Vittorio Alfieri
La Vita scritta da esso
Cresceva frattanto ogni dì più il
pericolo della Toscana, stante la leale amicizia che le professavano i francesi. Già fin
dal decembre del '98 aveano essi fatta la splendida conquista di Lucca, e di là
minacciavano continuamente Firenze, onde ai primi del '99 parea imminente l'occupazione.
Io dunque volli Preparare tutte le cose mie, ad ogni qualunque accidente fosse per
succedere. Fin dall'anno prima avea posto fine per tedio al Misogallo, e fatto
punto all'occupazione di Roma, che mi pareva la più brillante impresa di codesta
schiaveria. Per salvare dunque quest'opera per me cara ed importante, ne feci fare sino in
dieci copie, e provvisto che in diversi luoghi non si potessero né annullare, né
smarrire, ma al suo debito tempo poi comparissero. Quindi, non avendo io mai dissimulato
il mio odio e disprezzo per codesti schiavi malnati, volli aspettarmi da loro ogni
violenza, ed insolenza, cioè prepararmi bene al solo modo che vi sarebbe di non le
ricevere. Non provocato, tacerci; ricercato in qualunque maniera, darci segno di vita, e
di libero. Disposi dunque tutto per vivere incontaminato, e libero, e rispettato, ovvero
per morir vendicato se fosse bisognato. La ragione che mi indusse a scrivere la mia vita,
cioè perché altri non la scrivesse peggio di me, mi indusse allora altresì a farmi la
mia lapide sepolcrale, e così alla mia donna, e le apporrò qui in nota [Appendice VI], perché desidero questa e non altra, e
quanto ci dico è il puro vero, sì di me, che di lei, spogliato di ogni fastosa
amplificazione.
Provvisto così alla fama, o alla non
infamia, volli anco provvedere ai lavori, limando, copiando, separando il finito dal no, e
ponendo il dovuto termine a quello che l'età e il mio proposto volevano. Perciò volli
col compiere degli anni cinquanta frenare, e chiudere per sempre la soverchia fastidiosa
copia delle rime, e ridottone un altro tometto purgato consistente in sonetti settanta,
capitolo uno, e trentanove epigrammi, da aggiungersi alla prima parte di esse già
stampate in Kehl, sigillai la lira, e la restituii a chi spettava, con una ode sull'andare
di Pindaro, che per fare anche un po' il grecarello intitolai Teleutodia. E con quella
chiusi bottega per sempre; e se dopo ho fatto qualche sonettuccio o epigrammuccio, non
l'ho scritto; se l'ho scritto non l'ho tenuto, e non saprei dove pescarlo, e non lo
riconosco più per mio. Bisognava finir una volta e finire in tempo, e finire spontaneo, e
non costretto. L'occasione dei dieci lustri spirati, e dei barbari antilirici
soprastantimi non potea esser più giusta ed opportuna; l'afferrai, e non ci pensai poi
mai più.
Quanto alle traduzioni, il Virgilio mi
era venuto ricopiato e corretto tutto intero nei due anni anteriori, onde lo lasciava
sussistere; ma non come cosa finita. Il Sallustio mi parea potere stare; e lasciavalo. Il
Terenzio no, perché una sola volta lo avea fatto, né rivistolo, né ricopiatolo; come
non lo è adesso neppure. Le quattro traduzioni dal greco, che condannarle al fuoco mi
doleva, e lasciarle come cosa finita pur non poteva, poiché non l'erano, ad ogni rischio
del se avrei il tempo o no, intrapresi di ricopiarle sì il testo che la traduzione, e
prima di tutto l'Alceste per ritradurla veramente dal greco, che non mi sapesse poi
di traduzione di traduzione. Le tre altre bene o, male, erano state direttamente tradotte
dal testo, onde mi dovean costar poi meno tempo e fatica a correggerle. L'Abele, che era
ormai destinata ad essere (non dirò unica) ma sola, senza le concepite, e non mai
eseguite compagne, l'avea fatta copiare, e limata, e mi parea potere stare. Vi si era pure
aggiunto alle opere di mio, negli anni precedenti una prosuccia brevina politica,
intitolata Ammonimento alle potenze italiane; questa pure l'avea limata, e fatta
copiare, e lasciavala. Non già che io avessi la stolida vanagloria di voler fare il
politico, che non è l'arte mia; ma si era fatto fare quello scritto dalla giusta
indegnazione che mi aveano inspirata le politiche certo più sciocche della mia, che in
questi due ultimi anni avea visto adoprare dalla impotenza dell'imperatore, e dalle
impotenze italiane. Le satire finalmente, opera ch'io avea fatta a poco a poco, ed assai
corretta, e limata, le lasciava pulite, e ricopiate in numero di diciassette quali sono; e
quali pure ho fissato e promesso a me di non più oltrepassare.
