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Io vidi un tempo cavalieri mettersi in marcia, e iniziare l’assalto e fare evoluzioni durante le parate, e a volte ritirarsi per mettersi in salvo; vidi soldati a cavallo sul vostro suolo, o Aretini, e vidi fare incursioni devastatrici, scontrarsi le squadre nei tornei e cimentarsi i singoli nei duelli; a volte con trombe, e a volte con campane, con tamburi e con segnali dalle fortezze, e con strumenti nostri e forestieri;ma certamente mai con un così insolito zufolo vidi partire cavalieri o fanti, o nave ad un segnale dato dalla riva o indicato da una costellazione. Questa scena, come molte di quelle con cui si aprono i
canti di Malebolge, costituisce un quadro a sé, ben delimitato nel flusso della
narrazione. Noi procedevamo con i dieci diavoli: ah, paurosa compagnia! ma in chiesa si sta con i santi, e nell’osteria con i furfanti. Dante enuncia la sua rassegnazione ad accettare l’infida
compagnia dei diavolì con una frase di sapore proverbiale, simile a quella che
si ritrova in un passo di un romanzo popolare del ‘200, la Tavola Ritonda: “qui
si afferma la parola usata, che dice così: gli mercatanti hanno botteghe, e gli
bevitori hanno taverne, e’ giuocatori hanno taolieri, e ogni simile con
simile”. La mia attenzione era rivolta costantemente alla pece, per osservare ogni aspetto della bolgia e della moltitudine che in essa era bruciata. Come i delfini, quando, inarcando il dorso, avvertono i marinai d’ingegnarsi a salvare la loro nave, così talvolta, per alleviare la sofferenza, qualcuno dei dannati esponeva la schiena, e la celava più rapido del lampo. Secondo una credenza molto diffusa nel Medioevo i delfini
avvertono i marinai dell’avvicinarsi della tempesta inarcando le schiene e
saltando sopra il pelo dell’acqua. E come i ranocchi stanno sull’orlo dell’acqua di un fossato col solo muso fuori, in modo da nascondere le zampe e il resto del corpo, così i peccatori stavano da ogni parte; ma non appena Barbariccia si avvicinava, subito si ritiravano sotto la pece bollente. In una sua analisi del canto XXII il Chiappelli nota come
in esso “annullata nella pece, l’immagine dell’uomo se appare, non è che in
gesti animaleschi, in attitudini mostruose. Il bisogno di un momentaneo
refrigerio non ne trae a galla i volti, ma le schiene inarcate nel guizzo del
delfini; se sono le teste che emergono, la sofferenza e l’ansietà le
trasformano in teste di rana... Queste grosse figurazioni plastiche in cui
appaiono deformati i peccatori son scelte specialmente fra gli anfibi”. Di qui
il critico prende l’avvio per istituire una contrapposizione fra il modo in cui
sono concepiti i diavoli e quello in cui sono concepiti i dannati. Vidi, e ancora il mio cuore ne prova sgomento, uno di loro
stare in attesa, così come accade che una rana resta ferma e un’altra spicca il
salto; e Graffiacane che più degli altri gli stava di fronte, gli afferrò con l’uncino i capelli impeciati e lo sollevò, in modo che mi sembrò, una lontra. Il paragone della lontra esprime, secondo il Chiappelli,
“l’impotenza dell’animale catturato” ed ha un fortissimo rilievo plastico. Il
Malagoli annota: “Bellissima immagine del calcato realismo infernale, che si
riconnette al convolto del canto precedente ed emerge in contrasto col realismo
semplice e comune della rappresentazione delle rane che se ne stanno sull’orlo
del fosso”. L’ApolIonio definisce il verso 36 “stupendo, lentissimo e
grottescamente trionfale” ed aggiunge: “il disegno della lontra lucida e umida,
che lo rompe, con uno squarcio nero, vale un commento orchestrale, in un’opera
buffa”. Io conoscevo già il nome di tutti quanti i diavoli. poiché li avevo con tanta cura annotati quando vennero scelti, e poi avevo fatto attenzione al modo in cui si chiamavano l’un l’altro. “ O Rubicante, fa in modo di mettergli addosso gli artigli, in modo da scuoiarlo! ” urlavano concordi i malvagi. E io: “ Maestro, cerca, se puoi, di sapere chi è lo
