|
In tal modo giungemmo da un ponte all’altro (da quello della quarta bolgia a quello della quinta), discorrendo di cose che il mio poema non si propone di prendere in considerazione; e ci trovavamo sul culmine del ponte, allorché ci fermammo per vedere l’altra cavità di Malebolge e gli altri lamenti inutili; e la vidi straordinariamente buia. Con il termine comedìa, già usato alla fine del canto XVI
(verso 128), Dante designa generalmente il proprio poema, perché, come è detto
nel De Vulgari Eloquentia (II, IV, 56) e nella lettera indirizzata dal Poeta a
Cangrande della Scala (XIII, 29), è scritto in uno stile che non è quello
tragico, proprio dei componimenti medievali chiamati «canzoni», e perché la
vicenda in esso narrata ha un lieto fine. Lo stile tragico, secondo quello che
afferma Dante, si basa su di una rigorosa scelta degli argomenti e delle
parole: è uno stile aristocratico; la tragedia, in questa accezione medievale,
può trattare solo argomenti elevati e li deve trattare servendosi di un
linguaggio selezionato. La commedia invece non ha limitazioni di argomento né
di linguaggio. Nel poema di Dante gli argomenti più umili sono trattati con la
stessa serietà con cui sono affrontati i più sublimi. Si è parlato perciò,
molto opportunamente, a proposito di Dante, di “plurilinguismo” o
“poliglottìa... dei generi letterari” (Contini), o di “mescolanza di stili” (Auerbach).
A questo proposito deve essere notato che proprio col canto XXI si apre, nella
cupa atmosfera infernale, un intermezzo che è stato generalmente definito
comico e che è improntato ad un forte realismo. Il linguaggio stilizzato, che è
stato proprio di Dante giovane, appare qui del tutto dimenticato. Al posto
delle raffinate atmosfere dei dolce stil novo, che si riproporranno
approfondite in alcuni passi della seconda e della terza cantica, troviamo, nei
canti XXI e XXII dell’Inferno, una spregiudicatezza nel trattare la propria
materia che avvicina Dante ai poeti giocosi e realistíci del suo tempo, come,
tanto per fare un nome, Cecco Angiolieri. Come nell’arsenale dei Veneziani durante l’inverno bolle la pece che aderisce e incolla e che serve a spalmare di nuovo le loro navi danneggiate, poiché non possono navigare; e invece di navigare chi si costruisce una nave nuova e chi chiude con la stoppa le falle apertesi nelle fiancate di quella che ha fatto più viaggi; chi dà colpi di martello a prua e chi a poppa; altri fabbricano remi ed altri attorcigliano la canapa per farne funi; alcuni rattoppano la vela minore e altri quella maggiore, così, non a causa del fuoco, ma per opera di Dio, bolliva laggiù una pece densa, che aderiva viscosamente dappertutto alle pareti della bolgia. La similitudine tra la bolgia mirabilmente oscura - più
oscura delle altre, per la presenza in essa della pece - e l’arzanà de’
Viniziani, tutta contenuta nei versi 7-9, si dilata poi in un quadro che “è
come un preludio che annunzia e in qualche modo anticipa la vasta commedia che
sta per cominciare” (Sapegno). Io scorgevo questa pece, ma in essa non scorgevo se non le bolle che il bollore sollevava, e la vedevo gonfiarsi tutta quanta, ed abbassarsi come premuta. Mentre io guardavo con attenzione nel fondo della bolgia, Virgilio, dicendomi: “ Sta in guardia, sta in guardia! ”, mi tirò a sé dal luogo in cui mi trovavo. Virgilio attira l’attenzione di Dante sullo spettacolo che
sta per cominciare e che avrà per protagonisti i diavoli. Mai nella Commedia
Dante si allontana tanto da alcune caratteristiche che sembrano essenziali al
suo modo di concepire e di esprimersi (la staticità dei suoi personaggi, la
sobrietà dei loro gesti, alle quali corrisponde una concentrazione estrema dei
sentimenti), come nella descrizione di questa bolgia, dove al posto delle
figure isolate e ferme troviamo ovunque, come ha rilevato il Bosco, massa e
movimento. Secondo un giudizio del Momigliano, che ricalca in parte,
sviluppandola, una formulazione critica del De Sanctis, a mano a mano che Dante
si inoltra nell’inferno e “che la prepotenza della personalità si viene
attenuando, sulle scene a personaggi singoli vengono predominando le scene di
schiere e le scene di sfondo”. Nella commedia, ricca di colpi di scena, di
contrattempi e di soluzioni impreviste, che si svolge lungo tutto l’arco dei
canti dal XXI al XXIII, ritroviamo moduli compostivi propri della novellistica