Cosi disposto, e appurato del mio secondo
patrimonio poetico, smaltatomi il cuore, aspettava gli avvenimenti. Ed affinché al mio
vivere d'ora in poi se egli si dovea continuare venissi a dare un sistema più confacente
all'età in cui entrava, ed ai disegni ch'io mi era già da molto tempo proposti, fin dai
primi del '99 mi distribuii un modo sistematico di studiare regolarmente ogni settimana,
che tuttora costantemente mantengo, e manterrò finch'avrò salute e vita per farlo. Il
lunedì e martedì destinati, le tre prime ore della mattina appena svegliatomi, alla
lettura, e studio della Sacra Scrittura; libro che mi vergognava molto di non conoscere a
fondo, e di non averlo anzi mai letto sino a quell'età. Il mercoledì e giovedì, Omero,
secondo fonte d'ogni scrivere. Il venerdì, sabato, e domenica, per quel prim'anno e più
li consecrai a Pindaro, come il più difficile e scabro di tutti i greci, e di tutti i
lirici di qualunque lingua, senza eccettuarne Giobbe, e i profeti. E questi tre ultimi
giorni mi proponeva poi, come ho fatto, di consecrarli successivamente ai tre tragici, ad
Aristofane, Teocrito, ed altri sì poeti che prosatori, per vedere se mi era possibile di
sfondare questa lingua, e non dico saperla (che è un sogno), ma intenderla almeno quanto
fo il latino. Ed il metodo che a poco a poco mi andai formando, mi parve utile; perciò lo
sminuzzo, che forse potrà anche giovare così, o rettificato, a qualch'altri che dopo me
intraprendesse questo studio. La Bibbia la leggeva prima in greco, versione dei Settanta,
testo vaticano, poi la raffrontava col testo alessandrino; quindi gli stessi due, o al
più tre capitoli di quella mattina, E leggeva nel Diodati italiani, che erano fedelissimi
al testo ebraico; poi li leggeva nella nostra volgata latina, poi in ultimo nella
traduzione interlineare fedelissima latina dal testo ebraico; col quale bazzicando così
più anni, ed avendone imparato l'alfabeto, veniva anche a poter leggere materialmente la
parola ebraica, e raccapezzarne così il suono, per lo più bruttissimo, ed i modi strani
per noi, e misti di sublime e di barbaro.
Quanto poi ad Omero, leggeva subito nel
greco solo ad alta voce, traducendo in latino letteralmente, e non mi arrestando mai, per
quanti spropositi potessero venirmi detti, quei sessanta, o ottanta, o al più più cento
versi che volea studiare in quella mattina. Storpiati così quei tanti versi, li leggeva
ad alta voce prosodicamente in greco. Poi ne leggeva lo scoliaste greco, poi le note
latine del Barnes, Clarch , ed Ernesto; poi pigliando per ultima la traduzione letterale
latina stampata, la rileggeva sul greco di mio, occhiando la colonna, per vedere dove, e
come, e perché avessi sbagliato nel tradurre da prima. Poi nel mio testo greco solo, se
qualche cosa era sfuggita allo scoliaste di dichiararla, la dichiarava io in margine, con
altre parole greche equivalenti, al che mi valeva molto di Esichio, dell'Etimologico, e
del Favorino. Poi le parole, o modi, o figure straordinarie, in una colonna di carta le
annotava a parte, e dichiaravale in greco. Poi leggeva tutto il commento di Eustazio su
quei dati versi, che così m'erano passati cinquanta volte sotto gli occhi, loro, e tutte
le loro interpretazioni, e figure. Parrà questo metodo noioso, e duretto; ma era duretto
anch'io, e la cotenna di cinquanta anni ha bisogno di ben altro scarpello per iscolpirvi
qualcosa, che non quella di venti.
Sopra Pindaro poi, io aveva già fatto
gli anni precedenti uno studio più ancora di piombo, che i sopradetti. Ho un Pindaretto,
di cui non v'è parola, su cui non esista un mio numero aritmetico notatovi sopra, per
indicare, coll'un due e tre, fino talvolta anche a quaranta, e più, qual sia la sede che
ogni parola ricostruita al suo senso deve occupare in que' suoi eterni e labirintici
periodi. Ma questo non mi bastava, ed intrapresi allora nei tre giorni ch'io gli destinai,
di prendere un altro Pindaro greco solo, di edizione antica, e scorrettissimo, e mal
punteggiato, quel del Calliergi di Roma, primo che abbia gli scolii, e su quello leggeva a
prima vista, come dissi dell'Omero, subito in latino letteralmente sul greco, e poi la
stessa progressione che su l'Omero; e di più poi in ultimo una dichiarazione marginale
mia in greco dell'intenzione dell'autore; cioè il pensiero spogliato del figurato. Così
poi praticai su l'Eschilo e Sofocle, quando sottentrarono ai giorni di Pindaro; e con
questi sudori, e pazze ostinazioni, essendomisi debilitata da qualch'anni assai la
memoria, confesso che ne so poco, e tuttavia prendo alla prima lettura dei grossissimi
granchi. Ma lo studio mi si è venuto facendo sì caro, e sì necessario, che già dal '96
in poi, per nessuna ragione mai ho smesso, o interrotto le tre ore di prima svegliata, e
se ho composto qualche cosa di mio, come lAlceste, le satire, e rime, ed ogni
traduzione, l'ho fatto in ore secondarie, talché ho assegnato a me stesso l'avanzo di me,
piuttosto che le primizie del giorno; e dovendo lasciare, o le cose mie, o lo studio,
senza nessun dubbio lascio le mie.
Sistemato dunque in tal guisa il mio
vivere, incassati tutti i miei libri, fuorché i necessari, e mandatili in una villa fuori
di Firenze, per vedere se mi riusciva di non perderli una seconda volta, questa tanto
aspettata ed abborrita invasione dei francesi in Firenze ebbe luogo il dì 25 marzo del
'99, con tutte le particolarità, che ognuno sa, e non sa, e non meritano d'essere sapute,
sendo tutte le operazioni di codesti schiavi di un solo colore ed essenza. E quel giorno
stesso, poche ore prima ch'essi v'entrassero, la mia donna ed io ce n'andammo in una villa
fuor di Porta San Gallo presso a Montughi, avendo già prima vuotata interamente d'ogni
nostra cosa la casa che abitavamo in Firenze per lasciarla in preda agli oppressivi
alloggi militari.
