Vittorio Alfieri

La Vita scritta da esso

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CAPITOLO DECIMOSESTO
Secondo viaggio in Alsazia, dove mi fisso.
Ideativi, e stesi i due
Bruti, e l'Abele. Studi caldamente ripigliati.

         In questo frattempo era ripartita di Bologna la mia donna, ed 1785 avviatasi verso Parigi nel mese di aprile. Non volendo essa tornare a Roma, in nessun altro luogo ella potea più convenientemente fissarsi che in Francia, dove avea parenti, aderenze, e interessi. Trattenutasi in Parigi sino all'agosto inoltrato, ella ritornò in Alsazia in quella stessa villa dove c'eramo incontrati l'anno innanzi. Onde io ai primi di settembre con infinita gioia e premura mi vi avviai per la solita strada dell'Alpi tirolesi. Ma l'aver perduto l'amico di Siena, e l'essersi oramai la mia donna traspiantata fuori d'Italia, mi fece anche risolvere di non dimorarci più neppur io. E benché per allora né volessi, né convenisse ch'io mi fissassi a dimora dove ella, io cercai pure di starle il meno lontano ch'io potessi, e di toglierci almeno l'Alpi di mezzo. Feci dunque muovere anche tutta la mia cavalleria, che sana e salva arrivò un mese dopo di me in Alsazia, dove allora ebbi raccolto ogni mia cosa, fuorché i libri, che i più gli avea lasciati in Roma. Ma la mia felicità derivata da questa seconda riunione non durò né potea durare altro che due mesi in circa, dovendosi la mia donna restituire in Parigi nell'inverno. Nel decembre l'accompagnai sino a Strasborgo, dove, con mio sommo dolore costretto di lasciarla, me ne separai per la terza volta; ella continuò la sua strada per Parigi, io ritornai nella nostra villa. Ancorché io fossi scontento, pure la mia afflizione riusciva ora assai minore della passata, trovandoci più vicini, Potendo senza ostacolo, e senza pericolo di nuocerle dare una scorsa per vederla, ed avendo in somma fra noi la certezza di rivederci nella prossima estate. Tutte queste speranze mi posero un tal balsamo in corpo, e mi rischiarirono talmente l'intelletto, che di bel nuovo intieramente mi diedi in braccio alle Muse. In quel solo inverno, nella quiete e libertà della villa, feci assai più lavoro che non avessi fatto mai in così breve spazio di tempo; cotanto la continuità del pensare ad una stessa cosa, e a non aver divagazioni né dispiaceri, abbreviandoci l'ore ad un tempo ce le moltiplica. Appena tornato nel mio ritiro, da prima finii di stendere l'Agide, che fin dal decembre precedente avea cominciato in Pisa; poi infastidito del lavoro (cosa che non mi accadeva mai nel creare) non lo avea più potuto proseguire. Finitolo ora felicemente, senza pigliar più respiro ste si in quello stesso decembre la Sofonisba e la Mirra. Quindi in gennaio finii interamente di stendere il secondo e terzo libro Del principe e delle lettere; ideai e stesi il dialogo Della virtù sconosciuta; tributo che da gran tempo mi rimproverava di non aver pagato alla adorata memoria del degnissimo amico Gori; e ideai inoltre, e distesi tutta, e verseggiai la parte lirica dell'Abele tramelogedia; genere di cui mi occorrerà di parlare in appresso, se avrò vita e mente e mezzi da effettuare quanto mi propongo di eseguire. Postomi quindi al far versi, non abbandonai più quel mio poemetto ch'io non l'avessi interamente terminato col quarto canto; e quindi dettati, ricorretti, e riannestati insieme i tre altri, che nello spazio di dieci anni essendo stati scritti a pezzi, aveano (e forse tuttora serbano) un non so che di sconnesso; il che tra i miei molti difetti non suole però avvenirmi nelle altre composizioni. Appena era finito il poema, mi accadde che in una delle tante e sempre a me graditissime lettere della mia donna, essa come a caso mi accennava di aver assistito in teatro ad una recita del Bruto di Voltaire, e che codesta tragedia le era sommamente piaciuta. Io, che l'aveva veduta recitare forse dieci anni prima, e che non me ne ricordava punto, riempiutomi istantaneamente di una rabida e disdegnosa emulazione sì il cuor che la mente, dissi fra me: "Che Bruti, che Bruti di un Voltaire? io ne farò dei Bruti, e li farò tutt'e due: il tempo dimostrerà poi, se tali soggetti di tragedia si addicessero meglio a me, o ad un francese nato plebeo, e sottoscrittosi nelle sue firme per lo spazio di settanta e più anni: Voltaire gentiluomo ordinario del re". Né altro dissi, né di questo toccai pur parola nel rispondere alla mia donna; ma subitamente d'un lampo ideai ad un parto i due Bruti, quali poi li ho eseguiti. In questo modo uscii per la terza volta dal mio proposito di non far più tragedie; e da dodici ch'essere doveano, son arrivate a diciannove. Su l'ultimo Bruto rinnovai poi il giuramento ad Apolline più solenne ch'io non l'avessi fatto mai, e questo io son quasi certo di non l'aver più ad infrangere. Gli anni che mi si vanno ammontando sul tergo me n'entrano quasi mallevadori; e le tante altre cose di altro genere che mi restan da fare, se pure farle potrò e saprò.
