Pietro  Bembo

Prose della volgar lingua

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DI MESSER PIETRO BEMBO
A MONSIGNOR MESSER GIULIO CARDINALE DE' MEDICI
DELLA VOLGAR LINGUA

[PRIMO LIBRO]

[1.XI.] Usò eziandio il Petrarca Ha, in vece di sono, quando e' disse:

Fuor tutti i nostri lidi
ne l'isole famose di Fortuna
due fonti ha,

e ancora:

Che s'al contar non erro, oggi ha sett'anni,
che sospirando vo di riva in riva;

pure da' Provenzali, come io dico, togliendolo, i quali non solamente Ha in vece d'è e di sono ponevano, anzi ancora Avea in vece d'era e d'erano, et Ebbe in vece di fu e di furono dicevano, e cosí per gli altri tempi tutti e guise di quel verbo discorrendo, facevano molto spesso. Il quale uso imitarono degli altri e poeti e prosatori di questa lingua, e sopra tutti il Boccaccio, il qual disse, Non ha lungo tempo, e Quanti sensali ha in Firenze, e Quante donne v'avea, che ve n'avea molte, e Nella quale, come che oggi ve n'abbia di ricchi uomini, ve n'ebbe già uno, et Ebbevi di quelli, e altri simili termini, non una volta disse, ma molte. Et è ciò nondimeno medesimamente presente uso della Cicilia. E per dire del Petrarca, avenne alle volte che egli delle italiche voci medesime usò col provenzale sentimento; il che si vede nella voce Onde. Perciò che era On provenzale voce, usata da quella nazione in moltissime guise oltra il sentimento suo latino e proprio. Ciò imitando, usolla alquante volte licenziosamente il Petrarca, e tra le altre questa:

A la man, ond'io scrivo, è fatta amica,

nel qual luogo egli pose Onde, in vece di dire con la quale; e quest'altra:

Or quei begli occhi, ond'io mai non mi pento
de le mie pene,

dove Onde può altrettanto, quanto per cagion de' quali; il che, quantunque paia arditamente e licenziosamente detto, è nondimeno con molta grazia detto, sí come si vede essere ancora in molti altri luoghi del medesimo poeta, pure dalla Provenza tolto, come io dissi. Sono, oltre a tutto questo, le provenzali scritture piene d'un cotal modo di ragionare, che dicevano: Io amo meglio, in vece di dire io voglio piú tosto. Il qual modo, piacendo al Boccaccio, egli il seminò molto spesso per le composizioni sue: Io amo molto meglio di dispiacere a queste mie carni, che, facendo loro agio, io facessi cosa che potesse essere perdizione dell'anima mia; e altrove: Amando meglio il figliuolo vivo con moglie non convenevole allui, che morto senza alcuna. Senza che uso de' Provenzali per aventura ha stato lo aggiugnere la I nel principio di moltissime voci (come che essi la E vi ponessero in quella vece, lettera piú acconcia alla lor lingua in tale ufficio, che alla toscana) sí come sono Istare, Ischifare, Ispesso, Istesso e dell'altre, che dalla S, a cui alcun'altra consonante stia dietro, cominciano, come fanno queste. Il che tuttavia non si fa sempre; ma fassi per lo piú quando la voce, che dinanzi a queste cotali voci sta, in consonante finisce, per ischifare in quella guisa l'asprezza, che ne uscirebbe se ciò non si facesse; sí come fuggí Dante, che disse:

Non isperate mai veder lo cielo;

e il Petrarca, che disse:

Per iscolpirlo imaginando in parte.

E come che il dire in Ispagna paia dal latino esser detto, egli non è cosí, perciò che quando questa voce alcuna vocale dinanzi da sé ha, Spagna le piú volte e non Ispagna si dice. Il qual uso tanto innanzi procedette, che ancora in molte di quelle voci, le quali comunalmente parlandosi hanno la E dinanzi la detta S, quella E pure nella I si cangiò bene spesso: Istimare, Istrano e somiglianti. Oltra che alla voce Nudo s'aggiunse non solamente la I, ma la G ancora, e fecesene Ignudo, non mutandovisi perciò il sentimento di lei in parte alcuna, il quale in quest'altra voce Ignavo si muta nel contrario di quello della primiera sua voce, che nel latino solamente è ad usanza, la qual voce nondimeno italiana è piú tosto, sí come dal latino tolta, che toscana. Né solamente molte voci, come si vede, o pure alquanti modi del dire presero dalla Provenza i Toscani; anzi essi ancora molte figure del parlare, molte sentenze, molti argomenti di canzoni, molti versi medesimi le furarono, e piú ne furaron quelli, che maggiori stati sono e miglior poeti riputati. Il che agevolmente vederà chiunque le provenzali rime piglierà fatica di leggere, senza che io, a cui sovenire di ciascuno essempio non può, tutti e tre voi gravi ora recitandolevi. Per le quali cose, quello estimar si può, che io, messer Ercole, rispondendo vi dissi, che il verseggiare e rimare da quella nazione piú che da altra s'è preso. Ma sí come la toscana lingua, da quelle stagioni a pigliar riputazione incominciando, crebbe in onore e in prezzo quanto s'è veduto di giorno in giorno, cosí la provenzale è ita mancando e perdendo di secolo in secolo in tanto, che ora non che poeti si truovino che scrivano provenzalmente, ma la lingua medesima è poco meno che sparita e dileguatasi della contrada. Perciò che in gran parte altramente parlano quelle genti e scrivono a questo dí, che non facevano a quel tempo; né senza molta cura e diligenza e fatica si possono ora bene intendere le loro antiche scritture. Senza che eglino a nessuna qualità di studio meno intendono che al rimare e alla poesia, e altri popoli che scrivano in quella lingua essi non hanno; i quali, se sono oltramontani o poco o nulla scrivono o lo fanno francesemente, se sono Italiani nella loro lingua piú tosto a scrivere si mettono, agevole e usata, che nella faticosa e disusata altrui. Perché non è anco da maravigliarsi, messer Ercole, se ella, che già riguardevole fu e celebrata, è ora, come diceste, di poco grido -.

