Vittorio Alfieri

La Vita scritta da esso

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CAPITOLO VIGESIMOSECONDO
Fuga di Parigi, donde per le Fiandre e tutta la Germania
tornati in Italia ci fissiamo in Firenze.

         Impiegati, o perduti circa due mesi in cercare, ed ammobiliare una nuova casa, nel principio del '92 ci tornammo ad abitare; ed era bellissima e comodissima. Si sperava ogni giorno, che verrebbe quello di un qualche sistema di cose soffribile; ma più spesso ancora si disperava che omai sorgesse un tal giorno. In questo stato di titubazione, la mia donna ed io (come anche tutti, quanti n'erano allora in Parigi ed in Francia, o ci aveano che fare pe' loro interessi), andavamo strascinando il tempo. Io fin da due anni e più innanzi, avea fatto venir di Roma tutti i miei libri lasciativi nell'83, e da allora in poi li avea anche molto accresciuti sì in Parigi, che in quest'ultimo viaggio di Inghilterra, e d'Olanda. Onde per questa parte poco mi mancava ad avere ampiamente tutti i libri, che mi potessero esser utili o necessari nella ristretta mia sfera letteraria. Onde tra i libri, e la cara compagna, nessuna consolazione domestica mi mancava; solamente mancavaci la speranza viva, e la verisimiglianza che ciò potesse durare. Questo pensiero mi sturbava da ogni occupazione, e mi tiravo, innanzi per traduttore nel Virgilio e Terenzio, non potendo far altro. Frattanto, né in quest'ultimo, né all'anteriore mio soggiorno in Parigi io non volli mai né trattare, né conoscere pur di vista nessuno di quei tanti facitori di falsa libertà, per cui mi sentiva la più invincibile ripugnanza, e ne aveva il più alto disprezzo. Quindi anche sino a questo punto, in cui scrivo da più di quattordici anni che dura questa tragica farsa, io mi posso gloriare di esser vergine di lingua di orecchi, e d'occhi perfino, non avendo mai né visto, né udito, né parlato con qualunque di codesti schiavi dominanti francesi, né con nessuno dei loro schiavi serventi.
         Nel marzo di quell'anno ricevei lettere di mia madre, che furon l'ultime: ella vi esprimeva con caldo e cristiano affetto molta sollecitudine di vedermi, diceva, " in paese, dove sono tanti torbidi; dove non è più libero l'esercizio della cattolica religione, e dove tutti tremano sempre, ed aspettano continui disordini e disgrazie ". Pur troppo bene diceva, e presto si avverò; ma quando mi ravviai verso l'Italia, la degnissima e veneranda matrona non esisteva, più. Passò di questa vita il di 23 aprile 1792, in età di anni settanta compiuti.
         Erasi frattanto rotta la guerra coll'imperatore, che poi divenne generale e funesta. Venuto il giugno, in cui si tentò già di abbattere intieramente il nome del re, che altro più non rimaneva; la congiura di quel giorno 20 giugno essendo andata fallita, le cose strascinarono ancora malamente sino al famoso dieci d'agosto, in cui la cosa scoppiò come ognuno sa.
         Accaduto quest'avvenimento, io non indugiai più neppure un giorno, e il mio primo ed unico, pensiero essendo di togliere da ogni pericolo la mia donna, già dal dì 12 feci in fretta in fretta tutti i preparativi per la nostra partenza. Rimaneva la somma difficoltà dell'ottenere passaporti per uscir di Parigi, e del regno. Tanto c'industriammo in quei due o tre giorni, che il dì 15, o 16, già gli avevamo ottenuti come forestieri, prima dai ministri di Venezia io, e di Danimarca la signora, che erano quasi che i soli ministri, esteri rimasti presso quel simulacro di re. Poi con molto più stento si ottenne dalla sezione nostra comunitativa detta du Montblanc degli altri passaporti, uno per ciascheduno individuo, sì per noi due, che ogni servitore, e cameriera, con la pittura di ciascuno, di statura, pelo, età, sesso, e che so io. Muniti così di tutte queste schiavesche patenti, avevamo fissato la partenza nostra pel lunedì 20 agosto; ma un giusto presentimento, trovandoci allestiti, mi fece anticipare, e si parti il dì 18, sabato, nel dopo pranzo. Appena giunti alla Barrière Blanche, che era la nostra uscita la più prossima per pigliar la via di San Dionigi per Calais, dove ci avviavamo per uscire al più presto di quell'infelice paese; vi ritrovammo tre o quattro soli soldati di guardie nazionali, con un uffiziale, che visti i nostri passaporti, si disponeva ad aprirci il cancello di quell'immensa prigione, e lasciarci ire a buon viaggio. Ma v'era accanto alla Barriera una bettolaccia, di dove sbucarono fuori ad un tratto una trentina forse di manigoldi della plebe, scamisciati, ubriachi, e furiosi. Costoro, viste due carrozze che