         Dopo aver passati cinque e più mesi in villa in un continuo bollore di mente, poiché appena sveglio la mattina per tempissimo io scriveva cinque o sei pagine alla mia donna; poi lavorava fino alle due o le tre dopo mezzogiorno; poi andando o a cavallo, o in biroccio per un par d'ore, in vece di divagarmi e riposarmi, pel continuo pensare ora a quel verso, ora a quel personaggio, ora ad altro, mi affaticava assai più l'intelletto che non lo sollevassi; mi ritrovai perciò nell'aprile una fierissima podagra a ridosso, la quale m'inchiodò per la prima volta in letto, e mi vi tenne immobile e addoloratissimo per quindici giorni almeno, e pose così una spiacevole interruzione ai miei studi sì caldamente avviati. Ma troppo avea impreso, di vivere solitario e occupato, né ci avrei potuto resistere senza i cavalli che tanto mi sforzavano a pigliar l'aria aperta, e far moto. Ma anche coi cavalli, non la potei durare quella perpetua incessante tensione delle fibre del cervello; e se la gotta, più savia di me, non mi vi facea dar tregua, avrei finito o col delirar d'intelletto, o col soccombere delle forze fisiche, sendomi ridotto a quasi nulla cibarmi, e pochissimo dormire. Nel maggio tuttavia, mercè la gran dieta, e il riposo, mi trovai bastantemente riavuto di forze; ma alcune circostanze particolari avendo impedito per allora la mia donna di venire in villa, e dovendo differire la consolazione unica per me, del vederla; entrai in un turbamento di spirito, che mi offuscò per più di tre mesi la mente, talché poco e male lavorai, fino al fin d'agosto, quanto al riapparire dell'aspettata donna tutti questi miei mali di accesa e scontenta fantasia sparirono.
         Appena riavutomi di mente e di corpo, dati all'oblio i dolori di questa lontananza, che per mia buona sorte fu l'ultima, tosto mi rimisi al lavoro con ardore e furore. A segno che verso il mezzo decembre, che si partì poi insieme per Parigi, io mi trovai aver verseggiate l'Agide, la Sofonisba, e la Mirra; mi trovai stesi i due Bruti; e scritta la prima satira. Questo nuovo genere, di cui avea già ideato e distribuiti i soggetti fin da nove anni prima in Firenze, l'aveva anche tentato allora in esecuzione; ma scarso ancora troppo di lingua e di padronanza di rima, mi ci era rotto le corna; talché dubbio del potervi riuscire quanto allo stile e verseggiatura, ne avea quasi deposto il pensiere. Ma il raggio vivificante della donna mia, mi ebbe allora restituito l'ardire e baldanza necessari da ciò; e postomi al tentativo, mi vi parve esser riuscito, a principiare almeno l'aringo, se non a percorrerlo. E così pure, avendo prima di partir per Parigi fatta una rassegna delle mie rime, e dettate e limate gran parte, me ne trovai in buon numero, e forse troppe.

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CAPITOLO DECIMOSETTIMO
Viaggio a Parigi. Ritorno in Alsazia,
dopo aver fissato col Didot in Parigi la stampa di tutte le diciannove tragedie.
Malattia fierissima in Alsazia, dove l'amico Caluso era venuto per passare l'estate con noi.

         Dopo quattordici e più mesi non interrotti di soggiorno in Alsazia, partii insieme con la signora alla volta di Parigi; luogo a me per natura sua e mia sempre spiacevolissimo, ma che mi si facea allor paradiso poiché lo abitava la mia donna. Tuttavia, essendo incerto se vi rimarrei lungamente, lasciai gli amati cavalli nella villa di Alsazia, e munito soltanto di alcuni libri, e di tutti i miei scritti mi ritrovai in Parigi. Alla prima, il rumore e la puzza di quel caos dopo una sì lunga villeggiatura, mi rattristarono assai. La combinazione poi del ritrovarmi alloggiato assai lontano dalla mia donna, oltre mill'altre cose che di quella Babilonia mi dispiaceano sommamente, mi avrebbero fatto ripartirne ben tosto se io avessi vissuto in me stesso e per me; ma ciò non essendo da tanti anni oramai, con molta malinconia mi adattai alla necessità; e cercai di cavarne almeno qualche utile coll'impararvi qualche cosa. Ma quanto all'arte del verseggiare non v'essendo in Parigi nessuno dei letterati che intenda più che mediocremente la lingua nostra, non c'era niente da impararvi per me; quanto poi all'arte drammatica in massa, ancorché i francesi vi si accordino essi stessi esclusivamente il primato, tuttavia i miei principi non essendo gli stessi che han praticato i loro autori tragici, molta e troppa flemma mi ci volea per sentirmi dettare magistralmente continue sentenze, di cui molte vere, ma assai male eseguite da essi. Pure, essendo il mio metodo di poco contradire, e non mai disputare, e moltissimo e tutti ascoltare, e non credere poi quasiché mai in nessuno; io tanto e tanto imparava da quei ciarlieri la sublime arte del tacere.