sventurato caduto in balìa dei suoi nemici ”. Virgilio gli si avvicinò fermandosi al suo fianco; gli chiese di dove fosse, e quello rispose: “ Io fui nativo del regno di Navarra. Mia madre, che mi aveva generato da un furfante, suicida e scialacquatore, mi mise al servizio di un signore. Fui in seguito alla corte del valente re Tebaldo: qui mi diedi ad esercitare la baratteria; del quale peccato rendo conto in questo bollore ”. Il barattiere che, lustro di pece e tenuto sospeso a mezzaria da Graffiacane con l’uncino, dichiara la sua origine e la sua vicenda terrena è un non meglio identificato Giampolo o Ciampolo. Osserva il Del Beccaro che Ciampolo, il quale ha prontamente intuito che, parlando, potrà ritardare lo strazio che i diavoli si preparano a fare di lui, “si afferra disperato all’occasione dell’indugio e con linguaggio fratto, che ben confessa lo spavento, dà contro di sé e di altri compagni di pena, di sé innanzi tutto come frutto di una torbida vicenda di vizio, quasi che un irrevocabile destino lo abbia segnato fin dalla nascita”. Tebaldo Il, re di Navarra dal 1253 al 1270, ebbe fama di
sovrano munifico, giusto e clemente. E Ciriatto, al quale dalla bocca sporgeva da ogni parte una zanna come a un cinghiale, gli fece sentire come una di esse lacerava. Il topo era capitato tra gatte cattive; ma Barbariccia lo circondò con le braccia, e disse: “ State lontani, finché lo tengo stretto ”. Il terrore del dannato ha risvegliato la crudeltà dei
diavoli: Ciriatto lo azzanna. Ma più che sulla crudeltà dei custodi di questa
bolgia, Dante insiste, in questo come nel canto precedente, sulla loro
irrequietezza, sulla mobilità dei loro istinti e atteggiamenti, sulla loro
indisciplina. Barbariccia, al quale il suo capo Malacoda ha affidato il compito
di guidare il plotone dei dieci diavoli e di accompagnare Dante e Virgilio,
cerca di affermare la propria autorità di capo e l’efficienza del manipolo da
lui comandato. Come ha osservato il Sozzi, nel contrasto fra la sua
“autorevolezza teorica, nominale e velleitaria” e la sua “esautorazione ad
opera degli indocili sudditi” trova la sua espressione una delle note di
maggior risalto comico del canto. E rivolse il viso a Virgilio: “ Chiedi ancora ” disse “ se desideri sapere altro da lui, prima che qualcuno ne faccia scempio ”. Allora Virgilio: “ Dimmi dunque: degli altri malvagi che stanno sotto la pece, conosci qualcuno che sia italiano ? ” E quello: “ Io mi allontanai, poco fa, da uno che fu di quelle parti: potessi ancora essere sotto la pece con lui! non avrei infatti da temere artiglio né uncino ”. Si ripete qui la scena dei versi 55-57. Basta che Ciampolo
accenni (verso 54) alla propria pena o manifesti terrore per la sorte che i
diavoli gli rIserbano perché questi, in ciò assai più simili ad animali che ad
esseri consapevoli di fare il male, sentano insorgere in loro irresistibile la
crudeltà. Il rapporto che si stabilisce tra loro e l’impegolato Navarrese, per
tutto il tempo che quest’ultimo rimane appeso per i capelli all’uncino di
Graffiacane, è mirabilmente definito, con espressione pregnante e di sapore
popolaresco, dal verso 58: tra male gatte era venuto il sorco. Crudeltà dunque
da parte dei diavoli, ma, giova ripetere, crudeltà scarsamente illuminata dalla
consapevolezza di sé, facile a distrarsi, determinata dagli umori del momento e
subordinata a quello che è il tratto più saliente dei carattere di questi
custodi infernali: il gusto della beffa, dello scherzo fine a se stesso. Pure Draghignazzo lo volle colpire giù nelle gambe; per cui il loro capo si volse tutto intorno con espressione adirata. Il Momigliano così mette in luce il carattere eroicomico di