tante n'avevamo, molto cariche di bauli, e imperiali, ed una comitiva di due donne di servizio, e tre uomini, gridarono che tutti i ricchi se ne voleano fuggir di Parigi, e portar via tutti i loro tesori, e lasciarli essi nella miseria e nei guai. Quindi ad altercare quelle poche e tristi guardie con quei molti e tristi birbi, esse per farci uscire, questi per ritenerci. Ed io balzai di carrozza fra quelle turbe, munito di tutti quei sette passaporti, ad altercare, e gridare, e schiamazzar più di loro; mezzo col quale sempre si vien a capo dei francesi. Ad uno ad uno si leggevano, e facevano leggere da chi di quelli legger sapeva, le descrizioni delle nostre rispettive figure. Io pieno di stizza e furore, non conoscendo in quel punto, o per passione sprezzando l'immenso pericolo, che ci soprastava, fino a tre volte ripresi in mano il mio passaporto, e replicai ad alta voce: " Vedete, sentite; Alfieri è il mio nome; italiano e non francese; grande, magro, sbiancato; capelli rossi, son io quello, guardatemi; ho il passaporto; l'abbiamo avuto in regola da chi lo può dare; e vogliamo passare, e passeremo per Dio ". Durò più di mezz'ora questa piazzata, mostrai buon contegno, e quello ci salvò. Si era frattanto ammassata più gente intorno alle due carrozze, e molti gridavano: "Diamoglí il fuoco a codesti legni ". Altri: Pigliamoli a sassate ". Altri: " Questi fuggono; son dei nobili e ricchi, portiamoli indietro al Palazzo della Città, che se ne faccia giustizia ". Ma insomma il debole aiuto delle quattro guardie nazionali, che tanto qualcosa diceano per noi, ed il mio molto schiamazzare, e con voce di banditore replicare e mostrare i passaporti, e più di tutto la mezz'ora e più di tempo, in cui quei scimiotigri si stancarono di contrastare, rallentò l'insistenza loro; e le guardie accennatomi di salire in carrozza, dove avea lasciato la signora, si può credere in quale stato, io rientratovi, rimontati i postiglioni a cavallo si aprì il cancello, e di corsa si uscì, accompagnati da fischiate, insulti e maledizioni di codesta genia. E buon per noi che non prevalse di essere ricondotti al Palazzo di Città, che arrivando così due carrozze in pompa stracariche, con la taccia di fuggitivi, in mezzo a quella plebaglia si rischiava molto; e saliti poi innanzi ai birbi della Municipalità, si era certi di non poter più partire, d'andare anzi prigioni, dove se ci trovavano nelle carceri il dì 2 settembre, cioè quindici giorni dopo, ci era fatta la festa insieme con tanti altri galantuomini che crudelmente vi furono trucidati. Sf uggiti di un tale inferno, in due giorni e mezzo arrivammo a Calais, mostrando forse quaranta e più volte i nostri passaporti; ed abbiamo saputo poi che noi eramo stati i primi forestieri usciti di Parigi, e del regno dopo la catastrofe del 10 agosto. Ad ogni Municipalità per istrada dove ci conveniva andare e mostrare i nostri passaporti, quei che li leggevano, rimanevano stupefatti ed attoniti alla prima occhiata che ci buttavan sopra, essendo quelli stampati, e cassatovi il nome del re. Poco, e male erano informati di quel che fosse accaduto in Parigi, e tutti tremavano. Sono questi gli auspici, sotto cui finalmente uscii della Francia, con la speranza, ed il proponimento di non capitarvi più mai. Giunti a Calais, dove non ci fecero difficoltà di proseguire sino alle frontiere della Fiandra per Gravelina, preferimmo di non c'imbarcare, e di renderci subito a Brusselles. Ci eramo diretti a Calais, perché non essendo ancora guerra cogli inglesi, si pensò che si potea più facilmente andare in Inghilterra, che in Fiandra dove la guerra si facea vivamente. Giunti a Brusselles, la signora volle rimettersi un poco dalle paure sofferte con lo stare un mesetto in villa colla sorella, e il degnissimo suo cognato. Là poi si ricevettero lettere di Parigi dalla nostra gente lasciatavi, che quello stesso lunedì che avevamo destinato al partire, 20 agosto, ma che io fortunatamente avea anticipato due giorni, era venuta in corpo quella nostra stessa sezione che ci avea dati i passaporti (vedi stupidità, e pazzia), per arrestare la signora e condurla in prigione. Già si sa, perché era nobile, ricca, ed illibata. A me, che sempre ho valuto meno di essa, non faceano per allora quell'onore. Ma insomma, non ci ritrovando aveano confiscato i nostri cavalli, mobili, libri, e ogni cosa. Poi sequestrate le entrate, e dichiaratici amendue emigrati. E così pure poi ci fu scritta la catastrofe e gli orrori ecc. seguiti in Parigi il di 2 settembre, e si ringraziò e benedì la Provvidenza che ce n'avea scampati.
