Dante Alighieri
LA DIVINA COMMEDIA
INFERNO
sabato 9 aprile, fra le tre e le quattro e le sei del pomeriggio | cerchio IX, zona I: Caina,
traditori dei congiunti zona II: Antenòra, traditori della patria; il fondo è ghiacciato, alimentato dal fiume Cocito |
Caina: Camicion dei Pazzi, Alessandro e
Napoleone degli Alberti, Mordrèt, Focaccia dei Cancellieri, Sassolo Mascheroni. Antenòra: Bocca degli Abati, Buoso da Duera, Tesauro dei Beccheria, Gianni de' Soldanieri, Gano di Maganza, Tebaldello de' Zambrasi, Ugolino della Gherardesca, Ruggieri degli Ubaldini |
Caina, traditori dei congiunti: immersi
nel ghiacio dal quale emergono con la testa; piangono tenendo il capo basso per cui le
loro lacrime si solidificano solo a contatto col ghiaccio; Antenòra, traditori della patria: immersi nel ghiaccio dal quale emergono con la testa; piangono tenendo il capo rivolto in giù, ma le lacrime che sgorgano dagli occhi si ghiacciano subito costringendoli a tenerli sempre chiusi. |
Comincia il canto trigesimosecondo dello 'Nferno. Nel quale l'autore, andando per la Caina, dove nel ghiaccio si puniscono coloro che tradiscono i fratelli e' congiunti, parlando con Camiscion dei Pazzi, n'ode più nominare. E poi, procedendo nell'Antenòra, dove in simil pena si puniscon coloro che tradiscon le lor città, truova Bocca degli Abati, il quale più altri gli nomina dannati in quel luogo; e ultimamente vede il conte Ugolino rodere la testa di dietro all'arcivescovo Ruggieri. |
Sio avessi le rime
aspre e chiocce, come si converrebbe al tristo buco sovra l qual pontan tutte laltre rocce, io premerei di mio concetto il suco più pienamente; ma perchio non labbo, non sanza tema a dicer mi conduco; ché non è impresa da pigliare a gabbo discriver fondo a tutto luniverso, né da lingua che chiami mamma o babbo. Ma quelle donne aiutino il mio verso chaiutaro Anfione a chiuder Tebe, sì che dal fatto il dir non sia diverso. Oh sovra tutte mal creata plebe che stai nel loco onde parlare è duro, mei foste state qui pecore o zebe! Come noi fummo giù nel pozzo scuro sotto i piè del gigante assai più bassi, e io mirava ancora a lalto muro, dicere udimi: «Guarda come passi: va sì, che tu non calchi con le piante le teste de fratei miseri lassi». Per chio mi volsi, e vidimi davante e sotto i piedi un lago che per gelo avea di vetro e non dacqua sembiante. Non fece al corso suo sì grosso velo di verno la Danoia in Osterlicchi, né Tanai là sotto l freddo cielo, comera quivi; che se Tambernicchi vi fosse sù caduto, o Pietrapana, non avria pur da lorlo fatto cricchi. E come a gracidar si sta la rana col muso fuor de lacqua, quando sogna di spigolar sovente la villana; livide, insin là dove appar vergogna eran lombre dolenti ne la ghiaccia, mettendo i denti in nota di cicogna. Ognuna in giù tenea volta la faccia; da bocca il freddo, e da li occhi il cor tristo tra lor testimonianza si procaccia. Quandio mebbi dintorno alquanto visto, volsimi a piedi, e vidi due sì stretti, che l pel del capo avieno insieme misto. «Ditemi, voi che sì strignete i petti», dissio, «chi siete?». E quei piegaro i colli; e poi chebber li visi a me eretti, li occhi lor, cheran pria pur dentro molli, gocciar su per le labbra, e l gelo strinse le lagrime tra essi e riserrolli. Con legno legno spranga mai non cinse forte così; ondei come due becchi cozzaro insieme, tanta ira li vinse. E un chavea perduti ambo li orecchi per la freddura, pur col viso in giùe, disse: «Perché cotanto in noi ti specchi? Se vuoi saper chi son cotesti due, la valle onde Bisenzo si dichina del padre loro Alberto e di lor fue. Dun corpo usciro; e tutta la Caina potrai cercare, e non troverai ombra degna più desser fitta in gelatina; non quelli a cui fu rotto il petto e lombra con esso un colpo per la man dArtù; non Focaccia; non questi che mingombra col capo sì, chi non veggio oltre più, e fu nomato Sassol Mascheroni; se tosco se, ben sai omai chi fu. E perché non mi metti in più sermoni, sappi chi fu il Camiscion de Pazzi; e aspetto Carlin che mi scagioni». Poscia