         Quel primo soggiorno, di sei e più mesi in Parigi, mi giovò, se non altro, alla salute moltissimo. Prima del mezzo giugno si ripartì per la villa d'Alsazia. Ma intanto stando in Parigi avea verseggiato il Bruto primo, e per un accidente assai comico mi era toccato di rimpasticciare tutta intera la Sofonisba. La volli leggere ad un francese già mio conoscente in Torino, dove aveva soggiornato degli anni; persona intelligente di cose drammatiche; e che più anni prima mi avea ben consigliato sul Filippo, quando glie lo aveva letto in prosa francese, di trasporvi il consiglio dal quarto atto dov'era, nel terzo dove poi è rimasto, e dove nuoce assai meno alla progressione dell'azione, di quel che dianzi nuoceva nel quarto. Sicché leggendo io quella Sofonisba ad un giudice competente, mi immedesimava in lui quant'io più poteva, per argomentare dal di lui contegno più che dai di lui detti, qual fosse il suo schietto parere. Egli mi stava ascoltando senza batter palpebra; ma io, che altresì mi stava ascoltando per due, incominciai da mezzo il second'atto a sentirmi assalire da una certa freddezza, che talmente mi andò crescendo nel terzo ch'io non lo potei pur finire; e preso da un impeto irresistibile la buttai sul fuoco, ché stavamo al camminetto noi due solissimi; e parea che quel fuoco mi fosse come un tacito invito a quella severa e pronta giustizia. L'amico, sorpreso di quell'inaspettata stranezza (stante che io non avea neppur detto una parola fino a quel punto, che l'accennasse neppure), si buttò colle mani su lo scartario per estrarlo dal fuoco, ma io già colle molle che aveva rapidissimamente impugnate, inchiodai sì stizzosamente la povera Sofonisba fra i due o tre pezzi che ardevano, che le convenne ardere anch'essa; né abbandonai, da esperto carnefice, le molle, se non se quando la vidi ben avvampante e abbronzita andarsi sparpagliando su per la gola del camminetto. Questo moto frenetico fu fratello carnale di quello di Madrid contro il povero Elia, ma ne arrossisco assai meno, e mi riuscì d'un qualche utile. Mi confermai allora nell'opinione ch'io aveva più volte concepita su quel soggetto di tragedia; ch'egli era sgradito, traditore, appresentante alla prima un falso aspetto tragico, e non lo mantenendo poi saldo; e feci quasi proposito di non vi pensar altrimenti. Ma i propositi d'autore son come gli sdegni materni. Mi ricadde due mesi dopo quell'infelice prosa della giustiziata Sofonisba fra mani, e rilettala, trovandovi pure qualche cosa di buono, la ripigliai a verseggiare, abbreviandola assai, e tentando con lo stile di supplire e mascherare le mende inerenti al soggetto. E benché io sapessi, e sappia, ch'ella non era né sarebbe mai tragedia di prim'ordine, non ebbi con tutto ciò il coraggio di porla da parte, perché era il solo soggetto in cui si potessero opportunamente sviluppare gli altri sensi delle sublimi Cartagine e Roma. Onde di varie scene di quella debole tragedia, io mi pregio non poco.
         Ma la totalità delle mie tragedie parendomi a quell'epoca essersi fatta oramai cosa matura per una stampa generale, mi proposi allora di voler almeno cavar questo frutto dal mio soggiorno che sarei per fissare d'allora in poi in Parigi, di farne una edizione bella, accurata, a bell'agio, senza risparmio nessuno né di spesa né di fatica. Prima dunque di decidermi per questo o per quello degli stampatori volli fare una prova dei caratteri, e proti, e maneggi tipografici parigini, trattandosi di una lingua forestiera. Trovandomi sin dall'anno innanzi dettato e corretto il Panegirico a Traiano, lo stampai a quest'effetto, ed essendo cosa breve, in un mesetto fu terminato. E saviamente feci di tentar quella prova, avendo poi cambiato lo stampatore assai in meglio per tutti i versi. Onde, accordatomi con Didot Maggiore, uomo intendentissimo ed appassionato dell'arte sua, ed oltre ciò accurato molto, e sufficientemente esperto nella lingua italiana, io cominciai sin dal maggio di quell'anno 1787 a stampare il primo volume delle tragedie. Ma incominciai per impegnare me e lui, più che per altro; sapendo benissimo, che dovendo io partire nel giugno per trattenermi in Alsazia fino all'inverno, la stampa in quel frattempo non progredirebbe gran fatto; ancorché si prendessero le misure per farmi avere settimanalmente le prove da correggersi in Alsazia, e rimandarsi in Parigi. In questo modo io mi legai da me stesso doppiamente a dover ritornare l'inverno in Parigi, cosa alla quale sentiva ripugnanza non poca; volli perciò, che mi vi dovessero costringere parimente e la gloria e l'amore. Lasciai al Didot il manoscritto delle prose che precedono, e quello delle tre prime tragedie, ch'io stupidamente credei ridotte, limate, e accurate quanto potessero essere; me n'avvidi poi, quando fu posto mano a stamparle, quanto io mi fossi ingannato.
