Dante Alighieri
LA DIVINA COMMEDIA
INFERNO
sabato 9 aprile, le 4 del mattino | cerchio VI, eretici, vasta pianura | Virgilio, Dante, Anastasio II Papa | eretici: sepolti nelle arche infuocate secondo la setta di appartenenza - spiegazione di Virgilio sulla disposizione dei dannati |
Comincia il canto decimoprimo dello 'Nferno. Nel quale Virgilio mostra, dal luogo dove è in giù, lo 'nferno esser distinto in tre cerchi, e che gente si punisca in quegli, e assegna la ragione per che quegli, che lasciati hanno, non son nella città di Dite racchiusi. |
In su lestremità
dunalta ripa che facevan gran pietre rotte in cerchio venimmo sopra più crudele stipa; e quivi, per lorribile soperchio del puzzo che l profondo abisso gitta, ci raccostammo, in dietro, ad un coperchio dun grandavello, ovio vidi una scritta che dicea: "Anastasio papa guardo, lo qual trasse Fotin de la via dritta". «Lo nostro scender conviene esser tardo, sì che sausi un poco in prima il senso al tristo fiato; e poi no i fia riguardo». Così l maestro; e io «Alcun compenso», dissi lui, «trova che l tempo non passi perduto». Ed elli: «Vedi cha ciò penso». «Figliuol mio, dentro da cotesti sassi», cominciò poi a dir, «son tre cerchietti di grado in grado, come que che lassi. Tutti son pien di spirti maladetti; ma perché poi ti basti pur la vista, intendi come e perché son costretti. Dogne malizia, chodio in cielo acquista, ingiuria è l fine, ed ogne fin cotale o con forza o con frode altrui contrista. Ma perché frode è de luom proprio male, più spiace a Dio; e però stan di sotto li frodolenti, e più dolor li assale. Di violenti il primo cerchio è tutto; ma perché si fa forza a tre persone, in tre gironi è distinto e costrutto. A Dio, a sé, al prossimo si pòne far forza, dico in loro e in lor cose, come udirai con aperta ragione. Morte per forza e ferute dogliose nel prossimo si danno, e nel suo avere ruine, incendi e tollette dannose; onde omicide e ciascun che mal fiere, guastatori e predon, tutti tormenta lo giron primo per diverse schiere. Puote omo avere in sé man violenta e ne suoi beni; e però nel secondo giron convien che sanza pro si penta qualunque priva sé del vostro mondo, biscazza e fonde la sua facultade, e piange là dovesser de giocondo. Puossi far forza nella deitade, col cor negando e bestemmiando quella, e spregiando natura e sua bontade; e però lo minor giron suggella del segno suo e Soddoma e Caorsa e chi, spregiando Dio col cor, favella. La frode, ondogne coscienza è morsa, pu lomo usare in colui che n lui fida e in quel che fidanza non imborsa. Questo modo di retro par chincida pur lo vinco damor che fa natura; onde nel cerchio secondo sannida ipocresia, lusinghe e chi affattura, falsità, ladroneccio e simonia, ruffian, baratti e simile lordura. Per laltro modo quellamor soblia che fa natura, e quel chè poi aggiunto, di che la fede spezial si cria; onde nel cerchio minore, ovè l punto de luniverso in su che Dite siede, qualunque trade in etterno è consunto». E io: «Maestro, assai chiara procede la tua ragione, e assai ben distingue questo baràtro e l popol che possiede. Ma dimmi: quei de la palude pingue, che mena il vento, e che batte la pioggia, e che sincontran con sì aspre lingue, perché non dentro da la città roggia sono ei puniti, se Dio li ha in ira? e se non li ha, perché sono a tal foggia?». Ed elli a me «Perché tanto delira», disse «lo ngegno tuo da quel che sòle? o ver la mente dove altrove mira? Non ti rimembra di quelle parole con le quai la tua Etica pertratta le tre disposizion che l ciel non vole, incontenenza, malizia e la matta bestialitade? e come incontenenza men Dio offende e men biasimo accatta? Se tu riguardi ben questa sentenza, e rechiti a la mente chi son quelli che sù di fuor sostegnon penitenza, tu vedrai ben perché da questi felli sien dipartiti, e perché men crucciata la divina vendetta li martelli». «O sol che sani ogni vista turbata, tu mi contenti sì quando tu solvi, che, non men che saver, dubbiar maggrata. Ancora in dietro un poco ti rivolvi», dissio, «là dove di chusura offende la divina bontade, e l groppo solvi». «Filosofia», mi disse, «a chi la ntende, nota, non pure in una sola parte, come natura lo suo corso prende dal divino ntelletto e da sua arte; e se tu ben la tua Fisica note, tu troverai, non dopo molte carte, che larte vostra quella, quanto pote, segue, come l maestro fa l discente; sì che vostrarte a Dio quasi è nepote. Da queste due, se tu ti rechi a mente lo Genesì dal principio, convene prender sua vita e avanzar la gente; e perché lusuriere altra via tene, per sé natura e per la sua seguace dispregia, poi chin altro pon la spene. Ma seguimi oramai, che l gir mi piace; ché i Pesci guizzan su per lorizzonta, e l Carro tutto sovra l Coro giace, e l balzo via là oltra si dismonta». |
