rime, perciò che lo aggiugnervi la terza, che ne' due versi ultimi ebbe luogo, fu opera de' Toscani. Sono medesimamente regolate le sestine, ingenioso ritrovamento de' provenzali compositori. Libere poi sono quell'altre, che non hanno alcuna legge o nel numero de' versi o nella maniera del rimargli, ma ciascuno, sí come ad esso piace, cosí le forma; e queste universalmente sono tutte madriali chiamate, o perciò che da prima cose materiali e grosse si cantassero in quella maniera di rime, sciolta e materiale altresí; o pure perché cosí, piú che in altro modo, pastorali amori e altri loro boscarecci avenimenti ragionassero quelle genti, nella guisa che i Latini e i Greci ragionano nelle egloghe loro, il nome delle canzoni formando e pigliando dalle mandre; quantunque alcuna qualità di madriali si pur truova, che non cosí tutta sciolta e libera è, come io dico mescolate ultimamente sono qualunque rime e in parte legge hanno e d'altra parte sono licenziose, sí come de' sonetti e di quelle rime, che comunemente sono canzoni chiamate, si vede che dire si può. Con ciò sia cosa che a' sonetti il numero de' versi è dato, e di parte delle rime; nell'ordine delle rime poi, e in parte di loro nel numero, non s'usa piú certa regola che il piacere, in quanto capevoli ne sono quei pochi versi; il qual piacere di tanto innanzi andò con la licenza, che gli antichi fecero talora sonetti di due rime solamente, talora in amenda di ciò, non bastando loro le rime che s'usano, quelle medesime ancora trametteano ne' mezzi versi. Taccio qui che Dante una sua canzone nella Vita nuova sonetto nominasse; perciò che egli piú volte poi, e in quella opera e altrove, nomò sonetti quelli che ora cosí si chiamano. E nelle canzoni puossi prendere quale numero e guisa di versi e di rime a ciascuno è piú a grado, e compor di loro la prima stanza; ma, presi che essi sono, è di mestiero seguirgli nell'altre con quelle leggi che il compositor medesimo, licenziosamente componendo, s'ha prese. Il medesimo di quelle canzoni, che ballate si chiamano, si può dire, le quali quando erano di piú d'una stanza, vestite si chiamavano, e non vestite quando erano d'una sola; sí come se ne leggono alquante nel Petrarca, fatte e all'una guisa e all'altra. Biblioteca |
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Edizione telematica a cura di: Claudio Paganelli, 1999
Revisione, Edizione HTML e impaginazione a cura di: Giuseppe Bonghi, Aprile 1999
Tratto da: Pietro Bembo, Prose della
volgar lingua, Gli Asolani, Rime, a cura di Carlo Dionisotti, TEA Tascabili Editori
Associati, Milano 1997
© 1999 - by prof. Giuseppe Bonghi
- E-mail: Giuseppe Bonghi - bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 21 aprile, 1999