         Oltre l'amor della quiete, l'amenità della villa, l'essere quivi più lungamente con la mia donna, alloggiato sotto lo stesso tetto; l'avervi i miei libri, e gli amati cavalli; tutti questi oggetti erano caldissimi sproni al farmi ritornare con delizia in Alsazia. Ma un'altra ragione vi si aggiunse anche allora, che me ne dovea duplicare il diletto. L'amico Caluso mi aveva insperanzito, ch'egli verrebbe in Alsazia a passar quell'estate con noi; ed era questi l'ottimo degli uomini da me conosciuti, e 1'ultimo amico rimastomi dopo la morte del Gori. Dopo alcune settimane del nostro arrivo in Alsazia, verso il fin di luglio la mia donna ed io partimmo dunque espressamente per andare ad incontrare l'amico fino a Ginevra; indi ce ne ritornammo con esso per tutta la Svizzera sino alla nostra villa presso a Colmar; dove ebbi allora riunite tutte le mie più care cose. Il primo discorso ch'io ebbi a tener con l'amico, fu, oltre ogni mia aspettazione, di affari domestici. Egli avea avuto dalla mia ottima madre un'incombenza assai strana, visto l'età mia, ed occupazioni, e il pensare mio. Quest'era una proposizione di matrimonio. Egli me la fece ridendo; ed io pure ridendo gliela negai: e si combinò la risposta da farsi alla mia amorosissima madre, che ci scusasse ambedue. Ma per dare un saggio dell'affetto e semplice costume di quella rispettabil donna, porrò qui in fondo di pagina la di lei lettera su questo soggetto. [Appendice II]
         Finito il trattato del matrimonio, ci sfogammo reciprocamente a cuore, l'amico ed io, coi discorsi delle amatissime lettere. Io mi sentiva veramente necessità di conversare su l'arte, di parlar italiano, e di cose italiane; tutte privazioni che da due anni mi si faceano sentire non poco; e ciò con assai grande mio scapito, nell'arte principalmente del verseggiare. E certo, se questi ultimi famosi uomini francesi, come Voltaire e Rousseau, avessero dovuto gran parte della loro vita andarsene erranti in diversi paesi in cui la loro lingua fosse stata ignota o negletta, e non avessero neppur trovato con chi parlarla, essi non avrebbero forse avuto la imperturbabilità e la tenace costanza di scrivere per semplice amor dell'arte e per mero sfogo, come faceva io, ed ho fatto poi per tanti anni consecutivi, costretto dalle circostanze di vivere e conversare sempre con barbari; che tale si può francamente denominare tutta l'Europa da noi, quanto alla letteratura italiana; come lo è pur troppo tuttavia, e non poco, una gran parte della stessa Italia, sui nescia. Che se si vuole anche per gl'italiani scrivere egregiamente, e che si tentino versi in cui spiri l'arte del Petrarca e di Dante, chi oramai in Italia, chi è che veramente e legga ed intenda e gusti e vivamente senta Dante e il Petrarca? Uno in mille, a dir molto. Con tutto ciò, io immobile nella persuasione del vero e del bello, antepongo d'assai (ed afferro ogni occasione di far tal protesta) di gran lunga antepongo di scrivere in una lingua quasi che morta, e per un popolo morto, e di vedermi anche sepolto prima di morire, allo scrivere in codeste lingue sorde e mute, francese ed inglese, ancorché dai loro cannoni ed eserciti elle si vadano ponendo in moda. Piuttosto versi italiani (purché ben torniti) i quali rimangano per ora ignorati, non intesi, o scherniti; che non versi francesi mai, od inglesi, o d'altro simil gergo prepotente, quando anche ne dovessi immediatamente esser letto, applaudito, ed ammirato da tutti. Troppa è la differenza dal suonare la nobile e soave arpa ai propri orecchi, ancorché nessuno ti ascolti, al suonare la vil cornamusa, ancorché un volgo intero di orecchiuti ascoltanti ti faccia pur plauso solenne.