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sabato 9 aprile, le 4 del mattino | cerchio VII, girone 1°, la frana, la fossa, col Flegetonte | Chirone, Nesso, Minotauro, Alessand. Magno, Dionigi di Siracusa Ezzelino da Romano, Obizzo d'Este, Attila, Pirro, Sesto Pompeo | violenti contro il prossimo: immersi nel Flegetonte, fiume di sangue bollente, sulla riva del quale si trovano demoni che saettano i dannati che tentano di uscire dal sangue più di quanto la loro pena non consenta. |
Comincia il canto decimosecondo dello 'Nferno. Nel quale mostra l'autore come Virgilio facesse partire il Minotauro, fattosi loro incontro, e rendegli la ragione d'una grotta caduta; e come truovano i centauri, e pervengono al fiume di Flegetonte, nel quale vede bollire rubatori e tiranni; e poi Nesso li porta dall'altra parte. |
Era lo loco ova
scender la riva venimmo, alpestro e, per quel che veranco, tal, chogne vista ne sarebbe schiva. Qual è quella ruina che nel fianco di qua da Trento lAdice percosse, o per tremoto o per sostegno manco, che da cima del monte, onde si mosse, al piano è sì la roccia discoscesa, chalcuna via darebbe a chi sù fosse: cotal di quel burrato era la scesa; e n su la punta de la rotta lacca linfamia di Creti era distesa che fu concetta ne la falsa vacca; e quando vide noi, sé stesso morse, sì come quei cui lira dentro fiacca. Lo savio mio inver lui gridò: «Forse tu credi che qui sia l duca dAtene, che sù nel mondo la morte ti porse? Pàrtiti, bestia: ché questi non vene ammaestrato da la tua sorella, ma vassi per veder le vostre pene». Qual è quel toro che si slaccia in quella cha ricevuto già l colpo mortale, che gir non sa, ma qua e là saltella, vidio lo Minotauro far cotale; e quello accorto gridò: «Corri al varco: mentre che nfuria, è buon che tu ti cale». Così prendemmo via giù per lo scarco di quelle pietre, che spesso moviensi sotto i miei piedi per lo novo carco. Io gia pensando; e quei disse: «Tu pensi forse a questa ruina chè guardata da quellira bestial chi ora spensi. Or vo che sappi che laltra fiata chi discesi qua giù nel basso inferno, questa roccia non era ancor cascata. Ma certo poco pria, se ben discerno, che venisse colui che la gran preda levò a Dite del cerchio superno, da tutte parti lalta valle feda tremò sì, chi pensai che luniverso sentisse amor, per lo qual è chi creda più volte il mondo in caòsso converso; e in quel punto questa vecchia roccia qui e altrove, tal fece riverso. Ma ficca li occhi a valle, ché sapproccia la riviera del sangue in la qual bolle qual che per violenza in altrui noccia». Oh cieca cupidigia e ira folle, che sì ci sproni ne la vita corta, e ne letterna poi sì mal cimmolle! Io vidi unampia fossa in arco torta, come quella che tutto l piano abbraccia, secondo chavea detto la mia scorta; e tra l piè de la ripa ed essa, in traccia corrien centauri, armati di saette, come solien nel mondo andare a caccia. Veggendoci calar, ciascun ristette, e de la schiera tre si dipartiro con archi e asticciuole prima elette; e lun gridò da lungi: «A qual martiro venite voi che scendete la costa? Ditel costinci; se non, larco tiro». Lo mio maestro disse: «La risposta farem noi a Chirón costà di presso: mal fu la voglia tua sempre sì tosta». Poi mi tentò, e disse: «Quelli è Nesso, che morì per la bella Deianira e fé di sé la vendetta elli stesso. E quel di mezzo, chal petto si mira, è il gran Chirón, il qual nodrì Achille; quellaltro è Folo, che fu sì pien dira. Dintorno al fosso vanno a mille a mille, saettando qual anima si svelle del sangue più che sua colpa sortille». Noi ci appressammo a quelle fiere isnelle: Chirón prese uno strale, e con la cocca fece la barba in dietro a le mascelle. Quando sebbe scoperta la gran bocca, disse a compagni: «Siete voi accorti che quel di retro move ciò chel tocca? Così non soglion far li piè di morti». E