[1.XII.] Avea messer Federigo al suo ragionamento posto fine, quando il Magnifico e mio fratello, dopo alquante parole dell'uno e dell'altro fatte sopra le dette cose, s'avidero che messer Ercole, tacendo e gli occhi in una parte fermi e fissi tenendo, non gli ascoltava, ma pensava ad altro. Il quale, poco appresso riscossosi, ad essi rivolto disse: - Voi avete detto non so che, che io, da nuovo pensamento soprapreso, non ho udito. Vaglia a ridire, se io di troppo non vi gravo. - Di nulla ci gravate, - rispose il Magnifico - ma noi ragionavamo in onore di messer Federigo, lodando la sua diligenza posta nel vedere i provenzali componimenti, da molti non bisognevole e soverchia riputata. Ma voi di che pensavate cosí fissamente? - Io pensava, - diss'egli - che se io ora, dalle cose che per messer Federigo e per voi della volgar lingua dette si sono persuaso, a scrivere volgarmente mi disponessi, sicuramente a molto strano partito mi crederei essere, né saperei come spedirmene, senza far perdita da qualche canto; il che, quando io latinamente penso di scrivere, non m'aviene. Perciò che la latina lingua altro che una lingua non è, d'una sola qualità e d'una forma, con la quale tutte le italiane genti e dell'altre che italiane non sono parimente scrivono, senza differenza avere e dissomiglianza in parte alcuna questa da quella, con ciò sia cosa che tale è in Napoli la latina lingua, quale ella è in Roma e in Firenze e in Melano e in questa città e in ciascuna altra, dove ella sia in uso o molto o poco, ché in tutte medesimamente è il parlar latino d'una regola e d'una maniera; onde io a latinamente scrivere mettendomi, non potrei errare nello appigliarmi. Ma la volgare sta altramente. Perciò che ancora che le genti tutte, le quali dentro a' termini della Italia sono comprese, favellino e ragionino volgarmente, nondimeno ad un modo volgarmente favellano i napoletani uomini, ad un altro ragionano i lombardi, ad un altro i toscani, e cosí per ogni popolo discorrendo, parlano tra sé diversamente tutti gli altri. E sí come le contrade, quantunque italiche sieno medesimamente tutte, hanno nondimeno tra sé diverso e differente sito ciascuna, cosí le favelle, come che tutte volgari si chiamino, pure tra esse molta differenza si vede essere, e molto sono dissomiglianti l'una dall'altra. Per la qual cosa, come io dissi, impacciato mi troverei, che non saperei, volendo scrivere volgarmente, tra tante forme e quasi facie di volgari ragionamenti, a quale appigliarmi -.

