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INFERNO:
CANTO VI
 

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Quando riprendo la conoscenza, che era rimasta in me offuscata  alla vista del pianto doloroso di Paolo e Francesca, pianto che mi aveva, per la tristezza, completamente sconvolto,

vedo intorno a me nuove pene e nuovi puniti, dovunque io vada, o mi rigiri, o volga lo sguardo.

Mi trovo nel terzo cerchio, il cerchio della pioggia destinata a non aver termine, tormentatrice, gelida e pesante; mai non cambia il suo ritmo  ne la materia  di cui è fatta.

La monotona insistenza della piova etterna sembra ripercuotersi anche nella struttura sintattica e nel ritmo dei primi versi del canto. Da terzina a terzina non c'è quasi svolgimento: ognuna appare come chiusa in sé, ognuna ostinatamente ribadisce l'incubo paralizzante del tetro paesaggio infernale.

Grossi chicchi di grandine, acqua sudicia  e neve cadono con violenza attraverso l’aria buia; la terra che accoglie tutto questo emana un fetido odore.

La legge del contrappasso ha qui, per i dannati del terzo cerchio - i golosi - un'applicazione evidente: "Questa sozzura ("fastidio" dice uno degli antichi commentatori) in forma di pioggia è appropriato castigo, quasi fetente reciticcio di crapula, agl'ingordi gustatori d'ogni più raffinata squisitezza di cibi e di bevande" (Del Lungo).

Cerbero, belva crudele e mostruosa, latra, a modo di cane, attraverso tre gole, incombendo sulle turbe che in quest’acqua impura  sono immerse.

Ha gli occhi iniettati di sangue, la barba unta e nera, il ventre capace, e le mani munite di artigli; graffia le anime dei peccatori, le scuoia e le squarta.

Sul piano allegorico, secondo gli antichi commentatori, gli occhi... vermigli stanno a significare l'avidità rabbiosa, la barba unta la ributtante ingordigia, il ventre largo l'insaziabilità, le unghiate mani l'indole rapace.

Anche Cerbero, come Caronte e Minosse, è figura desunta dalla mitologia classica. Tuttavia, mentre in Virgilio e in Ovidio il cane dal trifauce latrato è posto a guardia del regno dei morti, nell'Inferno esso assolve la funzione di tormentatore dei dannati del terzo cerchio. Il Cerbero dantesco appare, inoltre, in confronto a quello degli antichi, assai più complesso e inquietante, sia per l'intrecciarsi in lui degli elementi ferini e umani ( rappresentati questi ultimi dalla barba, dalle mani, dalle facce) sia per la vitalità che si sprigiona da ogni suo atto: "vitalità immediata o animale", annota il Croce, tutta tesa a soddisfare il più elementare degli impulsi: la fame. E' "il laceratore - scrive il Del Lungo - il consumatore, a graffi a morsi a bocconi, dei già divoratori brutali e sfrenati, ora in ben altra condizione che di gozzoviglia, e fra ben altro tumulto che quello sconciamente giocondo dell'orgia".

La pioggia li spinge a lamentarsi in modo disumano: con uno dei fianchi proteggono  l’altro; gli infelici peccatori continuano a rivoltarsi (cercando inutilmente di sottrarsi al tormento).

Volgonsi spesso i miseri profani: il termine profani può suggerire genericamente l'empietà di chi pecca, o anche  riferirsi in senso più specifico ai golosi: "profani", in quanto adoratori del ventre, "perché il loro dio è il ventre", come dice San Paolo (Epistola ai Filippesi III, 19).

Quando Cerbero, l’orribile mostro, ci vide, spalancò le bocche e ci mostrò i denti; un fremito di rabbia lo agitava tutto.

Non avea membro che tenesse fermo: questo verso condensa come in una definizione quanto c'è di parossistico e inane nel furore di questo, non meno che degli altri mostri infernali, alla vista di Dante.

Virgilio tese le mani aperte, afferrò della terra, e, riempitosene i pugni, la gettò nelle tre bramose gole.

Virgilio ripete il gesto della Sibilla di fronte a Cerbero (EneideV, I, 419-421).

Come quello del cane che, abbaiando, manifesta il suo desiderio, e si calma solo dopo aver addentato il cibo, poiché è tutto intento nello sforzo di divorarlo,

  tale divenne il sozzo aspetto del triplice volto  del diavolo Cerbero, che (coi suoi latrati) stordisce i peccatori a tal punto, da far loro desiderare la sordità.

(Camminando) calpestavamo le ombre che la pioggia fastidiosa prostra, e mettevamo le piante dei nostri piedi sulla loro inconsistenza materiale, che ha l’apparenza di un corpo umano.

Dopo la mossa e vibrante raffigurazione di Cerbero questa terzina ci ripropone il tema, improntato a pesante tristezza, dell'uggioso paesaggio infernale. Qui la tristezza è accresciuta dal fatto che i due poeti sono costretti, per poter procedere nel loro cammino, a calpestare le ombre dei golosi; la perifrasi sopra lor ` vanità che par persona, dandoci quasi la trascrizione in chiave morale dell'inconsistenza di questi spettri, conferisce allo stato d'animo di Dante una straordinaria profondità di risonanze.

Erano tutte distese per terra, ad eccezione di una che si levò a sedere, non appena ci vide passarle  davanti.

Bene osserva il Del Lungo come la terzina precedente prepari, insieme al primo verso di questa, la subitanea apparizione dell'ombra che rivolgerà la parola a Dante: "quella serie d'imperfetti passavam, ponevam, giacean, inchiude e quasi strascica qualche cosa come di preparazione e d'attesa di novità, la quale, poi, al verso fuor chiana ch'a seder si levò, scatta baldanzosa di suoni, di sintassi, d'imagine, che secondano mirabilmente l'atto dell'ignoto dannato". L'ombra che si leva a sedere al passaggio dei due poeti è quella di Ciacco, un fiorentino in cui qualcuno ha voluto ravvisare il poeta Ciacco dell'Anguillaia. Secondo altri, Ciacco (nel significato di " porco ") sarebbe soltanto un soprannome dato a questo goloso. Di questo fiorentino ci ha lasciato un vivo ritratto il Boccaccio "Era morditore di parole, e le sue usanze erano sempre co' gentili uomini e ricchi, e massimamente con quelli che splendidamente e delicatamente mangiavano e beveano, da' quali, se chiamato era a mangiare, v'andava e similmente, se invitato non era, esso medesimo s'invitava".

“O tu che sei condotto per questo inferno”, parlò, “vedi se sei in grado  di riconoscermi: tu nascesti  prima che io morissi.”

Ciacco, dolorosamente consapevole di essere sfigurato nei suoi lineamenti dal dolore che lo tormenta, propone a Dante l'enigma della sua identità: riconoscimi, se sai "E, per dire che Dante è nato prima ch'egli morisse, usa un apparente bisticcio, che serve invece a porre più forte la tremenda antitesi, anche verbale, di due decisivi momenti della vita umana, il " farsi " e il " disfarsi " la nascita e la morte; dalla quale - e ne risalta la potenza distruttrice - fu disfatto." (Grabher)
L'alterarsi delle fattezze umane nei dannati è uno dei motivi sui quali la fantasia del Poeta torna con maggior insistenza e con effetti di notevole efficacia sul piano della poesia, quasi a ribadire il carattere di semplice apparenza che il nostro corpo riveste, agli occhi di Dio, di contro alla indistruttibile sostanza che è l'anima.

  E io: “La pena  che ti tormenta forse ti allontana dalla mia memoria, così che mi sembra di non averti mai veduto.