l mio buon duca, che già li eral petto, dove le due nature son consorti, rispuose: «Ben è vivo, e sì soletto mostrar li mi convien la valle buia; necessità l ci nduce, e non diletto. Tal si partì da cantare alleluia che mi commise questofficio novo: non è ladron, né io anima fuia. Ma per quella virtù per cu io movo li passi miei per sì selvaggia strada, danne un de tuoi, a cui noi siamo a provo, e che ne mostri là dove si guada e che porti costui in su la groppa, ché non è spirto che per laere vada». Chirón si volse in su la destra poppa, e disse a Nesso: «Torna, e sì li guida, e fa cansar saltra schiera vintoppa». Or ci movemmo con la scorta fida lungo la proda del bollor vermiglio, dove i bolliti facieno alte strida. Io vidi gente sotto infino al ciglio; e l gran centauro disse: «E son tiranni che dier nel sangue e ne laver di piglio. Quivi si piangon li spietati danni; quivi è Alessandro, e Dionisio fero, che fé Cicilia aver dolorosi anni. E quella fronte cha l pel così nero, è Azzolino; e quellaltro chè biondo, è Opizzo da Esti, il qual per vero fu spento dal figliastro sù nel mondo». Allor mi volsi al poeta, e quei disse: «Questi ti sia or primo, e io secondo». Poco più oltre il centauro saffisse sovruna gente che nfino a la gola parea che di quel bulicame uscisse. Mostrocci unombra da lun canto sola, dicendo: «Colui fesse in grembo a Dio lo cor che n su Tamisi ancor si cola». Poi vidi gente che di fuor del rio tenean la testa e ancor tutto l casso; e di costoro assai riconobbio. Così a più a più si facea basso quel sangue, sì che cocea pur li piedi; e quindi fu del fosso il nostro passo. «Sì come tu da questa parte vedi lo bulicame che sempre si scema», disse l centauro, «voglio che tu credi che da questaltra a più a più giù prema lo fondo suo, infin chel si raggiunge ove la tirannia convien che gema. La divina giustizia di qua punge quellAttila che fu flagello in terra e Pirro e Sesto; e in etterno munge le lagrime, che col bollor diserra, a Rinier da Corneto, a Rinier Pazzo, che fecero a le strade tanta guerra». Poi si rivolse, e ripassossi l guazzo. |
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sabato 9 aprile, verso l'alba | cerchio VII, girone 2°: violenti contro se stessi, bosco senza sentiero con alberi privi di foglie e rami contorti | Arpie, Pier delle Vigne, un suicida fiorentino, Lano da Siena, Iacopo da Sant'andrea | violenti contro se stessi: i suicidi sono trasformati in alberi e le Arpie, facendo scempio delle foglie, li straziano; gli scialacquatori corrono fra gli arbusti per sfuggire ai morsi di cagne insaziabili, dalle quali vengono, una volta raggiunti, divorati a brano a brano |
Comincia il canto decimoterzo dello 'Nferno. Nel quale l'autore mostra esser puniti quegli che se medesimi uccidono, trasformati in bronchi, di ciò parlando con Pier dalle Vigne, e appresso coloro li quali giucarono e guastarono i lor beni, dicendo loro essere sbranati da cagne nere. |
Non era ancor di là
Nesso arrivato, quando noi ci mettemmo per un bosco che da neun sentiero era segnato. Non fronda verde, ma di color fosco; non rami schietti, ma nodosi e nvolti; non pomi veran, ma stecchi con tòsco: non han sì aspri sterpi né sì folti quelle fiere selvagge che n odio hanno tra Cecina e Corneto i luoghi cólti. Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno, che cacciar de le Strofade i Troiani con tristo annunzio di futuro danno. Ali hanno late, e colli e visi umani, piè con artigli, e pennuto l gran ventre; fanno lamenti in su li alberi strani. E l buon maestro «Prima che più entre, sappi che se nel secondo girone», mi cominciò a dire, «e sarai mentre che tu verrai ne lorribil sabbione. Per riguarda ben; sì vederai cose che torrien fede al mio sermone». Io sentia dogne parte trarre guai, e non vedea persona che l facesse; per chio tutto smarrito marrestai. Credio chei credette chio credesse che tante voci uscisser, tra quei bronchi da gente che per noi si nascondesse. Però disse l maestro: «Se tu tronchi qualche fraschetta duna deste piante, li pensier chai si faran tutti monchi». Allor porsi la mano un poco avante, e colsi un ramicel da un gran pruno; e l tronco suo gridò: «Perché mi schiante?». Da che fatto fu poi di sangue bruno, ricominciò a dir: «Perché mi scerpi? non hai tu spirto di pietade alcuno? Uomini fummo, e or