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A metà della nostra esistenza terrena mi trovai a vagare in una buia foresta, nella condizione di chi ha smarrito la via del retto vivere. Nel
mezzo del cammin di nostra vita:
" {la nostra vita] procede a
imagine... di arco, montando e
discendendo... lo punto sommo di questo
arco... io credo, che... sia nel
trentacinquesimo anno"` (Convivio
IV, XXIII, 6 e 9). Mi è assai difficile descrivere questa selva inospitale, irta di ostacoli e ardua da attraversare, che al solo pensarci risuscita in me lo sgomento. Il tormento che provoca è di poco inferiore all’angoscia della morte; ma per giungere a parlare del bene incontratovi, dirò prima delle altre cose che in essa ho vedute. Tant'è amara che poco è più morte: allegoricamente: il peccato è vicino alla dannazione, la morte dell'anima. Non sono in grado di spiegare il modo in cui vi entrai, tanto la mia mente era ottenebrata dall’errore, quando abbandonai il cammino della verità. Tant'era pieno di sonno: l'abbandono della via del bene è graduale e progressivo, e perciò non può essere determinato il momento in cui si comincia a peccare. Ma, giunto alle pendici di un colle, dove terminava la selva che mi aveva trafitto il cuore di angoscia, volsi lo sguardo in alto, e vidi i declivi presso la cima già illuminati dai raggi dell’astro (il sole) che guida secondo verità ciascuno nel suo cammino. Per
Dante, come per tutti i dotti del suo
tempo, che seguivano su questo punto la
teoria dell'astronomo egiziano Tolomeo,
vissuto nel Il sec. d. C., centro
dell'universo era la terra ( teoria
geocentrica ). Allora la paura che, per tutta la notte da me trascorsa in così compassionevole affanno, mi aveva attanagliato nel profondo del cuore, placò in parte la sua violenza, La
notte ch'i' passai con tanta pièta:
naturalmente le tenebre. contrapposte
alla luce, hanno in Dante, e
particolarmente in questo canto
introduttivo, una portata
simbolico-allusiva che, al di là della
lettera, ci pone in presenza di quello
che è il dramma della coscienza
impegnata a vivere moralmente. Esse
stanno a significare il caotico
contrastare degli istinti, laddove la
luce, principio ordinatore, rappresenta
il sorgere di un'armonia, di un'equa
contemperazione del bene concepito
secondo il principio dell'unicuique suum. E con l’aspetto del naufrago che, appena raggiunta con affannoso respiro la terraferma, si volge ad abbracciare con lo sguardo crucciato l’immensità degli elementi scatenati, mi volsi indietro, con l’animo ancora atterrito, a rimirare la impervia plaga da cui nessun essere vivente riuscì mai a venir fuori. Così
il paragone del naufrago rivive nella
partecipe interpretazione di un poeta:
"... ancora fora è senza storia,
se non latente, ancora a se stesso il
naufrago è solo, il naufrago che ancora
non s'è riavuto d'essersi dibattuto con
la burrasca; è ancora l'assonnato, il
" pieno di sonno " che si sta
sbrogliando dalla notte, trattenuto
nella sorpresa del risveglio. E' l'ora
deserta, in mezzo alla quale, solo, sta
un uomo" (Ungaretti ) . Dopo aver riposato un poco il corpo stanco, ripresi ( senza interruzioni) la mia salita lungo il pendio desolato, in modo che il piede fermo era sempre più basso rispetto a quello in movimento. Ma, giunto quasi all’inizio della salita vera e propria, ecco apparirmi una lince snella e veloce, dal manto chiazzato: essa non si allontanava dal mio cospetto, ma al contrario ostacolava a tal punto il mio procedere, che più di una volta fui sul punto di tornarmene indietro. Più che un animale reale, la lonza, il cui nome ci ricorda quello della lince (lonce francese antico), è una fantasiosa creazione del Poeta. Questi ce la presenta come un felino di singolare eleganza, snello e quasi attraente; il suo aspetto piacevole alla vista può forse alludere alle multiformi (il pel maculato e, più sotto, la gaetta pelle) tentazioni del peccato. Terribile sarà invece l'aspetto del leone: forza, ostinazione, furore si sprigionano dalla sua statuaria figura, tanto che lo sgomento sembra da essa propagarsi a tutto il paesaggio circostante. Nella terza delle tre fiere, la lupa, il male supremo l'allegoria sembra quasi soverchiare la evidenza plastica, mentre s'infittisce l'alone di mistero e di angoscia che la circonda. Ma anche la lupa, la bestia sanza pace, vive ai nostri occhi di vita poetica propria, al di là di ogni angusta determinazione concettuale; né può parlarsi al riguardo di