CAPITOLO
VIGESIMOTTAVO
Occupazioni in villa. Uscita dei francesi. Ritorno nostro in Firenze.
Lettere del Colli. Dolore mio nell'udire la ristampa prepararsi in Parigi
delle mie opere di Kehl, non mai pubblicate.
In tal maniera io oppresso dalla
comune tirannide, ma non perciò soggiogato, me ne stetti in quella villa con poca gente
di servizio, e la dolce metà di me stesso, ambedue indefessamente occupati nelle lettere,
che anch'essa sufficientemente perita nella lingua inglese e tedesca, ed egualmente poi
franca nell'italiano che nel francese, la letteratura di queste quattro nazioni conosce
quant'è, è dell'antica non ignora l'essenza per mezzo delle traduzioni in queste quattro
lingue. Di tutto dunque potendo io favellare con essa, soddisfatto egualmente il core che
la mente, non mi credeva più felice, che quando mi toccava di vivere solo a solo con
essa, disgiunti da tutti i tanti umani malanni. E così eramo in quella villa, dove
pochissimi dei nostri conoscenti di Firenze ci visitavano, e di rado, per non insospettire
la militare e avvocatesca tirannide, Che è di tutti i guazzabugli politici il più
mostruoso, e risibile, e lagrimevole ed insopportabile, e mi rappresenta perfettamente un
tigre guidato da un coniglio.
Subito arrivato in villa, mi posi a
lavorare di fronte la ricopiatura e limatura delle due Alcesti, non toccando però
le ore dello studio mattutino, onde poco tempo mi avanzava da pensare a nostri guai e
pericoli, essendo sì caldamente occupato. Ed i pericoli erano molti, né accadea
dissimularceli, o lusingarci di non v'essere; ogni giorno mi avvisava; eppure con simile
spina nel cuore e dovendo temere per due, mi facea pure animo, e lavorava. Ogni giorno si
arrestava arbitrariamente, al solito di codesto sgoverno, la gente; anzi sempre di notte.
Erano così stati presi sotto il titolo di ostaggi, molti dei primari giovani della
città; presi in letto di notte, dal fianco delle loro mogli, spediti a Livorno come
schiavi, ed imbarcativi alla peggio per l'isole di S. Margarita. Io, benché forestiere,
dovea temere a questo, e più, dovendo essere loro noto come disprezzatore e nemico. Ogni
notte poteva essere quella che mi venissero a cercare; avea provvisto per quanto si potea
per non lasciarmi sorprendere, né malmenare. Intanto si proclamava in Firenze la stessa
libertà ch'era in Francia, e tutti i più vili e rei schiavi trionfavano. Intanto io
verseggiava, e grecizzava, e confortava la mia donna. Durò questo infelice stato dai 25
marzo ch'entrarono, fino al dì 5 luglio, che essendo battuti, e perdenti in tutta la
Lombardia, se ne fuggirono per così dir di Firenze la mattina per tempissimo, dopo aver,
già s'intende, portato via in ogni genere tutto ciò che potevano. Né io né la mia
donna in tutto questo frattempo abbiamo mai messo piede in Firenze, né contaminati i
nostri occhi né pur con la vista di un solo francese. Ma il tripudio di Firenze in quella
mattina dell'evacuazione, e giorni dopo nell'ingresso di duecento ussari austriaci, non si
può definir con parole.
Avvezzi a quella quiete della villa, ci
volemmo stare ancora un altro mese, prima di tornare in Firenze, e riportarvi i nostri
mobili, e libri. Tornato in città, il mutar luogo non mi fece mutar in nulla l'intrapreso
sistema degli studi, e continuava anzi con più sapore, e speranza, poiché per tutto quel
rimanente dell'anno '99, essendo disfatti per tutto i francesi, risorgeva alcuna speranza
della salute dell'Italia, ed in me risorgeva la privata speranza, che avrei ancor tempo di
finir tutte le mie più che ammezzate opere. Ricevei in quell'anno, dopo la battaglia di
Novi, una lettera del marchese Colli, mio nipote, cioè marito di una figlia di mia
sorella, che non m'era noto di persona, ma di fama, come ottimo ufiziale ch'egli era
stato, e distintosi in quei cinque e più anni di guerra, al servizio del re di Sardegna
suo sovrano naturale, sendo egli d'Alessandria. Mi scrisse dopo essere stato fatto
prigioniero, e ferito gravemente, sendo allora passato al servizio dei francesi, dopo la
deportazione del re di Sardegna fuori dei di lui stati, seguita nel gennaio di quell'anno
'99. La di lui lettera, e la mia risposta ripongo qui fra le note [Appendice
VII]. E dirò qui per incidenza quello che mi scordai di dir prima, che anzi
l'invasion dei francesi, io avea veduto in Firenze il re di Sardegna, e fui a inchinarlo,
come il doppio dover mio, sendo egli stato il mio re, ed essendo allora infelicissimo.
Egli mi accolse assai bene; la di lui vista mi commosse non poco, e provai in quel giorno
quel ch'io non avea provato mai, una certa voglia di servirlo, vedendolo sì abbandonato,
e sì inetti i pochi, che gli rimanevano; e me gli sarei profferto, se avessi creduto di
potergli esser utile; ma la mia abilità era nulla in tal genere di cose, ed ad ogni modo
era tardi. Egli andò in Sardegna; variarono poi intanto le cose, egli tornò di Sardegna,
ristette dei mesi molti in Firenze al Poggio Imperiale, tenendo gli austriaci allora la
Toscana in nome del granduca; ma anche allora mal consigliato, non fece nulla di quel che
doveva o poteva per l'utile suo e del Piemonte; onde di nuovo poi tornate al peggio le
cose, egli si trovò interamente sommerso. Lo inchinai pure di nuovo al ritorno di
Sardegna, e vistolo in migliori speranze, molto meno mi rammaricai meco stesso di non
potergli esser utile in nulla.