         Visto poi sempre più oscurarsi il cielo di quel paese, e nata nel terrore e nel sangue quella sedicente repubblica, noi saviamente ascrivendo a guadagno tutto quello che ci potea rimanere altrove, ci posimo in via per l'Italia il dì 1° ottobre; e per Aquisgrana, Francfort, Augusta ed Inspruch, venuti all'Alpi e lietamente varcatele, ci parve di rinascere il dì che ci ritrovammo nel bel paese qui dove il sì suona. Il piacere di esser fuori di carcere, e di ricalcare con la mia donna quelle stesse vie, che più volte avea fatte per gire a trovarla; la soddisfazione di potere liberamente godere la sua santa compagnia, e sotto l'ombra sua di potere ripigliare i miei cari studi, mi tranquillizzarono, e serenarono a segno, che da Augusta sino in Toscana mi si riaprì la fonte delle rime, e ne venni seminando e raccogliendo in gran copia. Si arrivò finalmente il dì 3 novembre in Firenze, di donde non ci siamo più mossi, e dove ritrovai il vivo tesoro della lingua, che non poco mi compensò delle tante perdite d'ogni sorte che dovei sopportare in Francia.

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CAPITOLO VIGESIMOTERZO
A poco a poco mi vo rimettendo allo studio. Finisco le traduzioni. Ricomincio a scrivere
qualche coserella di mio, trovo casa piacentissima in Firenze; e mi do al recitare.

         Appena giunto in Firenze, ancorché per quasi un anno non vi si potesse trovar casa che ci convenisse, tuttavia il sentir di nuovo parlare quella sì bella, e a me sì preziosa lingua, il trovar gente qua e là che mi andava parlando delle mie tragedie, il vederle qua e là (benché male), pure frequentemente recitate, mi ridestò qualche spirito letterario, che nei due ultimi decorsi anni mi si era presso che spento nel core. La prima coserella, che mi venne ideata e fatta di mio (dopo quasi tre anni che non avea più composto nulla fuorché qualche rime) fu l'Apologia del re Luigi XVI, che scrissi nel decembre di quell'anno. Successivamente poi riprese caldamente, le due traduzioni che sempre camminavan di fronte, il Terenzio e l'Eneide, nel seguente anno '93 le portai al fine, non però limate, né perfette. Ma il Sallustio, che era stata quasi che la sola cosa a cui un pochino avessi atteso nel viaggio d'Inghilterra e d'Olanda (oltre tutte le opere di Cicerone, che avea caldamente lette, e rilette), e che avea moltissimo corretto e limato, lo volli anche ricopiare intero in quell'anno '93, e così mi credei avergli dato l'ultimo pulimento. Stesi anche una prosa storico-satirica su gli affari in Francia, compendiatamente, la quale poi, ritrovatomi un diluvio di composizioni poetiche, sonetti, ed epigrammi su quelle risibili e dolorose vertenze, ed a tutti que' membri sparsi volendo dar corpo e sussistenza, volli che quella prosa servisse come di prefazione all'opera che intitolerei Il misogallo; e verrebbe essa a dare quasi ragione dell'opera.