medievale, qui ricreati con un senso dell’intreccio ed una vivacità che non si
riscontrano neppure nel Boccaccio, autore che, se da un lato appare assai più
smaliziato di Dante, non ha, del poeta della Commedia, la schiettezza con cui
questi si pone di fronte alla realtà. Allora mi voltai come colui che è impaziente di vedere il pericolo al quale deve sfuggire, e che un’improvvisa paura indebolisce, il quale, per il fatto che guarda, non rimanda la sua fuga; e vidi sopraggiungere alle nostre spalle un diavolo nero che correva sul ponticello roccioso. Ahi, quanto era feroce nell’aspetto! e quanto mi sembrava
crudele nell’atteggiamento, con le ali spiegate e leggiero nel suo avanzare! Un dannato gravava con entrambi i fianchi la sua spalla, che era appuntita e sporgente, ed egli ne teneva stretta la caviglia. Nel ritratto di questo diavolo, che sfiora appena la terra,
avanzando leggiero quasi volasse “tutto è secco, nervoso, tagliente: anche la
rabbia con cui il demonio non tiene ma ghermisce. E il punto in cui il
peccatore è ghermito, cioè là ove i piedi si congiungono alla gamba e i tendini
si rilevano nella loro forza, è detto il nerbo; che dà l’immagine di quei
tendini, ma proprio cogliendone la « forza»” (Grabher). Da notare come in
questo ritratto i tratti più salienti, quelli che meglio definiscono l’aspetto
fisico, e, attraverso questo, il carattere, del diavol nero, sono messi in
rilievo alla fine dei versi: fero, acerbo, leggiero. L’inversione sintattica
del verso 30 contribuisce, insieme al ritmo che a questo endecasillabo deriva
dall’inusitata cesura, al senso di movimento impaziente che caratterizza la
scena. Questo diavolo ha una sua nobiltà di atteggiamenti e un suo vigore -
impliciti nel suo essere dedito senza riserve alla funzione che gli è stata
assegnata (quella di trasportare i dannati) - che saranno del tutto assenti nei
vanagloriosi e volubili custodi della bolgia che tenteranno prima di impedire
il viaggio dei due pellegrini, poi di ingannarli. Dal ponte su cui ci trovavamo disse: “ O Malebranche (è il nome dei diavoli di questa bolgia), ecco uno degli anziani di Lucca (città devota a Santa Zita) ! Immergetelo completamente (nella pece), poiché io torno di nuovo in quella città in cui questi peccatori abbondano: in essa ognuno è barattiere, escluso Bonturo; in essa per danaro il no è trasformato in sì ”. Gli « anziani » erano, a Lucca e in altre città italiane, i
magistrati che governavano il comune, insieme al podestà e al capitano del
popolo. Il peccato di baratteria, di cui si macchiarono i dannati di questa
bolgia, corrisponde, sul piano dei rapporti fra laici, a quello che è il
peccato di simonia nell’ambito della gerarchia ecclesiastica ed equivale
all’incirca a quel delitto che oggi è contemplato dal codice penale come « corruzione di pubblico ufficiale ». Ai
tempi di Dante l’accusa di baratteria, frequentissima, era un’arma di cui si
servivano gli uomini politici per colpire i loro avversari. Lo gettò laggiù, e tornò indietro sul ponte roccioso; e nessun mastino liberato dalla catena fu mai così veloce nell’inseguire il ladro. Quello sprofondò, e riemerse raggomitolato; ma i diavoli che stavano nascosti sotto il ponte, gridarono: “Qui non c’è il Santo Volto: qui si nuota diversamente che nel Serchio! Perciò, se vuoi evitare le nostre unghiate, non sporgerti al di sopra della pece ”. L’anonimo barattiere di Lucca - che peraltro secondo alcuni
sarebbe un certo Martin Bottaio, la cui morte avvenne nel periodo in cui Dante
immagina di trovarsi nella quinta bolgia - dopo essere stato scagliato nella
pece bollente, ne riemerge convolto. Questo termine è suscettibile di diverse
interpretazioni. Se lo si prende nella accezione di « impeciato »,
riscontrabile in alcuni scrittori del Trecento, allora occorre intendere che i
diavoli, stabilita un’affinità fra il volto nero, perché imbrattato di pece, di
questo dannato, e il volto di un antico crocifisso di legno nero venerato a
Lucca nella basilica di San Martino, si rivolgono al convolto per dirgli: “qui
non si usa far l’ostensione del Santo Volto; non è il caso che tu mostri fuori
della pece il tuo muso nero” (Barbi). Se invece si dà a convolto il significato
di «raggomitolato», « con la schiena inarcata », in modo che la posizione del
dannato possa far pensare a quella di una persona che preghi in ginocchio,
occorre intendere che i diavoli lo scherniscono per questo atteggiamento.