questa terzina: è maestoso; mal piglio è minaccioso; intorno intorno è pesante
come il ballonzolare di una massa bruta: il complesso è un ritratto grottesco
sbozzato con due tratti di penna”. Il termine che maggiormente spicca in questa
terzina è decurio: questo latinismo, togato e solenne, riferito a Barbariccia,
suona come una presa in giro, ne esprime tutta la vanità e la prosopopea. Quando costoro si furono un po’ quietati, Virgilio senza indugio domandò a lui, che ancora osservava la sua ferita: “Chi fu quello dal quale dici che facesti male a separarti per avvicinarti alla riva ? ” Ed egli rispose: “Fu frate Gomita, quello di Gallura, ricettacolo d’ogni inganno, il quale ebbe
in suo potere i nemici del suo signore,
e li trattò in maniera tale che ognuno se ne compiace. Prese denaro, e li lasciò andare liberi con procedimento sommario, così come egli stesso dice; e anche neglì altri incarichi non fu barattiere da poco, ma sommo.> Frate Gomita fu, secondo gli antichi commentatori, vicario
di Ugolino Visconti di Pisa, che governò col titolo di giudice, dal 1275 al
1296, la Gallura. La Sardegna era stata divisa dai Pisani in quattro- «
giudicati », dei quali quello di Gallura occupava la parte nord-orientale
dell’isola. Sta spesso con lui messer Michele Zanche di Logudoro; e le loro lingue, nel parlare della Sardegna, non avvertono mai la stanchezza. Michele Zanche governò il giudicato di Logudoro (Sardegna
nord-orientale) per incarico di re Enzo, figlio dell’imperatore Federico Il. Fu
ucciso a tradimento da uno dei suoi generi, il genovese Branca D’Oria. Ahimè, guardate l’altro diavolo che digrigna i denti; parlerei ancora, ma temo che quello si prepari a graffiarmi ”. “Un nuovo timbro - scrive il Chiappelli - risuona in quel
condizionale posto subdolamente nel cuore dei ricorso: i’ direi anche ... : il timbro
dell’astuzia. Il frodatore non si sente più solo; l’idea degli altri
innumerevoli peccatori che potrebbero emergere modifica il suo rapporto coi
diavoli e coi poeti. Le forze che componevano la tensione narrativa cominciano
a trasformarsi mentre la pressione minacciosa dei demoni è costante, al terrore
nel dannato si aggiunge la forza « astuzia ».” E il grande capo, rivolto a Farfarello che stralunava gli occhi pronto a colpire, disse: “ Tirati in là, uccellaccio ”. L’accostamento, nell’ambito di questa, terzina, di un modo
di dire solenne (l’, gran proposto) e di un’espressione realistíca e brutale
(fatti ‘n costà, malvagio uccello) ne
determina la fondamentale comicità. Da notare anche Ia tensione che si viene a
stabilire fra il qualitativo gran e il
diminutivo Farfarello. Dall’alto della sua boria Barbariccia vede nel suo
sottoposto un essere privo di intelligenza, niente più, che un animale
(uccello). Ma, sotto apparenze che vogliono essere più vili, anche il gran
proposto partecipa dello stesso sentire primitivo e sommario degli altri
diavoli. “ Se voi desiderate vedere o ascoltare ” riprese a dire quindi quello spaventato “Toscani o Lombardi, io ne farò arrivare; ma che i Malebranche si tengano un po’ in disparte, in modo
che essi non temano le loro punizioni;
ed io, stando in questo stesso luogo. per uno solo che sono, ne farò venire parecchi quando fischierò, come è nostra abitudine fare allorché qualcuno di noi si tira fuori.” Ciampolo è deciso a trovare un espediente per sottrarsi
allo scempio che i Malebranche si preparano a fare di lui. Ma egli sa abilmente
dissimulare il suo progetto di fuga. “L’allontanamento dei diavoli, il vero
scopo del suo discorso, è sepolto in un’abbondanza d’offerte, e attenuato in
tutti i modi con la forma del verbo scelto (stieno i Malebranche) invece di un
imperativo o di una richiesta diretta, con l’avverbio un poco, con la locuzione