         Ravviatomi così a poco a poco allo studio, ancorché forte spennacchiati nell'avere, sì la mia donna che io, tuttavia rimanendoci pur da campare decentemente; ed amandola io sempre più, e quanto più bersagliata dalla sorte, tanto più riuscendomi ella una cosa e carissima e sacra, il mio animo si andava acquetando, e più ardente che mai l'amor del sapere mi ribolliva nella mente. Ma allo studio vero quale avrei voluto intraprendere, mi mancavano i libri, avendo definitivamente perduti tutti i miei in Parigi, né mai più pure richiestili a chi che si fosse, e salvatine soli un 150 volumi circa di picciole edizioncelle di classici che portai meco. Quanto poi al comporre, benché io avessi il mio piano ideato per altre cinque almeno tramelogedie, sorelle dell'Abele, attese le passate ed anche le presenti angustie dell'animo, mi si era spento il bollore giovenile inventivo, la fantasia accasciata, e gli anni preziosi ultimi della gioventù spuntati ed ottusi, direi, dalla stampa ed i guai che per più di cinque anni mi avean sepolto l'animo, non me la sentivo più; ed in fatti dovei abbandonarne il pensiero, non mi trovando più il robusto furore necessario ad un tale pazzo genere. Smessa dunque quell'idea, che pur tanto mi era stata cara, mi volli rivolgere alle satire, di cui fatto avea sol la prima che poi serve all'altre di prologo; bastantemente mi era andato esercitando ìn quest'arte negli squarci diversi del Misogallo, onde non disperava di riuscirvi; e ne scrissi la seconda, ed in parte la terza; ma non era ancora abbastanza raccolto in me stesso; male alloggiato, senza libri, non avea quasi il cuore a nulla.
         Questo mi fece entrare in un nuovo perditempo, quello del recitare. Trovati in Firenze alcuni giovani, e una signora, che mostravano genio e capacità da ciò, si imparò il Saul, e si recitò in casa privata, e senza palco, a ristrettissima udienza, con molto incontro, nella primavera del '93. In fine poi di quell'anno, si ritrovò presso il Ponte Santa Trinità una casa graziosissima benché piccola, posta al Lung'Arno di mezzogiorno, casa dei Gianfigliazzi, dove tornammo in novembre, e dove ancora mi trovo, e verisimilmente, se non mi saetta altrove la sorte, ci morrò. L'aria, la vista, ed il comodo di questa casa mi restituì gran parte delle mie facoltà intellettuali e creative, meno le tramelogedie, cui non mi fu più possibile mai d'innalzarmi. Tuttavia, avviatomi l'anno prima al balocco del recitare, volli ancora perdere in questa primavera del '94 altri tre buoni mesi; e si recitò da capo in casa mia, il Saul, di cui io faceva la parte; poi il Bruto primo, di cui pure faceva la parte. Tutti dicevano, e pareva anche a me di andar facendo dei progressi non piccoli in quell'arte difficilissima del recitare; e se avessi avuto più gioventù, e nessun altro pensiero, mi parea di sentire in me crescere ogni volta ch'io recitava, la capacità, e l'ardire, e la riflessione e la gradazione dei tuoni, e la importantissima varietà continua dei presto e adagio, piano e forte, pacato e risentito, che alternate sempre a seconda delle parole vengono a colorir la parola, e scolpire direi il personaggio, ed incidere in bronzo le cose ch'ei dice. Parimente la compagnia addestrata al mio modo migliorava di giorno in giorno; e tenni allora per cosa più che certa, che se io avessi avuto danari tempo e salute da sprecare, avrei in tre o quattr'anni potuto formare una compagnia di tragici, se non ottima, almeno assai e del tutto diversa da quelle che in Italia si van chiamando tali, e ben diretta su la via del vero e dell'ottimo.
         Questo perditempo mi tenne ancora molto indietro nelle mie occupazioni per tutto quell'anno, e quasi anche il seguente, in cui poi feci la mia ultima strionata, recitando in casa mia il Filippo, in cui feci alternativamente le due così diverse parti di Filippo, e di Carlo; e poi da capo il Saul, che era i mio personaggio più caro, perché in esso vi è di tutto, di tutto assolutamente. Ed essendovi in Pisa in casa particolare di signori una altra compagnia di dilettanti, che vi recitavano pure il Saul, io invitato da essi di andarvi per la luminara, ebbi la pueril vanagloria di andarvi, e là recitai per una sola volta, e per l'ultima la mia diletta parte del Saul, e là rimasi, quanto al teatro, morto da re.
         Intanto, nel decorso di quei due e più anni ch'io era già stato in Toscana, mi era dato a poco a poco a ricomprar libri, e riacquistati quasi che tutti i libri di lingua toscana che già aveva avuti, e riacquistati ed accresciuti anche di molto tutti i classici latini, vi aggiunsi anche, non so allora perché, tutti i classici greci di edizioni ottime greco-latine tanto per averli, e saperne se non altro i nomi.

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CAPITOLO VIGESIMOQUARTO
La curiosità e la vergogna Mi spingono a leggere Omero, ed i tragici greci
nelle traduzioni letterali. Proseguimento tepido delle satire, ed altre cosarelle.