         Torno all'amico, con cui di questi e simili sfoghi mi occorreva spesso di fare, il che mi riusciva di sommo sollievo. Ma poco durò quella mia nuova ed intera felicità, di passare quei beati giorni tra così amate e degne persone. Un accidente occorso all'amico venne a sturbare la nostra quiete. Cavalcando egli meco fece una caduta, in cui si slogò il pugno. Da prima credei rotto il braccio, e anche peggio; onde me ne rimescolai fortemente, e tosto al di lui male si aggiunse il mio proprio, ma di gran lunga maggiore. Mi assalì due giorni dopo una dissenteria ferocissima, che andò sì ostinatamente crescendo, che al decimoquinto giorno, non essendo più entrato nel mio stomaco altro che acqua gelata, e le pestilenziali evacuazioni oltrepassando il numero di ottanta nelle ventiquattro ore, mi ritrovai ridotto presso che in fine, senza pure aver quasi punto febbre. La mancanza del calor naturale era tale, che certe fomente di vino aromatizzato che mi facevano su lo stomaco e ventricolo per rendere una qualche attività a quelle parti spossate, ancor che esse fomente fossero bollenti a segno che i famigliari nel maneggiarle vi si pelassero le mani, ed io il corpo nell'applicarmele, con tutto ciò che mi parean sempre pochissimo calde, e d'altro non mi doleva che della loro freddezza. Non v'era più vita nel mio individuo, altro che nel capo, il quale indebolito sì, ma chiarissimo rimanevami. Dopo i quindici giorni il male allentò e adagio adagio retrocedendo, verso il trentesimo giorno le evacuazioni erano però ancora oltre venti nelle ventiquattro ore. Mi trovai finalmente libero dopo sei settimane, ma ischeletrito e annichilato in tal modo, che per altre quattro settimane in circa, quando mi si dovea rifar il letto, mi levavano di peso per traspormi in un altro finché fossi riportato nel primo.
         Io veramente non credei di poterla superare. Doleami assai di morire, lasciando la mia donna, l'amico, ed appena per così dire abbozzata quella gloria, per cui da dieci e più anni io aveva tanto delirato, e sudato; che io benissimo sentiva che di tutti quegli scritti ch'io lascierei in quel punto, nessuno era fatto e finito come mi parea di poterlo fare e finire, avendone il dovuto tempo. Mi confortava per altra parte non poco, giacché morir pur dovea, di morire almen libero, e fra le due più amate persone ch'io m'avessi, di cui mi pareva d'avere e di meritare l'amore e la stima, e di morir finalmente innanzi di aver provato tanti altri mali sì fisici che morali, a cui si va incontro invecchiando. Io aveva comunicato all'amico tutte le mie intenzioni circa alla stampa già avviata delle tragedie, e le avrebbe fatte continuare egli in mia vece. Mi sono poi ben convinto in appresso, quando io fui all'atto pratico di quella stampa che durò poi quasi tre anni, che atteso l'assiduo, e lunghissimo, e tediosissimo lavoro che mi vi convenne di farvi sopra le prove, se poco era il fatto sino a quel punto, ove fossi mancato io, quello che lasciava sarebbe veramente stato un nulla, ed ogni fatica precedente a quella dello stampare era intieramente perduta, se quest'ultima non sopravveniva per convalidarla. Cotanto il colorito e la lima si fanno parte assolutamente integrante d'ogni qualunque poesia.
         Piacque al destino, ch'io scampassi per allora, e che le mie tragedie ricevessero da me poi quel compimento ch'io era in grado di dar loro; e di cui forse (s'elle hanno gratitudine) potranno contraccambiarmi col tempo non lasciando totalmente perire il mio nome.
         Guarii, come dissi, ma a stento; e rimasi così indebolito anche della mente, che tutte le prove delle tre prime tragedie, che successivamente nello spazio di circa quattro mesi in quell'anno mi passarono sotto gli occhi, non ricevettero da me né la decima parte delle emendazioni ch'avrei dovuto farvi. Il che fu poi in gran parte cagione, che due anni dopo, finito di stamparle tutte, ricominciai da capo a ristampar quelle prime tre; a solo fine di soddisfare all'arte e a me stesso; e forse a me solo; che pochissimi al certo vorranno o sapranno badare alle mutazíoni fattevi quanto allo stile; le quali, ciascuna per sé sono inezie; tutte insieme, son molte e importanti, se non per ora, col tempo.

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CAPITOLO DECIMOTTAVO
Soggiorno di tre e più anni in Parigi. Stampa di tutte le tragedie.
Stampa nel tempo stesso di molte altre opere in Kehl

         Appena io cominciava alquanto a riavermi, che l'amico (anch'egli molto prima guarito della slogatura del pugno), avendo delle occupazioni letterarie in Torino, dove era segretario dell'Accademia delle Scienze, volle far una scorsa a Strasborgo prima di ripartir per l'Italia. Io, benché ancora infermiccio, per goder più lungamente di lui ce lo volli accompagnare. Ed anche la signora ci venne, e fu nell'ottobre. Si andò fra l'altre cose a vedere la famosa tipografia stabilita in Kehl grandiosamente dal signor di Beaumarchais, coi caratteri di Baskerville comprati da esso, e destinato il tutto alle molte e varie edizioni di tutte l'opere di Voltaire. La bellezza di quei caratteri, la diligenza degli artefici, e l'opportunità che mi somministrava l'essere io molto conoscente del suddetto Beaumarchais dimorante in Parigi, m'invogliarono di prevalermene per colà stampare tutte l'altre mie opere che tragedie non erano; ed alle quali avrebbero potuto essere d'intoppo le solite stitichezze censorie, le quali esistevano allora anche in Francia, e non picciole. Sempre ha ripugnato moltissimo all'indole mia di dover subire revisione per poi stampare. Non già ch'io creda, né voglia, che s'abbia a stampare ogni cosa; ma per me ho adottata nell'intero la legge d'Inghilterra, ed a quella mi attengo; né fo mai nessuno scritto, che non potesse liberissimarnente e senza biasimo nessuno dell'autore essere stampato nella beata e veramente sola libera Inghilterra. Opinioni, quante se ne vuole; individui offesi, nessuni; costumi, rispettati sempre. Queste sono state, e saran sempre le sole mie leggi; né altre se ne può ragionevolmente ammettere, né rispettare.