L’espressione, qui non ha luogo il Santo Volto, dovrebbe allora essere
interpretata così: “E’ inutile che ti inginocchi! Qui non ci sono sacre
immagini da venerare”. Dopo averlo trafitto con innumerevoli uncini, dissero: “ Qui dovrai darti da fare coperto (dalla pece), in modo da arraffare, se ti riesce, di nascosto ”. La baratteria, in quanto reato, veniva esercitata di
nascosto. Ora i diavoli esortano questo barattiere, nell’imporgli di non far
sopra la pegola soverchio, a vedere se mai gli riesca di arraffare qualche
ricchezza, come faceva sulla terra, nascostamente, cioè sotto la superficie
della distesa di pece. Il sarcasmo è messo in rilievo dal dubbio espresso
nell’inciso se puoi, col quale i diavoli sollevano se stessi da qualsiasi responsabilità in rapporto
all’affermazione da loro fatta: vorrà dire che, se il dannato non riuscirà ad
arraffare nella pece alcuna ricchezza, la colpa sarà stata unicamente sua; non
ne sarà stato capace, non avrà potuto. Un Impiego analogo dell’inciso se
puoi è quello usato da Dante nel
rivolgersi a Niccolò III: se puoi, fa motto (Inferno XIX, 48). Non diversamente i cuochi fanno immergere dai loro inservienti la carne nella pentola con gli uncini, in modo che non venga a galla. Nelle leggende medievali l’inferno era spesso descritto
come una cucina in cui si affaccendavano, in veste di cuochi, i diavoli. Così,
nel De Babilonia civitate infernali di Giacomino da Verona il cuoco Belzebù
serve in tavola al sovrano dell’inferno l’anima di un peccatore, arrostita
“come un bel porco al fogo”; tuttavia questo cibo non soddisfa il suo padrone,
perché non cotto abbastanza. “Ma Dante riduce la tradizione realistica ad
immagine: un’immagine... che mostra il distacco del Poeta dalla scena
raccapricciante, nello stesso tempo, precisa i limiti di quel mondo diabolico.”
(Scolari) Virgilio mi disse: “ Perché non si veda che tu ci sei,
nasconditi giù, dietro una sporgenza rocciosa, che ti offra qualche riparo; e non lasciarti prendere dal timore, per nessuna offesa che mi venga arrecata, poiché io so come stanno le cose, e già un’altra volta mi trovai in una simile baruffa ”. Poi passò oltre l’estremità del ponte; e non appena arrivò sul sesto argine, gli fu necessario avere un atteggiamento risoluto. Con lo stesso impeto e lo stesso frastuono con cui i cani si avventano contro il mendicante il quale chiede l’elemosina subito nel punto in cui si è fermato, i diavoli uscirono da sotto il ponticello, e puntarono contro di lui tutti gli uncini; ma egli gridò: “ Nessuno di voi abbia cattive intenzioni ! La similitudine dei cani richiama quella del mastino dei
versi 44-45, ma qui l’attenzione del Poeta si ferma su quello che da un punto
di vista logico costituisce soltanto un elemento secondario. Di fronte allo
scatenarsi dei cani, sottolineato dall’insistenza (con quel... e con quella)
con la quale il loro impeto viene dapprima indicato nella sua astratta
genericità (furore) e poi veduto nel suo concreto, plastico manifestarsi
(tempesta), spicca, isolandosi inerme, la figura dei poverello, di cui sono
messi in luce il dolore e l’umiliazíone attraverso una semplice determinazione
avverbiale: di subito. Per un attimo Dante si è distratto dalla commedia
volgare che si svolge sotto i suoi occhi. Il pericolo corso dal maestro ha
ridestato in lui la sua umanità più profonda. Prima che i vostri uncini mi colpiscano, si faccia avanti uno di voi e mi ascolti, e dopo si prenda la deliberazione di uncinarmi ”. Gridarono tutti: “ Si faccia avanti Malacoda! ”; per cui uno avanzò, e gli altri stettero fermi, e quello si avvicinò a Virgilio dicendo: “ Che gli giova ? ” I diavoli sono convinti che a nulla serviranno le parole