Meglio tardi che mai; Trovandomi dunque in età di anni quarantasei ben suonati, ed aver bene o male da venti esercitata e professata l'arte di poeta lirico e tragico, e non aver pure mai letto né i tragici greci, né Omero, né Pindaro, né nulla insomma, una certa vergogna mi assalì, e nello stesso tempo anche una lodevole curiosità di vedere un po' cosa aveano detto quei padri dell'arte. E tanto più cedei volentieri a questa curiosità e vergogna, quanto da più e più anni, mediante i viaggi, i cavalli, la stampa, la lima, le angustie d'animo, e il tradurre, mi trovava rinminchionito a tal segno, che avrei ben potuto oramai aspirare all'erudito, che non è poi insomma altro che buona memoria di suo, e roba d'altri. Ma disgraziatamente anche la memoria, ch'io avea già avuta ottima, mi si era assai indebolita. Con tutto ciò per isfuggire l'ozio, cavarmi dallo strione ed uscire un pocolin più dall'asino, mi accinsi all'impresa. E successivamente Omero, Esiodo, i tre tragici, Aristofane, ed Anacreonte lessi ad oncia ad oncia studiandoli nelle traduzioni letterali latine, che sogliono porsi a colonna col testo. Quanto a Pindaro, vidi ch'egli era tempo perduto; perché le alzate liriche tradotte letteralmente troppo bestial cosa riuscivano; e non potendolo leggere nel testo, lo lasciai stare. Così in questo assiduo studio ingratissimo, e di poco utile oramai per me, che spossato non producea più quasi nulla, c'impiegai quasi che un anno e mezzo.
         Alcune rime intanto andava anche scrivendo, e le satire crebbero in tutto il '96, fino a sette di numero. Quell'anno '96 funesto all'Italia per la finalmente eseguita invasione dei francesi che da tre anni tentavano, mi abbuiò sempre più l'intelletto, vedendomi rombar sovra il capo la miseria e la servitù. Il Piemonte straziato, già già mi vedea andare in fumo l'ultima mia sussistenza rimastami. Tuttavia preparato a tutto, e ben risoluto in me stesso di non accattar mai né servire, tutto il di meno di queste due cose lo sopportava con forte animo, e tanto più mi ostinava allo studio, come sola degna diversione a si sozzi e noiosi fastidi. Nel Misogallo, che sempre andava crescendo, e che anche ornai d'altre prose, io aveva riposto la mia vendetta e quella della mia Italia; e porto tuttavia ferma speranza, che quel libricciuolo col tempo gioverà all'Italia, e nuocerà alla Francia non poco. Sogni e ridicolezze d'autore, finché non hanno effetto; profezie di inspirato vate; allorché poi l'ottengono.

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CAPITOLO VIGESIMOQUINTO
Per qual ragione, in qual modo, e con quale scopo mi risolvessi
finalmente a studiare da radice seriamente da me stesso la lingua greca.

         Fin dall'anno 1778, quando si trovava meco in Firenze il carissimo amico Caluso, io così, per ozio, e curiosità leggierissima, mi era fatto scrivere da lui sur un foglio volante il semplice alfabeto greco, maiuscolo, e minuscolo, e così alla peggio imparato a conoscere le lettere, ed anche a nominarle, e non altro. Non ci avea poi badato mai più per tanti anni. Ora due anni addietro, quando mi posi a leggere le traduzioni letterali, come dissi, ripescai quel mio alfabeto fra i fogli e trovatolo, mi rimisi a raffigurar quelle lettere, e dirne il nome; col solo pensiero di gettare di quando in quando gli occhi, su la colonna del greco, e vedere se mi veniva fatto di raccapezzare il suono di una qualche parola, di quelle che per essere composte e straordinarie, dalla traduzione letterale mi destavano curiosità del testo. Ed io veramente guardava di tempo in tempo quei caratteri posti a colonna, con occhio bieco, e fremente, appunto come la volpe della favola guardava i proibiti grappoli invano sospirati. Mi si aggiungeva un fortissimo ostacolo fisico; che le mie pupille non volean saper niente di quel maledetto carattere; e foss'egli grande o piccolo, sciolto o legato, mi venivano le traveggole tosto ch'io lo fissava, e con molta pena compitando ne portava via una parola per volta, delle brevi; ma un verso intero non lo potea né leggere, né fissare, né pronunziare, né molto meno ritenerne materialmente la romba a memoria.