         Ottenuta io dunque direttamente dal Beaumarchais di Parigi la permissione di prevalermi in Kehl della di lui ammirabile stamperia, con quell'occasione d'esservi capitato io stesso, lasciai a que’ suoi ministri il manoscritto delle mie cinque odi, che intitolate avea L'America libera, affine che quest'operetta mi servisse come di saggio. Ed in fatti ne riuscì così bella e corretta la stampa, ch'io poi per due e più anni consecutivi vi andai successivamente stampando tutte quelle altre opere, che si son viste o che si vedranno. E le prove me ne venivano settimanalmente spedite a rivedere in Parigi; ed io continuamente andava sempre mutando e rimutando i bei versi interi; a ciò invitandomi, oltre la smisurata voglia del far meglio, anche la singolare compiacenza e docilità di quei proti di Kehl, dei quali non mai abbastanza mi potrei lodare; diversissimi in ciò dai proti, compositori, e torcolieri del Didot in Parigi, che mi hanno sì lungamente fatto fare il sangue verde, e cotanto mi hanno taglieggiato nelle borsa, facendomi a peso d'oro arbitrariamente ricomprare ogni mutazion di parola ch'io facessi; tal che se si suole talvolta nella vita ottenere ricompensa dell'emendarsi, io ho dovuto all'incontro pagare per emendare i miei spropositi, o per barattarli.
         Si tornò d'Argentina nella villa di Colmar, e pochi giorni dopo, verso il finir d'ottobre, l'amico se ne partì per Torino, lasciandomi sempre più desiderio di sé, e della sua dotta e piacevole compagnia. Si stette ancora tutto il novembre, e parte del decembre in villa, nel qual tempo mi andai rimettendo adagino della grande scossa avuta negli intestini; e così mezzo impotente tanto verseggiai alla meglio, o alla peggio, il Bruto secondo che dovea esser l'ultima tragedia ch'io mai farei; e quindi dovendo venir l'ultima a stamparsi, non mi potea mancar poi tempo di limarla e ridurla a bene.
         Arrivati in Parigi, dove atteso l'impegno della intrapresa stampa, era indispensabile ch'io mi fissassi a dimora, cercai casa, ed ebbi la sorte di trovarne una molto lieta e tranquilla, posta isolata sul baluardo nuovo nel sobborgo di San-Germano, in cima d'una strada detta del Monte Parnasso luogo di bellissima vista, d'ottima aria, e solitario come in una villa; compagno della villa di Roma ch'io aveva abitata due anni alle Terme. Si portò con noi a Parigi tutti i cavalli, di cui presso che metà cedei alla signora, sì, pel di lei servizio, che per diminuirne a me la troppa spesa e divagazione. Così collocatomi, a bell'agio potei attendere a quella difficile e noiosa briga dello stampare; occupazione in cui rimasi sepolto per quasi tre anni consecutivi.
         Venuto intanto il febbraio del 1788, la mia donna ricevé la nuova della morte del di lei marito seguita in Roma, dove egli da più di due anni si era ritirato, lasciando Firenze. E benché questa morte fosse preveduta già da un pezzo, attesi i replicati accidenti che da più mesi l'aveano percosso; e lasciasse la vedova interamente libera di sé, e non venisse a perdere nel marito un amico; con tutto ciò io fui con mia maraviglia testimonio oculare, ch'ella ne fu non poco compunta, e di dolore certamente non finto, né esagerato; che nessun'arte mai entrava in quella schiettissima ed impareggiabile indole. E certo quel suo marito, malgrado la molta disparità degli anni, avrebbe trovato in lei un'ottima compagna, ed un'amica se non un'amante donna, soltanto che non l'avesse esacerbata con le continue acerbe e rozze ed ebre maniere. Io doveva questa testimonianza alla pura verità.