una raffigurazione "lievemente grottesca" (Rossi). Proprio la sua famelica magrezza, il controsenso logico che in essa s'incarna, l'aspetto irreale, continuamente contraddetto dalla sua viva presenza e in cui pare configurarsi una minaccia che non e di questo mondo, costringeranno alla fine il Poeta a tornarsene sui propri passi, a disperare. Che le tre fiere propongano una lettura in chiave allegorica è chiaro. Non facile è apparsa tuttavia ai commentatori l'identificazione delle tre inclinazioni al male che esse simboleggiano. Gli antichi hanno visto nella lonza la lussuria, nel leone la superbia, nella lupa l'avarizia, intesa in senso lato come cupidigia, avidità: "tre vizi che comunemente più occupano l'umana generazione" (Ottimo). Dei moderni alcuni hanno visto in esse le tre faville c'hanno i cuori accesi ( Inferno VI, 75 ), cioè superbia, invidia, avarizia; altri, le tre disposizion che 'l ciel non vole ( Inferno XI, 81 ), cioè malizia, matta bestialità e incontinenza. Era l’alba e il sole saliva in cielo nella costellazione dell’Ariete, con la quale si era trovato in congiunzione allorché Iddio creò, imprimendo loro il movimento, gli astri; per questa ragione erano per me auspicio di vittoria su quella belva dalla pelle screziata l’ora mattutina e la primavera (la dolce stagione: il sole è nel segno dell’Ariete appunto in questa stagione), non tanto tuttavia da far si ch’io non restassi nuovamente atterrito all’apparizione di un leone. Questo sembrava venirmi incontro rabbioso e famelico, col capo eretto, e diffondeva intorno a sé tanto spavento che l’aria stessa sembrava rabbrividirne. E (oltre al leone) una lupa, nella cui macilenta figura covavano brame insaziabili, e che già molte genti aveva reso infelici, mi oppresse di tale sbigottimento con il suo aspetto, che disperai di raggiungere la cima del colle. La
Lupa simboleggia probabilmente la
avarizia, intesa nel suo significato
originario, come avidità, brama smodata
di possesso. Per San Paolo, che la
definisce "radice di tutti i mali,
l'avidità è il vizio che ha più
contribuito ad allontanare gli uomini da
Dio (I Timoteo VI, 10). E come colui che, avido di guadagni, quando arriva il momento che gli fa perdere ciò che ha acquistato, si cruccia e si addolora nel profondo del suo animo, tale mi rese la insaziabile lupa, che, dirigendosi verso di me, mi respingeva nuovamente verso la selva, là dove il sole non penetra con i suoi raggi. Mentre stavo precipitando in basso, mi apparve all’improvviso colui che, per essere stato a lungo silenzioso, sembrava ormai incapace di far intendere la sua voce. Ruvinava:
precipitavo. "Ma il sovrassenso si
fonde col significato letterale perché
in quel "ruinare" - che
rappresenta piuttosto l'entità che la
velocità della caduta - e in quel basso
loco, che si riferisce ugualmente bene
alla bassura della selva e alla bassezza
della vita viziosa, c'è l'immagine
della doppia caduta: materiale e morale.
" ( Grabher ) Quando lo scorsi nella grande solitudine, implorai il suo aiuto: " Abbi pietà di me, chiunque tu sia, fantasma o uomo in carne ed ossa !" Miserere: la forma latina conferisce tragica solennità all'invocazione del Poeta. Mi rispose: " Non sono vivo, ma lo sono stato, e i miei genitori furono entrambi lombardi, originari di Mantova. Non omo, omo già fui: la risposta di Virgilio "articolata, intorno a quella realtà umana, in negazione rispetto al presente e in affermazione rispetto al passato, sembra definitivamente ribadire la distinzione tonale del canto fra mondo infraumano e sovrumano, metafisico e simbolico, trascendente e biblico, e mondo umano, della storia e della poesia" ( Getto) . Vidi la luce mentre era ancora in vita Giulio Cesare, benché troppo tardi (per esserne conosciuto e apprezzato), e vissi a Roma al tempo di Ottaviano Augusto, principe di gran valore, in un’età in cui vigeva il culto di divinità non vere e ingannevoli. Virgilio nacque nel 70 a.C. ad Andes, presso Mantova. Giulio Cesare morì nel 44 a.C. Non poté quindi conoscere ed apprezzare l'autore dell'Eneide. Fui poeta, e celebrai in versi le imprese di quel paladino della giustizia (Enea), figlio di Anchise, che venne da Troia ( a stabilirsi in Italia ), dopo che la superba città fu incendiata. Ma tu perché vuoi ridiscendere a tanta pena, giù nella valle? Perché non ascendi invece il gaudioso colle, dispensatore e origine di ogni perfetta letizia? " La
risposta di Virgilio contrasta, nella