Appena queste vittorie dei difensori
dell'ordine, e delle proprietà mi aveano rimesso un poco di balsamo nel sangue, che mi
toccò di provare un dolore acerbissimo, ma non inaspettato. Mi capitò alle mani un
manifesto del libraio Molini italiano di Parigi, in cui diceva di aver intrapreso di
stampare tutte le mie opere (diceva il manifesto, filosofiche, sì in prosa che in versi)
e ne dava il ragguaglio, e tutte purtroppo le mie opere stampate in Kehl, come dissi, e da
me non mai pubblicate, vi si trovavano per estenso. Questo fu un fulmine, che mi atterrò
per molti giorni, non già che io mi fossi lusingato, che quelle mie balle di tutta
l'edizione delle quattro opere Rime, Etruria, Tirannide e Principe,
potessero non essere state trovate da chi mi aveva svaligiato dei libri, e d'ogni altra
cosa da me lasciata in Parigi, ma essendo passati tant'anní, sperava ancora dilazione.
Fin dall'anno '93 in Firenze, quando vidi assolutamente perduti i miei libri, feci
pubblicare un avviso in tutte le gazzette d'Italia ove diceva essermi stati presi,
confiscati, e venduti i miei libri, e carte, onde io dichiarava già fin d'allora non
riconoscer per mia nessun'altra opera, fuorché le tali, e tali pubblicate da me. Le
altre, e alterate, o supposte, e certamente sempre surrepitemi, non le ammetteva. Ora nel
'99 udendo questo manifesto del Molini, il quale prometteva per l'800 venturo la ristampa
delle sudette opere, il mezzo più efficace di purgarmi agli occhi dei buoni e stimabili,
sarebbe stato di fare un contromanifesto, e confessare i libri per miei, dire il modo con
cui m'erano stati furati, e pubblicare per discolpa totale del mio sentire e pensare, il Misogallo,
che certo è più atto e bastante da ciò. Ma io non era libero, né il sono; poiché
abito in Italia; poiché amo, e temo per altri che per me; onde non feci questo che avrei
dovuto fare in altre circostanze; per esentarmi una volta per sempre dall'infame ceto
degli schiavi presenti, che non potendo imbiancare sé stessi, si compiacciono di sporcare
gli altri, fingendo di crederli e di annoverarli tra i loro; ed io per aver parlato di
libertà sono un di quelli, ch'essi si associano volentieri, ma me ne dissocierà
ampiamente poi il Misogallo agli occhi anche dei maligni e degli stupidi, che son i
soli che mi posson confondere con codestoro; ma disgraziatamente, queste due categorie
sono i due terzi e mezzo del mondo. Non potendo io dunque fare ciò, che avrei saputo e
dovuto, feci soltanto quel pochissimo che poteva per allora; e fu di ripubblicare di nuovo
in tutte le gazzette d'Italia il mio avviso del '93, aggiungendovi la poscritta, che
avendo udito che si pubblicava in Parigi delle opere in prosa e in versi, sotto il mio
nome, rinnovava quel protesto fatto sei anni innanzi.
Ma il fatto si era, che quell'onesto
letterato dell'ambasciator Ginguené, che mi avea scritto le lettere surriferite, e che io
poi avea fatto richiedere in voce dell'abate di Caluso, giacché egli voleva pure ad ogni
costo fare di me, ch'io non richiedeva i miei libri, né altro, ma che solamente avrei
desiderato raccapezzar quelle sei balle dell'edizioni non pubblicate, ad impedire ogni
circolazione: fatto si è, dico (a quel ch'io mi penso) che il Ginguené ritornato poi a
Parigi avrà frugato tra i miei libri di nuovo, e trovatavi una ballottina contenente
quattro soli esemplari di quelle quattro opere, se le appropriò; ne vendé forse al
Molini un esemplare perché si ristampassero, e le altre si tenne, e tradusse le prose in
francese per farne bottega e donò, non sendo sue, alla Biblioteca Nazionale,
_[lacuna
nel ms., ndr] come sta scritto nella prefazione stessa del quarto volume
ristampato dal Molini, che dice non essere reperibile l'edizion prima, altro che quattro
esemplari, ch'egli individua così come ho detto, e che tornano per l'appunto con la
piccola balla da me lasciata fra i libri altri miei.
Quanto poi alle sei balle, contenenti più di cinquecento esemplari di ciascun'opera non
posso congetturare cosa ne sia avvenuto. Se fossero state trovate ed aperte,
circolerebbero, e si sarebbero vendute piuttosto che ristampate, sendo sì belle
l'edizioni, la carta, e i caratteri, e la correzione. Il non essere venute in luce mi fa
credere che ammontate in qualche di quei sepolcri di libri che tanti della roba perduta ne
rimangono infatti a putrefarsi in Parigi, non siano stati aperti; perché ci avea fatto
scrivere su le balle di fuori Tragedie italiane. Comunque sia, il doppio danno ne ho avuto
di perdere la mia spesa e fatica nella proprietà di quelle stampate da me, e di
acquistare (non dirò l'infamia) ma la disapprovazione e la taccia di far da corista a
que' birbi, nel vedermele pubblicate per mezzo delle stampe d'altrui.