[1.XIII.] Allora mio fratello, sorridendo: - Egli si par bene - disse - che voi non abbiate un libro veduto, che il Calmeta composto ha della volgar poesia, nel quale egli, affine che le genti della Italia non istiano in contesa tra loro, dà sentenza sopra questo dubbio, di qualità che niuna se ne può dolere. - Voi di poco potete errare, messer Carlo, - rispose lo Strozza - a dire che io libro alcuno del Calmeta non ho veduto, il quale, come sapete, scritture che volgari siano e componimenti di questa lingua, piglio in mano rade volte o non mai. Ma pure che sentenza è quella sua cosí maravigliosa che voi dite? - È - rispose mio fratello - questa, che egli giudica e termina in favore della cortigiana lingua, e questa non solamente alla pugliese e alla marchigiana o pure alla melanese prepone, ma ancora con tutte l'altre della Italia a quella della Toscana medesima ne la mette sopra, affermando a' nostri uomini, che nello scrivere e comporre volgarmente niuna lingua si dee seguire, niuna apprendere, se non questa -. A cui il Magnifico: - E quale domine lingua cortigiana chiama costui? con ciò sia cosa che parlare cortigiano è quello che s'usa nelle corti, e le corti sono molte: perciò che e in Ferrara è corte, e in Mantova e in Urbino, e in Ispagna e in Francia e in Lamagna sono corti, e in molti altri luoghi. Laonde lingua cortigiana chiamare si può in ogni parte del mondo quella che nella corte s'usa della contrada, a differenza di quell'altra che rimane in bocca del popolo, e non suole essere cosí tersa e cosí gentile. - Chiama - rispose mio fratello - cortigiana lingua quella della romana corte il nostro Calmeta, e dice che, perciò che facendosi in Italia menzione di corte ogniuno dee credere che di quella di Roma si ragioni, come tra tutte primiera, lingua cortigiana esso vuole che sia quella che s'usa in Roma, non mica da' romani uomini, ma da quelli della corte che in Roma fanno dimora. - E in Roma - disse il Magnifico - fanno dimora medesimamente diversissime genti pure di corte. Perciò che sí come ciascuno di noi sa, molti cardinali vi sono, quale spagniuolo, quale francese, quale tedesco, quale lombardo, quale toscano, quale viniziano; e di molti signori vi stanno al continuo che sono ancora essa membri della corte, di strane nazioni bene spesso, e molto tra sé differenti e lontane. E il Papa medesimo, che di tutta la corte è capo, quando è valenziano, come veggiamo essere ora, quando genovese e quando d'un luogo e quando d'altro. Perché, se lingua cortigiana è quella che costoro usano, et essi sono tra sé cosí differenti, come si vede che sono, né quelli medesimi sempre, non so io ancor vedere quale il nostro Calmeta lingua cortigiana si chiami. - Chiama, dico, quella lingua, - disse da capo mio fratello - che in corte di Roma è in usanza; non la spagniuola o la francese o la melanese o la napoletana da sé sola, o alcun'altra, ma quella che del mescolamento di tutte queste è nata, e ora è tra le genti della corte quasi parimente a ciascuna comune. Alla qual parte, dicendogli non ha guari messer Trifone Gabriele nostro, a cui egli, sí come ad uomo che udito avea molte volte ricordare essere dottissimo e sopra tutto intendentissimo delle volgari cose, questa nuova openion sua là dove io era isponea, come ciò potesse essere, che tra cosí diverse maniere di favella ne uscisse forma alcuna propria, che si potesse e insegnare e apprendere con certa e ferma regola sí che se ne valessino gli scrittori, esso gli rispondea, che sí come i Greci quattro lingue hanno alquanto tra sé differenti e separate, delle quali tutte una ne traggono, che niuna di queste è, ma bene ha in sé molte parti e molte qualità di ciascuna, cosí di quelle che in Roma, per la varietà delle genti che sí come fiumi al mare vi corrono e allaganvi d'ogni parte, sono senza fallo infinite, se ne genera et escene questa che io dico, la quale altresí, come quella greca si vede avere, sue regole, sue leggi ha, suoi termini, suoi confini, ne' quali contenendosi valere se ne può chiunque scrive. - Buona somiglianza - disse il Magnifico seguendo le parole di mio fratello - e bene paragonata; ma che rispose messer Trifone a questa parte? - Rispose - disse mio fratello - che oltra che le lingue della Grecia eran quattro, come esso dicea, e quelle di Roma tante che non si numererebbono di leggiere, delle quali tutte formare e comporne una terminata e regolata non si potea come di quattro s'era potuto, le quattro greche nella loro propria maniera s'erano conservate continuo, il che avea fatto agevole agli uomini di quei tempi dare alla quinta certa qualità e certa forma. Ma le romane si mutavano secondo il mutamento de' signori che facevano la corte, onde quella una che se ne generava, non istava ferma, anzi, a guisa di marina onda, che ora per un vento a quella parte si gonfia, ora a questa si china per un altro, cosí ella, che pochi anni adietro era stata tutta nostra, ora s'era mutata e divenuta in buona parte straniera. Perciò che poi che le Spagne a servire il loro pontefice a Roma i loro popoli mandati aveano, e Valenza il colle Vaticano occupato avea, a' nostri uomini e alle nostre donne oggimai altre voci, altri accenti avere in bocca non piaceva, che spagniuoli. Cosí quinci a poco, se il cristiano pastore, che a quello d'oggi venisse appresso, fosse francese, il parlare della Francia passerebbe a Roma insieme con quelle genti, e la cortigiana lingua, che s'era oggimai cotanto inispagnuolita, incontanente s'infranceserebbe, e altrettanto di nuova forma piglierebbe, ogni volta che le chiavi di S. Pietro venissero a mano di posseditore diverso di nazione dal passato. Ora, allo 'ncontro, molte cose recò il Calmeta in difesa della sua nuova lingua, poco sustanzievoli nel vero e a quelle somiglianti che udito avete, volendo a messer Trifone persuadere, che il parlare della romana corte era grave, dolce, vago, limato, puro, il che diceva dell'altre lingue non avenire, né pure della toscana cosí apieno. Ma egli nulla di ciò gli credette, né gliele fece buono in parte alcuna; onde egli o per la fatica del ragionare, o pure perciò che messer Trifone non accettava le sue ragioni, tutto cruccioso e caldo si dipartí -.

