Pietro  Bembo

Prose della volgar lingua

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DI MESSER PIETRO BEMBO
A MONSIGNOR MESSER GIULIO CARDINALE DE' MEDICI
DELLA VOLGAR LINGUA

PRIMO LIBRO

[1.I.] Se la natura, Monsignor messer Giulio, delle mondane cose producitrice e de' suoi doni sopra esse dispensatrice, sí come ha la voce agli uomini e la disposizione a parlar data, cosí ancora data loro avesse necessità di parlare d'una maniera medesima in tutti, ella senza dubbio di molta fatica scemati ci avrebbe e alleviati, che ci soprastà. Con ciò sia cosa che a quelli che ad altre regioni e ad altre genti passar cercano, che sono sempre e in ogni parte molti, non converrebbe che, per intendere essi gli altri e per essere da loro intesi, con lungo studio nuove lingue apprendessero. Anzi sí come la voce è a ciascun popolo quella stessa, cosí ancora le parole, che la voce forma, quelle medesime in tutti essendo, agevole sarebbe a ciascuno lo usar con le straniere nazioni; il che le piú volte, piú per la varietà del parlare che per altro, è faticoso e malagevole come si vede. Perciò che qual bisogno particolare e domestico, o qual civile commodità della vita può essere a colui presta, che sporre non la sa a coloro da cui esso la dee ricevere, in guisa che sia da lor conosciuto quello che esso ricerca? Senza che non solo il poter mostrare ad altrui ciò che tu addomandi, t'è di mestiero affine che tu il consegua, ma oltre acciò ancora il poterlo acconciamente e con bello e grazioso parlar mostrare, quante volte è cagione che un uomo da un altr'uomo, o ancora da molti uomini, ottien quello che non s'otterrebbe altramente? Perciò che tra tutte le cose acconce a commuovere gli umani animi, che liberi sono, è grande la forza delle umane parole.
         Né solamente questa fatica, che io dico, del parlare, ma un'altra ancora vie di questa maggiore sarebbe da noi lontana, se piú che una lingua non fosse a tutti gli uomini, e ciò è quella delle scritture; la quale perciò che a piú largo e piú durevole fine si piglia per noi, è di mestiero che da noi si faccia eziandio piú perfettamente, con ciò sia cosa che ciascun che scrive, d'esser letto disidera dalle genti, non pur che vivono, ma ancora che viveranno, dove il parlare da picciola loro parte e solo per ispazio brevissimo si riceve; il qual parlare assai agevolmente alle carte si manderebbe, se niuna differenza v'avesse in lui. Ora che, qualunque si sia di ciò la cagione, essere il vediamo cosí diverso, che non solamente in ogni general provincia propriamente e partitamente dall'altre generali provincie si favella, ma ancora in ciascuna provincia si favella diversamente, e oltre acciò esse stesse favelle cosí diverse alterando si vanno e mutando di giorno in giorno, maravigliosa cosa è a sentire quanta variazione è oggi nella volgar lingua pur solamente, con la qual noi e gli altri Italiani parliamo, e quanto è malagevole lo eleggere e trarne quello essempio, col quale piú tosto formar si debbano e fuori mandarne le scritture. Il che aviene perciò, che quantunque di trecento anni e piú per adietro infino a questo tempo, e in verso e in prosa, molte cose siano state in questa lingua scritte da molti scrittori, sí non si vede ancora chi delle leggi e regole dello scrivere abbia scritto bastevolmente. E pure è ciò cosa, a cui doverebbono i dotti uomini sopra noi stati avere inteso; con ciò sia cosa che altro non è lo scrivere che parlare pensatamente, il qual parlare, come s'è detto, questo eziandio ha di piú, che egli e ad infinita moltitudine d'uomini ne va, e lungamente può bastare. E perciò che gli uomini in questa parte massimamente sono dagli altri animali differenti, che essi parlano, quale piú bella cosa può alcun uomo avere, che in quella parte per la quale gli uomini agli altri animali grandemente soprastanno, esso agli altri uomini essere soprastante, e spezialmente di quella maniera che piú perfetta si vede che è e piú gentile?
         Per la qual cosa ho pensato di poter giovare agli studiosi di questa lingua, i quali sento oggimai essere senza numero, d'un ragionamento ricordandomi da Giuliano de' Medici, fratel cugin vostro, che è ora Duca di Nemorso, e da messer Federico Fregoso, il quale pochi anni appresso fu da Giulio papa secondo arcivescovo di Salerno creato, e da messer Ercole Strozza di Ferrara, e da meser Carlo mio fratello in Vinegia fatto, alquanti anni adietro, in tre giornate, e da esso mio fratello a me, che in Padova a quelli dí mi trovai essere, poco appresso raccontato, e quello alla sua verità, piú somigliantemente che io posso, in iscrittura recandovi, nel quale per aventura di quanto acciò fa mestiero si disputò e si disse. Il che a voi, Monsignore, come io stimo, non fia discaro, sí perché non solo le latine cose, ma ancora le scritte in questa lingua vi piacciono e dilettano grandemente, e tra le grandi cure che, con la vostra incomparabile prudenza e bontà le bisogne di santa Chiesa trattando, vi pigliate continuo, la lezione delle toscane prose tramettete, e gli orecchi date a' fiorentini poeti alcuna fiata (e potete ciò avere dal buon Lorenzo, che vostro zio fu, per succession preso, di cui molti vaghi e ingeniosi componimenti in molte maniere di rime e alcuni in prosa si leggono) e sí ancora per questo, che della vostra città di Firenze e de' suoi scrittori, piú che d'altro, si fa memoria in questo ragionamento, dalla quale e da' quali hanno le leggi della lingua che si cerca, e principio e accrescimento e perfezione avuta.