CAPITOLO
VIGESIMONONO
Seconda invasione. Insistenza noiosa del general letterato.
Pace tal quale, per cui mi scemano d'alquanto le angustie. Sei commedie ideate ad un
parto.
Appena per qualche mesi aveva l'Italia
un poco respirato dal giogo, e ruberie francesi, quando la favolosa battaglia di Marengo
nel giugno del 1800, diede in poche ore l'Italia tutta in preda di costoro, chi sa per
quanti anni. Io la sentiva quanto e più ch'altri, ma piegando il collo alla necessità,
tirava a finire le cose mie senza più punto curare per così dire un pericolo, dal quale
non m'era divezzato ancora, né oramai, visto l'instabilità di codeste sozzure politiche,
me ne divezzerò mai più. Assiduamente dunque lavorando sempre a ben ridurre e limare le
mie quattro traduzioni greche, e null'altro poi facendo che proseguire ardentemente gli
studi troppo tardi intrapresi, strascinava il tempo. Venne l'ottobre, e il dì 15 d'esso,
ecco di nuovo inaspettatamente in tempo di tregua fissata con l'imperatore, invadono i
francesi di nuovo la Toscana, che riconoscevano tenersi pel granduca, col quale non erano
in guerra. Non ebbi tempo questa volta di andare in villa come la prima, e bisognò
sentirli e vederli, ma non mai altro, s'intende, che nella strada. Del resto la maggior
noia e la più oppressiva, cioè l'alloggio militare, venni a capo presso il comune di
Firenze di farmene esentare come forestiere, ed avendo una casa ristretta e incapace.
Assoluto di questo timore che era il più incalzante e tedioso, del resto mi rassegnai a
quel che sarebbe. Mi chiusi per così dire in casa, e fuorché due ore di passeggiata a me
necessarie, che faceva ogni mattina nei luoghi più appartati e soletto, non mi facea mai
vedere, né desisteva dalla più ostinata fatica.
Ma se io sfuggiva costoro, non vollero
essi sfuggire me, e per mia disgrazia il loro generale comandante in Firenze, pizzicando
del letterato, volle conoscermi, e civilmente passò da me una, e due volte, sempre non mi
trovando, che già avea provvisto di non essere repperibile mai; né volli pure rendere
garbo per garbo col restituir per polizza la visita. Alcuni giorni dopo egli mandò
ambasciata a voce, per sapere in che ore mi si potrebbe trovare. Io vedendo crescere
l'insistenza, e non volendo commettere ad un servitor di piazza la risposta in voce, che
potea venire o scambiata o alterata, scrissi su un fogliolino; che Vittorio Alfieri,
perché non seguisse sbaglio nella risposta da rendersi dal servo al signor generale,
mettea per iscritto: che se il generale in qualità di comandante di Firenze intimavagli
di esser da lui, egli ci si sarebbe immediatamente costituito, come non resistente alla
forza imperante, qual ch'ella si fosse; ma che se quel volermi vedere era una mera
curiosità dell'individuo, Vittorio Alfieri, di sua natura molto selvatico non rinnovava
oramai più conoscenza con chicchesia, e lo pregava quindi di dispensarnelo Il generale
rispose direttamente a me due parole in cui diceva che dalle mie opere gli era nata questa
voglia di conoscermi, ma che ora vedendo questa mia indole ritrosa, non ne cercherebbe
altrimenti. E così fece; e così mi liberai di una cosa per me più gravosa e accorante,
che nessun altro supplizio che mi si fosse potuto dare.
In questo frattempo il già mio Piemonte,
celtizzato anch'egli, scimmiando ogni cosa dei suoi servipadroni, cambiò l'Accademia sua
delle Scienze, già detta Reale, in un Istituto Nazionale a norma di quel di Parigi, dove
avean luogo, e le belle lettere, e gli artisti. Piacque a coloro, non so quali si fossero
(perché il mio amico Caluso si era dimesso del segretariato della già Accademia),
piacque dico a coloro di nominarmi di codesto Istituto, e darmene parte con lettera
diretta. Io prevenuto già dall'abate, rimandai la lettera non apertala, e feci dire in
voce dall'abate che io non riceveva tale aggregazione; che non voleva essere di nessuno, e
massimamente d'una donde recentemente erano stati esclusi con animosa sfacciataggine, tre
così degni soggetti, come il cardinale Gerdil, il conte Balbo, ed il cavalier Morozzo,
come si può vedere dalle qui annesse lettere dell'amico Caluso [Appendice
VIII], non adducendo di ciò altra cagione, fuorché questi erano troppo realisti.
Io non sono mai stato, né sono realista, ma non perciò son da essere misto con tale
genia; la mia repubblica non è la loro, e sono, e mi professerò sempre d'essere in tutto
quel ch'essi non sono. E qui pure pien d'ira pel ricevuto affronto, mi spergiurai rimando
quattordici versi su tal fatto, e li mandai all'arnico; ma non ne tenni copia, né questi
né altri che l'indegnazione od altro affetto mi venisse a strappar dalla penna, non
registrerò oramai più fra le mie già troppe rime.
Non così aveva io avuto la forza di
resistere nel settembre dell'anno avanti ad un nuovo (o per dir meglio) ad un rinnovato
impulso naturale fortissimo, che mi si fece sentire per più giorni, e finalmente, non lo
potendo cacciare, cedei. E ideai in iscritto sei commedie, si può dire ad un parto solo.