Oltre ciò, per natura nemico e non dotato di nessuna facilità per le lingue (avendo tentato due volte e tre l'inglese, né mai venutone a capo; ed ultimamente in Parigi nel '90 prima d'ire in Inghilterra la quarta volta; e tradussi allora di Pope il Windsor e cominciai il Saggio su l'uomo) non assuefatto, e oramai incapace di applicazione servile di occhio e di mente grammaticale; venuto a tale età senza aver mai saputa una grammatica qualunque, neppur l'italiana, nella quale non errava forse oramai, ma per abitudine del leggere non per poter dare né ragione né nomi dell'operato; con questo bel corredo d'impedimenti fisici e morali, tediato dal leggere quelle traduzioni, presi con me stesso l'impegno di voler tentare di superarli da me; ma non ne volli parlare con chi che sia, neppure con la mia donna, che è tutto dire. Consumati avendo dunque già due anni su i confini della Grecia, senza mai essermivi potuto introdurre altro che colla coda dell'occhio, mi irritai, e la volli vincere.
         Comprate dunque grammatiche a iosa, prima nelle grecolatine, poi nelle greche sole, per far due studi in uno, intendendo e non intendendo, ripetendo tutti i giorni il tupto, e i verbi circonflessi, e i verbi in mi (il che presto svelò il mio arcano alla signora, che vedendomi sempre susurrar fra le labbra, volle finalmente sapere, e seppe quel ch'era); ostinandomi sempre più, sforzando e gli occhi, e la mente, e la lingua, pervenni in fine dell'anno 1797 a poter fissare qualunque pagina di greco, qualunque carattere prosa o verso, senza che gli occhi mi traballassero più; ad intendere sempre benissimo il testo, facendo il contrario su la colonna latina, di quel che avea fatto dianzi sul greco, cioè gittando rapidamente l'occhio su la parola latina corrispondente alla greca, se non l'avea mai vista prima, o se me ne fossi scordato; e finalmente a leggere ad alta voce speditamente, con pronunzia sufficiente, rigorosa per gli spiriti, e accenti, e dittonghi come sta scritto, e non come stupidamente pronunziano i greci moderni, che si son fatti senza avvedersene un alfabeto con cinque iota, talché quel loro greco è un continuo iotacismo, un nitrir di cavalli più che un parlare del più armonico popolo che già vi fosse. Ed aveva vinto questa difficoltà del leggere, e pronunziare, col mettermi in gola, ed abbaiare ad alta voce, oltre la lezione giornaliera di quel classico che studiava, anche ad altre ore, per due ore continue, ma senza intendere quasi che nulla, attesa la rapidità della lettura, e la romba della sonante alta pronunzia, tutto Erodoto, due volte Tucidide con lo scoliaste suo, Senofonte, tutti gli oratori minori, e due volte il Proclo sovra il Timeo di Platone, non per altra ragione, fuorché per essere di stampa più scabra a leggersi, piena di abbreviature.
         Né una tale improba fatica mi debilitò come avrei creduto e temuto, l'intelletto. Che anzi ella mi fece per così dire, risorgere dal letargo di tanti anni precedenti. In quell'anno '97, portai le satire al numero di diciassette come sono. Feci una nuova rassegna delle molte e troppe rime, che fatte ricopiare limai. E finalmente, cominciatomi ad invaghire del greco quanto più mi pareva d'andarlo intendicchiando, cominciai anche a tradurre; prima l'Alceste d'Euripide, poi il Filottete di Sofocle, poi i Persiani di Eschilo, ed in ultimo per avere, o dare un saggio di tutti, le Rane di Aristofane. Né trascurai il latino, perché del greco, che anzi in quell'anno stesso '97 lessi e studiai Lucrezio e Plauto, e lessi il Terenzio, il quale per una bizzarra combinazione io mi trovava aver tradotto tutte le sei commedie a minuto, senza però averne mai letta una intera. Onde se sarà poi vero ch'io l'abbia tradotto, potrò barzellettare col vero, dicendo d'averlo tradotto, prima d'averlo letto, o senza averlo letto.
         Imparai anche oltre ciò i metri diversi d'Orazio, spinto dalla vergogna di averlo letto, studiato, e saputo direi a memoria, senza saper nulla de' suoi metri; e così parimente presi una sufficiente idea dei metri greci nei cori, e di quei di Pindaro, e d'Anacreonte. Insomma in quell'anno '97, mi raccorcii le orecchie di un buon palmo almeno ciascuna; né altro scopo m'era prefisso da tanta fatica, che di scuriosirmi, disasinirmi, e tormi il tedio dei pensieri dei Galli, cioè disceltizzarmi.

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CAPITOLO VIGESIMOSESTO
Frutto da non aspettarsi dallo studio serotino della lingua greca:
io scrivo (spergiuro per l'ultima volta ad Apollo) l'Alceste seconda.