         Continuata tutto l'88 la stampa, e vedendomi oramai al 1789 fine del quarto volume, io stesi allora il mio parere su tutte le tragedie, per poi inserirlo in fine dell'edizione. Mi trovai in quell'anno stesso finito di stampare in Kehl le odi, il dialogo, l'Etruria e le Rime. Onde ostinato sempre più nel lavoro, e per vedermene una volta libero, nel susseguente anno continuai con maggior fervore, e verso l'agosto il tutto fu terminato, sì in Parigi i sei volumi delle tragedie, che in Kehl le due prose, del Principe e delle lettere, e della Tirannide, che fu l'ultima cosa ch'io vi stampassi. Ed essendomi in quell'anno tornato sotto gli occhi il Panegirico prima stampato nell'87, e trovatovi molte piccole cose che potrei emendare, lo volli ristampare; anche per aver tutte le opere egualmente ben stampate. Con gli stessi caratteri ed opera del Didot lo feci dunque eseguire; e v'aggiunsi l'ode di Parigi sbastigliato, fatta per essermi trovato testimonio oculare del principio di quei torbidi, e tutto il volumetto terminai con una favoluccia, adattata alle correnti peripezie. E così, vuotato il sacco, mi tacqui; nessuna altra mia opera avendo tralasciato di stampare, fuorché la tramelogedia d'Abele, perché in questo nuovo genere facea disegno di eseguirne varie altre; e la traduzion di Sallustio, perché non mi pensava mai di entrare nel disastroso e inestricabile labirinto del traduttore.

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CAPITOLO DECIMONONO
Principio dei tumulti di Francia, i quali sturbandomi
in più maniere, di autore mi trasformano in ciarlatore.
Opinione mia sulle cose presenti e future di questo regno.

         Dall'aprile dell'anno 1789 in appresso, io era vissuto in molte angustie d'animo, temendo ogni giorno che un qualche di quei tanti tumulti che insorgevano ogni giorno in Parigi dopo la convocazione degli Stati Generali, non mi impedisse di terminare tutte quelle mie edizioni tratte quasi al fine, e che non dovessi dopo tante e sì improbe spese e fatiche affondare alla vista del porto. Mi affrettava quanto più poteva; ma così non facevano gli artefici della tipografia del Didot, che tutti travestitisi in politici e liberi uomini, le giornate intere si consumavano a leggere gazzette e far leggi, in vece di comporre, correggere, e tirare le dovute stampe. Credei d'impazzarvi di rimbalzo. Fu dunque immensa la mia soddisfazione, quando pure arrivò quel giorno, in cui finite, imballate, e spedite sì in Italia che altrove, furono le tanto sudate tragedie. Ma non fu lunga quella contentezza, perché le cose andando sempre peggio, scemando ogni giorno la sicurezza e la quiete in questa Babilonia, e accrescendosi ogni giorno il dubbio, e i sinistri presagi per l'avvenire, chi ci ha che fare con questi scimiotti, come disgraziatamente siamo nel caso sì la mia donna che io, è costretto di temer sempre, non potendo mai finir bene.
         Io dunque oramai da più d'un anno vo tacitamente vedendo e osservando il progresso di tutti i lagrimevoli effetti della dotta imperizia di questa nazione, che di tutto può sufficientemente chiacchierare, ma nulla può mai condurre a buon esito, perché nulla intende il maneggio degli uomini pratico; come acutamente osservò già e disse il nostro profeta politico, Machiavelli. Laonde io addolorato profondamente, si perché vedo continuamente la sacra e sublime causa della libertà in tal modo tradita, scambiata, e posta in discredito da questi semifilosofi; stomacato del vedere ogni giorno tanti mezzi lumi, tanti mezzi delitti, e nulla in somma d'intero se non se l'imperizia d'ogni parte; atterrito finalmente dal vedere la prepotenza militare, e la licenza e insolenza avvocatesca posate stupidamente per basi di libertà; io null'altro oramai desidererei, che di poter uscire per sempre di questo fetente spedale, che riunisce gli incurabili e i pazzi. E già fuor ne sarei, se la miglior parte di me stesso non vi si trovasse disgraziatamente per lei intralciata dalle sue circostanze. Istupidito dunque io pure dal perenne dubitare e temere, da quasi un anno che son finite le tragedie, piuttosto vegetando che vivendo, strascino assai male i miei giorni; ed isterilitomi anche non poco il cervello con quasi tre anni di continuo correggere e stampare, a nessuna lodevole occupazione mi so, né posso rivolgere. Ho intanto ricevuto, e vo ricevendo da molte parti notizia, esservi giunta l'edizione delle mie tragedie; e pare che trovino smercio, e non dispiacciano. Ma siccome le nuove mi sono date da persone piuttosto amiche mie, o benevole, non me ne lusingo gran fatto. Ed in fine mi sono proposto fra me e me, di non accettare né lode, né biasimo, se non mi recano e l'uno e l'altro il loro perché; e voglio dei perché luminosi, che ridondino in utile dell'arte mia e di me. Ma di questi perché pur troppo pochi se ne raccapezza, e nessuno finora me n'è pervenuto. Onde tutto il rimanente reputo per non accaduto. Queste cose, benché io le sapessi già prima benissimo, non mi hanno però fatto mai risparmiare né la fatica, né il tempo, per fare il meglio quant'era in me. Tanto più lode ne riceveranno forse le mie ossa col tempo, poiché io con tale tristo disinganno innanzi agli occhi, ho pure sì ostinatamente persistito a far bene più assai che a far presto, non mi piegando a corteggiare mai altri che il vero.