che Virgilio rivolgerà ad uno di essi. Ma, per pura malignità, prima di
suppliziarlo, consentono ad ascoltarne le ragioni. Il loro capo Malacoda
esprime questa sicurezza condiscendente e spavalda. “ Credi, Malacoda, di vedermi giunto sin qui ” disse Virgilio “ al riparo fino ad ora da tutte le vostre opposizioni, senza la volontà di Dio e il destino favorevole? Lasciaci
andare, poiché è voluto da Dio che io faccia da guida a qualcuno (Dante) per
questo orrido cammino. ” Allora la tracotanza lo abbandonò a tal punto, che lasciò cadere l’uncino ai suoi piedi, e rivolto agli altri disse: “ Dal momento che le cose stanno così, non sia ferito ”. Malacoda, tanto certo della propria superiorità sullo
sconosciuto capitato nella bolgia dove lui è padrone, scopre in se stesso un
vinto dopo le parole di Virgilio: il suo orgoglio cade, così come di mano gli
casca l’uncino. Il parallelismo tra atteggiamento esteriore e stato d’animo è
sottolineato dalla strettissima affinità fra i due verbi, di cui l’uno non
rappresenta che una lieve variante dell’altro. E Virgilio: “ O tu che stai appiattato tra le rocce del ponte, torna ormai presso di me senza timore ”. Perciò io mi avviai, e velocemente mi avvicinai a lui; e i diavoli avanzarono tutti quanti, tanto che temetti che non avrebbero rispettato il patto: così vidi una volta essere presi dal timore i soldati che uscivano dal castello di Caprona dopo aver raggiunto un accordo sulla loro resa, vedendosi in mezzo a tanti nemici. Il castello pisano di Caprona fu espugnato nell’agosto del
1289 dalle milizie della lega guelfa di Toscana, formate in prevalenza da
Lucchesi e Fiorentini. Dante prese parte a questa spedizione. I soldati di
Pisa, arresisi dopo otto giorni di assedio, ebbero in cambio salva la vita. In
questa similitudine è rievocato il momento in cui i difensori di Caprona, dopo
la resa, uscivano dal castello, senza sapere se i nemici avrebbero serbato fede
ai patti. Di qui il loro timore. lo mi avvicinai con tutto il mio corpo a Virgilio, e non distoglievo lo sguardo dal loro aspetto, che non era benevolo. Essi abbassavano gli
uncini e: “ Vuoi che lo tocchi ” dicevano fra loro “ sulla schiena? ” E
rispondevano: “ Sì, fa in modo di assestargli un colpo! ” Ma il diavolo che stava discorrendo con Virgilio, con grande prontezza si voltò, e disse: “ Fermo, fermo, Scarmiglione! ” Quindi, rivolto a noi, disse: “ Non è possibile proseguire su questa fila di ponti rocciosi, poiché il sesto ponte giace sul fondo (della bolgia) ridotto in frantumi. E se tuttavia desiderate proseguire, andate su per questa roccia (l’argine che separa la quinta dalla sesta bolgia); vicino vi è un’altra serie di ponti che consente il passaggio. Ieri, cinque ore più tardi di quest’ora, si compirono 1266 anni da quando la strada franò in questo punto. Col suo discorso che contiene una parte di verità (la fila
dei ponti rocciosi si interrompe effettivamente sulla sesta bolgia) e una parte
di menzogna (non esiste infatti un’altra fila di ponti ancora intatta)
Malacoda, il quale non si è rassegnato a sottomettersi ai voleri dei cielo,
cerca di prendersi su Virgilio una rivincita dello smacco che il poeta latino
gli ha fatto subire. Per avvalorare quel che dice, fa sfoggio di grande
esattezza (versi 112-114). Il modo di parlare di Malacoda esprime vanità e
sufficienza. Egli si sente fiero di apparire un capo agli occhi dei due
estranei che pure fino a poco fa stava per lacerare col suo uncino e nello