         Non aspettando dunque, né desiderando altro frutto che i sopraddetti, ecco, che il buon padre Apollo me ne volle egli spontaneamente pure accordar uno, e non piccolo, per quanto mi pare. Fin dal '96 quando stava leggendo, com'io dissi, le traduzioni letterali, avendo già letto tutto Omero, ed Eschilo, e Sofocle, e cinque tragedie di Euripide, giunto finalmente all'Alceste, di cui non avea avuta mai notizia nessuna, fui sì colpito, e intenerito, e avvampato dai tanti affetti di quel sublime soggetto, che dopo averla ben letta, scrissi su un fogliolino, che serbo, le seguenti parole. " Firenze 18 gennaio 1796. Se io non avessi giurato a me stesso di non più mai comporre tragedie, la lettura di questa Alceste di Euripide mi ha talmente toccato e infiammato che così su due piedi mi accingerei caldo caldo a distendere la sceneggiatura d'una nuova Alceste, in cui mi prevarrei di tutto il buono del greco, accrescendolo se sapessi, e scarterei tutto il risibile che non è poco nel testo. E da prima così creerei i personaggi diminuendoli. " E vi aggiunsi i nomi dei personaggi quali poi vi ho posto; né più pensai a quel foglio. E proseguii tutte l'altre di Euripide, di cui non più che le precedenti, nessuna mi destò quasi che niun affetto. Tornando poi in volta l'Euripide da rileggersi, come praticava di leggere ogni cosa due volte almeno, venuta l'Alceste, stesso effetto, stesso trasporto, stesso desiderio, e nel settembre dell'anno stesso '96 ne stesi la sceneggiatura, coll'intenzione di non farla mai. Ma intanto aveva intrapresa a tradurre la prima di Euripide, ed in tutto il '97 l'ebbi condotta a termine: ma non intendendo allora, come dissi, punto il greco, l'ebbi per allora tradotta dal latino. Tuttavia quell'aver tanto che fare con codesta Alceste nel tradurla, sempre di nuovo mi andava accendendo di farla di mio; finalmente venne quel giorno, nel maggio '98, in cui mi si accese talmente la fantasia su questo soggetto che giunto a casa dalla passeggiata, mi posi a stenderla, e scrissi d'un fiato il primo atto, e ci scrissi in margine: " Steso con furore maniaco, e lagrime molte "; e nei giorni susseguenti stesi con eguale impeto gli altri quattr'atti, e l'abbozzo dei cori, ed anche quella prosa che serve di schiarimento, e il tutto fu terminato il di 26 maggio, e così sgravatomi di quel sì lungo e sì ostinato parto, ebbi pace; ma non per questo disegnava io di verseggiarla, né di ridurla a termine.
         Ma nel settembre del '98 continuando, come dissi, lo studio vero del greco, con molto fervore, mi venne pensiero di andare sul testo riscontrando la mia traduzione dell'Alceste prima, per così rettificarla, e sempre imparar qualche cosa di quella lingua, che nulla insegna quanto il tradurre, a chi s'ostina di rendere, o di almeno accennare ogni parola, imagine, e figura del testo. Rimpelagatomi dunque nell'Alceste prima, mi si riaccese per la quarta volta il furor della mia, e presala, e rilettala, e pianto assai, e piaciutami, il dì 30 settembre '98 ne cominciai i versi, e furon finiti anche coi cori verso il di 21 ottobre. Ed ecco in qual modo io mi spergiurai dopo dieci anni di silenzio. Ma tuttavia, non volendo io essere né plagiario né ingrato, e riconoscendo questa tragedia esser pur sempre tutta di Euripide, e non mia, fra le traduzioni l'ho collocata, e là dee starsi, sotto il titolo di Alceste seconda, al fianco inseparabile dell'Alceste prima sua madre. Di questo mio spergiuro non avea parlato con chi che sia, neppure alla metà di me stesso. Onde mi volli prendere un divertimento, e nel decembre invitate alcune persone la lessi come traduzione di quella di Euripide, e chi non l'avea ben presente, ci fu colto fin passato il terz'atto; ma poi chi se la rammentava svelò la celia, e cominciatasi la lettura in Euripide, si terminò in me. La tragedia piacque; ed a me come cosa postuma non dispiacque; benché molto ci vedessi da torre e limare. Lungamente ho narrato questo fatto, perché se quell'Alceste sarà col tempo tenuta per buona, si studi in questo fatto la natura spontanea dei poeti d'impeto, e come succede che quel che vorrebbero fare talvolta non riescono, e quel che non vorrebbero si fa fare e riesce. Tanto è da valutarsi e da obbedirsi l'impulso naturale febeo. Se poi non è buona, riderà il lettore doppiamente a mie spese sì nella Vita che nell'Alceste, e terrà questo capitolo come un'anticipazione su l'epoca quinta da togliersi alla virilità, e regalarsi alla vecchiaia.