         Quanto poi alle sei mie diverse opere stampate in Kehl, non voglio pubblicare per ora altro che le due prime, cioè l'America libera, e la Virtù sconosciuta; riserbando l'altre a tempi men burrascosi, ed in cui non mi possa esser data la vile taccia, che non mi par meritare, di aver io fatto coro con i ribaldi, dicendo quel ch'essi dicono, e che pur mai non fanno, né fare saprebbero né potrebbero. Con tutto ciò ho stampate quelle opere, perché l'occasione, come dissi, mi v'invitò; e perché son convinto, che chi lascia dei manoscritti non lascia mai libri, nessun libro essendo veramente fatto e compiuto s'egli non è con somma diligenza stampato, riveduto, e limato sotto il torchio, direi, dall'autore medesimo. Il libro può anche non esser fatto né compito, a dispetto di tutte queste diligenze; pur troppo è così; ma non lo può certo essere veramente, senz'esse.
         Il non aver dunque per ora altro che fare; l'aver molti tristi presentimenti; e il credermi (lo confesserò ingenuamente) di avere pur fatto qualche cosa in questi quattordici anni; mi hanno determinato di scrivere questa mia vita, alla quale per ora fo punto in Parigi, dove l'ho stesa in età di quarantuno e mesi, e ne termino il presente squarcio, che sarà certo il maggiore, il dì 27 maggio dell'anno 1790. Né penso di rileggere più né guardare queste mie ciarle, fin presso agli anni sessanta, se ci arriverò, età in cui avrò certamente terminata la mia carriera letteraria. Ed allora, con quella freddezza maggiore che portano seco i molti anni, rivedrò poi questo scritto, e vi aggiungerò il conto di quei dieci o quindici anni all'incirca, che avrò forse ancora impiegati in comporre, o applicare. Se io verrò ad eseguire i due o tre diversi generi in cui fo disegno di provare le mie ultime forze, aggiungerò allora quegli anni in ciò impiegati, a questa quarta epoca della virilità; se no, nel ripigliare questa mia confession generale, incomincierò da quegli anni miei sterili la quinta epoca; della mia vecchiaia e rimbambimento, la quale, se punto avrò senno ancora e giudizio, brevissimamente, siccome cosa inutile sotto ogni aspetto, la scriverò.
         Ma se io poi in questo frattempo venissi a morire, che è il più verisimile; io prego fin d'ora un qualche mio benevolo, nelle cui mani venisse a capitar questo scritto, di farne quell'uso che glie ne parrà meglio. S'egli lo stamperà tal quale, vi si vedrà, spero, l'impeto della veracità e della fretta ad un tempo; cose che portan seco del pari la semplicità e l'ineleganza nello stile. Né, per finire la mia vita, quell'amico vi dovrà aggiunger altro di suo, se non se il tempo il luogo ed il modo in cui sarò morto. E quanto alle disposizioni dell'animo mio in quel punto, l'amico potrà accertare arditamente in mio nome il lettore, che troppo conoscendo questo fallace e vuoto mondo, nessuna altra pena avrò provato lasciandolo, se non se quella di abbandonarvi la donna mia; come altresì fin ch'io vivo, in lei sola e per lei sola vivendo oramai, nessun pensiero veramente mi scuote e atterrisce, fuorché il timore di perderla: né d'altra cosa io supplico il cielo, che di farmi uscir primo di queste mondane miserie.
         Ma se poi l'amico qualunque a cui capitasse questo scritto, stimasse bene di arderlo, egli farà anche bene. Soltanto prego, che se diverso da quel ch'io l'ho scritto gli piacesse di farlo pubblico, egli lo raccorcisca e lo muti pure a suo piacimento quanto all'eleganza e lo stile, ma dei fatti non ne aggiunga nessuni, né in verun modo alteri i già descritti da me. Se io, nello stendere questa mia vita, non avessi avuto per primo scopo l'impresa non volgarissima di favellar di me con me stesso, di specchiarmi qual sono in gran parte, e di mostrarmi seminudo a quei pochi che mi voleano o vorranno conoscere veramente; avrei saputo verisimilmente anch'io restringere il sugo, se alcun ve n'ha, di questi miei quarantun anni di vita in due o tre pagine al più, con istudiata brevità ed orgoglioso finto disprezzo di me medesimo taciteggiando. Ma io allora avrei voluto in ciò più assai ostentare A mio ingegno, che non disvelare il mio cuore, e costumi. Siccome dunque all'ingegno mio (o vero o supposto ch'ei sia) ho ritrovato bastante sfogo in tante altre mie opere, in questa mi son compiaciuto di darne uno più semplice, ma non meno importante, al cuor mio, diffusamente a guisa di vecchio su me medesimo, e di rimbalzo su gli uomini quali soglion mostrarsi in privato, chiacchierando.
Firenze, dì 2 maggio 1803.
(Annotazione successiva scritta a Parigi, ndr): Parigi. Letto nel marzo del 1798 per la prima volta alla mia donna

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Ultimo aggiornamento: 20 ottobre, 1999