[1.II.] Perciò che essendo in Vinegia non guari prima venuto Giuliano, il quale, come sapete, a quel tempo Magnifico per sopranome era chiamato da tutti, nel tempo che voi et egli e Pietro e il cardinale de' Medici suoi fratelli, per la venuta in Italia e in Firenze di Carlo ottavo Re di Francia di pochi anni stata, fuori della patria vostra dimoravate (il qual cardinale, la Dio mercé, ora papa Leon decimo e Signor mio, a voi ha l'ufficio e il nome suo lasciato) e i due che io dissi, messer Federigo, che il piú giovane era, e messer Ercole, ritrovandovisi per loro bisogne altresí, mio fartello a desinare gl'invitò seco; sí come quegli uomini, i quali e per cagion di me, che amico e dell'uno di lor fui e degli altri ancor sono, e perché il valevano, egli amava e onorava sopra gli altri. Era per aventura quel dí il giorno del natal suo, che a' dieci dí di dicembre veniva; né ad esso doveva ritornar piú, se non in quanto infermo e con poca vita il ritrovasse, perciò che egli si morí a' trenta dí del dicembre che seguí appresso.
         Ora avendo questi tre con mio fratello desinato, sí come egli mi raccontava, e ardendo tuttavia nella camera nella quale essi erano, alquanto dallor discosto, un buon fuoco, disse messer Ercole, il quale per accidente d'infermità sciancato e debole era della persona: - Io, Signori, con licenza di voi, al fuoco m'accosterò, non perché io freddo abbia, ma acciò che io non l'abbia. - Come a voi piace - rispose a messer Ercole mio fratello; e agli altri due rivoltosi, seguitò: - Anzi fie bene che ancor noi vi ci accostiamo. - Accostiamvici - disse Giuliano - ché questo rovaio, che tutta mattina ha soffiato, acciò fare ci conforta. - Perché levatisi, e messer Federigo altresí, e avvicinativisi, e recatovi da' famigliari le sedie, essi a sedere vi si posero al dintorno; il che fatto, disse messer Ercole a Giuliano: - Io non ho altra fiata cotesta voce udito ricordare, che voi, Magnifico, rovajo avete detto, e per aventura se io udita l'avessi, intesa non l'averei, se la stagione non la mi avesse fatta intendere, come ora fa; perciò che io stimo che rovajo sia vento di tramontana, il cui fiato si sente rimbombare tuttavia. - A che rispostogli da Giuliano che cosí era; e di questa voce, d'una cosa in altra passando, venuti a dire della volgar lingua, con la quale non solamente ragioniamo tuttodí, ma ancora scriviamo; e ciascuno degli altri onoratamente parlandone, e in questo tra sé convenendo, che bene era lo scrivere volgarmente a questi tempi; messer Ercole, il quale solo della latina vago, e quella cosí lodevolmente, come s'è veduto, in molte maniere di versi usando, quest'altra sempre sí come vile e povera e disonorata scherniva, disse: - Io non so per me quello che voi in questa lingua vi troviate, perché si debba cosí lodarla e usarla nello scrivere, come dite. Ben vorrei e sarebbemi caro, che o voi aveste me a quello di lei credere persuaso che voi vi credete, in maniera che voglia mi venisse di scrivere alle volte volgarmente, come voi scrivete, o io voi svolgere da cotesta credenza potessi e, nella mia openione traendovi, esser cagione che voi altro che latinamente non scriveste. E sopra tutto, messer Carlo, vorre' io ciò potere con messer Pietro vostro fratello, del quale sicuramente m'incresce, che essendo egli nella latina lingua già avezzo, egli la tralasci e trametta cosí spesso, come egli fa, per iscrivere volgarmente -. E cosí detto, si tacque.

