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Mi trovavo già in un luogo dal quale si udiva il fragore dell’acqua (del fiumicello) che precipitava nel cerchio seguente, simile a quel ronzio cupo che producono gli alveari, allorché tre ombre si staccarono contemporaneamente, correndo, da una schiera che passava sotto la pioggia del crudele supplizio. I due poeti sono giunti in un punto in cui è percepibile il
rumore che fanno le acque del Flegetonte, convogliate nel fiumicello che esce
dalla selva dei suicidi, precipitando nell'ottavo cerchio. A un rumore ancora
avvertito in lontananza e come indistinto. E' stato messo in rilievo, nel
succedersi dei suoni cupi della similitudine contenuta nell'ultimo verso della
prima terzina, come un equivalente fonico dell'immagine che essa ci comunica.
Questa immagine non ha tuttavia nulla di terribile come è parso ad alcuni; essa
anzi, introducendoci nell'atmosfera di questo canto - nel quale l'orrore della
pena infernale è di continuo attenuato dall'affettuoso rispetto dei Poeta per i
dannati che ivi incontra - mira a dissipare, con l'evocazione di una natura
docile all'uomo, quello che di misterioso e di ineluttabile era contenuto nei
primi due versi della terzina. Al rimbombo del fiume infernale si sovrappone il
più familiare rombo delle arnie, alle tenebre che non consentono al Poeta di
individuare il posto in cui si trova se non attraverso un confuso dato
acustico, si sostituisce, implicitamente contenuta nell'immagine, la campagna
serena e assolata, nella quale le api armonicamente, in fervida concordia,
attendono al loro lavoro. Venivano verso di noi, e ciascuna gridava: “ Fermati tu che dall’abito ci sembri essere uno della nostra città malvagia ”. Le tre ombre che corrono verso l'argine sul quale si
trovano Dante e Virgilio sono quelle di tre uomini politici fiorentini di parte
guelfa, appartenenti alla generazione che precedette di poco quella del Poeta.
Non deve apparire strano il fatto che riconoscano in lui immediatamente un loro
concittadino. Scrive il Boccaccio, che a quei tempi "quasi ciascuna città
aveva un suo singular modo di vestire, distinto e variato da quello delle
circunvicine" . I Fiorentini portavano il
" lucco " (veste senza pieghe stretta alla vita) e il
cappuccio. Ahimè, quali ferite recenti e antiche, aperte dalle fiamme, vidi nelle loro membra! Ne provo ancora dolore soltanto a ricordarmene. Alle loro grida Virgilio fermò la propria attenzione; volse il viso verso di me, e disse: “ Aspetta: bisogna essere cortesi con costoro. E se non fosse per le fiamme che la natura del luogo scaglia, direi che converrebbe a te più che a loro l’affrettarsi ”. Non appena ci fummo fermati, essi ripresero (a muoversi) nel solito modo; e quando furono giunti presso di noi, si disposero in cerchio tutti e tre, come sono soliti fare i lottatori nudi e unti, nel momento in cui cercano con gli occhi la presa più vantaggiosa, prima di colpirsi e ferirsi a vicenda; e così girando, ciascuno volgeva il viso verso di me, in modo che il collo si muoveva continuamente in direzione opposta a quella dei piedi. L'immagine della rota con tutto quello che di meccanico
essa evoca (non un movimento indirizzato a un fine, ma una periodicità
insensata), sottolinea in senso grottesco la reale condizione di queste anime:
nonostante i loro grandi meriti sono dei dannati. La loro libertà interiore, la
schiettezza del loro modo di esprimersi, propria di chi è stato uomo d'azione
(quale differenza fra i loro discorsi e quelli di un Pier delle Vigne, ad
esempio!), il loro appassionato disinteresse, per cui i loro dolori personali
sono come obliati nella contemplazione delle sciagure di Firenze, vengono di
continuo contraddetti da quanto c'è di ridicolo nei loro movimenti: la rota e
il continuo viaggio che fanno i loro colli. A sua volta, però, l'immagine della
rota si umanizza e si nobilita in quella dei campion, attraverso la quale è
anche suggerita la figura morale di questi dannati, che in vita furono dei
lottatori, sostenitori dell'idea guelfa in Firenze. E “ Se la triste condizione di questo luogo sabbioso e il nostro aspetto annerito e devastato rendono spregevoli noi e le nostre preghiere” cominciò uno di essi “ la nostra fama induca il tuo animo a dirci chi sei tu, che così immune da tormenti cammini ancora vivo nell’inferno. In queste prime parole che Jacopo Rusticucci (dirà egli
stesso il proprio nome alla fine del suo discorso) rivolge a Dante, si sente
l'esitazione, il dubbio che tormenta questi dannati: "temono che vedendoli... [il Poeta] li abbia in dispregio. E
perché sentono che così meriterebbero, al noi aggiungono subito: e nostri
prieghi, ben sapendo la durezza d'animo che ci vorrebbe a disprezzare anche le
preghiere degli infelici" (Pietrobono). Questo, di cui mi vedi calpestare le orme, benché cammini nudo e spellato, fu di condizione più elevata di quanto tu possa credere: fu nipote della virtuosa Gualdrada; ebbe nome Guido Guerra, e
nella sua vita si distinse per ingegno e valore, Il primo dei dannati presentati a Dante da Jacopo
Rusticucci è Guido Guerra, appartenente alla famiglia dei conti Guidi, valoroso
combattente di parte guelfa, nato verso il 1220. Bandito da Firenze dopo la
sconfitta di Montaperti (1260), fu capo dei fuorusciti guelfi nella battaglia
di Benevento (1266), combattuta contro i Ghibellini di re Manfredi, figlio di
Federico II. Questa battaglia segnò il crollo delle fortune del partito
ghibellino in Italia. Guido Guerra era, come qui viene ricordato. nipote di
Gualdrada, figlia di Bellincione Berti de' Ravignani, il quale sarà presentato
dal Poeta, attraverso le parole dell'antenato Cacciaguida (Paradiso XV,
112-113), come il modello del fiorentino frugale di antico stampo. Molte
leggende celebravano, ai tempi di Dante, insieme alla sua bellezza, la virtù di
Gualdrada. Se io fossi stato al riparo
dal fuoco, mi sarei lanciato di sotto in mezzo a loro, e credo che
Virgilio lo avrebbe permesso; ma poiché sarei stato arso dalle fiamme, il timore prevalse
sul mio lodevole desiderio che mi rendeva bramoso di abbracciarli. Poi cominciai: “La
condizione nella quale vi trovate non ha suscitato in me disprezzo, ma un
dolore tanto grande che passerà molto tempo prima che io me ne liberi
completamente, allorché Virgilio mi disse parole dalle quali argomentai che
si avvicinassero anime grandi quali voi siete. Appartengo alla vostra città, e ho sempre appreso e ascoltato
le vostre opere e i vostri nomi onorati con commozione. Nota opportunamente il Montanari come l'affetto che Dante
sente per questi concittadini "è più impetuoso e fiero di quello per
Brunetto che pur aveva, a differenza di questi, conosciuto familiarmente".