vidio mille visi cagnazzi fatti per freddo; onde mi vien riprezzo, e verrà sempre, de gelati guazzi. E mentre chandavamo inver lo mezzo al quale ogne gravezza si rauna, e io tremava ne letterno rezzo; se voler fu o destino o fortuna, non so; ma, passeggiando tra le teste, forte percossi l piè nel viso ad una. Piangendo mi sgridò: «Perché mi peste? se tu non vieni a crescer la vendetta di Montaperti, perché mi moleste?». E io: «Maestro mio, or qui maspetta, si chio esca dun dubbio per costui; poi mi farai, quantunque vorrai, fretta». Lo duca stette, e io dissi a colui che bestemmiava duramente ancora: «Qual se tu che così rampogni altrui?». «Or tu chi se che vai per lAntenora, percotendo», rispuose, «altrui le gote, sì che, se fossi vivo, troppo fora?». «Vivo son io, e caro esser ti puote», fu mia risposta, «se dimandi fama, chio metta il nome tuo tra laltre note». Ed elli a me: «Del contrario ho io brama. Lèvati quinci e non mi dar più lagna, ché mal sai lusingar per questa lama!». Allor lo presi per la cuticagna, e dissi: «El converrà che tu ti nomi, o che capel qui sù non ti rimagna». Ondelli a me: «Perché tu mi dischiomi, né ti dirò chio sia, né mosterrolti, se mille fiate in sul capo mi tomi». Io avea già i capelli in mano avvolti, e tratto glienavea più duna ciocca, latrando lui con li occhi in giù raccolti, quando un altro gridò: «Che hai tu, Bocca? non ti basta sonar con le mascelle, se tu non latri? qual diavol ti tocca?». «Omai», dissio, «non vo che più favelle, malvagio traditor; cha la tua onta io porterò di te vere novelle». «Va via», rispuose, «e ciò che tu vuoi conta; ma non tacer, se tu di qua entro eschi, di quel chebbe or così la lingua pronta. El piange qui largento de Franceschi: "Io vidi", potrai dir, "quel da Duera là dove i peccatori stanno freschi". Se fossi domandato "Altri chi vera?", tu hai dallato quel di Beccheria di cui segò Fiorenza la gorgiera. Gianni de Soldanier credo che sia più là con Ganellone e Tebaldello, chaprì Faenza quando si dormia». Noi eravam partiti già da ello, chio vidi due ghiacciati in una buca, sì che lun capo a laltro era cappello; e come l pan per fame si manduca, così l sovran li denti a laltro pose là ve l cervel saggiugne con la nuca: non altrimenti Tideo si rose le tempie a Menalippo per disdegno, che quei faceva il teschio e laltre cose. «O tu che mostri per sì bestial segno odio sovra colui che tu ti mangi, dimmi l perché», dissio, «per tal convegno, che se tu a ragion di lui ti piangi, sappiendo chi voi siete e la sua pecca, nel mondo suso ancora io te ne cangi, se quella con chio parlo non si secca». |
3 6 9 12 15 18 21 24 27 30 33 36 39 42 45 48 51 54 57 60 63 66 69 72 75 78 81 84 87 90 93 96 99 102 105 108 111 114 117 120 123 126 129 132 135 139 |
sabato 9 aprile, circa le sei pomeridiane | cerchio IX, zona I, Antenòra:
il fondo è ghiacciato, alimentato dal fiume Cocito; cerchio IX, zona 3, Tolomèa, il fondo è ghiacciato, alimentato dal fiume Cocito. |
Antenòra, Ugolino della Gherardesca, Ruggieri degli Ubaldini; Tolomèa frate Alberigo, Branca d'Oria. | cerchio IX, zona I, Antenòra:
traditori della patria, immersi nel ghiaccio dal quale emergono con la testa; piangono
tenendo il capo rivolto in giù, ma le lacrime che sgorgano dagli occhi si ghiacciano
subito costringendoli a tenerli sempre chiusi; cerchio IX, zona 3, Tolomèa, traditori degli ospiti, immersi nel ghiaccio in posizione supina, per cui le lagrime ristagnano negli occhi e si ghiacciano immediatamente, tanto da impedire l'uscita di altre lacrime, le quali, non trovando sbocco, si riversano all'interno, acuendone il dolore. |
Comincia il canto trigesimoterzo dello 'Nferno. Nel quale l'autore, udita la ragione e 'l modo della morte del conte Ugolino, procedendo nella Ptolomea, truova frate Alberigo, il quale gli dice quivi cader l'anime, parendo qua sù ancora il corpo vivo. |
La bocca sollevò dal