[1.XIV.] - Bene e ragionevolmente, sí come egli sempre fa, rispose messer Trifone al Calmeta, - disse il Magnifico - in ciò che raccontato ci avete. Ma egli l'arebbe per aventura potuto strignere con piú forte nodo, e arebbel fatto: se non l'avesse, sí come io stimo, la sua grande e naturale modestia ritenuto. - E quale è questo nodo piú forte, Giuliano, - disse lo Strozza - che voi dite? - È - diss'egli - che quella lingua che esso all'altre tutte prepone, non solamente non è di qualità da preporre ad alcuna, ma io non so ancora se dire si può, che ella sia veramente lingua. - Come, che ella non sia lingua? - disse messer Ercole - non si parla e ragiona egli in corte di Roma a modo niuno? - Parlavisi - rispose il Magnifico - e ragionavisi medesimamente come negli altri luoghi; ma questo ragionare per aventura e questo favellare tuttavia non è lingua, perciò che non si può dire che sia veramente lingua alcuna favella che non ha scrittore. Già non si disse alcuna delle cinque greche lingue esser lingua per altro, se non perciò che si trovavano in quella maniera di lingua molti scrittori. Né la latina lingua chiamiamo noi lingua, solo che per cagion di Plauto, di Terenzio, di Virgilio, di Varrone, di Cicerone e degli altri che, scrivendo, hanno fatto che ella è lingua, come si vede. Il Calmeta scrittore alcuno non ha da mostrarci, della lingua che egli cotanto loda agli scrittori. Oltre acciò ogni lingua alcuna qualità ha in sé, per la quale essa è lingua o povera o abondevole o tersa o rozza o piacevole o severa, o altre parti ha a queste simili che io dico; il che dimostrare con altro testimonio non si può che di coloro che hanno in quella lingua scritto. Perciò che se io volessi dire che la fiorentina lingua piú regolata si vede essere, piú vaga, piú pura che la provenzale, i miei due Toschi vi porrei dinanzi, il Boccaccio e il Petrarca senza piú, come che molti ve n'avesse degli altri, i quali due tale fatta l'hanno, quale essendo non ha da pentirsi. Il Calmeta quale auttore ci recherà per dimostrarci che la sua lingua queste o quelle parti ha, per le quali ella sia da preporre alla mia? sicuramente non niuno, che di nessuno si sa che nella cortigiana lingua scritto abbia infino a questo giorno -. Quivi tramettendosi messer Ercole: - A questo modo - disse - si potranno per aventura le parole di messer Carlo far vere, che non essendo lingua quella che il Calmeta per lingua a tutte le italiane lingue prepone, niun popolo della Italia dolere si potrà della sua sentenza. Ma io non per questo sarò, Giuliano, fuori del dubbio che io vi proposi. - Sí sarete sí, - rispose il Magnifico - se voi per aventura seguitar quegli altri non voleste, i quali perciò che non sanno essi ragionar toscanamente, si fanno a credere che ben fatto sia quelli biasimare che cosí ragionano; per la qual cosa essi la costoro diligenza schernendo, senza legge alcuna scrivono, senza avertimento, e comunque gli porta la folle e vana licenza, che essi da sé s'hanno presa, cosí ne vanno ogni voce di qualunque popolo, ogni modo sciocco, ogni stemperata maniera di dire ne' loro ragionamenti portando, e in essi affermando che cosí si dee fare; o pure se voi al Bembo vi farete dire, perché è, che messer Pietro suo fratello i suoi Asolani libri piú tosto in lingua fiorentina dettati ha, che in quella della città sua -. Allora mio fratello, senza altro priego di messer Ercole aspettare, disse: - Hallo fatto per quella cagione, per la quale molti Greci, quantunque Ateniesi non fossero, pure piú volentieri i loro componimenti in lingua attica distendeano che in altra, sí come in quella che è nel vero piú vaga e piú gentile -.

[1.XV.] - È adunque la fiorentina lingua - disse lo Strozza - piú gentile e piú vaga, messer Carlo, della vostra? - È senza dubbio alcuno, - rispose egli - né mi ritrarrò io, messer Ercole, di confessare a voi quello che mio fratello a ciascuno ha confessato, in quella lingua piú tosto che in questa dettando e commentando. - Ma perché è, - rispose lo Strozza - che quella lingua piú gentile sia che la vostra? - Allora disse mio fratello: - Egli si potrebbe dire in questa sentenza, messer Ercole, molte cose; perciò che primieramente si veggono le toscane voci miglior suono avere, che non hanno le viniziane, piú dolce, piú vago, piú ispedito, piú vivo; né elle tronche si vede che sieno e mancanti, come si può di buona parte delle nostre vedere, le quali niuna lettera raddoppiano giamai. Oltre a questo, hanno il loro cominciamento piú proprio, hanno il mezzo piú ordinato, hanno piú soave e piú dilicato il fine, né sono cosí sciolte, cosí languide; alle regole hanno piú risguardo, a' tempi, a' numeri, agli articoli, alle persone. Molte guise del dire usano i toscani uomini, piene di giudicio, piene di vaghezza, molte grate e dolci figure che non usiam noi, le quali cose quanto adornano, non bisogna che venga in quistione. Ma io non voglio dire ora, se non questo: che la nostra lingua, scrittor di prosa che si legga e tenga per mano ordinatamente, non ha ella alcuno; di verso, senza fallo, molti pochi; uno de' quali piú in pregio è stato a' suoi tempi, o pure a' nostri, per le maniere del canto, col quale egli mandò fuori le sue canzoni, che per quella della scrittura, le quali canzoni dal sopranome di lui sono poi state dette e ora si dicono le Giustiniane -. E se il Cosmico è stato letto già, e ora si legge, è forse perciò che egli non ha in tutto composto vinizianamente, anzi s'è egli dal suo natío parlare piú che mezzanamente discostato. La qual povertà e mancamento di scrittori, istimo essere avenuto perciò che nello scrivere la lingua non sodisfà, posta, dico, nelle carte tale quale ella è nel popolo ragionando e favellando, e pigliarla dalle scritture non si può, ché degni e accettati scrittori noi, come io dissi, non abbiamo. Là dove la toscana e nel parlare è vaga e nelle scritture si legge ordinatissima, con ciò sia cosa che ella, da molti suoi scrittori di tempo in tempo indirizzata, è ora in guisa e regolata e gentile, che oggimai poco disiderare si può piú oltra, massimamente veggendosi quello, che non è meno che altro da disiderare che vi sia, e ciò è che allei copia e ampiezza non mancano. La qual cosa scorgere si può per questo, che ella, e alle quantunque alte e gravi materie dà bastevolmente voci che le spongono, niente meno che si dia la latina, e alle basse e leggiere altresí; a' quali due stremi quando si sodisfà, non è da dubitare che al mezzano stato si manchi. Anzi alcuna volta eziandio piú abondevole si potrebbe per aventura dire che ella fosse. Perciò che rivolgendo ogni cosa, con qual voce i latini dicano quello che da' toscani molto usatamente valore è detto, non troverete. E perciò che tanto sono le lingue belle e buone piú e meno l'una dell'altra, quanto elle piú o meno hanno illustri e onorati scrittori, sicuramente dire si può, messer Ercole, la fiorentina lingua essere non solamente della mia, che senza contesa la si mette innanzi, ma ancora di tutte l'altre volgari, che a nostro conoscimento pervengono, di gran lunga primiera. - Bella e piena loda è questa, Giuliano, del vostro parlare, - disse lo Strozza - e, come io stimo, ancor vera, poi che ella da istrano e da giudicioso uomo gli è data. Ma voi, messer Federigo, che ne dite? parvi egli che cosí sia? - Parmi senza dubbio alcuno, - rispose messer Federigo - e dicone quello stesso che messer Carlo ne dice; il che si può credere ancora per questo, che non solamente i viniziani compositori di rime con la fiorentina lingua scrivono, se letti vogliono essere dalle genti, ma tutti gli altri italiani ancora. Di prosa non pare già, che ancor si veggano, oltra i toscani, molti scrittori. E di ciò anco non è maraviglia, con ciò sia cosa che la prosa molto piú tardi è stata ricevuta dall'altre nazioni che il verso. Perché voi vi potete tener per contento, Giuliano, al quale ha fatto il cielo natío e proprio quel parlare, che gli altri Italiani uomini per elezione seguono, et è loro istrano -.