Sempre avea avuto in animo di provarmi in quest'ultimo arringo, ed avea fissato di farne
dodici, ma i contrattempi, le angustie d'animo, e più d'ogni cosa lo studio prosciugante
continuo di una sì immensamente vasta lingua, qual è la greca, mi aveano sviato e smunto
il cervello, e credeva oramai impossibile ch'io concepissi più nulla, né ci pensava
neppure. Ma, non saprei dir come nel più tristo momento di schiavitù, e senza quasi
probabilità, né speranza di uscirne, né d'aver tempo io più, né mezzi per eseguire,
mi si sollevò ad un tratto lo spirito, e mi riaccese faville creatrici. Le prime quattro
commedie adunque, che son quasi una divisa in quattro, perché tendenti ad uno scopo solo,
ma per mezzi diversi, mi vennero ideate insieme in una passeggiata, e tornando ne feci
l'abbozzo al solito mio. Poi il giorno dopo fantasticandovi, e volendo pur vedere se anche
in altro genere ne potrei fare, almeno una per saggio, ne ideai altre due, di cui la prima
fosse di un genere anche nuovo per l'Itaha, ma diverso dalle quattro, e la sesta poi fosse
la commedia mera italiana dei costumi d'Italia quali sono adesso; per non aver taccia di
non saperli descrivere. Ma appunto perché i costumi variano, chi vuol che le commedie
restino, deve pigliar a deridere, ed emendare l'uomo; ma non l'uomo d'Italia, più che di
Francia o di Persia; non quello del 1800, più che quello del 1500, o del 2000, se no
perisce con quegli uomini e quei costumi, il sale della commedia e l'autore. Così dunque
in sei commedie io ho creduto, o tentato di dare tre generi diversi di commedie. Le
quattro prime adattabili ad ogni tempo, luogo, e costume; la quinta fantastica, poetica,
ed anche di largo confine, la sesta nell'andamento moderno di tutte le commedie che si
vanno facendo, e delle quali se ne può far a dozzina imbrattando il pennello nello sterco
che si ha giornalmente sotto gli occhi: ma la trivialítà d'esse è molta; poco, a parer
mio, il diletto, e nessunissimo utile. Questo mio secolo, scarsetto anzi che no
d'invenzione, ha voluto pescar la tragedia dalla commedia, praticando il dramma urbano,
che è come chi direbbe l'epopea delle rane. Io all'incontro che non mi piego mai se non
al vero, ho voluto cavare (con maggiore verisimiglianza mi credo) dalla tragedia la
commedia; il che mi pare più utile, più divertente, e più nel vero; poiché dei grandi
e potenti che ci fan ridere si vedono spesso; ma dei mezzani, cioè banchieri avvocati, o
simili, che si facciano ammirare non ne vediamo mai; ed il coturno assai male si adatta ai
piedi fangosi. Comunque sia l'ho tentato; il tempo, ed io stesso rivedendole giudicherò
poi se debbano stare, o bruciarsi.
CAPITOLO
TRIGESIMO
Stendo un anno dopo averle ideate la prosa delle sei commedie;
ed un altr'anno dopo le verseggio;
l'una e l'altra di queste due fatiche con gravissimo scapito della salute.
Rivedo l'abate di Caluso in Firenze.
Passò pure anche quell'anno
lunghissimo dell'800, la di cui seconda metà era stata sì funesta, e terribile a tutti i
galantuomini; e nei primi mesi del seguente '801 non avendo fatto gli alleati altro che
spropositi, si venne finalmente a quella orribil sedicente pace, che ancora dura, e tiene
tutta l'Europa in armi, in timore, ed in schiavitù, cominciando dalla Francia stessa, che
a tutte l'altre dando legge, la riceve poi essa da un perpetuo console più dura ed
infame, che non la dà.
Ma io oramai pel troppo sentire queste
pubbliche italiane sventure fatto direi quasi insensibile, ad altro più non pensava, che
a terminare la mia già troppo lunga e copiosa carriera letteraria. Perciò verso il
luglio di quest'anno mi rivolsi caldamente a provare le mie ultime forze nello stendere
tutte quelle sei commedie. E così pure di un fiato come le aveva ideate mi vi posi a
stenderle senza intermissione, circa sei giorni al più per ognuna; ma fu tale il
riscaldamento e la tensione del capo, che non potei finire la quinta, ch'io mi ammalai
gravemente d'un'accensione al capo, e d'una fissazione di podagra al petto, che terminò
col farmi sputare del sangue. Dovei dunque smettere quel caro lavoro, ed attendere a
guarirmi. Il male fu forte, ma non lungo; lunga fu la debolezza della convalescenza in
appresso; e non mi potei rimettere a finir la quinta, e scrivere tutta la sesta commedia,
fino al fin di settembre; ma ai primi di ottobre tutte erano stese; e mi sentii sollevato
di quel martello che elle mi aveano dato in capo da tanto tempo.
Sul fin di quest'anno ebbi di Torino una
cattiva nuova; la morte del mio unico nipote di sorella carnale, il conte di Cumiana, in
età di trent'anni appena; in tre giorni di malattia, senza aver avuto né moglie, né
figli. Questo mi afflisse non poco, benché io appena l'avessi visto ragazzo; ma entrai
nel dolore della madre (il di lui padre era morto due anni innanzi), ed anche confesserò
che mi doleva di veder passare tutto il mio, che aveva donato alla sorella, in mano di
estranei. Che eredi saranno della mia sorella, e cognato, tre figlie, che le rimangono
tutte tre accasate; una come, dissi col Colli d'Alesandria, l'altra con un Ferreri di
Genova, e l'altra con il conte di Cellano d'Aosta. Quella vanitaduzza, che si può far
tacere, ma non si sradica mai dal cuore di chi è nato distinto, di desiderare una
continuità del nome, o almeno della famiglia, non mi s'era neppure totalmente sradicata
in me, e me ne rammaricai più che non avrei creduto; tanto è vero, che per ben conoscer
sé stessi, bisogna la viva esperienza, e ritrovarsi nei dati casi, per poter dire quel
che si è. Questa orfanità di nipote maschio, mi indusse poi a sistemare amichevolmente
con mia sorella altri mezzi per l'assicurazione della mia pensione in Piemonte, caso mai
(che nol credo) ch'io dovessi sopravvivere a lei, per non ritrovarmi all'arbitrio di
codeste nipoti, e dei loro mariti che non conosco.