[1.III.] Allora mio fratello, vedendo gli altri star cheti, cosí rispose: - Io mi credo che a ciascuno di noi che qui siamo, sarebbe vie piú agevole in favore di questo lodare e usare la volgar lingua che noi sovente facciamo, la quale voi parimente e schifate e vituperate sempre, recarvi tante ragioni che voi in tutto mutaste sentenza, che a voi possibile in alcuna parte della nostra openione levar noi. Nondimeno, messer Ercole, io non mi maraviglio molto, non avendo voi ancora dolcezza veruna gustata dello scrivere e comporre volgarmente, sí come colui che, di tutte quelle della latina lingua ripieno, a queste prendere non vi sete volto giamai, se v'incresce che messer Pietro mio fratello tempo alcuno e opera vi spenda e consumi, del latinamente scrivere tralasciandosi come dite. Anzi ho io degli altri ancora, dotti e scienziati solamente nelle latine lettere, già uditi allui medesimo dannare questo stesso e rimproverargliele, a' quali egli brievemente suole rispondere e dir loro, che a sé altrettanto incresce di loro allo 'ncontro, i quali molta cura e molto studio nelle altrui favelle ponendo e in quelle maestrevolmente essercitandosi, non curano se essi ragionar non sanno nella loro, a quegli uomini rassomigliandogli, che in alcuna lontana e solinga contrada palagi grandissimi di molta spesa, a marmi e ad oro lavorati e risplendenti, procacciano di fabricarsi, e nella loro città abitano in vilissime case. - E come, - disse messer Ercole - stima egli messer Pietro che il latino parlare ci sia lontano? - Certo sí, che egli lo stima, - rispose mio fratello - non da sé solo posto, ma bene in rispetto e in comperazione del volgare, il quale è a noi piú vicino; quando si vede che nel volgare tutti noi tutta la vita dimoriamo, il che non aviene del latino. Sí come a' romani uomini era ne' buoni tempi piú vicina la latina favella che la greca, con ciò sia cosa che nella latina essi tutti nascevano e quella insieme col latte dalle nutrici loro beeano e in essa dimoravano tutti gli anni loro comunemente, dove la greca essi apprendevano per lo piú già grandi e usavanla rade volte e molti di loro per aventura né l'usavano né l'apprendevano giamai. Il che a noi aviene della latina, che non dalle nutrici nelle culle, ma da' maestri nelle scuole, e non tutti, anzi pochi l'apprendiamo, e presa, non a ciascuna ora la usiamo, ma di rado e alcuna volta non mai -. Quivi seguitando le parole di mio fratello: - Cosí è - disse il Magnifico - senza fallo alcuno, messer Ercole, come il Bembo dice; e questo ancora piú oltre, che a noi la volgar lingua non solamente vicina si dee dire che ella sia, ma natía e propria, e la latina straniera. Che sí come i Romani due lingue aveano, una propria e naturale, e questa era la latina, l'altra straniera, e quella era la greca, cosí noi due favelle possediamo altresí, l'una propria e naturale e domestica, che è la volgare, istrana e non naturale l'altra, che è la latina. Vedete ora, quale di voi due in ciò è piú tosto da biasimare e da riprendere, o messer Pietro, il quale usando la favella sua natía non perciò lascia di dare opera e tempo alla straniera, o voi, che quella schernendo e rifiutando che natía vostra è, lodate e seguitate la strana -.

[1.IV.] - Io son contento di concedervi, messer Carlo e Giuliano, - disse lo Strozza - che la volgare favella piú a noi vicina sia o ancora piú naturale e propria, che la latina non si vede essere, in quella guisa medesima che a' Romani era la latina piú vicina e piú naturale della greca; pure che mi concediate ancor voi, quello che negare per niun modo non mi si può, che sí come a quel tempo e in que' dotti secoli era ne' romani uomini di molta maggior dignità e stima la greca lingua che la latina, cosí tra noi oggi molto piú in prezzo sia e in onore e riverenza la latina avuta che la volgare. Il che se mi si conciede, come si potrà dire che ad alcun popolo, avente due lingue, l'una piú degna dell'altra e piú onorata, egli non si convenga vie piú lo scrivere nella piú lodata che nella meno? Oltra che se è vero quello che io ho udito dire alcuna volta, che la nostra volgar favella stata sia eziandio favella medesimamente volgare a' Romani; con la quale tra essi popolarescamente si sia ragionato come ora si ragiona tra noi, tuttavolta senza passar con lei nello scrivere, al quale noi piú arditi e meno consigliati passiamo, noi non solamente la meno pregiata favella e men degna da' Romani riputata, ma ancora la rifiutata e del tutto per vile scacciata dalle loro scritture, aremmo a quella preposta, a cui essi tutto il grido e tutto l'onore dato hanno, la volgar lingua alla latina ne' nostri componimenti preponendo. Laonde e di molta presonzione potremmo essere dannati, poscia che noi nelle lettere quello che i romani uomini hanno schifato, seguitiamo, e di poca considerazione, in quanto, potendo noi a bastanza col loro essempio della latina lingua contentarci, caricare ci siamo voluti di soverchio peso, disonorata fatica e biasimevole procacciando -.