[1.XVI.] Allora mio fratello: - Egli par bene da una parte, - disse - messer Federigo, che per contento tener se ne debba Giuliano, perciò che egli ha senza sua fatica quella lingua nella culla e nelle fascie apparata, che noi dagli auttori il piú delle volte con l'ossa dure disagiosamente appariamo. Ma d'altra non so io bene, senza fallo alcuno, che dirmi; e viemmi talora in openione di credere, che l'essere a questi tempi nato fiorentino, a ben volere fiorentino scrivere, non sia di molto vantaggio. Perciò che, oltre che naturalmente suole avenire, che le cose delle quali abondiamo sono da noi men care avute, onde voi toschi, del vostro parlare abondevoli, meno stima ne fate che noi non facciamo, sí aviene egli ancora che, perciò che voi ci nascete e crescete, a voi pare di saperlo abastanza, per la qual cosa non ne cercate altramente gli scrittori, a quello del popolaresco uso tenendovi, senza passar piú avanti, il quale nel vero non è mai cosí gentile, cosí vago, come sono le buone scritture. Ma gli altri, che toscani non sono, da' buoni libri la lingua apprendendo, l'apprendono vaga e gentile. Cosí ne viene per aventura quello che io ho udito dire piú volte, che a questi tempi non cosí propriamente né cosí riguardevolmente scrivete nella vostra medesima lingua voi fiorentini, Giuliano, come si vede che scrivono degli altri. Il che può avenire eziandio per questo, che quando bene ancora voi, per meglio sapere scrivere, abbiate con diligenza cerchi e ricerchi i vostri auttori, pure poi, quando la penna pigliate in mano, per occulta forza della lunga usanza, che nel parlare avete fatta del popolo, molte di quelle voci e molte di quelle maniere del dire vi si parano, mal grado vostro, dinanzi, che offendono e quasi macchiano le scritture, e queste tutte fuggire e schifare non si possono il piú delle volte il che non aviene di coloro, che lo scrivere nella lingua vostra dalle buone composizioni vostre solamente, e non altronde, hanno appreso. Né dico già io ciò, perché non ce ne possa alcuno essere, in cui questo non abbia luogo: sí come non ha, Giuliano, in voi, il quale, da fanciullo nelle buone lezioni avezzo, cosí ragionate ora, come quelli scrissero, de' quali s'è detto. Ma dicolo per la maggior parte, o forse per gli altri, che io non so se alcuno altro s'è de' vostri, che questo in ciò possa che voi potete -.

[1.XVII.] - Io, messer Carlo, - riprese il Magnifico - lasciando da parte quello che di me avete detto, a che io rispondere non voglio, non vi niego già che egli non possa essere che messer Pietro vostro fratello, e degli altri, che fiorentini non sono, la lingua de' nostri antichi scrittori con maggiore diligenza non seguano, e piú segnatamente con essa per aventura non scrivano di quello che scriviam noi; e voglio io ripormi tra gli altri, da' quali voi, per vostra cortesia, tolto m'avete. Ma io non so se egli si debba per questo dire che il vostro scrivere in quella guisa piú sia da lodare che il nostro. Perciò che, come si vede chiaramente in ogni regione e in ogni popolo avenire, il parlare e le favelle non sempre durano in uno medesimo stato, anzi elle si vanno o poco o molto cangiando, sí come si cangia il vestire, il guerreggiare, e gli altri costumi e maniere del vivere, come che sia. Perché le scritture, sí come anco le veste e le arme, accostare si debbono e adagiare con l'uso de' tempi, ne' quali si scrive, con ciò sia cosa che esse dagli uomini, che vivono, hanno ad esser lette e intese, e non da quelli che son già passati. Era il nostro parlare negli antichi tempi rozzo e grosso e materiale, e molto piú oliva di contado che di città. Per la qual cosa Guido Cavalcanti, Farinata degli Uberti, Guittone, e molt'altri, le parole del loro secolo usando, lasciarono le rime loro piene di materiali e grosse voci altresí; perciò che e Blasmo e Placere e Meo e Deo dissero assai sovente, e Bellore e Fallore e Lucore e Amanza e Saccente e Coralmente, senza risguardo e senza considerazione alcuna avervi sopra, sí come quelli che ancora udite non aveano di piú vaghe. Né stette guari, che la lingua lasciò in gran parte la prima dura corteccia del pedal suo. Laonde Dante, e nella Vita Nuova e nel Convito e nelle Canzoni e nella Comedia sua, molto si vede mutato e differente da quelli primieri che io dico, e tra queste sue composizioni piú si vede lontano da loro in quelle alle quali egli pose mano piú attempato, che nelle altre; il che argomento è che secondo il mutamento della lingua si mutava egli, affine di poter piacere alle genti di quella stagione, nella quale esso scrivea. Furono pochi anni appresso il Boccaccio e il Petrarca, i quali, trovando medesimamente il parlare della patria loro altrettanto o piú ancora cangiato da quello che trovò Dante, cangiarono in parte altresí i loro componimenti. Ora vi dico, che sí come al Petrarca e al Boccaccio non sarebbe stato dicevole che eglino si fossero dati allo scrivere nella lingua di quegli antichi lasciando la loro, quantunque essi l'avessero e potuto e saputo fare, cosí né piú né meno pare che a noi si disconvenga, lasciando questa del nostro secolo, il metterci a comporre in quella del loro, ché si potrebbe dire, messer Carlo, che noi scriver volessimo a' morti piú che a' vivi. Le bocche acconcie a parlare ha la natura date agli uomini, affine che ciò sia loro de' loro animi, che vedere compiutamente in altro specchio non si possono, segno e dimostramento; e questo parlare d'una maniera si sente nella Italia, e in Lamagna si vede essere d'un'altra, e cosí da questi diverso negli altri luoghi. Perché, sí come voi e io saremmo da riprendere, se noi a' nostri figliuoli facessimo il tedesco linguaggio imprendere, piú tosto che il nostro, cosí medesimamente si potrebbe per aventura dire, che biasimo meritasse colui, il quale vuole innanzi con la lingua degli altri secoli scrivere, che con quella del suo -.