Ma intanto quella quantunque pessima pace
avea pure ricondotto una mezza tranquillità in Italia, e dal despotismo francese
essendosi annullate le cedole monetarie sì in Piemonte, che in Roma, tornati dalla carta
all'oro sì la signora che io, ella di Roma, io di Piemonte cavando, ci ritrovammo ad un
tratto fuori quasi dell'angustia, che avevamo provato negli interessi da più di cinque
anni, scapitando ogni giorno più dell'avere. Perciò sul finire del suddetto '801
ricomprammo cavalli, ma non più che quattro, di cui solo uno da sella per me, che da
Parigi in poi non avea mai più avuto cavallo, né altra carrozza che una pessima
d'affitto. Ma gli anni, le disgrazie pubbliche, tanti esempi di sorte peggior della
nostra, mi aveano reso moderato e discreto; onde i quattro cavalli furono oramai anche
troppi, per chi per molti anni appena si era contentato di dieci, e di quindici.
Del rimanente poi bastantemente sazio e
disingannato delle cose del mondo, sobrio di vitto, vestendo sempre di nero, nulla
spendendo che in libri, mi trovo ricchissimo, e mi pregio assai di morire di una buona
metà più povero, che non son nato. Perciò non attesi alle offerte che il mio nipote
Colli mi fece fare dalla sorella, di adoperarsi in Parigi, dove egli andava a fissarsi,
presso quei suoi amici, ch'egli senza vergogna mi annovera e nomina nella sua seconda
lettera che ho pure trascritta, di adoperarsi, dico, presso coloro per farmi rendere il
mio confiscatomi in Francia, l'entrate ed i libri, ed il rimanente. Dai ladri non ripeto
mai nulla; e da una risibil tirannide in cui l'ottener giustizia è una grazia, non voglio
né l'una né l'altra. Onde non ho altrimenti neppure fatto rispondere al Colli nulla su
di ciò; come neppure nulla avea replicato alla di lui seconda lettera, in cui egli
dissimula di aver ricevuta la mia risposta alla prima; ed in fatti permanendo egli general
francese, dovea dissimular la mia sola risposta. Così io permanendo libero e puro uomo
italiano dovea dissimulare ogni sua ulteriore lettera, e offerta, che per qualunque mezzo
pervenir mi facesse.
Venuto appena l'estate dell'802 (che
l'estate, come le cicale io canto), subito mi posi a verseggiare le stesse commedie, e
ciò con lo stesso ardore e furore, con cui già le avea stese e ideate. E quest'anno pure
risentii, ma in altra maniera, i funesti effetti del soverchio lavoro, perché, come
dissi, tutte queste composizioni erano in ore prese su la passeggiata, o su altro, non
volendo mai toccare alle tre ore di studio ebdomadario di svegliata. Sicché quest'anno,
dopo averne verseggiate due e mezza, nell'ardor dell'agosto fui assalito dal solito
riscaldamento di capo, e più da un diluvio di fignoli qua e là per tutto il corpo; dei
quali mi sarei fatto beffe, se uno, il re di tutti, non mi si fosse venuto ad innestare
nel piede manco, fra la noce esterna dello stinco ed il tendine, che mi tenne a letto più
di quindici giorni con dolori spasmodici, e risipola di rimbalzo, che il maggior patimento
non l'ho avuto mai a' miei giorni. Bisognò dunque smettere anche quest'anno le commedie,
e soffrire in letto. E doppiamente soffersi, perché si combinò in quel settembre, che il
caro Caluso che da molti anni ci prometteva una visita in Toscana, poté finalmente
capitarci quest'anno, e non ci si poteva trattenere più di un mesetto, perché ci veniva
per ripigliare il suo fratello primogenito, che da circa due anni si era ritirato a Pisa,
per isfuggire la schiavitù di Torino celtizzato. Ma in quell'anno una legge di quella
solita libertà costringeva tutti i piemontesi a rientrare in gabbia per il dì tanti
settembre, a pena al solito di confiscazione, e espulsione dai felicissimi stati di quella
incredibil repubblica. Sicché il buon abate, venuto così a Firenze, e trovatomi per
fatalità in letto, come mi ci avea lasciato quindici anni prima in Alsazia, che non
c'eramo più visti, mi fu dolce, ed amarissimo il rivederlo essendo impedito, e non mi
potendo né alzare, né muovere, né occupare di nulla. Gli diedi però a leggere le mie
traduzioni dal greco, le satire, ed il Terenzio, e il Virgilio, ed in somma ogni cosa mia
fuorché le commedie, che a persona vivente non ho ancora né lette, né nominate, finché
non le vedo a buon termine. L'amico si mostrò sul totale contento dei miei lavori, mi
diede in voce, e mi pose anche per iscritto dei fratellevoli e luminosi avvisi su le
traduzioni dal greco, di cui ho fatto mio pro, e sempre più lo farò nel dare loro
l'ultima mano Ma intanto sparitomi qual lampo dagli occhi l'amico dopo soli ventisette
giorni di permanenza, ne rimasi dolente, e male l'avrei sopportata, se la mia
incomparabile compagna non mi consolasse di ogni privazione. Guarii nell'ottobre,
ripigliai subito a verseggiar le commedie, e prima dei [...] decembre, le ebbi terminate,
né altro mi resta che a lasciarle maturare, e limarle.