[1.V.] Alle cui parole il Magnifico senza dimora cosí rispose: - Egli vi sarà bene, messer Ercole, da me e da messer Carlo conceduto e da messer Federigo ancora, i quali tutti in questa contesa parimente contra voi sentiamo, che ne' primi buoni tempi da' romani uomini fosse la greca lingua in piú dignità avuta che la latina, e al presente alla latina altresí piú onore si dia che alla volgare; il che può avenire, sí perché naturalmente maggiore onore e riverenza pare che si debba per noi alle antiche cose portare che alle nuove, e sí ancora perciò che e allora la greca lingua piú degni e riverendi scrittori avea e in maggior numero, che non avea la latina, e ora la latina medesimamente molti piú avere se ne vede di gran lunga e piú onorati, che non ha la volgare. Ma non per tutto ciò vi si concederà, che sempre nella piú degna lingua si debba scrivere piú tosto che nella meno. Perciò che se a questa regola dovessero gli antichi uomini considerazione e risguardo avere avuto, né i Romani avrebbono giamai scritto nella latina favella, ma nella greca; né i Greci altresí si sarebbono al comporre nella loro cosí bella e cosí rotonda lingua dati, ma in quella de' loro maestri Fenici; e questi in quella d'Egitto, o in alcun'altra; e a questo modo, di gente in gente a quella favella ritornando nella quale primieramente le carte e gl'inchiostri si trovarono, bisognerà dire che male ha fatto qualunque popolo e qualunque nazione scrivere ha voluto in altra maniera, e male sia per fare qualunque altramente scriverà; e saremo a credere constretti che di tante e cosí differenti guise e tra sé diverse e lontane di parlari, quante sono per adietro state e saranno per innanzi fra tutti gli uomini, quella una forma, quell'un modo solo di lingua, con la quale primieramente sono state tessute le scritture, sia nel mondo da lodare e da usare, e non altra; il che è troppo piú fuori del convenevole detto che mestier faccia che se ne questioni. È dunque bene, messer Ercole, confessare che non le piú degne e piú onorate favelle siano da usare tra gli uomini nello scrivere, ma le proprie loro, quando sono di qualità che ricever possano, quando che sia, ancora esse dignità e grandezza; sí come era la latina ne' buoni tempi, alla quale Cicerone, perciò che tutta quella riputazione non l'era ancor data, che ad esso parea che le si convenisse dare, sentendola capevole a tanta riceverne, quanta ella dapoi ha per sua e per altrui opera ricevuto, s'ingegna accrescere autorità in molte delle sue composizioni lodandola, e consigliando i romani uomini e invitandogli allo scrivere romanamente e a fare abondevole e ricca la loro lingua piú che l'altrui.
         Questo medesimo della nostra volgare messer Cino e Dante e il Petrarca e il Boccaccio e degli altri di lontano prevedendo, e con essa molte cose e nel verso e nella prosa componendo, le hanno tanta autorità acquistata e dignità, quanta ad essi è bastato per divenire famosi e illustri, non quanta per aventura si può in sommo allei dare e accrescere scrivendo. Perché non solamente senza pietà e crudeli doveremmo essere dalle genti riputati, dallei nelle nostre memorie partendoci e ad altre lingue passando, quasi come se noi dal sostentamento della nostra madre ci ritraessimo per nutrire una donna lontana, ma ancora di poco giudicio; con ciò sia cosa che, perciò che questa lingua non si vede ancora essere molto ricca e ripiena di scrittori, chiunque ora volgarmente scriverà, potrà sperare di meritar buona parte di quella grazia che a' primi ritrovatori si dà delle belle e laudevoli cose, là dove, scrivendo latinamente, allui si potrà dire quello che a' Romani si solea dire, i quali allo scriver greco si davano, che essi si faticavano di portare alberi alla selva. Che dove dite, messer Ercole, che la nostra volgar lingua era eziandio lingua a' Romani negli antichi tempi, io stimo che voi ci tentiate; ché non posso credere che voi il vi crediate, né niuno altresí credo io essere che il si creda -.

[1.VI.] Allora messer Federico, il quale, gli altri ascoltando, buona pezza s'era taciuto, disse: - Io non so già quello che io della credenza di messer Ercole mi debba credere, il quale io sempre, Giuliano, per uomo giudiciosissimo ho conosciuto. Tanto vi posso io ben dire, che io questo che esso dice, ho già udito dire a degli altri, e sopratutto ad uno, che noi tutti amiamo grandemente e onoriamo e il quale di buonissimo giudicio suole essere in tutte le cose, come che egli in questa senza dubbio niuno prenda errore. - E perché - disse lo Strozza - prende egli cosí errore costui, messer Federigo, come voi dite? - Per questo, - rispose messer Federigo - che se ella stata fosse lingua a quelle stagioni, se ne vederebbe alcuna memoria negli antichi edifici e nelle sepolture, sí come se ne vedono molte della latina e della greca. Ché, come ciascuno di noi sa, infiniti sassi sono in Roma, serbati dal tempo infino a questo dí, scritti con latine voci e alquanti con greche, ma con volgari non niuno; e mostranvisi a' riguardanti in ogni parte e in ogni via titoli di vilissime persone, in pietre senza niuna dignità scritti, e con voci nelle regole della lingua e della scrittura peccanti, sí come il volgo alle volte, quando parla e quando scrive, fa: nondimeno tutti o greci o latini. Che se la volgar lingua a que' tempi stata fosse, posto che ella fosse stata piú nel volgo, come que' tali dicono, che nel senato o ne' grandi uomini, impossibile tuttavia pure sarebbe, che almeno tra queste basse e vili memorie che io dico non se ne vedesse qualche segno. Oltra che ne' libri ancora si sarebbe ella come che sia trapelata e passata infino a noi; che non è lingua alcuna, in alcuna parte del mondo dove lo scrivere sia in usanza, con la quale o versi o prosa non si compongano, e molto o poco non si scriva, solo che ella acconcia sia alla scrittura, come si vede che è questa. Perché si può conchiudere, che sí come noi ora due lingue abbiamo ad usanza, una moderna che è la volgare, l'altra antica, che è la latina, cosí aveano i romani uomini di quelli tempi, e non piú: e queste sono la latina, che era loro moderna, e la greca, che era loro antica; ma che essi una terza n'avessero che loro fosse meno in prezzo che la latina, niuno, che dirittamente giudichi, estimerà giamai. E se noi al presente la greca lingua eziandio appariamo, il che s'è fatto con piú cura e studio in questa nostra età che nelle altre piú sopra, mercé in buona parte, Giuliano, del vostro singolare e venerando e non mai a bastanza lodato e onorato padre, il quale a giovare in ciò ancora le genti del nostro secolo e ad agevolar loro lo asseguimento delle greche lettere, maestri e libri di tutta l'Europa e di tutta l'Asia cercando e investigando e scuole fondando e ingegni sollevando, s'è molt'anni con molta diligenza faticato; ma se noi, dico, questa lingua appariamo, ciò solamente ad utilità della latina si fa, la quale, dalla greca dirivando, non pare che compiutamente apprendere e tenere e posseder tutta si possa senza quella, e non perché pensiamo di scrivere e comporre grecamente, che niuno è che a questo fare ponga opera, se non per giuoco -.