[1.XVIII.] Tacevasi, dette queste parole, il Magnifico, e gli altri medesimamente si tacevano, aspettando quello che mio fratello recasse allo 'ncontro, il quale incontanente in questa guisa rispose: - Debole e arenoso fondamento avete alle vostre ragioni dato, se io non m'inganno, Giuliano, dicendo, che perché le favelle si mutano, egli si dee sempre a quel parlare, che è in bocca delle genti, quando altri si mette a scrivere, appressare e avicinare i componimenti, con ciò sia cosa che d'esser letto e inteso dagli uomini che vivono si debba cercare e procacciare per ciascuno. Perciò che se questo fosse vero, ne seguirebbe che a coloro che popolarescamente scrivono, maggior loda si convenisse dare che a quegli che le scritture loro dettano e compongono piú figurate e piú gentili; e Virgilio meno sarebbe stato pregiato, che molti dicitori di piazza e di volgo per aventura non furono, con ciò sia cosa che egli assai sovente ne' suoi poemi usa modi del dire in tutto lontani dall'usanze del popolo, e costoro non vi si discostano giamai. La lingua delle scritture, Giuliano, non dee a quella del popolo accostarsi, se non in quanto, accostandovisi, non perde gravità non perde grandezza; che altramente ella discostare se ne dee e dilungare, quanto le basta a mantenersi in vago e in gentile stato. Il che aviene per ciò, che appunto non debbono gli scrittori por cura di piacere alle genti solamente, che sono in vita quando essi scrivono, come voi dite, ma a quelle ancora, e per aventura molto piú, che sono a vivere dopo loro: con ciò sia cosa che ciascuno la eternità alle sue fatiche piú ama, che un brieve tempo. E perciò che non si può per noi compiutamente sapere quale abbia ad essere l'usanza delle favelle di quegli uomini, che nel secolo nasceranno che appresso il nostro verrà, e molto meno di quegli altri, i quali appresso noi alquanti secoli nasceranno; è da vedere che alle nostre composizioni tale forma e tale stato si dia, che elle piacer possano in ciascuna età, e ad ogni secolo, ad ogni stagione esser care; sí come diedero nella latina lingua a' loro componimenti Virgilio, Cicerone e degli altri, e nella greca Omero, Demostene e di molt'altri ai loro; i quali tutti, non mica secondo il parlare, che era in uso e in bocca del volgo della loro età, scriveano, ma secondo che parea loro che bene lor mettesse a poter piacere piú lungamente. Credete voi che se il Petrarca avesse le sue canzoni con la favella composte de' suoi popolani, che elle cosí vaghe, cosí belle fossero come sono, cosí care, cosí gentili? Male credete, se ciò credete. Né il Boccaccio altresí con la bocca del popolo ragionò; quantunque alle prose ella molto meno si disconvenga, che al verso. Che come che egli alcuna volta, massimamente nelle novelle, secondo le proposte materie, persone di volgo a ragionare traponendo, s'ingegnasse di farle parlare con le voci con le quali il volgo parlava, nondimeno egli si vede che in tutto 'l corpo delle composizioni sue esso è cosí di belle figure, di vaghi modi e dal popolo non usati, ripieno, che meraviglia non è se egli ancora vive, e lunghissimi secoli viverà. Il somigliante hanno fatto nelle altre lingue quegli scrittori, a' quali è stato bisogno, per conto delle materie delle quali essi scriveano, le voci del popolo alle volte porre nel campo delle loro scritture; sí come sono stati oratori e compositori di comedie o pure di cose che al popolo dirittamente si ragionano, se essi tuttavia buoni maestri delle loro opere sono stati. Quale altro giamai fu, che al popolo ragionasse piú di quello che fe' Cicerone? Nondimeno il suo ragionare in tanto si levò dal popolo, che egli sempre solo, sempre unico, sempre senza compagnia è stato. Simigliantemente avenne di Demostene tra' Greci; e poco meno in quell'altra maniera di scrivere, d'Aristofane e di Terenzio tra loro e tra noi. Per la qual cosa dire di loro si può, che essi bene hanno ragionato col popolo in modo che sono stati dal popolo intesi, ma non in quella guisa nella quale il popolo ha ragionato con loro. Perché, se volete dire, Giuliano, che agli scrittori stia bene ragionare in maniera, che essi dal popolo siano intesi, io il vi potrò concedere non in tutti, ma in alquanti scrittori tuttavia; ma che essi ragionar debbano, come ragiona il popolo, questo in niuno vi si concederà giamai. Sono in questa città molti, e credo io che ne siano nella vostra ancora, i quali, orando come si fa dinanzi alle corone de' giudici, o altramente agli orecchi della moltitudine consigliando come che sia, truovano e usano molte voci nuove e per adietro dal popolo non udite, o ne dicono molte usate, ma tuttavia le pongono con nuovo sentimento, o ancora da altre lingue ne pigliano, per fare il loro parlare piú riguardevole e piú vago, le quali tuttavia sono dal popolo intese, o perché essi le dirivano da alcuna usata, o perché la catena delle voci, tra le quali elle son poste, le fa palesi. Usano eziandio molti modi e molte figure del dire similmente nuove al volgo, e nondimeno per quelle cagioni medesime da esso intese. Il che, se nel ragionare osservato accresce dignità e grazia, quanto si dee egli osservare maggiormente nelle scritture? Oltra che infiniti scrittori sono, a' quali non fa mestiero essere intesi dal volgo; anzi essi lo rifiutano e scacciano dai loro componimenti, solamente ad essi i dotti e gli scienziati uomini ammettendo. Né questo solamente fanno nelle composizioni, che essi agli scienziati scrivono, ma in quelle ancora molte volte che dettano e indirizzano a' non dotti. Scrive delle bisogne del contado il mantovano Virgilio, e scrive a contadini, invitandogli ad apparar le cose di che egli ragiona loro; tuttavolta scrive in modo che non che contadino alcuno, ma niuno uomo piú che di città, se non dotto grandemente e letterato, può bene e compiutamente intendere ciò che egli scrive. Potrassi egli per questo dire che i libri dell'opere della villa di Virgilio non siano lo specchio e il lume e la gloria de' latini componimenti? Non è la moltitudine, Giuliano, quella che alle composizioni d'alcun secolo dona grido e auttorità, ma sono pochissimi uomini di ciascun secolo, al giudicio de' quali, perciò che sono essi piú dotti degli altri riputati, danno poi le genti e la moltitudine fede, che per sé sola giudicare non sa dirittamente, e a quella parte si piega con le sue voci, a cui ella que' pochi uomini, che io dico, sente piegare. E i dotti non giudicano che alcuno bene scriva, perché egli alla moltitudine e al popolo possa piacere del secolo nel quale esso scrive; ma giudica a' dotti di qualunque secolo tanto ciascuno dover piacere, quanto egli scrive bene; ché del popolo non fanno caso. È adunque da scriver bene piú che si può, perciò che le buone scritture, prima a' dotti e poi al popolo del loro secolo piacendo, piacciono altresí e a' dotti e al popolo degli altri secoli parimente.

