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INFERNO:
CANTO VII
 

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“Papé Satàn, papé Satàn aleppe!” prese a gridare Pluto con voce rauca; e quel nobile saggio (Virgilio), dalla sconfinata dottrina,

Papé Satàn, papé Satàn aleppe: discordi sono le interpretazioni che i commentatori hanno dato a questo verso. Per alcuni esso non avrebbe alcun significato riferibile ad una lingua umana; le parole poste in bocca a Pluto sarebbero un esempio del linguaggio dei diavoli, incomprensibile per noi, se non addirittura suono privo di qualsiasi significato, espressione di una mente confusa e abbrutita. Il Momigliano, ad esempio. ritiene che esse vogliano essere un segno dell'imbecillità a cui riduce l'avidità della ricchezza".  E' più probabile, tuttavia, che esse significhino qualcosa come: "O Satana, o Satana, Dio! " oppure: " O Satana, O Satana, ahimè!" Infatti papae in latino è una interiezione di meraviglia e aleph è la prima lettera dell'alfabeto ebraico, che può essere quindi letta come se volesse dire " primo principio" ( e quindi Dio), oppure, con riferimento alle Lamentazioni attribuite a Geremia che si aprono appunto con questa parola, come una interiezione di dolore.

per rincuorarmi così mi parlò: “Il tuo spavento non ti arrechi danno; infatti, per quanto egli sia potente, non ci impedirà  di scendere (dal terzo al quarto cerchio) per questo dirupo.

Quindi, rivolto verso quel tumido volto, disse: “Taci, maledetto demonio: struggiti internamente per la rabbia.

Non senza motivo è la nostra andata nella voragine infernale: così si vuole nel cielo, là dove l’arcangelo Michele punì l’orgogliosa ribellione  (di Lucifero e dei suoi seguaci)”.

Fe' la vendetta del superbo strepo: più che derivare dal latino medievale stropas (gregge), per cui starebbe ad indicare la schiera degli angeli ribelli a Dio, strupo sembra essere metatesi di "stupro", violenza dovuta a desiderio smodato. Giova qui ricordare che nelle pagine di un teologo del Medioevo, Scoto Eriugena, il peccato degli angeli che si ribellarono a Dio e definito "lussuria". Scrive lo Scoto che, per quanto la lussuria propriamente detta riguardi soltanto gli atti carnali, "tuttavia ogni brama smodata di qualcosa' di piacevole, in quanto piacevole, può essere chiamata lussuria", a meno che oggetto della brama non sia il bene, il che non può dirsi certo sia avvenuto nel caso della ribellione degli angeli: il loro desiderio di una maggiore beatitudine si opponeva infatti ai voleri di Dio.

Come le vele gonfiate dal vento cadono (confusamente) avviluppate, se l’albero della nave si spezza, così piombò a terra il mostro malvagio.

La figura di Pluto suscita in chi legge l'impressione di una massa enorme e amorfa e, sul piano morale, quella di un furore ottuso e impotente. Essa non ci viene infatti presentata dal Poeta attraverso questo o quel particolare del suo aspetto esteriore, come avviene per Caronte, ad esempio, e per Minosse. Il carattere rissoso del traghettatore dell'Acheronte è già tutto contenuto in una determinazione come quella degli occhi di bragie, mentre l'enigmatico conoscitor delle peccata del secondo cerchio resta indissolubilmente legato nella nostra memoria - all'atto bestiale - di avvolgere la coda, per significare un giudizio dettato dalla più pura razionalità. Scrive il Torraca, a proposito di Pluto: "Enfiata labbia suggerisce, si, l'imagine di un gran faccione, ma vanamente. Ma ecco le vele gonfiate dal vento e l'albero della nave portar in questa indeterminatezza qualche cosa di enorme, di gigantesco..." Per quanto riguarda il significato morale di questa inaspettata similitudine, un altro acuto lettore del settimo canto, il Vallone, osserva come essa racchiuda in sé l'intera vicenda di questo guardiano infernale "protervo, bestemmiatore, superbo e poi schiacciato umiliato e vinto'', e aggiunge un'osservazione generale sull'umiliazione cui, nell'inferno dantesco, le potenze del male soggiaciono di fronte all'affermarsi della razionalità chiarificatrice ( Virgilio ): "Forse il destino dei diavoli è più inesorabilmente crudele di quello delle anime malvagie che essi custodiscono. Queste, almeno, di tanto in tanto, possono reagire, a loro modo e nella loro misura, contro un potere ch'è a tutti superiore... i diavoli, vinti che siano e sempre son vinti, si degradano a " poveri diavoli ", arnesi di idiota materia...