siam fatti sterpi: ben dovrebbesser la tua man più pia, se state fossimo anime di serpi». Come dun stizzo verde charso sia da lun decapi, che da laltro geme e cigola per vento che va via, sì de la scheggia rotta usciva insieme parole e sangue; ondio lasciai la cima cadere, e stetti come luom che teme. «Selli avesse potuto creder prima», rispuose l savio mio, «anima lesa, ciò cha veduto pur con la mia rima, non averebbe in te la man distesa; ma la cosa incredibile mi fece indurlo ad ovra cha me stesso pesa. Ma dilli chi tu fosti, sì che n vece dalcunammenda tua fama rinfreschi nel mondo sù, dove tornar li lece». E l tronco: «Sì col dolce dir madeschi, chi non posso tacere; e voi non gravi perchio un poco a ragionar minveschi. Io son colui che tenni ambo le chiavi del cor di Federigo, e che le volsi, serrando e diserrando, sì soavi, che dal secreto suo quasi ognuom tolsi: fede portai al glorioso offizio, tanto chi ne perde li sonni e polsi. La meretrice che mai da lospizio di Cesare non torse li occhi putti, morte comune e de le corti vizio, infiammò contra me li animi tutti; e li nfiammati infiammar sì Augusto, che lieti onor tornaro in tristi lutti. Lanimo mio, per disdegnoso gusto, credendo col morir fuggir disdegno, ingiusto fece me contra me giusto. Per le nove radici desto legno vi giuro che già mai non ruppi fede al mio segnor, che fu donor sì degno. E se di voi alcun nel mondo riede, conforti la memoria mia, che giace ancor del colpo che nvidia le diede». Un poco attese, e poi «Da chel si tace», disse l poeta a me, «non perder lora; ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace». Ondio a lui: «Domandal tu ancora di quel che credi cha me satisfaccia; chi non potrei, tanta pietà maccora». Perciò ricominciò: «Se lom ti faccia liberamente ciò che l tuo dir priega, spirito incarcerato, ancor ti piaccia di dirne come lanima si lega in questi nocchi; e dinne, se tu puoi, salcuna mai di tai membra si spiega». Allor soffiò il tronco forte, e poi si convertì quel vento in cotal voce: «Brievemente sarà risposto a voi. Quando si parte lanima feroce dal corpo ondella stessa sè disvelta, Minòs la manda a la settima foce. Cade in la selva, e non lè parte scelta; ma là dove fortuna la balestra, quivi germoglia come gran di spelta. Surge in vermena e in pianta silvestra: lArpie, pascendo poi de le sue foglie, fanno dolore, e al dolor fenestra. Come laltre verrem per nostre spoglie, ma non però chalcuna sen rivesta, ché non è giusto aver ciò chom si toglie. Qui le trascineremo, e per la mesta selva saranno i nostri corpi appesi, ciascuno al prun de lombra sua molesta». Noi eravamo ancora al tronco attesi, credendo chaltro ne volesse dire, quando noi fummo dun romor sorpresi, similemente a colui che venire sente l porco e la caccia a la sua posta, chode le bestie, e le frasche stormire. Ed ecco due da la sinistra costa, nudi e graffiati, fuggendo sì forte, che de la selva rompieno ogni rosta. Quel dinanzi: «Or accorri, accorri, morte!». E laltro, cui pareva tardar troppo, gridava: «Lano, sì non furo accorte le gambe tue a le giostre dal Toppo!». E poi che forse li fallia la lena, di sé e dun cespuglio fece un groppo. Di rietro a loro era la selva piena di nere cagne, bramose e correnti come veltri chuscisser di catena. In quel che sappiattò miser li denti, e quel dilaceraro a brano a brano; poi sen portar quelle membra dolenti. Presemi allor la mia scorta per mano, e menommi al cespuglio che piangea, per le rotture sanguinenti in vano. «O Iacopo», dicea, «da Santo Andrea, che tè giovato di me fare schermo? che colpa ho io de la tua vita rea?». Quando l maestro fu sovresso fermo, disse «Chi fosti, che per tante punte soffi con sangue doloroso sermo?». Ed elli a noi: «O anime che giunte siete a veder lo strazio disonesto cha le mie fronde sì da me disgiunte, raccoglietele al piè del tristo cesto. I fui de la città che nel Batista mutò il primo padrone; ondei per questo sempre con larte sua la farà trista; e se non fosse che n sul passo dArno rimane ancor di lui alcuna vista, que cittadin che poi la rifondarno sovra l cener che dAttila rimase, avrebber fatto lavorare indarno. Io fei gibbetto a me de le mie case». |
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© 1997 - by prof. Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 07 febbraio, 1998