[1.VII.] Tacevasi, detto fin qui, messer Federigo, e gli altri affermavano che egli dicea bene, ciascun di loro a queste ragioni altre prove e altri argomenti aggiugnendo, quando messer Ercole: - Ben veggo io - disse - che troppo dura impresa ho pigliata, a solo e debole con tre contendere cosí pronti guerrieri e cosí spediti. Pure perciò che piú d'onore mi può essere lo avere avuto ardire di contrapormi, che di vergogna se averrà che io vinto e abbattuto ne sia, io seguirò tuttavia, piú tosto per intendere da voi delle cose che io non so, che per contendere. E, lasciando le altri parti da canto, se la nostra volgar lingua non era a que' tempi nata, ne' quali la latina fiorí, quando e in che modo nacque ella? - Il quando - rispose messer Federigo - sapere appunto, che io mi creda, non si può, se non si dice che ella cominciamento pigliasse infino da quel tempo, nel quale incominciarono i Barbari ad entrare nella Italia e ad occuparla, e secondo che essi vi dimorarono e tenner piè, cosí ella crescesse e venisse in istato. Del come, non si può errare a dire che, essendo la romana lingua e quelle de' Barbari tra sé lontanissime, essi a poco a poco della nostra ora une ora altre voci, e queste troncamente e imperfettamente pigliando, e noi apprendendo similmente delle loro, se ne formasse in processo di tempo e nascessene una nuova, la quale alcuno odore e dell'una e dell'altra ritenesse, che questa volgare è, che ora usiamo. La quale se piú somiglianza ha con la romana, che con le barbare avere non si vede, è perciò che la forza del natío cielo sempre è molta, e in ogni terra meglio mettono le piante che naturalmente vi nascono, che quelle che vi sono di lontan paese portate. Senza che i Barbari, che a noi passati sono, non sono stati sempre di nazione quegli medesimi, anzi diversi; e ora questi Barbari la loro lingua ci hanno recata, ora quegli altri, in maniera che ad alcuna delle loro grandemente rassomigliarsi la nuova nata lingua non ha potuto. Con ciò sia cosa che e Francesi e Borgognoni e Tedeschi e Vandali e Alani e Ungheri e Mori e Turchi e altri popoli venuti ci sono, e molti di questi piú volte, e Goti altresí, i quali una volta frall'altre settanta anni continui ci dimorarono. Successero a' Goti i Longobardi; e questi primieramente da Narsete sollecitati, sí come potete nelle istorie aver letto ciascuno di voi, e fatta una grande e maravigliosa oste, con le mogli e co' figliuoli e con tutte le loro piú care cose vi passarono e occuparonla e furonne per piú di dugento anni posseditori. Presi adunque e costumi e leggi, quando da questi Barbari e quando da quegli altri, e piú da quelle nazioni che posseduta l'hanno piú lungamente, la nostra bella e misera Italia cangiò, insieme con la reale maestà dell'aspetto, eziandio la gravità delle parole, e a favellare cominciò con servile voce; la quale, di stagione in stagione a' nepoti di que' primi passando, ancor dura, tanto piú vaga e gentile ora che nel primiero incominciamento suo non fu, quanto ella di servaggio liberandosi ha potuto intendere a ragionare donnescamente.
         - Deh voglia Idio, - a queste parole traponendosi disse subitamente il Magnifico - che ella, messer Federigo, a piú che mai servilmente ragionare non si ritorni; al che fare, se il cielo non ci si adopera, non mostra che ella sia per indugiarsi lungo tempo, in maniera e alla Francia e alle Spagne bella e buona parte de' nostri dolci campi donando, e alla compagnia del governo invitandole, ce ne spogliamo volontariamente a poco a poco noi stessi; mercé del guasto mondo, che, l'antico valore dimenticato, mentre ciascuno di far sua la parte del compagno procaccia e quella negli agi e nelle piume disidera di godersi, chiama in aiuto di sé, contra il suo sangue medesimo, le straniere nazioni, e la eredità a sé lasciata dirittamente in quistion mette per obliqua via. - Cosí non fosse egli vero cotesto, Giuliano, che voi dite, come egli è - rispose messer Ercole - che noi ne staremmo vie meglio che noi non istiamo. Ma lasciando le doglianze adietro, che sono per lo piú senza frutto, se la volgar lingua ebbi incominciamento ne' tempi, messer Federigo, e nella maniera che detto avete, il che a me verisimile si fa molto, il verseggiare con essa e il rimare a qual tempo incominciò, e da quale nazione si prese egli? Con ciò sia cosa che io ho udito dire piú volte che gl'italiani uomini apparata hanno questa arte, piú tosto che ritrovata. - Né questo ancora sapere minutamente si può - rispose messer Federigo. - È il vero, che in quanto appartiene al tempo, sopra quel secolo, al quale successe quello di Dante, non si sa che si componesse, né a noi di questo fatto memoria piú antica è passata; ma dello essersi preso da altri, bene tra sé sono di ciò in piato due nazioni: la Ciciliana e la Provenzale. Tuttavolta de' Ciciliani poco altro testimonio ci ha, che a noi rimaso sia, se none il grido; ché poeti antichi, che che se ne sia la cagione, essi non possono gran fatto mostrarci, se non sono cotali cose sciocche e di niun prezzo, che oggimai poco si leggono. Il qual grido nacque perciò, che trovandosi la corte de' napoletani re a quelli tempi in Cicilia, il volgare, nel quale si scriveva, quantunque italiano fosse, e italiani altresí fossero per la maggior parte quelli scrittori, esso nondimeno si chiamava ciciliano, e ciciliano scrivere era detto a quella stagione lo scrivere volgarmente, e cosí infino al tempo di Dante si disse. De' Provenzali non si può dire cosí; anzi se ne leggono, per chi vuole, molti, da' quali si vede che hanno apparate e tolte molte cose gli antichi Toscani, che fra tutti gl'italiani popoli a dare opera alle rime sono senza dubbio stati primieri, della qual cosa vi posso io buona testimonianza dare, che alquanti anni della mia fanciullezza ho fatti nella Provenza, e posso dire che io cresciuto mi sono in quella contrada. Perché errare non si può a credere che il rimare primieramente per noi da quella nazione, piú che da altra, si sia preso -.