         Queste due Alcesti saputesi da alcuni in Firenze, svelarono anche il mio studio di greco, che avea sempre occultato a tutti; perfino all'amico Caluso; ma egli lo venne a sapere nel modo che dirò. Aveva mandato verso il maggio di quest'anno un mio ritratto, bel quadro molto ben dipinto dal pittore Saverio Fabre, nato in Montpalieri, ma non perciò punto francese. Dietro a quel mio ritratto, che mandava in dono alla sorella, aveva scritto due versetti di Pindaro. Ricevuto il ritratto, graditolo molto, visitatolo per tutti i lati, e visti da mia sorella que' due scarabocchini greci, fece chiamare l'amico anche suo Caluso, che glie li interpretasse. L'abate conobbe da ciò che io aveva almeno imparato a formare i caratteri; ma pensò bene che non avrei fatta quella boriosa pedanteria e impostura di scrivere un'epigrafe che non intendessi. Onde subito mi scrisse per tacciarmi di dissimulatore, di non gli aver mai parlato di questo mio nuovo studio. Ed io allora replicai con una letterina in lingua greca, che da me solo mi venne raccozzata alla meglio, di cui darò qui sotto il testo e la traduzione [Appendice IV], e ch'egli non trovò cattiva per uno studente di cinquant'anni, che da un anno e mezzo circa s'era posto alla grammatica; ed accompagnai con la epistoluzza greca, quattro squarci delle mie quattro traduzioni, per saggio degli studi fatti sin a quel punto. Ricevuto cosí da lui un po' di lode, mi confortai a proseguite sempre più caldamente. E mi posi all'ottimo esercizio, che tanto mi avea insegnato sì il latino che l'italiano, di imparare delle centinaia di versi di più autori a memoria.
         Ma in quello stess'anno '98, mi toccò in sorte di ricevere e scrivere qualche lettera da persona ben diversa in tutto dall'amico Caluso. Era, come dissi, e come ognun sa, invasa la Lombardia dai francesi, fin dal '96, il Piemonte vacillava, una trista tregua sotto nome di pace avea fatta l'imperatore a Campoformio col dittator francese; il papa era traballato, ed occupata e schiavi-democrizzata la sua Roma; tutto d'ogni intorno spirava miseria, indegnazione, ed orrore. Era allora ambasciatore di Francia in Torino, un Ginguené, della classe, o mestiere dei letterati in Parigi, il quale lavorava in Torino sordamente alla sublime impresa di rovesciare un re vinto e disarmato. Di costui ricevei inaspettatamente una lettera, con mio grande stupore, e rammarico; sì la proposta che la risposta; e la replica e controreplica inserisco qui a guisa di nota [Appendice V], affinché sempre più si veda, chi ne volesse dubitare, quanto siano state e pure e rette le mie intenzioni ed azioni in tutte codeste rivoluzioni di schiaveria.
         Pare dall'andamento di queste due lettere del Ginguené che avendo egli ordine dai suoi despoti di asservire alla libertà francese il Piemonte, e cercando di sì fatta iniquità dei vili ministri, egli mi volesse tastar me per vedere se mi potevan anco disonorare, come mi aveano impoverito. Ma i beni mondani stanno a posta della tirannide, e l'onore sta a posta di ciascuno individuo che ne sia possessore. Quindi dopo la mia seconda replica non ne sentii più parlare; ma credo che costui si servisse poi della notizia che l'abate Caluso gli diede per parte mia, circa alle balle mie di libri non pubblicati, per farne ricerca, e valersene come in appresso si vedrà. La nota dei miei libri ch'egli dicea volermi far restituire e ch'io credo che già tutti se li fosse appropriati a sé, sarebbe risibile se io qui la mostrassi. Ella era di circa cento volumi di tutti gli scarti delle più infime opere italiane; e questa era la mia raccolta lasciata in Parigi sei anni prima, di circa mille seicento volumi almeno; scelti tutti i classici italiani, e latini. Ma nessuno se ne stupirebbe di una tal nota, quando sapesse ch'ella dovea essere una restituzione francese.

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Ultimo aggiornamento: 20 ottobre, 1999