Scendemmo in tal modo nella quarta fossa, percorrendo un altro tratto della china dolorosa che contiene tutto il male dell’universo.

Ahimè, giustizia di Dio! chi mai ammassa  tanti inimmaginabili  supplizi e dolori, quanti io ne vidi? e perché l’umana colpa a tal punto ci strazia ?

Come (nello stretto di Messina) presso Cariddi le onde (del mar Ionio) si infrangono cozzando contro quelle del mar Tirreno, così necessariamente avviene che qui le turbe ballino.

Scrive il Marti, a proposito di questa grandiosa similitudine, che Dante con essa ci suggerisce non già un "urto di persone, di individui, ma urto di gente, di masse informi: anonime superfici in movimento che si infrangono reciprocamente l'una contro l'altra; vaste chiazze brulicanti e semoventi, che tristemente spumeggiano a quel loro pendolare scontrarsi. Nessuno stacco fra le anime e i massi che esse voltano... la figurazione è risolta in movimento ritmico, eterno e sempre uguale, ma anche meccanico ed insensato, di superfici e di colore"

Così convien che qui la gente riddi: il richiamo alla ridda, ballo circolare dal ritmo molto veloce, che in altra circostanza evocherebbe una scena lieta, è qui sarcastico e sferzante.

Qui vidi una moltitudine più numerosa che in altri luoghi, la quale provenendo dall’uno e dall’altro lato del cerchio rotolava pesi, spingendoli col petto  ed emettendo alti lamenti.

(Incontrandosi) cozzavano gli uni contro gli altri; e poi, in quello stesso punto, ognuno si volgeva indietro, rivoltando (anche il suo peso), e urlava: “Perché conservi? ” e “Perché sperperi ? ”

La pena degli avari e dei prodighi ricorda quella di Sisifo, oppure quella delle anime che nel Tartaro Enea vede intente a rotolare enormi macigni (Eneide VI, 616-617). I pesi che essi spingono stanno a significare probabilmente i mucchi di denaro che in vita passarono per le loro mani.

In tal maniera tornavano indietro attraverso il cerchio tenebroso da entrambe le direzioni  fino al punto diametralmente opposto, gridandosi di nuovo (anche) il loro ritornello ingiurioso;

poi, una volta qui arrivato, ciascuno tornava indietro, ripercorrendo il suo semicerchio fino allo scontro successivo. E io, che mi sentivo quasi turbato,

dissi: “Maestro, spiegami ora quale moltitudine è questa, e se costoro che sono alla nostra sinistra e hanno la tonsura, furono tutti ecclesiastici ”.

Ed egli: “Tutti quanti ebbero la mente così ottenebrata  durante la vita in terra (la vita primaia: la prima vita), che non fecero  alcuna spesa misuratamente.

Le loro parole lo dichiarano abbastanza esplicitamente, allorché giungono nei due punti del cerchio dove i loro opposti peccati li separano.

Assai la voce lor chiaro l'abbaia: il verbo "abbaiare", riferito alla voce di quei dannati, aggiunge una caratteristica disarmonica, scostante, alla descrizione, così esatta e impietosa, della loro inumana fatica. Un antico commentatore, il Lana, spiega l'uso di questo termine con il disprezzo che il Poeta intenderebbe qui manifestare nei confronti degli avari e dei prodighi, trattandoli come se fossero cani. Tra i moderni, il Grabher mette in rilievo "la sintetica potenza di abbaia costruito transitivamente con l'accusativo lo e piegato a riferirsi a voce umana.  E' voce d'uomini che abbaia parole; trasfigurata in qualcosa di non più umano e quasi di bestiale".

Questi, che portano la tonsura, furono