[1.VIII.] Avea cosí detto messer Federigo, e tacendo mostrava d'avere la sua risposta fornita; laonde il Magnifico, incontanente seguendo, cosí disse: - Se a messer Carlo e a messer Ercole non è grave, a me sarebbe, messer Federigo, carissimo, che voi ci diceste quali sono quelle cose che i toscani rimatori hanno da' Provenzali pigliate -. Allora mio fratello: - A me - disse - essere grave non può, Giuliano, udir cosa che a voi sia in grado che si ragioni; oltra che il sentire messer Federigo ragionarci della provenzale favella mi sarà sopra modo caro; per me adunque segua. - E per me altresí, - disse messer Ercole - che non so come non cosí ora soverchi mi paiono, come già far soleano, questi ragionamenti. Ma io mi maraviglio forte come la provenzale favella, della quale, che io sappia, poco si sente oggi ragionare per conto di poesia, possa essere tale stata, che dallei molte cose siano state tolte da' poeti della Toscana, che pure hanno alcun grido. - Io dirò, - rispose a costor tutti messer Federigo - poscia che voi cosí volete, pure che vi sia chiaro, che dapoi che io a queste contrade passai, ho del tutto tramessa la lezione delle oltramontane cose, onde pochissima parte di molte, che già essere mi soleano famigliarissime, m'è alla memoria rimasa, da poter recare cosí ora sprovedutamente in pruova di ciò che io dissi. E affine che a messer Ercole non paia nuovo quello, di che egli forte si maraviglia, da questa parte brievemente incominciando, passerò alle mie promesse.
         Era per tutto il Ponente la favella provenzale ne' tempi, ne' quali ella fiorí, in prezzo e in istima molta, e tra tutti gli altri idiomi di quelle parti di gran lunga primiera; con ciò sia cosa che ciascuno, o Francese o Fiamingo o Guascone o Borgognone o altramente di quelle nazioni che egli si fosse, il quale bene scrivere e specialmente verseggiar volesse, quantunque egli Provenzale non fosse, lo faceva provenzalmente. Anzi ella tanto oltre passò in riputazione e fama, che non solamente Catalani, che vicinissimi sono alla Francia, o pure Spagniuoli piú adentro, tra' quali fu uno il Re Alfonso d'Aragona, figliuolo di Ramondo Beringhieri, ma oltre acciò eziandio alquanti Italiani si truova che scrissero e poetarono provenzalmente; e tra questi, tre ne furono della patria mia, di ciascuno de' quali ho io già letto canzoni: Lanfranco Cicala e messer Bonifazio Calvo e, quello che dolcissimo poeta fu e forse non meno che alcuno degli altri di quella lingua piacevolissimo, Folchetto, quantunque egli di Marsiglia chiamato fosse, il che avenne non perché egli avesse origine da quella città, che fu di padre genovese figliuolo, ma perché vi dimorò gran tempo. Né solamente la mia patria diè a questa lingua poeti, come io dico, ma la vostra eziandio, messer Carlo, le ne diè uno, che messer Bartolomeo Giorgio ebbe nome, gentile uomo della vostra città; e Mantova un altro, che fu Sordello; e la Toscana un altro, e questi fu di Lunigiana, uno de' marchesi Malespini, nomato Alberto. Fu adunque la provenzale favella estimata e operata grandemente, sí come tuttavia veder si può, ché piú di cento suoi poeti ancora si leggono, e hogli già letti io, che non ne ho altrettanti letti de' nostri. Né è da maravigliarsene, perciò che non patendo quelle genti molti discorrimenti d'altre nazioni, e per lo piú lunga e tranquilla pace godendo e allegra vita menando, come fanno tutte naturalmente, avendovi oltre acciò molti signori piú che non v'ha ora e molte corti, agevole cosa fu che tra esse in ispazio di lungo tempo lo scrivere venisse in prezzo, e che vi si trovasse primieramente il rimare, sí come io stimo; quando si vede che piú antiche rime delle provenzali altra lingua non ha, da quelle poche in fuori che si leggono nella latina, già caduta del suo stato e perduta. Il che se mi si conciede, non sarà da dubitare che la fiorentina lingua da' provenzali poeti, piú che da altri, le rime pigliate s'abbia, et essi avuti per maestri; quando medesimamente si vede che al presente piú antiche rime delle toscane altra lingua gran fatto non ha, levatone la provenzale.