L'incontro con queste tre anime è "più drammaticamente concitato" di
quello col suo antico maestro, risolto in una tonalità elegiaca, poiché in
Dante "la passione di patria ha accenti più sonori dell'affetto
familiare". Lascio l’amarezza del peccato e mi dirigo verso i dolci frutti del bene a me promessi dalla mia
guida (Virgilio) veritiera; ma occorre che io precipiti prima fino al centro (della terra) ”. In questa terzina il Poeta riassume, come già nella
risposta a Brunetto Latini, ma in forma più concisa, armonizzando così il suo
modo di parlare a quello dei suoi interlocutori, la vicenda del suo viaggio
nell'al di là. Riappare per un attimo il linguaggio simbolico, di chiara
intonazione scritturale (lo tele... dolci pomi), che aveva caratterizzato il
suo colloquio con il notaio fiorentino nel canto precedente. “ Possa tu vivere a lungo ” rispose ancora quello, “ e la tua fama risplendere dopo la tua
morte, ma di’ se nella nostra città abitano ancora cortesia e valore
così come solevano, o se sono completamente scomparsi; poiché Guglielmo Borsiere, il quale da poco soffre qui con
noi, e cammina là con i compagni, ci addolora molto con le sue parole.” Come già nell'episodio di Farinata, sembra che anche per questi
tre Fiorentini i tormenti dell'inferno passino in seconda linea di fronte
all'interesse che essi nutrono per la sorte della loro città. Ma in loro la
carità del natìo loco (Inferno XIV, 1) è più pura che in Farinata: essi non
guardano agli interessi della patria attraverso quelli del loro partito; la
loro dedizione va intera a Firenze, al di là di ogni discordia intestina; la
loro attenzione si rivolge, non al fatto politico in sé, ma ai suoi riflessi
civili e morali (cortesia e valor di' se dimora). “ La gente nuova (pervenuta di recente alle cariche politiche
e arrivata in gran parte dal contado) e gli improvvisi guadagni hanno prodotto
superbia e sfrenatezza, in te, Firenze, tanto che già te ne duoli.” L'apostrofe di Dante, una delle più celebri della Commedia,
ripropone, in questa terzina, quelli che già negli episodi di Ciacco e di
Brunetto Latini sono stati considerati i motivi determinanti del corrompersi
delle antiche virtù in Firenze. Qui, alla domanda di Jacopo Rusticucci, ansioso
di sapere la sorte toccata in Firenze a cortesia e valor, il Poeta risponde
rivolgendosi, nel tono degli antichi profeti, direttamente alla sua città: al
binomio cortesia e valor, se ne oppongono, nelle sue parole, due, quasi a
rafforzare, col peso delle determinazioni, la durezza della sua affermazione:
la gente nova e' subiti guadagni, cui fa eco, subito dopo, il duplice
complemento oggetto orgoglio e dismisura. Nel drammatico prorompere del suo
dolore Dante insiste sulla presenza in Firenze del male, più che soffermarsi
sul suo primo manifestarsi nel tempo: ecco perché i quattro sostantivi che
questo male denunziano sono anteposti, come a formare un unico indissolubile
blocco, al verbo che sintatticamente li unisce (han generata). Così gridai a testa alta; e i tre, che interpretarono queste parole come una risposta, si guardarono
l’un l’altro come ci si guarda quando si ode una verità (che rattrista). “ Se ti costa sempre
così poco sforzo ” risposero tutti “ accontentare gli altri, te
fortunato se riesci ad esprimerti così bene ! Perciò, possa tu scampare
a questi luoghi oscuri e tornare a rivedere le belle stelle, quando ti
sarà dolce dire “Io fui (nell’inferno)”, (in nome di questo augurio) fa in modo di parlare alla gente
di noi. ” Quindi ruppero il cerchio, e le loro agili gambe sembrarono ali nel fuggire. Il Momigliano attira l'attenzione, a proposito di questa
immagine, sulla "precisione visiva di rupper" e sull'impressione che
da tutto il periodo scaturisce,
"d'una ruota che si spezza in tanti raggi sbalestrati
nell'aria". Non si sarebbe potuto pronunciare un amen così
rapidamente come essi sparirono; e
perciò Virgilio giudicò opportuno che ci allontanassimo. lo lo seguivo, ed avevamo percorso poco cammino, quando il
fragore dell’acqua ci fu così vicino, che se avessimo parlato ci saremmo uditi
appena. Come quel fiume che, per primo (per chi guarda) dal Monviso
verso levante, ha (tra i fiumi che nascono) dal versante sinistro
dell’Appennino, un corso interamente suo, il quale nella parte superiore si chiama Acquacheta, prima di scendere nel suo alveo in pianura, e a Forlì non ha più quel nome rimbomba sopra San Benedetto dell’Alpe per il fatto che
