Come già avvenne nell'ormai
storico Sessantotto, le piazze francesi sono state di nuovo teatro,
negli ultimi tempi, delle più dure rivolte giovanili.
L'ultima riguarda i giovani liceali e universitari che si sono
ribellati al Cpe, quel decreto governativo sul primo impiego che permette alle aziende di
licenziare, senza addurre giustificazioni, i giovani sotto i 26 anni di
età, entro i primi due anni di prova.
Le scene di devastazioni, scontri con la polizia, ferimenti, che i
media hanno diffuso con la consueta, zelante, realistica e trucida dovizia di particolari
lasciano atterriti, confusi e non sembrano allo spettatore il modo più adatto di
incanalare la protesta.
L'uso della violenza per scopi politici delegittima la giustezza dei
fini stessi, di qualsiasi fine.
Tuttavia non si può nascondere che esista, nel cosiddetto mondo
ricco, Europa e Nord America, un nuovo problema, economico, ma prima
ancora umano, esistenziale, che colpisce soprattutto la fascia più
giovane della popolazione: è la condizione di precarietà lavorativa in
cui versano milioni di soggetti che si affacciano al mercato del lavoro.
Giovani con alta scolarizzazione, diplomati e laureati, anche con
ottimi voti e con profili professionali tecnico-scientifici in teoria
appetibili dalle aziende, faticano a trovare lavoro, o, se lo trovano,
si tratta di un lavoro a tempo determinato, spesso non corrispondente
alle aspettative e inadeguato agli studi portati a termine.
Per
giunta, i bassi salari corrisposti non permettono ai giovani di
emanciparsi dalla famiglia di origine e di concepire e realizzare un proprio
progetto esistenziale: comperarsi un'abitazione, sposarsi, fare figli,
godersi il tempo libero, costruirsi una carriera.
È
molto difficile, seguendo i dibattiti televisivi, leggendo i giornali
o persino saggi specifici sull'argomento farsi un'idea meno che
approssimativa delle cause del fenomeno.
Gli stessi esperti, spesso
economisti di chiara fama, avanzano congetture non di rado
contraddittorie.
Ancora maggiore è l'incertezza sui possibili rimedi.
Da cittadino
comune, senza specifiche competenze economiche o sociologiche,
un'opinione me lo sono fatta pure io.
È innegabile che gli ultimi
decenni abbiano visto l'affermarsi di una globalizzazione dell'economia
e dei mercati, che ha creato un immenso serbatoio di manodopera a
disposizione delle aziende.
Chi entra nel mercato del lavoro oggi, non deve misurarsi soltanto con
un mercato interno o tutt'al più con un mercato ristretto tra i Paesi
sviluppati, ma deve competere con una forza lavoro, proveniente dai
Paesi in via di sviluppo, istruita, tecnicamente preparata e per di
più disposta a lavorare a costi più bassi. Un ingegnere di Bangalore
o di Shangai o di Varsavia, per dire, è brillante e produttivo quanto
un collega italiano o francese, ma costa molto meno. Ed è così per
un biologo, un avvocato, un medico, o per qualsiasi altro professionista.
La cosiddetta delocalizzazione permette alle aziende di
scegliere il luogo del pianeta più favorevole alla produzione di
qualsiasi bene o servizio.
Le politiche di liberalizzazione dei
mercati, poi, che promettevano benefici per tutti, stanno portando di
fatto ad un accresciuto divario fra ricchi e poveri.
I top manager delle grandi multinazionali guadagnano cifre
astronomiche (e ingiustificate), mentre i dipendenti delle stesse
vedono ogni anno diminuire il potere di acquisto dei loro salari.
L'economia, il profitto sono diventati un fine, non un mezzo.
Un dirigente è bravo quando "snellisce" la propria azienda,
quando cioè licenzia i dipendenti e questo purtroppo avviene anche
nel caso di utili crescenti.
Ogni operazione di licenziamento viene salutata da un incremento del
valore dei titoli azionari dell'azienda ristrutturata. La Borsa è
diventata il nuovo tempio della società contemporanea; la finanza
conta più della produzione, i quattrini più degli uomini. Il
capitalismo sembra intenzionato a divorare se stesso, come aveva
profetizzato nell'Ottocento Karl Marx.
In Italia la situazione è
resa ancora più grave dal ritardo tecnologico e culturale di molte
piccole e medie imprese a conduzione per lo più familiare,
dall'enorme consistenza del debito pubblico, da inefficienze, da
privilegi e da sprechi di ogni tipo, dalla presenza, in ultima
analisi, di una società ingessata, dove il nepotismo, le
lottizzazioni politiche, le rendite di
posizione, i criteri burocratici, l'amoralità economica fanno premio
sul merito,
È agendo su più leve che, a mio modesto avviso,
si può ridare speranza a quei giovani (e meno giovani), che
attualmente sono esclusi totalmente o parzialmente dal mercato del
lavoro.
Bisogna favorire la giustizia sociale, la meritocrazia, il
dinamismo, l'innovazione. Tutti dobbiamo essere consapevoli di essere
impegnati in una difficile sfida di dimensioni planetarie, che
richiede il massimo sforzo individuale e collettivo, ma dobbiamo anche
essere consci della nostra dignità e dei nostri diritti.
Come
quello di essere aiutati quando si perde il lavoro, di essere assisiti
quando si è ammalati, di essere formati al meglio per avere chanche
migliori.
La chiamano flessibilità, ma rischia di trasformarsi in
un mostro che rende impossibile un'esistenza degna di questo nome.
Costretti a lavori ripetitivi e alienanti, privi di tutele sindacali,
con salari miseri, i precari possono accettare il lavoro a tempo
determinato finché sono molto giovani e possono alternare il lavoro
allo studio. Più avanti negli anni, i lavoratori senza "posto
fisso" rischiano di perdere prospettive, speranze e autostima. La precarietà, l'eccessiva insicurezza sul proprio futuro, riduce la
qualità della vita della maggioranza degli uomini, produce angoscia,
delusione e depressione,
rende impossibile il costituirsi di una comunità umana, mina la
pacifica convivenza fra gli uomini. Gli Stati possono e devono
intervenire per regolare un Mercato non più fisiologico, ma
impazzito.
L'Uomo viene sempre prima del dio Denaro.