sua distaccata serenità, che è quella
del saggio, dell'anima ormai immune da
ogni passione - con la concitata
ammirazione di Dante. Già in queste
prime battute si delinea il rapporto da
maestro a discepolo che caratterizzerà
i dialoghi dei due personaggi. "Sei proprio tu " risposi reverente ed umile " il grande Virgilio, sorgente copiosa d’inesauribile poesia? O tu che onori e illumini chiunque coltivi l’arte del poetare, mi acquistino la tua benevolenza l’assidua consuetudine e il grande amore che mi ha spinto ad accostarmi alla tua opera. Tu sei lo scrittore e il maestro che ha avuto su di me autorità indiscussa; sei l’unico dal quale ho appreso il bello scrivere che mi ha arrecato fama. Guarda la lupa che mi ha fatto tornare sui miei passi: chiedo il tuo aiuto, famoso sapiente, poiché essa mi fa tremare di paura in ogni fibra." Famoso
saggio: per Dante il poeta
deve anzitutto essere un maestro, un
sapiente. Virgilio, reso pietoso dalle mie lagrime: "Tu devi, se vuoi uscire da questo luogo impervio, seguire una altra strada: perché la belva, per la quale tanto ti lamenti, ostacola il cammino a chiunque in essa si imbatte, perseguitandolo senza tregua sino ad ucciderlo; e tanto perversa e malvagia è la sua indole, che nulla puo placarne le smodate cupidigie e, invece di saziarla. il cibo ne accresce gli appetiti. Numerosi sono gli animali ai quali si accoppia, e il loro numero è destinato a crescere, fino alla venuta ( in veste di liberatore) di un Veltro, che la ucciderà crudelmente. Animali:
esseri animati in genere e quindi anche
uomini. Né il potere né la ricchezza saranno il suo nutrimento, ma soltanto le qualità della mente e dell’animo, e la sua nascita avverrà tra poveri panni. Questi
non ciberà terra né peltro: l'azione
politica del Veltro non sarà dettata né
da cupidigia di possedimenti (terra) né
da brama di denaro (peltro: lega
metallica di stagno, piombo e mercurio )
. Sarà la salvezza di quella Italia, ora umiliata, per la quale si immolarono in combattimento la giovinetta Camilla, Eurialo e Turno e Niso. Camilla e Turno combatterono e morirono in guerra contro l'esercito di Enea sbarcato nel Lazio. Eurialo e Niso s'immolarono invece per la salvezza dei Troiani. " L'aver unito nella esaltazione i vincitori e i vinti che combatterono per la patria è tratto virgiliano, ma anche dantesco." (Gallardo) Egli darà la caccia alla lupa in ogni città, fino a costringerla a tornarsene nella sua sede naturale, l’inferno, da dove Lucifero, odio primigenio, la fece uscire. Perciò penso e giudico che, per la tua salvezza, tu mi debba seguire, e io sarà tua guida, e ti condurrò da qui nel luogo della pena eterna, dove udrai i disperati lamenti dei malvagi, vedrai gli spiriti di coloro che, fin dalla più remota antichità, soffrono per l’inappellabile dannazione; La seconda morte ciascun grida: lamentano la loro condizione di reprobi, la morte dell'anima; secondo altri interpreti, i dannati invocherebbero, dopo quello del corpo, l'annullamento anche dell'anima, la loro definitiva estinzione anche come spiriti. E' questo il primo alto annunzio della condizione morale dei dannati, del loro tormento spirituale. Alla forza della disperazione morale dei dannati si contrappone la forza della speranza delle anime purganti: perché sperano nel paradiso, son contenti nel foco. Le parole di Virgilio sono già una viva sintesi della fisionomia morale dei due regni." (Momigliano) e vedrai coloro che sono contenti di espiare le loro colpe nei tormenti purificatori del purgatorio, certi di salire prima o poi al cielo. Se tu vorrai giungere fin lassù, un’anima più nobile di me ti accompagnerà: con lei ti lascerò al momento del mio distacco; poiché Dio, che lassù regna, non permette che qualcuno possa penetrare nella sua città (tra i beati) senza essere stato in terra sottomesso alla sua legge ( cioè cristiano ). Dio è in ogni luogo sovrano onnipotente e ha nel cielo la sua sede; qui si trovano la sua città e l’eccelso trono: felice colui che Dio sceglie perché risieda in cielo" Ed io: " Poeta, ti chiedo in nome di quel Dio che non hai potuto conoscere, per la mia salvezza temporale ed eterna, Acciò
ch'io fugga...: perché io
eviti "lo smarrimento presente
(questo male) e poi la dannazione, sua
naturale conseguenza (e peggio)" (
Grabher) . di condurmi là dove ora hai detto, tanto che io possa vedere la porta del paradiso e le anime che dici immerse in così grandi pene". Virgilio sìincamminò, e io lo seguii. |