[1.XIX.] Ora mi potreste dire: cotesto tuo scriver bene onde si ritra' egli, e da cui si cerca? Hass'egli sempre ad imprendere dagli scrittori antichi e passati? Non piaccia a Dio sempre, Giuliano, ma sí bene ogni volta che migliore e piú lodato è il parlare nelle scritture de' passati uomini, che quello che è o in bocca o nelle scritture de' vivi. Non dovea Cicerone o Virgilio, lasciando il parlare della loro età, ragionare con quello d'Ennio o di quegli altri, che furono piú antichi ancora di lui, perciò che essi avrebbono oro purissimo, che delle preziose vene del loro fertile e fiorito secolo si traeva, col piombo della rozza età di coloro cangiato; sí come diceste che non doveano il Petrarca e il Boccaccio col parlare di Dante, e molto meno con quello di Guido Guinicelli e di Farinata e dei nati a quegli anni ragionare. Ma quante volte aviene che la maniera della lingua delle passate stagioni è migliore che quella della presente non è, tante volte si dee per noi con lo stile delle passate stagioni scrivere, Giuliano, e non con quello del nostro tempo. Perché molto meglio e piú lodevolmente avrebbono e prosato e verseggiato, e Seneca e Tranquillo e Lucano e Claudiano e tutti quegli scrittori, che dopo 'l secolo di Giulio Cesare e d'Augusto e dopo quella monda e felice età stati sono infino a noi, se essi nella guisa di que' loro antichi, di Virgilio dico e di Cicerone, scritto avessero, che non hanno fatto scrivendo nella loro; e molto meglio faremo noi altresí, se con lo stile del Boccaccio e del Petrarca ragioneremo nelle nostre carte, che non faremo a ragionare col nostro, perciò che senza fallo alcuno molto meglio ragionarono essi che non ragioniamo noi. Né fie per questo che dire si possa, che noi ragioniamo e scriviamo a' morti piú che a' vivi. A' morti scrivono coloro, le scritture de' quali non sono da persona lette giamai, o se pure alcuno le legge, sono que' tali uomini di volgo, che non hanno giudicio e cosí le malvagie cose leggono come le buone, perché essi morti si possono alle scritture dirittamente chiamare, e quelle scritture altresí, le quali in ogni modo muoiono con le prime carte. La latina lingua, sí come si disse pur dianzi, era agli antichi natía, e in quel grado medesimo che è ora la volgare a noi, che cosí l'apprendevano essi tutti e cosí la usavano, come noi apprendiamo questa e usiamo, né piú né meno. Non perciò ne viene, che quale ora latinamente scrive, a' morti si debba dire che egli scriva piú che a' vivi, perciò che gli uomini, de' quali ella era lingua, ora non vivono, anzi sono già molti secoli stati per lo adietro. Ma io sono forse troppo ardito, Giuliano, che di queste cose con voi cosí affermatamente ragiono e quasi come legittimo giudice voglio speditamente darne sentenza. Egli si potrà poscia, quando a voi piacerà, altra volta meglio vedere, se quello che io dico è vero; e messer Federigo alcuna cosa vi ci recherà ancora egli. - Io per me niuna cosa saprei recare sopra quelle che si son dette, - disse a questo messer Federigo - forse perciò che aggiugnere non si può sopra 'l vero. Ma io m'aveggo che il dí è basso; se Giuliano piú oltra non fa pensiero di dire egli, sarà per aventura ben fatto che noi pensiamo di dipartirci. - Né io altresí voglio dire piú oltra, - rispose il Magnifico - poscia che, o la nuova fiorentina lingua o l'antica che si lodi maggiormente, l'onore in ogni modo ne va alla patria mia. Il dipartire adunque, messer Federigo, sia quando a voi piace, se messer Ercole nondimeno s'è de' suoi dubbi risoluto a bastanza -.