in cesso, cioè « nascosti quasi per gioco »; e poi con l’intera proposizione
esplicativa sì ch’ei non teman delle lor vendette; e infine con le nuove
promesse.” (Chiappelli) Cagnazzo a queste parole alzò il muso, scrollando la testa, e disse: “ Senti, I’astuzia che ha escogitato per tuffarsi giù! ” Per cui egli, che conosceva raggiri in abbondanza, rispose: “ Sono fin troppo astuto, dal momento che causo maggior dolore ai miei compagni ”. Alichino non si trattenne e, in contrasto con gli altri
demoni gli disse: “ Se tu ti immergi, io non ti inseguirò correndo, ma volerò sulla pece: si abbandoni la sommità dell’argine, e l’argine stesso sia a noi riparo, per vedere se tu da solo sei più abile di noi ”. O lettore, saprai di un gioco strano ogni diavolo rivolse lo sguardo verso la parte opposta dell’argine; e per primo quello (Cagnazzo) che era stato il più restio a fare ciò. Dante si rivolge al lettore con una espressione che
riecheggia il modo in cui si
rivolgevano al pubblico i giullari. Questi cercavano di attirarne l’attenzione
mettendo in rilievo la novità degli argomenti da loro trattati. Dante sfrutta
qui effetti comici del tipo più basso, al fine di sottolineare lo stato di
degradazione in cui si trovano accomunati dannati e tormentatori della quinta
bolgia. Di ciò ognuno si sentì colpevole, ma maggìormente quello che era stato causa dello sbaglio; perciò si slanciò e gridò: “ Tu sei preso ! ” Ma a poco gli servì perché le (sue) ali non poterono avere la meglio, sulla paura (del Navarrese) : quello s’immerse, e questo volando diresse verso l’alto il petto: non diversamente l’anitra si tuffa nell’acqua all’improvviso, quando si avvicina il falcone, e questo se ne torna su indispettito”e spossato.
Il barattiere è riuscito nel suo intento: si è liberato,
ricorrendo ad un inganno, dai diavoli. Inerme, è riuscito ad avere ragione
della loro forza e del loro numero. “Ma si noti che anche quando ha la meglio
egli non esce dalla mostruosità animalesca nella quale si è venuto evolvendo.
La sua vittoria... è frutto di un falso intelletto, di un istinto di frode che
somiglia, ma non è l’intelligenza. La lontra passiva che dondolava nella mano
del cacciatore, il sorco terrorizzato tra le male gatte, la bestia tignosa e
querula, rimane’una bestia; è il palmipede che si tuffa di colpo e per viltà
che sì butta giù senza 1 grazia” (Chiappelli). Ma Caicabrina adirato per la beffa, lo seguì volando, preso dal desiderio che il Navarrese si salvasse per aver modo di azzuffarsi con Alichino; e non appena il barattiere fu scomparso, immediatamente rivolse gli artigli contro Il suo compagno, e con lui si avvínghiò sopra lo stagno. Ma l’altro fu davvero un rapace sparviero nell’artigliarlo a dovere, e caddero entrambi nel mezzo della palude bollente. Il calore immediatamente li separò; ma uscirne era impossibile, a tal punto avevano le ali invischiate. L’animata narrazione che ha avuto per oggetto diavoli e
dannatì della quinta bolgia culmina in una rissa fra diavoli causata
dall’astuzia di un dannato. Ma nessuno dei due contendenti può considerarsi
vincitore; è la pece, lo strumento muto della giustizia divina, il vero
trionfatore di questo singolare scontro. Per una sorta di bizzarro contrappasso
tocca ora ai tormentatori subire la sorte riservata alle loro vittime. “I
cuochi sono diventati lessi a loro volta.” (Bosco) Barbariccia crucciato insieme agli altri suoi compagni, ordinò che quattro volassero fin sull’altra sponda con tutti i loro uncini, e questi, molto velocemente di qua, di là, calarono nel posto indicato: tesero gli uncini in direzione degli invischiati, che erano già bruciati sotto la pelle diventata dura e noi li abbandonammo mentre si trovavano in queste difficoltà. |
Copyright © 1999 Luigi De Bellis