CAPITOLO
TRIGESIMOPRIMO
Intenzioni mie su tutta questa seconda mandata di opere inedite.
Stanco, esaurito, pongo qui fine ad ogni nuova impresa; atto più a disfare, che a fare,
spontaneamente esco dall'epoca quarta virile, ed in età di anni cinquantaquattro e mezzo
mi do per vecchio, dopo ventotto anni di quasi continuo inventare, verseggiare,
tradurre, e studiare - Invanito poi bambinescamente dell'avere quasi che spuntata
la difficoltà del greco, invento l'ordine di Omero, e me ne creo cavaliero.
Ed eccomi, s'io non erro, al fine
oramai di queste lunghe e noiose ciarle. Ma se io avea fatte o bene o male tutte le
surriferite cose, mi conveniva pur dirle. Sicché se io sono stato nimio nel
raccontare, la cagione n'è stata l'essere stato troppo fecondo nel fare. Ora le due
anzidette malattie in queste due ultime estati, mi avvisano ch'egli è tempo di finire e
di fare e di raccontare. Onde qui pongo termine all'epoca quarta, essendo ben certo che
non voglio più, né forse potrei volendo, creare più nulla. Il mio disegno si è di
andare sempre limando e le produzioni, e le traduzioni, in questi cinque anni e mesi che
mi restano per giungere agli anni sessanta, se Iddio vuole che ci arrivi. Da quelli in
poi, se li passo, mi propongo, e comando a me stesso di non fare più nulla affatto,
fuorché continuare (il che farò finché ho vita), i miei studi intrapresi. E se nulla
ritornerò su le mie opere, sarà per disfare, o rifare (quanto all'eleganza), ma non mai
per aggiungere cosa che fosse. Il solo trattato aureo Della vecchiaia di Cicerone,
tradurrò ancora dopo i sessanta anni; opera adattata all'età, e la dedicherò alla mia
indivisibile compagna, con cui tutti i beni o mali di questa vita ho divisi da venticinque
e più anni, e sempre più dividerò.
Quanto poi allo stampare tutte queste
cose che mi trovo, e troverò fatte, ai sessanta anni, non credo oramai più di farlo; sì
perché troppa è la fatica; e sì perché stando come fo in governo non libero, mi
toccherebbe a soffrire delle revisioni, e a questo non mi assoggetterei mai. Lascierò
dunque dei puliti e corretti manoscritti, quanto più potrò e saprò, di quell'opere che
vorrò lasciare credendole degne di luce; brucierò l'altre; e cosí pure farò della vita
ch'io scrivo, riducendola a pulimento, o bruciandola. Ma per terminare oramai lietamente
queste serie filastrocche, e mostrare come già ho fatto il primo passo dell'epoca quinta
di rimbambinare, non nasconderò al lettore per farlo ridere, una mia ultima debolezza di
questo presente anno 1803. Dopo ch'ebbi finito di verseggiare le commedie, credutele in
salvo e fatte, mi sono sempre più figurato e tenuto di essere un vero personaggio nella
posterità. Dopo poi che continuando con tanta ostinazione nel greco, mi son visto, o
creduto vedere, in un certo modo padrone di interpretare da per tutto a prima rivista, sì
Pindaro, che i tragici, e più di tutti il divino Omero, sì in traduzione letterale
latina, che in traduzione sensata italiana, son entrato in un certo orgoglio di me di una
sì fatta vittoria riportata dai quarantasette ai cinquantaquattro anni. Onde mi venne in
capo, che ogni fatica meritando premio, io me lo dovea dare da me, e questo dovea essere
decoro, ed onore, e non lucro. Inventai dunque una collana, col nome incisovi di ventitré
poeti sì antichi che moderni, pendente da essa un cammeo rappresentante Omero, e dietrovi
inciso (ridi o lettore) un mio distico greco; il quale pongo qui per nota ultima [Appendice nona, ndr], colla traduzione in un distico
italiano. Sì l'uno che l'altro li ho fatti prima vedere all'amico Caluso, il greco, per
vedere se non v'era barbarismo, solecismo, od errore di Prosodia; l'italiano, perch'ei
vedesse se avea temperato nel volgare la forse troppa impertinenza del greco; che già si
sa, nelle lingue poco intese l'autore può parlar di sé più sfacciatamente che nelle
volgari. Approvati l'uno e l'altro dall'amico, li registro qui, perché non si
smarriscano. Quanto poi alla collana effettiva, l'eseguirò quanto prima, e la farò il
più ricca che potrò, sì in gioielli, che in oro, e in pietre dure. E così affibbiatomi
questo nuovo ordine, che meritatolmi o no, sarà a ogni modo l'invenzione ben mia, s'egli
non ispetterà a me, l'imparziale posterità lo assegnerà poi ad altri che più di me se
lo sia meritato. A rivederci, o lettore, se pur ci rivedremo, quando io barbogio,
sragionerò anche meglio, che fatto non ho in questo capitolo ultimo della mia agonizzante
virilità.
A dì 14 maggio 1803. Firenze.
( =
motu proprio)
© 1999 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: Giuseppe Bonghi
@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 20 ottobre, 1999