[1.XX.] Allora lo Strozza, che buona pezza assai intentamente quello che s'era ragionato ascoltando, niente parlato avea, disse: - Lo avermi voi tutti oggi fatto chiaro d'alquante cose sopra la volgar lingua, delle quali io niuna contezza avea, m'ha posto in disio di dimandarvi d'alquante altre, e fare'lo volentieri se l'ora non fosse tarda, come messer Federigo dice e come io veggo che ella è, e se noi non avessimo pur troppo lungamente occupato messer Carlo, il quale fie bene che noi lasciamo. - Me non avete voi occupato di nulla, - riprese mio fratello - il quale non potea questo dí meglio spendere che io me l'abbia speso. Voi, messer Ercole, e questi altri posso io bene avere occupati e disagiati soverchio, il che se è stato, della vostra molta cortesia ringraziandovi, che avete con isconcio di voi il mio natale dí della vostra presenza onorato, vi chieggo di ciò perdono. Non per tanto io non mi pento d'avervi dato questo sinistro: e chi sa, se io ne ho a fare piú alcuno altro? Ma, lasciando questo da parte, se io credessi che voi, fatto chiaro di quelle cose delle quali dite che ci addimandereste volentieri, pensaste di scrivere alcuna volta con quella lingua con la quale ragionate sempre, io direi che noi, o qui o in altro luogo dove a voi piacesse, insieme ci ritrovassimo medesimamente domani a questo fine. Ma io non lo spero, in maniera v'ho io conosciuto in ogni tempo lontano da questo consiglio. - Sicuramente - disse lo Strozza - cosí è stato di me come voi dite, infino a questo giorno, che non ho mai potuto volger l'animo allo scrivere in questa favella. Non perciò dovete voi di ragionarne meco rimanervi, che egli potrebbe bene avenire che io muterei sentenza, udendo le vostre ragioni. E domani che possiamo noi meglio fare, massimamente niuna cosa affare avendo, come non abbiamo? se costor due tuttavolta maggiore opera non hanno a fornire, che m'abbia io -. I quali rispondendo che essi niuna ne aveano, e quando n'avesser molte avute, essi non sapeano che cosa si potesse per loro fare, che loro piú piacesse che si facesse di questa, - Dunque, - disse mio fratello - poscia che voi il fate possibile, per me non voglio già io che rimanga, che non vi sia ogni occasion data, messer Ercole, della vostra falsa openione di dipartirvi -. E cosí conchiuso per ciascuno che il seguente giorno appresso desinare pure a casa mio fratello si venisse, essi da sedere si levarono, e preso da tutti il passo verso le scale, che alquanto lontane erano dalla parte, nella quale dimorando ragionato aveano, disse lo Strozza: - Se di questo dubbio voi mi potete, messer Carlo, cosí caminando far chiaro, ditemi: quando alcun fosse, il quale nello scrivere, né a quella antica toscana lingua, né a questa nuova in tutto tenendosi, delle quali disputato avete, ma dell'una e dell'altra le migliori parti pigliando, amendue le mescolasse e facessene una sua, non lo lodereste voi piú che se egli non le mescolasse? - Io - disse mio fratello - il loderei, quando egli tuttavia facesse in modo che la sua mescolata lingua fosse migliore, che non è la semplice antica. Ma ciò sarebbe piú malagevole affare, che altri per aventura non istima; con ciò sia cosa che il men buono aggiunto al migliore non lo può miglior fare di quello che egli è, men buono sí il fa egli sempre; ché il pane del grano non si fa miglior pane per mescolarvi la saggina. Perché io per me non saprei lodare, messer Ercole, questo mescolamento -. Cosí detto, e scese le scale, e alle porte, che dal canto dell'acqua erano, pervenuti, mio fratello si rimase, e gli tre, in una delle nostre barchette saliti, si dipartirono.


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Edizione telematica  a cura di: Claudio Paganelli, 1999
Revisione, Edizione HTML e impaginazione a cura di: Giuseppe Bonghi, Aprile 1999
Tratto da: Pietro Bembo, Prose della volgar lingua, Gli Asolani, Rime, a cura di Carlo Dionisotti, TEA Tascabili Editori Associati, Milano 1997

© 1999 - by prof. Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 21 aprile, 1999