fiero pasto quel peccator, forbendola acapelli del capo chelli avea di retro guasto. Poi cominciò: «Tu vuo chio rinovelli disperato dolor che l cor mi preme già pur pensando, pria chio ne favelli. Ma se le mie parole esser dien seme che frutti infamia al traditor chi rodo, parlar e lagrimar vedrai insieme. Io non so chi tu se né per che modo venuto se qua giù; ma fiorentino mi sembri veramente quandio todo. Tu dei saper chi fui conte Ugolino, e questi è larcivescovo Ruggieri: or ti dirò perché i son tal vicino. Che per leffetto de suo mai pensieri, fidandomi di lui, io fossi preso e poscia morto, dir non è mestieri; però quel che non puoi avere inteso, cioè come la morte mia fu cruda, udirai, e saprai se mha offeso. Breve pertugio dentro da la Muda la qual per me ha l titol de la fame, e che conviene ancor chaltrui si chiuda, mavea mostrato per lo suo forame più lune già, quandio feci l mal sonno che del futuro mi squarciò l velame. Questi pareva a me maestro e donno, cacciando il lupo e lupicini al monte per che i Pisan veder Lucca non ponno. Con cagne magre, studiose e conte Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi savea messi dinanzi da la fronte. In picciol corso mi parieno stanchi lo padre e figli, e con lagute scane mi parea lor veder fender li fianchi. Quando fui desto innanzi la dimane, pianger senti fra l sonno i miei figliuoli cheran con meco, e dimandar del pane. Ben se crudel, se tu già non ti duoli pensando ciò che l mio cor sannunziava; e se non piangi, di che pianger suoli? Già eran desti, e lora sappressava che l cibo ne solea essere addotto, e per suo sogno ciascun dubitava; e io senti chiavar luscio di sotto a lorribile torre; ondio guardai nel viso a mie figliuoi sanza far motto. Io non piangea, sì dentro impetrai: piangevan elli; e Anselmuccio mio disse: "Tu guardi sì, padre! che hai?". Perciò non lacrimai né rispuosio tutto quel giorno né la notte appresso, infin che laltro sol nel mondo uscìo. Come un poco di raggio si fu messo nel doloroso carcere, e io scorsi per quattro visi il mio aspetto stesso, ambo le man per lo dolor mi morsi; ed ei, pensando chio l fessi per voglia di manicar, di subito levorsi e disser: "Padre, assai ci fia men doglia se tu mangi di noi: tu ne vestisti queste misere carni, e tu le spoglia". Quetami allor per non farli più tristi; lo dì e laltro stemmo tutti muti; ahi dura terra, perché non tapristi? Poscia che fummo al quarto dì venuti, Gaddo mi si gittò disteso a piedi, dicendo: "Padre mio, ché non mi aiuti?". Quivi morì; e come tu mi vedi, vidio cascar li tre ad uno ad uno tra l quinto dì e l sesto; ondio mi diedi, già cieco, a brancolar sovra ciascuno, e due dì li chiamai, poi che fur morti. Poscia, più che l dolor, poté l digiuno». Quandebbe detto ciò, con li occhi torti riprese l teschio misero codenti, che furo a losso, come dun can, forti. Ahi Pisa, vituperio de le genti del bel paese là dove l sì suona, poi che i vicini a te punir son lenti, muovasi la Capraia e la Gorgona, e faccian siepe ad Arno in su la foce, sì chelli annieghi in te ogne persona! Ché se l conte Ugolino aveva voce daver tradita te de le castella, non dovei tu i figliuoi porre a tal croce. Innocenti facea letà novella, novella Tebe, Uguiccione e l Brigata e li altri due che l canto suso appella. Noi passammo oltre, là ve la gelata ruvidamente unaltra gente fascia, non volta in giù, ma tutta riversata. Lo pianto stesso lì pianger non lascia, e l duol che truova in su li occhi rintoppo, si volge in entro a far crescer lambascia; ché le lagrime prime fanno groppo, e sì come visiere di cristallo, riempion sotto l ciglio tutto il coppo. E avvegna che, sì come dun callo, per la freddura ciascun sentimento cessato avesse del mio viso stallo, già mi parea sentire alquanto vento: per chio: «Maestro mio, questo chi move? non è qua giù ogne vapore spento?». Ondelli a me: «Avaccio sarai dove di ciò ti farà locchio la risposta, veggendo la cagion che l fiato piove». E un de tristi de la fredda crosta gridò a noi: «O anime crudeli, tanto che data vè lultima posta, levatemi dal viso i duri veli, sì chio sfoghi l duol che l cor mimpregna, un poco, pria che l pianto si raggeli». Per