stesso tempo gioisce all’idea di ingannarli. Io mando in quella direzione qualcuno di questi miei sottoposti, per osservare se mai qualche dannato esce (dalla pece): andate con loro, poiché non saranno cattivi ”. “ Vieni avanti, Alichino, e Calcabrina ”, prese a dire, “ e tu, Cagnazzo; e Barbariccia sia a capo dei dieci. Venga anche Libicocco e Draghignazzo, Ciriatto munito di zanne e Graffiacane e Farfarello e il rabbioso Rubicante. Secondo il Torraca, alcuni almeno dei nomi di questi
diavoli derivano dalla storpiatura di nomi di contemporanei del Poeta. Ma
indipendentemente da questa origine, quasi tutti riecheggiano uno o più nomi
comuni. Così Alichino, che deriva da Hellequin, nome di un diavolo che appare
spesso in leggende francesi, suggerisce una vaga affinità col sostantivo ali;
nel canto successivo vedremo che questo diavolo finirà per precipitare nella
pece proprio per essersi troppo fidato della potenza delle sue ali. Calcabrina
appare ai commentatori antichi come “colui che calpesta la rugiada” (calcans pruinam).
Cagnazzo può voler dire « grosso cane » o, meglio, «livido», «paonazzo». Il
significato di Barbariccia è evidente, come pure quello di Graffiacane,
Malacoda, Scarmiglione. Draghignazzo, sempre secondo Benvenuto, significherebbe
“grosso drago”, mentre Ciriatto deve essere ricollegato alla parola greca
choiros, che significa «porco». Libicocco, secondo il Parodi, risulterebbe da
un incrocio fra i nomi di due venti, il libeccio e lo scirocco. Farfarello era
nell’immaginazione popolare un folletto; Rubicante, nel colore rosso che il
nome evoca, rifletterebbe la sua indole rabbiosamente bizzarra. Ispezionate tutt’intorno le bollenti peci: questi siano incolumi fino all’altra fila di ponti che varcano le bolge senza interrompersi. ” “Ahimè, maestro, che è quello che vedo?” dissi. “Ti prego,
andiamo via di qui soli senza guida, se
tu conosci il cammino; poiché, per quel che mi riguarda, non ne ho bisogno. Se tu sei perspicace adesso come di solito, non vedi che digrignano i denti, e con gli occhi minacciano di procurarci dolori ? ” E Virgilio: “ Non voglio che tu abbia timore: lascia che digrignino come a loro piace meglio, poiché essi lo fanno per i bolliti che soffrono ”. Voltarono a sinistra sull’argine; ma prima ciascuno di loro, rivolto al capo che li guidava, aveva stretto, per un segnale, la lingua con i denti; ed egli aveva fatto uno sconcio suono di tromba. Nell’ultima parte del canto l’allocuzione di Malacoda ai
diavoli ha impresso alla poesia un ritmo eroicomico; a mano a mano una
contraddizione si è venuta sempre più chiaramente delineando fra la sostanza
elementare e grossolana dei sentimenti dei diavoli e il desiderio del loro capo
di farli apparire diversi da quelli che sono, all’altezza cioè dei loro
interlocutori per ragionevolezza e maturità di pensiero. Questa contraddizione,
ribadita nello stile dall’impiego di forme proprie della poesia epica (ad esempio
la congiunzione - e - che ricorre ben sette volte nell’appello che dei suoi
fidi fa Malacoda, non ha nei versi 118-123 una funzione sintattica, ma serve
soltanto a far maggiormente spiccare,
isolandoli, i nomi dei dieci privilegiati), culmina nella trovata del
segnale di partenza del plotone assegnato come scorta ai due pellegrini.
Nonostante le arie che si è dato Malacoda, i suoi soldati non sono
disciplinati. Non prendono nulla sul serio, fuorché una cosa: lo scherzo. Il
massimo della disciplina e della concordia lo raggiungono qui, in questo
epilogo di canto, proprio perché l’ordíne che devono eseguire (il segnale)
coincide interamente con la loro vocazione alla beffa pesante e oscena. |