[1.IX.] Senza che molte cose, come io dissi, hanno i suoi poeti prese da quelli, sí come sogliono far sempre i discepoli da' loro maestri, che possono essere di ciò che io dico argomento, tra le quali sono primieramente molte maniere di canzoni, che hanno i Fiorentini, dalla Provenza pigliandole, recate in Toscana: sí come si può dire delle sestine, delle quali mostra che fosse il ritrovatore Arnaldo Daniello, che una ne fe', senza piú; o come sono dell'altre canzoni, che hanno le rime tutte delle medesime voci, sí come ha quella di Dante:

Amor, tu vedi ben che questa donna
la tua virtú non cura in alcun tempo;

il quale uso infino da Pietro Ruggiero incominciò; o come sono ancora quelle canzoni, nelle quali le rime solamente di stanza in stanza si rispondono, e tante volte ha luogo ciascuna rima, quante sono le stanze, né piú né meno: nella qual maniera il medesimo Arnaldo tutte le sue canzoni compose, come che egli in alcuna canzone traponesse eziandio le rime ne' mezzi versi, il che fecero assai sovente ancora degli altri poeti di quella lingua, e sopra tutti Giraldo Brunello, e imitarono, con piú diligenza che mestiero non era loro, i Toscani. Oltra che ritrovamento provenzale è stato lo usare i versi rotti; la quale usanza, perciò che molto varia in quelli poeti fu, che alcuna volta di tre sillabe gli fecero, alcuna altra di quattro e ora di cinque e d'otto e molto spesso di nove, oltra quelle di sette e d'undici, avenne che i piú antichi Toscani piú maniere di versi rotti usarono ne' loro poemi ancora essi, che loro piú vicini erano e piú nuovi nella imitazione, e meno i meno antichi; i quali da questa usanza si discostarono, secondo che eglino si vennero da loro lontanando, in tanto che il Petrarca verso rotto niuno altro che di sette sillabe non fece.

[1.X.] Presero oltre acciò medesimamente molte voci i fiorentini uomini da questi, e la loro lingua, ancora e rozza e povera, iscaltrirono e arricchirono dell'altrui. Con ciò sia cosa che Poggiare, Obliare, Rimembrare, Assembrare, Badare, Donneare, dagli antichi Toscani detta, e Riparare, quando vuol dire stare e albergare, e Gioire sono provenzali, e Calere altresí; dintorno alla qual voce essi aveano in usanza famigliarissima, volendo dire che alcuno non curasse di che che sia, dire che egli lo poneva in non calere, o veramente a non cale, o ancora a non calente: della qual cosa sono nelle loro rime moltissimi essempi, dalle quali presero non solamente altri scrittori della Toscana, e Dante, che e nelle prose e nel verso se ne ricordò, ma il Petrarca medesimo, quando e' disse:

Per una donna ho messo
egualmente in non cale ogni pensiero.