chio a lui: «Se vuo chi ti sovvegna, dimmi chi se, e sio non ti disbrigo, al fondo de la ghiaccia ir mi convegna». Rispuose adunque: «I son frate Alberigo; i son quel da le frutta del mal orto, che qui riprendo dattero per figo». «Oh!», dissio lui, «or se tu ancor morto?». Ed elli a me: «Come l mio corpo stea nel mondo sù, nulla scienza porto. Cotal vantaggio ha questa Tolomea, che spesse volte lanima ci cade innanzi chAtropòs mossa le dea. E perché tu più volentier mi rade le nvetriate lagrime dal volto, sappie che, tosto che lanima trade come fecio, il corpo suo lè tolto da un demonio, che poscia il governa mentre che l tempo suo tutto sia vòlto. Ella ruina in sì fatta cisterna; e forse pare ancor lo corpo suso de lombra che di qua dietro mi verna. Tu l dei saper, se tu vien pur mo giuso: elli è ser Branca Doria, e son più anni poscia passati chel fu sì racchiuso». «Io credo», dissio lui, «che tu minganni; ché Branca Doria non morì unquanche, e mangia e bee e dorme e veste panni». «Nel fosso sù», dissel, «de Malebranche, là dove bolle la tenace pece, non era ancor giunto Michel Zanche, che questi lasciò il diavolo in sua vece nel corpo suo, ed un suo prossimano che l tradimento insieme con lui fece. Ma distendi oggimai in qua la mano; aprimi li occhi». E io non glielapersi; e cortesia fu lui esser villano. Ahi Genovesi, uomini diversi dogne costume e pien dogne magagna, perché non siete voi del mondo spersi? Ché col peggiore spirto di Romagna trovai di voi un tal, che per sua opra in anima in Cocito già si bagna, e in corpo par vivo ancor di sopra. |
3 6 9 12 15 18 21 24 27 30 33 36 39 42 45 48 51 54 57 60 63 66 69 72 75 78 81 84 87 90 93 96 99 102 105 108 111 114 117 120 123 126 129 132 135 138 141 144 147 150 153 157 |
sabato 9 aprile, circa le sette pomeridiane; dopo il passaggio nell'emisfero australe sono le sette del mattino. | zona IV: Giudecca, distesa ghiacciata
alimentata dal fiume Cocito; Passaggio attraverso la natural burella dall'emisfero boreale a quello australe. |
Lucifero, Giuda, Bruto, Cassio | traditori: coperti interamente dal ghiaccio, da cui traspaiono "come festuca in vetro": alcune sono sdraiate, altre in posizione verticale, altre in piedi o capovolte colla testa all'ingiù ed altre ancora chinate quasi a formare un arco. |
Comincia il canto
trigesimoquarto dello 'Nferno. Nel quale l'autore passa nella Giudecca, e vede il
Lucifero e Giuda Scariotto e altri spiriti; e quindi, appigliatosi Virgilio a' velli di
Lucifero, si cala esce dello 'nferno; e, per luoghi vacui procedendo, perviene a riveder
le stelle. Qui finisce la prima parte della Cantica, over Comedia, di Dante Alighieri, chiamata Inferno. |
«Vexilla regis
prodeunt inferni verso di noi; però dinanzi mira», disse l maestro mio «se tu l discerni». Come quando una grossa nebbia spira, o quando lemisperio nostro annotta, par di lungi un molin che l vento gira, veder mi parve un tal dificio allotta; poi per lo vento mi ristrinsi retro al duca mio; ché non lì era altra grotta. Già era, e con paura il metto in metro, là dove lombre tutte eran coperte, e trasparien come festuca in vetro. Altre sono a giacere; altre stanno erte, quella col capo e quella con le piante; altra, comarco, il volto a piè rinverte. Quando noi fummo fatti tanto avante, chal mio maestro piacque di mostrarmi la creatura chebbe il bel sembiante, dinnanzi mi si tolse e fé restarmi, «Ecco Dite», dicendo, «ed ecco il loco ove convien che di fortezza tarmi». Comio divenni allor gelato e fioco, nol dimandar, lettor, chi non lo scrivo, però chogne parlar sarebbe poco. Io non mori e non rimasi vivo: pensa oggimai per te, shai fior dingegno, qual io divenni, duno e daltro privo. Lo mperador del doloroso regno da mezzo l petto uscìa fuor de la ghiaccia; e più con un gigante io mi convegno, che i giganti non fan con le sue braccia: vedi oggimai quantesser dee quel tutto cha così fatta parte si confaccia. Sel fu sì bel comelli è ora brutto, e contra l suo fattore alzò le ciglia, ben dee da lui proceder ogne lutto. Oh