precipita attraverso una sola
cascata ove dovrebbe essere
ricevuto da mille (cascate), così trovammo che rimbombava quell’acqua oscura,
riversandosi attraverso un pendio
ripido, in modo tale che avrebbe in poco tempo danneggiato l’udito. Anche questa similitudine, così ricca di riferimenti ad una
realtà che non pare concedere nulla all'insorgere del sentimento, così
minuziosa nella determinazione di particolari apparentemente superflui (come,
ad esempio, quello riguardante il nome che il fiume, il Montone, ha, prima di
precipitare nella cascata sopra San Benedetto dell'Alpe), è concepita in
funzione di quella umanizzazione della cupa atmosfera infernale già rilevata
nelle similitudini delle arnie e della rota. Come opportunamente scrive il
Caretti, "tutta la serie delle precisazioni geografiche (inutili soltanto
per chi tenga d'occhio la similitudine in se stessa) hanno lo scopo di togliere
ogni carattere fantomatico al fragore ormai vicino e di prepararci
progressivamente all'incontro con la ripa discoscesa e con l'acqua tinta". Io avevo una corda legata intorno (ai fianchi), e con essa
avevo pensato una volta di catturare la
lonza dal manto screziato. Il significato del simbolo adombrato nella corda è
piuttosto oscuro. Non sembra che in essa possa vedersi, come voleva un antico
commentatore, il Buti, il cordiglio francescano. Tra le varie ipotesi avanzate
al riguardo, grande credito ha goduto quella dello Scartazzini, secondo il
quale la corda alluderebbe alla castità che vince la lussuria (simboleggiata
dalla lonza). La corda non servirebbe ormai più a Dante, "dal momento che
egli ha lasciato dietro di sé l'ultimo cerchio dove si puniscono peccati di
lussuria" (quelli dei violenti contro natura). Egli può quindi a questo
punto liberarsene. Secondo un'altra interpretazione, essa non designerebbe
soltanto una difesa contro la lussuria, ma anche contro la frode (il peccato
punito nei due cerchi che il Poeta si appresta a visitare) : in essa dovremmo
pertanto vedere, oltre la mortificazione della carne, anche il senso della
legalità, il potere della legge. "La corda è gettata via prima che Dante
scenda tra i fraudolenti, perché la legge si rivela insufficiente quando a
sostegno della colpa sopravviene l'ausilio dell'intelletto, quando il peccatore
si arrocca nelle agili formule del farisaismo leguleio..." (Pasquazi) Dopo essermi completamente slegato, così come mi aveva
ordinato Virgilio, gliela porsi stretta e avvolta. Per cui egli si volse verso destra, e la gettò giù in quel
profondo precipizio alquanto
lontano dalla sponda. “ Eppure occorre che qualcosa di nuovo appaia ” dicevo fra me stesso “ in risposta
al segnale inusitato che Vìrgìlio
segue con lo sguardo così attentamente.
” Ahi quanto prudenti devono essere gli uommi davanti a coloro
che non vedono soltanto le azioni, ma penetrano con l’inteffigenza dentro i pensieri ! Egli mi disse: “ Fra
poco salirà ciò che attendo e che il
tuo pensiero confusamente immagina :
fra poco dovrà apparire alla tua vista ”. L’uomo deve sempre tacere, finché può, quella verità che ha
apparenza di menzogna (per il fatto che
è incredibile), poiché essa, senza che egli ne abbia colpa, lo pone nella
condizione di vergognarsi; ma a questo punto non posso tacere (la verità); e sui versi
di questa commedia, o lettore, ti giuro, così possano essi non essere privi di
accoglienza gradita che duri a lungo, che vidi attraverso quell’aria densa e tenebrosa venire
nuotando verso l’alto una figura, tale da destare sgomento in ogni animo forte, così come torna alla superficie colui che scende talvolta a
disincagliare l’ancora impigliata o in uno scoglio o in altra cosa chiusa nel
mare, il quale si tende nella parte superiore del corpo, e si
rattrappisce in quella inferiore. Per conferire maggior credibilità alla scena irreale che si
prepara a descrivere (l'arrivo del mostro Gerione, simbolo della frode), Dante
giura sui versi del proprio poema. Secondo quanto il Poeta dice nella lettera
da lui indirizzata a Cangrande della Scala per dedicargli il poema (XIII,
29-31) e in un passo del De vulgari eloquentia (II, IV, 5-6), il termine
comedia designerebbe ogni componimento poetico trattato in uno stile familiare
e in una lingua semplice e caratterizzato da un lieto scioglimento. Nel
Paradiso (XXV, 1-2) il poema sarà invece definito 'l poema sacro al quale ha
posto mano e cielo e terra. |