Sono ancora provenzali Guiderdone e Arnese e Soggiorno e Orgoglio e Arringo e Guisa e Uopo - Come Uopo? - disse messer Ercole - non è egli Uopo voce latina? - È,- rispose messer Federigo - tuttavolta molto prima da' Provenzali usata, che si sappia, che da' Toscani, perché da loro si dee credere che si pigliasse; e tanto piú ancora maggiormente, quanto avendo i Toscani in uso quest'altra voce Bisogno, che quello stesso può, di questo Uopo non facea loro uopo altramente. Sí come è da credere che si pigliasse Chero, quantunque egli latina voce sia, essendo eziandio toscana voce Cerco, perciò che molto prima da' Provenzali fu questa voce ad usar presa, che da' Toscani; la qual poi torcendo, dissero Cherere e Cherire, e Caendo molto anticamente, e Chesta. Quantunque Uopo s'è alcuna volta ancora piú provenzalmente detta, che si fe' Uo', in vece di Uopo, recandola in voce d'una sillaba, sí come la recò Dante, il quale nel suo Inferno disse:

Piú non t'è uo' ch'aprirmi 'l tu' talento.

È medesimamente Quadrello voce provenzale, e Onta e Prode e Talento e Tenzona e Gaio e Isnello e Guari e Sovente e Altresí e Dottare e Dottanza, che si disse eziandio Dotta; sí come la disse il medesimo Dante in quei versi pure del suo Inferno:

Allor temetti piú che mai la morte,
e non v'era mestier piú che la dotta,
s'i' non avessi viste le ritorte.

È nondimeno piú in uso Dottanza, sí come voce di quel fine che amato era molto dalla Provenza, il qual fine piacendo per imitazione altresí a' toscani, e Pietanza e Pesanza e Beninanza e Malenanza e Allegranza e Dilettanza e Piacenza e Valenza e Fallenza e molte altre voci di questa maniera in Guido Guinicelli si leggono, in Guido Cavalcanti, in messer Cino, in messer Onesto, in Buonagiunta, in messer Piero dalle Vigne, e in altri e poeti e prosatori di quella età. Passò questo uso di fine a Dante, e al Boccaccio altresí: tuttavia e all'uno e all'altro pervenne oggimai stanco. Quantunque Dante molto vago si sia dimostrato di portare nella Toscana le provenzali voci: sí come è A randa, che vale quanto appena, e Bozzo, che è bastardo e non legittimo, e Gaggio, come che egli di questa non fosse il primo che in Toscana la si portasse, e sí come è Landa e Miraglio e Smagare che è trarre di sentimento e quasi dalla primiera immagine, e ponsi ancora semplicemente per affannare, la qual voce et esso usò molto spesso, e gli altri poeti eziandio usarono, e il Boccaccio, oltre ad essi, alcuna fiata la pose nelle sue prose. Al Petrarca parve dura, e leggesi usata da lui solamente una volta; tuttavia in quelli sonetti, che egli levò dagli altri del canzonier suo, sí come non degni della loro compagnia:

Che da se stesso non sa far cotanto,
che 'l sanguinoso corso del suo lago
resti, perch'io dolendo tutto smago.

Né queste voci sole furò Dante da' Provenzali, ma dell'altre ancora, sí come è Drudo e Marca e Vengiare, Giuggiare, Approcciare, Inveggiare e Scoscendere, che è rompere, e Bieco e Croio e Forsennato e Tracotanza e Oltracotanza, che è trascuraggine, e Trascotato; la qual voce usarono parimente degli altri Toscani, e il Boccaccio molto spesso. Anzi ho io un libro veduto delle sue Novelle, buono e antico, nel quale sempre si legge scritta cosí Trascutato, voce del tutto provenzale, quella che negli altri ha trascurato. Pigliasi eziandio alle volte Trascotato per uomo trapassante il diritto e il dovere, e Tracotanza per cosí fatto trapassamento. Fu in queste imitazioni, come io dico, molto meno ardito il Petrarca. Pure usò Gaio e Lassato e Sevrare e Gramare e Oprire, che è aprire, voce famigliarissima della Provenza, la quale, passando a quel tempo forse in Toscana, passò eziandio a Roma, e ancora dell'un luogo e dell'altro non s'è partita; usò Ligio, che in tutti i provenzali libri si legge; usò Tanto o quanto, che posero i provenzali in vece di dire pur un poco, in quel verso,

Costei non è chi tanto o quanto stringa;

e usollo piú d'una volta. Senza che egli alquante voci provenzali, che sono dalle toscane in alcuna loro parte differenti, usò piú volentieri e piú spesso secondo la provenzal forma che la toscana; perciò che e Alma disse piú sovente che Anima, e Fora che Saria, e Ancidere che Uccidere, e Augello che Uccello, e piú volentieri pose Primiero, quando e' poté, che Primo, sí come aveano tuttavia in parte fatto ancora degli altri prima di lui. Anzi egli Conquiso, che è voce provenzale, usò molte volte; ma Conquistato, che è toscana, non giamai. Oltra che il dire, Avía, Solía, Credía, che egli usò alle volte, e usò medesimamente provenzale.


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Edizione telematica  a cura di: Claudio Paganelli, 1999
Revisione, Edizione HTML e impaginazione a cura di: Giuseppe Bonghi, Aprile 1999
Tratto da: Pietro Bembo, Prose della volgar lingua, Gli Asolani, Rime, a cura di Carlo Dionisotti, TEA Tascabili Editori Associati, Milano 1997

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Ultimo aggiornamento: 21 aprile, 1999