quanto parve a me gran maraviglia quandio vidi tre facce a la sua testa! Luna dinanzi, e quella era vermiglia; laltreran due, che saggiugnieno a questa sovresso l mezzo di ciascuna spalla, e sé giugnieno al loco de la cresta: e la destra parea tra bianca e gialla; la sinistra a vedere era tal, quali vegnon di là onde l Nilo savvalla. Sotto ciascuna uscivan due grandali, quanto si convenia a tanto uccello: vele di mar non vidio mai cotali. Non avean penne, ma di vispistrello era lor modo; e quelle svolazzava, sì che tre venti si movean da ello: quindi Cocito tutto saggelava. Con sei occhi piangea, e per tre menti gocciava l pianto e sanguinosa bava. Da ogne bocca dirompea co denti un peccatore, a guisa di maciulla, sì che tre ne facea così dolenti. A quel dinanzi il mordere era nulla verso l graffiar, che talvolta la schiena rimanea de la pelle tutta brulla. «Quellanima là sù cha maggior pena», disse l maestro, «è Giuda Scariotto, che l capo ha dentro e fuor le gambe mena. De li altri due channo il capo di sotto, quel che pende dal nero ceffo è Bruto: vedi come si storce, e non fa motto!; e laltro è Cassio che par sì membruto. Ma la notte risurge, e oramai è da partir, ché tutto avem veduto». Coma lui piacque, il collo li avvinghiai; ed el prese di tempo e loco poste, e quando lali fuoro aperte assai, appigliò sé a le vellute coste; di vello in vello giù discese poscia tra l folto pelo e le gelate croste. Quando noi fummo là dove la coscia si volge, a punto in sul grosso de lanche, lo duca, con fatica e con angoscia, volse la testa ovelli avea le zanche, e aggrappossi al pel comom che sale, sì che n inferno i credea tornar anche. «Attienti ben, ché per cotali scale», disse l maestro, ansando comuom lasso, «conviensi dipartir da tanto male». Poi uscì fuor per lo fóro dun sasso, e puose me in su lorlo a sedere; appresso porse a me laccorto passo. Io levai li occhi e credetti vedere Lucifero comio lavea lasciato, e vidili le gambe in sù tenere; e sio divenni allora travagliato, la gente grossa il pensi, che non vede qual è quel punto chio avea passato. «Lèvati sù», disse l maestro, «in piede: la via è lunga e l cammino è malvagio, e già il sole a mezza terza riede». Non era camminata di palagio là veravam, ma natural burella chavea mal suolo e di lume disagio. «Prima chio de labisso mi divella, maestro mio», dissio quando fui dritto, «a trarmi derro un poco mi favella: ovè la ghiaccia? e questi comè fitto sì sottosopra? e come, in sì pocora, da sera a mane ha fatto il sol tragitto?». Ed elli a me: «Tu imagini ancora desser di là dal centro, ovio mi presi al pel del vermo reo che l mondo fóra. Di là fosti cotanto quantio scesi; quandio mi volsi, tu passasti l punto al qual si traggon dogne parte i pesi. E se or sotto lemisperio giunto chè contraposto a quel che la gran secca coverchia, e sotto l cui colmo consunto fu luom che nacque e visse sanza pecca: tu hai i piedi in su picciola spera che laltra faccia fa de la Giudecca. Qui è da man, quando di là è sera; e questi, che ne fé scala col pelo, fitto è ancora sì come primera. Da questa parte cadde giù dal cielo; e la terra, che pria di qua si sporse, per paura di lui fé del mar velo, e venne a lemisperio nostro; e forse per fuggir lui lasciò qui loco vòto quella chappar di qua, e sù ricorse». Luogo è là giù da Belzebù remoto tanto quanto la tomba si distende, che non per vista, ma per suono è noto dun ruscelletto che quivi discende per la buca dun sasso, chelli ha roso, col corso chelli avvolge, e poco pende. Lo duca e io per quel cammino ascoso intrammo a ritornar nel chiaro mondo; e sanza cura aver dalcun riposo, salimmo sù, el primo e io secondo, tanto chi vidi de le cose belle che porta l ciel, per un pertugio tondo. E quindi uscimmo a riveder le stelle. |
3 6 9 12 15 18 21 24 27 30 33 36 39 42 45 48 51 54 57 60 63 66 69 72 75 78 81 84 87 90 93 96 99 102 105 108 111 114 117 120 123 126 129 132 135 139 |
© 1997 - by prof. Giuseppe Bonghi
- E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 07 febbraio, 1998